lunedì 26 giugno 2017

Cavalieri Ospitalieri contro Ottomani. L'Assedio di Rodi del 1480 - Il Grande assedio di Malta del 1565.


OSPITALIERI CONTRO OTTOMANI.

L'anno 1454 Maometto II, che aveva già conquistato Costantinopoli, soddisfatto di tale successo, intimò al Gran Maestro di riconoscersi suo vassallo e di pagargli il tri­buto; Jean de Lastic rispose: “Dio non consente che avendo io ricevuto l'Ordine mio libero, lo lasci schiavo!” 

[...] Rodi divenne sempre più il simbolo della fortezza inespugnabile del mondo cattolico europeo, contro i ripetuti attacchi dei turchi. [...] 

Jacques de Milly dovette convocare un Capitolo generale. 
Questo ebbe luogo il 1° ottobre 1459, e i Cavalieri di Spagna, d'Italia, d'Inghil­terra e d'Alemagna si lamentarono del fatto che ai Cavalieri Francesi venissero assegnate tutte le più importanti cariche. I Francesi si difesero affermando che erano stati loro ad aver fondato l'Ordine di San Giovanni e che comunque ben tre “lingue” insieme componevano oltre la metà dell'intero Ordine. Aggiunsero che l'ammiraglio era sempre della “lingua” d'Italia; che a quelle di Aragona, Alemagna e Inghilterra venivano assegnati gli incarichi del Gran Conservatore, del Gran Balivio e del Turcopoliere e che pertanto la Francia, la Provenza e l'Alvergna potevano riservarsi le dignità del Grande Ospitaliere, del Gran Commendatore e del Gran Maresciallo. La discussione si infuocò: 
il procuratore d'Aragona, in pieno Capitolo e seguito da altre quattro “lingue”, si appellò alla Corte di Roma. Ma il Gran Maestro si oppose e, convinti dalla sua mitezza, poco a poco i ribelli si vergognarono di quanto avevano fatto. Dopo che, con la sua saggezza, ristabilì la pace e la concordia tra i Cavalieri, Jacques de Milly mori il 17 agosto 1471.
[...] il Gran Maestro Pietro Raimondo Zacosta si preoccupò di migliorare le difese dell'isola e va storicamente ricordato soprattutto per aver diviso la cerchia delle mura in otto settori, attribuendone la difesa ai Cavalieri delle varie “lingue”. [...] 

Nel giugno del 1476, venne eletto come Gran Maestro dell'Ordine il Gran Priore d'Auvergne Pierre d'Aubusson. Nel maggio 1480 la flotta ottomana del sultano Maometto II tentò di invadere l'isola Rodi, con più di 100.000 uomini. L'assedio proseguì sino all'agosto di quell'anno. 
Dopo ben tre attacchi fallimentari, i turchi si ritirarono, lasciando sul campo 9000 morti.
Il sultano Maometto II avrebbe voluto attaccare nuovamente l'isola, ma a causa della sua morte nel 1481, l'impresa si arenò. 
La sua successione venne disputata tra i suoi eredi, ed in particolare fra i Principi Bayezid II e Jem. Dopo alterne vicende, il Bayezid II conquistò il trono: Il Principe Jem non fu più in grado di opporsi al suo potente fratello dal quale fu costretto a lasciare la Turchia.
In primo tempo, il Principe Jem chiese asilo al Sultano d'Egitto, il quale, per non contrariare il Sultano Bayezid II, non lo concesse, in seguito chiese asilo al Gran Maestro Pierre d'Aubusson. Riunito il Consiglio dell'Ordine venne deciso di accogliere l'ospite che giunse a Rodi venne accolto con tutti gli onori dovuti al suo rango.

Nel 1481 un gran terremoto colpì Rodi e diede il colpo di grazia a ciò che l'artiglieria turca aveva lasciato semidistrutto. Le fortificazioni e gli edifici della città divennero per la maggior parte un ammasso di rovine. I villaggi erano stati distrutti, gli alberi e le coltivazioni erano bruciati e gli animali razziati. Il popolo dell'isola decimato, aveva fame. I Cavalieri affrontarono la situazione esentando il popolo dalle tasse, distribuendo grano, inoltre prendendo provvedimenti per l'agricoltura e l'allevamento e iniziando la ricostruzione delle fortificazioni e degli edifici. [...] 

Fra i tanti meriti attribuiti a Pierre d'Aubusson c'è però l'ombra della cacciata degli ebrei da Rodi e da tutti i domini dell'Ordine, voluta dal Gran Maestro con l'assurda motivazione che la gran parte dei vizi e dei malefici che regnavano nei convento di Rodi erano causati soprattutto dalla comunità israelita. Con un decreto del gennaio 1503 il Gran Maestro diede agli ebrei 40 giorni di tempo per disfarsi di ogni avere non trasportabile e partire alla volta di Nizza 
(la comunità israelita ritornò a Rodi solo dopo l'avvento del governo Ottomano).
Pierre d'Aubusson morì a Rodi il 3 luglio 1503 e fu sepolto nella chiesa di San Giovanni. 
Il suo mausoleo venne distrutto dopo la conquista di Rodi da parte dei Turchi nel 1523.


1480: il primo assedio di Rodi.
Nel 1453 Maometto II aveva conquistato Costantinopoli e, in pochi anni, il sultano turco conquistò tutto il Peloponneso, Trebisonda, Mitilene, l'Eubea, parte dell'Albania, le colonie genovesi della Crimea, la Serbia. A sbarrargli il cammino verso l'Europa c'era, ormai, soltanto Rodi.

Il Priore d'Alvernia Pierre d'Aubusson, che sostituiva il Gran Maestro Giovanni Battista Orsini, vecchio e malato, si adoperò per rendere Rodi imprendibile, aumentando le opere di fortificazione, erigendo nuove mura e torri, batterie difensive e allargando i fossati.

La sua opera continuò una volta eletto Gran Maestro (1476) e fu accompagnata da una forte presa di posizione diplomatica, con risposta negativa alle continue ingiunzioni da parte del Sultano Maometto II di pagare un tributo o di smettere di molestare le navi turche nell'Egeo.

Ma che cosa portò il Sultano a concepire di invadere Rodi? 
Gli storici concordano sulla responsabilità di alcuni rinnegati rodioti che vivevano a Costantinopoli e che insistevano sulla debolezza della città. Nel 1479 fu chiaro a Pierre d'Aubusson ed ai suoi Consiglieri che l'attacco era imminente: già in quell'anno il comandante in capo della flotta turca Mesih Paşa fu inviato con un certo quantitativo di galee a perlustrare l'isola.
Mesih Paşa fece sbarcare le sue truppe, incendiò alcuni casolari e solo dopo aver subito notevoli perdite si ritirò a Marmarica, sulla costa anatolica, a sole diciotto miglia da Rodi, per svernare aspettando l'arrivo della flotta e dell'esercito ottomano in primavera.

Al comando delle operazioni ottomane, che cominciano il 23 maggio 1480 con l'imbarco delle fanterie a Marmara, c'era proprio Mesih Paşa.
Le forze schierate dagli Ottomani erano immense, di gran lunga maggiori di quelle dei Cavalieri: 
160 navi e circa 100.000 uomini che portavano con loro un gran numero di cannoni
Ebbe così inizio uno dei più grandi assedi della storia.

A fronteggiarli c'erano circa 600 Cavalieri, e una cifra di mercenari e milizie locali ondeggiante fra i 1.500 e 2.000 uomini. I Cavalieri potevano inoltre utilizzare una batteria tre basilischi (potenti bocche da fuoco lunghe fino a sette metri che sparavano proiettili con un diametro fino ai 70 centimetri).

L'azione dei Turchi, sbarcati sulla spiaggia di Trianda, fu diretta subito contro la torre di San Nicola, che separava il porto militare da quello porto commerciale. Se la torre fosse stata annientata, i due porti sarebbero stati vulnerabili. Frattanto altri numerosi cannoni bombardavano le mura e le case dall'alto, seminando il terrore fra i civili.

Guillaume Caoursin, vice-cancelliere dei Cavalieri di San Giovanni, lasciò una descrizione dell'evento:
“Le macchine dei nemici, con un assalto violentissimo, scossero le mura e distrussero il loro rivestimento di solide pietre. Tanta, infatti, era la violenza del getto di quelle catapulte, che destò lo stupore di tutti…. Nessuno di quelli che abitava a Rodi, dove conveniva gente di ogni parte della latinità, fu trovato che non affermasse che mai, in nessun tempo, aveva visto o sentito parlare di macchine del genere. …"

Quando infatti lanciavano i massi, al momento del getto, producevano un gran rimbombo, che riecheggiava come un tuono; e il fumo, simile ad una grossa nube, veniva trasportato per aria dal vento per lungo tempo. … [il nemico] cominciò allora a tormentarci con un nuovo terrore. Collocò infatti da ogni parte catapulte e mortai, che colpivano di traverso, distruggevano gli edifici della città, e schiacciavano gli uomini. …

Un grande terrore si impadronì del popolo, che vedeva questi massi così grandi che sfrecciavano nell'aria. Questo fatto suscitò nei nostri non poca angoscia. Tuttavia più di notte che di giorno si diffondeva il terrore: nessuno infatti poteva dirsi al sicuro nelle proprie case. Si cercava così, disperatamente, un qualsivoglia nascondiglio: in disgrazie del genere, questo è il rimedio che trova la mente umana”.
In un'occasione così tragica il Gran Maestro mostrò subito la propria lungimiranza ed intelligenza, capendo immediatamente la gravità della situazione, allestendo dei rifugi in vari punti della città, per garantire l'incolumità alle donne, agli anziani, ai bambini ed ai malati.
Sebbene fosse stato costruito e ristrutturato in maniera da resistere agli assalti, la torre di San Nicola cominciò a cedere sotto il bombardamento dei cannoni nemici. Pierre d'Aubusson allora capì la necessità di rafforzare la torre, utilizzando le rovine, abbassandola ma aumentando lo spessore delle sue mura.
L'opera di rafforzamento, condotta tanto dagli schiavi che dai soldati e dai rodioti, fu continua e durò per tutto l'assedio e fu diretta alla conservazione della struttura, trasformandola in una fortificazione in grado di sostenere l'urto dei Turchi che avevano gettato un ponte di legno sul porto militare.

il Gran Maestro alla testa del suo esercito
(miniatura da un manoscritto di Guillaume Coursin)
Il 28 maggio fu un giorno fondamentale per due eventi. Il Gran Maestro inviò un dispaccio a tutti i Cavalieri residenti in Europa con l'esortazione a raggiungerlo per “combattere per Cristo”. A causa della difficoltà di comunicazione e di collegamento e per il blocco navale esercitato dai turchi, i soccorsi non poterono giungere, eccezion fatta per una nave siciliana carica di grano e di truppe.
Il secondo evento venne ampiamente descritto da Guillaume Caoursin:
“un tedesco rinnegato, capo bombardiere dell'esercito ottomano, passò le linee e chiese di essere accolto a Rodi, dicendo di “essere spinto dall'ardore religioso”.
Pierre d'Aubusson accettò la sua offerta ma prudentemente lo fece affiancare da sei Cavalieri per spiarne le intenzioni, osservando quanto dicesse o facesse. Frattanto il pesante bombardamento sulla torre di San Nicola continuava incessante, palesando così l'intenzione turca di sferrare un attacco che avrebbe potuto rivelarsi fatale per i Cavalieri.
Una mattina di giugno alcune “triremi” turche aggirarono l'Akra Milos, il promontorio che separa Trianda da Rodi, e puntarono verso la torre di San Nicola attraverso la foschia. Le navi erano state radicalmente trasformate dai carpentieri che avevano piazzato delle piattaforme da combattimento sulle prore.
L'attacco si risolse in un massacro degli Spahis, truppe scelte ottomane, che si tuffavano con grande coraggio dalle navi per raggiungere la riva a nuoto: molti vennero uccisi ancora in mare dalle frecce e dai quadrelli (le “frecce” delle balestre) e i pochi che raggiunsero le palizzate erette intorno al forte vennero arsi vivi col fuoco greco o abbattuti dai fendenti delle spade dei soldati che si erano posizionati lungo le palizzate.

il Gran Maestro da disposizioni ai Cavalieri
(miniatura da un manoscritto di Guillaume Coursin)
Inoltre la flotta ed i soldati turchi erano tenuti sotto il costante tiro dei cannoni che Pierre d'Aubusson aveva fatto posizionare tanto alla torre di San Nicola che al Bastione di Francia che fronteggiava il molo.
I sopravvissuti cercarono rifugio sulle navi danneggiate gravemente dall'artiglieria dei Cavalieri: una nave esplose e le altre richiesero lunghe riparazioni.
Il Gran Maestro per esaltare la vittoria “… in groppa ad uno splendido cavallo, accompagnato dal suo glorioso esercito, entrò in città alla maniera di chi celebra il trionfo, e fece visita al santuario, rese grazie…”.
La reazione turca non si fece attendere: il bombardamento della città fu intensificato e la notte tra il 18 ed il 19 giugno un secondo ed ancor più potente attacco fu mosso contro il forte di San Nicolò.
Questa volta furono i giannizzeri, i reparti meglio addestrati tra quelli agli ordini di Mesih Paşa, ad ingaggiare una lotta furibonda. Le navi turche trascinarono un nuovo pontone galleggiante sul quale presero posto i giannizzeri, ma questo fu ben presto fracassato dai colpi dell'artiglieria dei Cavalieri, che poco dopo colò a picco anche tre galere e altre imbarcazioni minori.
La notte rodiota fu rischiarata dai colpi di artiglieria di entrambe le parti, tuttavia senza che la città o le fortificazioni di Rodi avessero a patire molti danni. All'alba la flotta turca si ritirò lasciando sulle acque del porto militare centinaia di cadaveri.
Guillaume Caoursin riportò una cifra di morti pari a 2.500 uomini e scrisse:
“Ah, che spettacolo impareggiabile vedere per tre giorni interi i cadaveri dei nemici giacere sulla spiaggia, fulgidi per l'oro, l'argento e le vesti decorate, e molti fluttuare nel mare, portati a galla, come è naturale, dalla natura!”.

i turchi si preparano alla battaglia
(miniatura da un manoscritto di Guillaume Coursin)
Frattanto c'era chi, all'interno della città, cercava di salvare la propria vita, complottando per consegnarla al nemico. Il primo fu un complotto teso all'avvelenamento del Gran Maestro di cui fu responsabile un soldato di ventura dalmata che, una volta scoperto e condannato a morte, fu tuttavia linciato dalla folla mentre veniva condotto al capestro.
Il secondo riguardava proprio quel tedesco rinnegato che era giunto a Rodi nei primi giorni d'assedio: messo alle strette ed interrogato dai Cavalieri, insospettiti dall'impraticabilità e rischiosità di certi piani strategici che consigliava a Pierre d'Aubusson e dall'arroganza con cui si rivolgeva a chicchessia, confessò finalmente di essere sempre rimasto fedele ai Turchi e di essere giunto in città come spia. Fu pubblicamente impiccato tra il giubilo della popolazione.
In seguito Mesih Paşa inviò un ambasciatore per dissuadere i Cavalieri dal resistere, ma questo tentativo non servì a piegare l'animo dei difensori. Frattanto il bombardamento incessante continuava, pregiudicando l'integrità della cinta muraria, sebbene il Gran Maestro avesse provveduto a fare rafforzare i bastioni e ad abbattere le case abbandonate ed in rovina che potevano propagare gli incendi.
Il 28 luglio i musulmani sferrarono l'attacco definitivo. Più di 3500 proiettili vennero impiegati nel corso del cannoneggiamento che ridusse alcuni punti delle mura a un cumulo di rovine.

Turchi e cavalieri di San Giovanni si fronteggiano 
(miniatura da un manoscritto di Guillaume Coursin)
La tattica adottata da Mesih Paşa fu quella di aprire il fuoco sul tratto di mura tra il quartiere ebraico e la Torre d'Italia, far avanzare prima i başibozuk (soldati irregolari senza stipendio che vivevano di bottino) e poi far attaccare i giannizzeri che avrebbero sfondato le ultime resistenze di Rodi.
Inizialmente i piani di Mesih Paşa sembrarono essere ben attuati: incalzati da un gruppo di militari ottomani che li sferzavano con le fruste e li minacciavano di morte se fossero indietreggiati, i başibozuk si lanciarono sul terrapieno formato dalle rovine delle mura e guadagnarono in breve tempo la cima dei bastioni, trucidando i militari di presidio.
A questo punto tutti i difensori, compresi i mercanti e i Cavalieri più anziani, si gettarono sugli invasori per fermarne l'irruzione all'interno delle mura. Lo stesso Gran Maestro si mise alla testa degli armati, affiancato dal fratello, il principe Antoine d'Aubusson, guerriero di grande valore, e fu ferito quattro volte, prima che un giannizzero con un colpo di lancia gli perforasse la corazza ledendogli un polmone.

Il Gran Maestro a quel punto fu trascinato nelle retrovie per essere medicato mentre 2500 giannizzeri e altre migliaia di soldati conquistavano la Torre d'Italia piantandovi sopra le bandiere del profeta.
Ormai i nemici dilagavano nella città e la battaglia sembrava essere definitivamente perduta, mentre, nonostante le numerose ferite riportate, il Gran Maestro esortava i suoi a respingere gli avversari che tornarono più volte alla carica. Poi, all'improvviso, i nemici cominciarono a ritirarsi disordinatamente e velocemente, come se fuggissero.
Guillaume Caoursin spiegò questa ritirata secondo quanto gli riferirono alcuni disertori turchi:
 “…quando i vessilli del Nostro Signore Gesù Cristo, e della Vergine Maria, e di San Giovanni Battista e dell'ordine dei gerosolimitani furono innalzati, per ordine del principe [Antoine d'Aubusson], durante il conflitto, i nemici avevano visto in caria una lucentissima croce d'oro, ed era apparsa sopra di essa una fulgentissima vergine che reggeva uno scudo e una lancia, ed un uomo, avvolto in una veste fiammeggiante, accompagnato da uno splendidissimo seguito, era venuto in aiuto dei cristiani.
Questa apparizione incusse in loro tanto terrore, che in nessun modo osarono avanzare. Bisogna anche riconoscere che questa vittoria fu fatta scendere dal cielo. In che modo un numero tanto esiguo di nostri soldati avrebbe potuto resistere ad un nemico potentissimo, che si era già impadronito delle mura, se non fosse sopraggiunto l'aiuto divino? In che modo, in uno spazio di tempo tanto breve, si sarebbe potuto uccidere tante truppe nemiche, se un angelo di Dio non avesse portato la vittoria e non avesse massacrato i nemici?”

l'ambasciatore turco parla con il Gran Maestro

l'attacco dei başibozuk
Probabilmente fu l'enorme mole di soldati turchi uccisi, in uno spazio tanto esiguo come quello della breccia nelle mura, a causare la rovina degli assalitori, intralciandone il cammino, e non appena un gruppo di başibozuk si trovò a fronteggiare gli avversari, fu colto dal terrore di essere ucciso dai giannizzeri che si trovavano alle loro spalle. I başibozuk, quindi, trovandosi in mezzo ai due gruppi di militari incominciarono ad indietreggiare ed a gettarsi giù dai parapetti trascinando altri uomini nella loro caduta.

contrattacco dei Cavalieri

i turchi in ritirata abbandonano i loro compagni
I Turchi in meno di dieci giorni levarono le tende e si radunarono sulla spiaggia di Trianda e qui rimasero undici giorni ancora, prima di imbarcarsi definitivamente. Vi fu ancora un'azione navale ai danni di due navi inviate da Re Ferrante di Napoli che riuscirono a forzare il blocco navale turco e a sbaragliare ben trenta navi avversarie con non poca difficoltà.

1480: il Gran Maestro Pierre d'Aubusson si fa curare una ferita alla gamba durante l'assedio di Rodi
Queste navi portavano provviste e lettere del sovrano napoletano e di Papa Sisto IV che comunicavano il prossimo arrivo di rinforzi. Guillaume Caoursin narra che gli assediati elevarono preghiere di ringraziamento a Dio e che “questa voce giunse anche alle orecchie dei Turchi, che, spaventati affrettarono la partenza già iniziata”. Il 17 agosto del 1480 l'esercito e la flotta del Sultano, dopo 89 giorni assedio, salparono per l'Anatolia.
Maometto II dovette ammettere che un pugno di uomini era riuscito a battere l'impero Ottomano. Mesih Paşa, nonostante la sconfitta, ebbe salva la vita e fu esiliato dal Sultano a Gallipoli.


http://www.teutonic.altervista.org/G/071.html


diffusione delle commende dell'Ordine durante la sua permanenza a Rodi


RODI 1480: OSPITALIERI CONTRO OTTOMANI.

L'Assedio di Rodi del 1480 rappresenta quello che possiamo considerare il primo dei grandi assedi mediterranei che hanno visto contrapposti Ospitalieri (o Cavalieri Gerosolimitani, Cavalieri di Rodi e Cavalieri di Malta) e Ottomani. Per quasi un secolo, fino al Grande Assedio di Malta (1565), gli Ottomani provarono a eliminare i Cavalieri dai loro possedimenti nel Mediterraneo. Dopo la caduta di Acri, nel 1291, gli Ospitalieri si ritirarono nell'Isola di Rodi, che portarono in breve tempo a un livello di prosperità mai conosciuto prima.

Purtroppo, Rodi era davvero troppo vicina, anzi, era circondata dai possedimenti ottomani. 
Gli Ospitalieri lo sapevano, prima o poi sarebbe giunto un esercito sterminato per cacciarli dall'Isola. Nel 1453 Maometto II mise fine all'Impero Bizantino, ridotto a Costantinopoli e a poche miglia quadrate della campagna circostante. Era un comandante eccezionale e poteva contare su un numero di soldati sterminato. Quella piccola isola in mezzo ai suoi possedimenti era però una spina nel fianco, vista la capacità dei Cavalieri di attaccare le flotte corsare turche ed effettuare sortite sul litorale ottomano.  Maometto II spedì verso l'isola un esercito mostruoso, comandato da un suo valente generale: Gedik Ahmet Pasha, nato Michele Paleologo e conosciuto anche come Miseh Pasha, un bizantino convertitosi all'Islam dopo la conquista di Costantinopoli.

Il Gran Maestro chiese aiuto al Papa, a vari sovrani europei e ai membri dell'Ordine ancora in Europa con una lettera, datata 21 Maggio 1480, in cui dice, tra le altre cose:

"Sentirà bene il perfido nemico, ch'egli non ha a che fare con imbelli e poco pratici soldati, e ben s'accorgeranno questi cani, ch'egli non averanno a menar le mani contra delicati, effemminati e molli soldati asiatici. Noi abbiamo qui valorosi."


Maometto II. Sotto di lui, l’Impero Ottomano divenne uno dei più grandi di sempre. Conquistò Costantinopoli, ponendo fine all’Impero Bizantino, nel 1453.
Gli Ospitalieri erano piuttosto gelosi del loro Ordinamento e delle loro Lingue (in sostanza i capitoli connessi al territorio di provenienza in cui si dividevano i cavalieri), e non rappresentarono mai una forza militare impressionante dal punto di vista numerico. Eppure, riuscirono sempre a bilanciare l’inferiorità numerica con l’acume tattico, l’addestramento e la capacità di costruire fortezze impenetrabili.

Nel 1480, mentre la flotta musulmana era sulla in arrivo, a Rodi erano presenti solo 500 Cavalieri, 4.000 soldati in tutto, comandati dal Gran Maestro Pierre d’Aubusson e da suo fratello. Il Gran Maestro d’Aubusson, uno che dormiva in armatura e faceva imprimere il proprio emblema sui cannoni, era un nemico molto ostico. Fargli la guerra era, in generale, una pessima idea.

Il 13 Aprile, il Gran Maestro ordinò che tutti i combattenti si preparassero all’assedio. Prepararsi all’assedio non vuol dire mettersi sulle mura ed aspettare, ma preparare le artiglierie, fare in modo che i sistemi di comunicazione siano pronti ed efficienti, riparare o fortificare alcuni tratti, assegnare le sezioni da difendere, organizzare l’approvvigionamento di acqua e generi alimentari, ripartire gli alloggi fra la popolazione (che in questi casi poteva anche raddoppiare), arruolare chi può reggere in mano una spada, mandare in perlustrazione alcune galee, mantenere i contatti con gli informatori sul continente, ripetere cento volte i piani di difesa, scegliere le linee d’azione in caso di crollo di parti della cinta muraria e tante altro.

Il 24 Aprile, fu inviata una grossa imbarcazione per portare aiuti al castello di S. Pietro e a Lango. Al suo ritorno, fece tappa a Nissaro  per imbarcare tutta la popolazione e portarla a Rodi. Il castello di Filermo, a due miglia dalla città di Rodi, venne restaurato e fortificato ulteriormente. A sua difesa fu inviato un contingente della Lingua francese.

Il 13 Maggio, il Gran Maestro fece entrare la popolazione nelle mura ed innalzare delle vele, dei teloni, a protezione delle case, in modo che non venissero raggiunte da pietre e schegge durante l’assedio.

Nel frattempo, anche in Europa giunse la notizia dell’imminente assalto musulmano a Rodi. I Cavalieri erano dati per spacciati, visto che neanche le mura più imponenti della storia umana, quelle di Costantinopoli, erano riuscite a resistere alla furia e alle schiere infinite di Maometto II. Anche il Gran Priore d’Alvernia, andando con i suoi verso Rodi disse:

“… ecco dei pecoroni, che si portano ad essere sgozzati dal coltello turco.“
I sovrani europei inviarono lettere di auguri ed esortazioni, ma si astennero da qualsiasi forma di aiuto.

Con un ultimo colpo di coda, d’Aubusson tentò di istigare gli ungheresi ed i veneziani ad azioni di guerra contro Maometto II, ma non vi riuscì. I veneziani in particolare pensavano che la caduta degli Ospitalieri, loro concorrenti nel commercio, avrebbe portato un netto miglioramento nei traffici della Serenissima.

Maometto II invece poteva contare su diversi rinnegati, che gli avevano portato le mappe delle fortificazioni di Rodi, e su un ingegnere tedesco, Giorgio Frapan (italianizzato), che veniva considerato un vero e proprio maestro nella costruzione di imponenti pezzi d’artiglieria.

Nel dicembre 1479, Maometto II aveva già mandato in esplorazione una discreta avanguardia di Giannizzeri e Spahis, ma questi si erano ritirati dopo aver subito notevoli perdite.

L’armata al completo raggiunse le coste di Rodi il 23 Maggio 1480. I musulmani erano 100.000, stipati su oltre 170 galee, galeotte e navi da trasporto. Il rapporto fra le forze in campo era di 40 a 1. Il numero può sembrare esagerato, ma bisogna sempre considerare che, per questo genere d’impresa, era fondamentale portare un numero enorme di guastatori, operai e addetti alla logistica.

Rodi aveva una doppia cinta muraria, intervallata da grosse torri, e un ampio fossato. I due porti erano difesi da diverse torri fortificate.

I cannoni della città iniziarono a cantare sui Turchi che si avvicinavano alla riva. I Cavalieri tentarono anche una sortita per evitare lo sbarco, combattendo praticamente in acqua, ma fu un tentativo vano. Ci furono altre scaramucce fra Cavalieri e l’avanguardia di Maometto II, ma nulla di decisivo.

Dietro le spesse mura,  soldati ed i cittadini erano pronti a non cedere un pollice. L’assedio era inevitabile.

I musulmani piazzarono tre pezzi d’artiglieria negli orti di Sant’Antonio per bombardare la Torre di San Nicola, ma il Gran Maestro fece allestire una contro-batteria nel piazzale della Lingua d’Alvernia. I primi colpi pesanti, dunque, seguiti dalla comparsa, ai limiti del fossato, di un disertore che supplicava i Cavalieri di farlo entrare. Si trattava del già menzionato Giorgio Frapan. L’ingegnere tedesco aveva intenzione di agire come spia, e per guadagnarsi la fiducia del Gran Maestro diede parecchi consigli utili alla difesa del forte e al posizionamento delle artiglierie. Il Gran Maestro però continuò a diffidare di lui, e lo fece tenere in osservazione dai suoi uomini. Ad insospettirlo erano le testimonianze di alcuni cittadini, che dicevano di averlo già visto in città, ed il ritrovamento di diverse frecce, tirate oltre le mura (forse da cristiani obbligati a servire nell’esercito di Maometto), che recavano il messaggio “Diffidate di Mastro Giorgio“. Il povero ingegnere tedesco tentò anche di salire sui bastioni per segnalare agli Ottomani le parti più deboli, ma i sei uomini assegnati alla sua scorta gli impedivano ogni volta di affacciarsi, così si ritirò nell’abitazione assegnatagli.

Nel frattempo, sulla Torre di San Nicola si erano abbattuti quasi trecento colpi e aveva subito dei crolli parziali ma, complessivamente, ancora reggeva. Il Gran Maestro sapeva perfettamente che la Torre non doveva cadere, quindi inviò lì il comandante Fabrizio del Carretto (futuro Gran Maestro), della Lingua d’Italia, con i cavalieri migliori. Questi lavorarono notte e giorno per rimettere in sesto le parti crollate e piazzare l’artiglieria. Alla vigilia dell’assalto musulmano, entrarono nella Torre anche il Gran Maestro e suo fratello, il Visconte di Monteil, assieme ad altri volontari.

Il Gran Maestro chiese aiuto al Papa, a vari sovrani europei e ai membri dell’Ordine ancora in Europa con una lettera, datata 21 Maggio 1480, che ci è giunta in forma integrale. Eccone alcuni passi.

"Ora si sforza il tiranno de’turchi di mettere ad effetto quello che già molto tempo fa contra i rodiani machinato aveva. Ha l’empio nemico della fede concepito contra noi e l’Ordine nostro un antico ed implacabil’odio, per cagione che per la fede di Cristo resistenza gli facciamo. Aumentasi anco e s’accresce l’insano suo furore per rispetto che dopo la presa di Costantinopoli, non avendo potuto soggiogare alcuna parte del dominio e dello stato nostro alla tirannide sua, abbiamo ricusato, e rifiutato di pagargli censo ed il tributo che chiesto ci aveva. Per il che avendo egli ultimamente apparecchiata un’armata di cento e sessanta vele, ed avendo adunato da ogni parte un potentissimo esercito e con detta armata dalla costa di Licia a noi vicina in Rodi passato avendo con potente mano…

Ha portata la nemica armata, per espugnare la città nostra gran numero di grossissimi pezzi d’artiglieria, grandissima quantità di macchine di torri di legno e d’altri ingegni all’espugnazioni delle fortezze atti ed accomodati. Stansi intorno alla città nostra accampati circa settanta mila nemici, che con continui assalti ci combattono a’quali con forte ed intrepido animo facciamo resistenza opponendo le loro forze nostre e risospingendo gli assalti, e gli sforzi loro: confidati nella divina pietà e clemenza, la quale non abbandona mai coloro, che in lei hanno speranza, e per la santa fede cattolica combattono.

Sentirà bene il perfido nemico, ch’egli non ha a che fare con imbelli e poco pratici soldati, e ben s’accorgeranno questi cani, ch’egli non averanno a menar le mani contra delicati, effemminati e molli soldati asiatici. Noi abbiamo qui valorosi e buoni (ancorchè pochi) soldati; e siamo d’ordegni da guerra, di machine, d’artiglieria, di frumento e di munizioni abbondantemente provveduti e forniti, per poter sostenere e resistere alle nemiche forze e per aspettare l’aiuto ed il soccorso de’fratelli nostri, nel quale tutto lo stato e la speranza della difesa riposto abbiamo...
Il 9 Giugno, alle prime ore del mattino, diverse navi piene di fanteria attraccarono al molo. I Cavalieri reagirono colpendo duro con i cannoni, ma la moltitudine dei nemici rese impossibile evitare l’assedio alle parti crollate della Torre."

I Cavalieri si difesero con massi, acqua e olio bollenti, spazzando le scale con alabarde e le spade a due mani, unendosi gomito a gomito dove le mura erano in rovina. Da parte loro, i musulmani combattono con altrettanto ardore. Continuarono a gettare scale contro le mura e a tempestare i bastioni con colpi d’archibugio e frecce. Il Gran Maestro fu colpito da un masso, ma rimase illeso e si fece dare un altro elmo per continuare a combattere.

Alla fine ebbero la meglio i Cavalieri, che riuscirono a distruggere molte navi con i brulotti e l’artiglieria, e a sincronizzare il tiro con gli archibugi in modo da non lasciare scampo ai nemici. Centinaia di musulmani furono massacrati fra il molo e le mura.

Il fu-Paleologo continuò a far martellare la Torre di San Nicola dall’artiglieria, distruggendone buona parte. Ancora una volta, il Gran Maestro si recò sul posto (anche per tirare su il morale delle truppe) e chiese ai suoi uomini di continuare a difendere la Torre, visto che la sua caduta avrebbe lasciato ai turchi un punto d’appoggio fondamentale per colpire la città. I Cavalieri si trincerarono come meglio poterono, usando anche sassi di legno, e si prepararono a ricevere un nuovo assalto, che non tardò ad arrivare. Questa volta la battaglia fu meno incerta. Fin dallo sbarco del nuovo battaglione ottomano, l’artiglieria cristiana aveva fatto piovere un inferno di fuoco sulle loro teste. Finirono l’opera archibugieri e balestrieri. Nella breve battaglia persero la vita 700 assedianti.

Il generale musulmano, viste le perdite subite, decise di cambiare strategia: attaccare da più lati. Fece portare grossi pezzi d’artiglieria vicino alle mura, proteggendoli con costruzioni di legno, e iniziò a bombardare il c.d. Muro degli Ebrei. Le mura erano spesse e resistenti, ma il Gran Maestro sapeva che non avrebbero retto al tiro incessante di dieci grossi pezzi. Così, decise di far radere al suolo le case degli ebrei, a ridosso delle mura, e fece scavare un fossato profondo, seguito da un terrapieno, in modo da bloccare la carica nemica una volta cadute le mura. Allo scavo parteciparono tutti, dagli ufficiali ai bambini. I rodiani avevano pochissimo tempo per renderlo operativo.

I cannoneggiamenti musulmani continuavano giorno e notte. Diversi mortai lanciavano pietre oltre le mura per colpire i civili, ma, stando alle cronache, i “solari” voluti dal gran Maestro e gli edifici più resistenti aiutarono a subire pochissime perdite.

Le mura, però, erano allo stremo. Sarebbero crollate, i Cavalieri ne erano sicuri. Quindi, oltre al terrapieno, iniziarono a costruire una contromuraglia interna, dello spessore di due palmi, appena sopra il terrapieno.

Tutti gli ordigni, le caldaie per olio, pece e acqua bollente, sacchetti pieni di polvere pirica e chiodi o lame di ferro (bombe a mano?) furono portati al muro, per organizzare l’ultima resistenza. Il Gran Maestro fece chiamare anche il povero Giorgio, l’ingegnere tedesco/spia fallita, per chiedergli consiglio. L’ingegnere si lasciò scappare qualche parola di troppo a favore dei turchi e qualche biasimo nei confronti dei Cavalieri, così finì dritto nelle carceri di Rodi, dove ricevette le attenzioni dei torturatori. Confessò il suo tradimento, sperando nella misericordia del Gran Maestro, ed effettivamente quest’ultimo si rivelò magnanimo: lo fece impiccare nella pubblica piazza, davanti al popolo in delirio.

In una versione ante litteram delle piogge di volantini alleate, gli ottomani fecero cadere sulla città molte frecce recanti lo stesso messaggio: se i cittadini si fossero arresi non sarebbe stato fatto loro nulla, Maometto II voleva solo liberarli, Allah è grande e, per finire, la minaccia, sarebbero stati massacrati tutti se non si fossero arresi.

Ad ogni modo, neanche questo trucchetto servì a qualcosa. I rodiani si trovavano piuttosto bene sotto i Cavalieri, che avevano reso l’isola ricca e prosperosa, e non si fidavano degli Ottomani.

Fu allora inviato un ambasciatore, che più o meno riferì lo stesso messaggio piovuto con le frecce. Il Gran Maestro lo liquidò con un “fuori di qui“.

Il Gran Maestro spedì altre missive in giro per l’Europa, sperando che qualcuno mandasse degli aiuti. Gli Ospitalieri controllavano il porto, quindi riuscivano a far giungere alcuni rifornimenti e ad imbarcare i feriti, ma gli aiuti richiesti, che pure potevano sbarcare senza problemi, non arrivarono.

Gli assalti alle mura continuavano, ma venivano respinti dagli assediati con poche perdite. Gli ufficiali ottomani iniziarono ad innervosirsi. Decisero quindi di procedere con un attacco congiunto. La Torre di San Nicola fu assaltata dal solito molo e da un ponte di barche che la congiungeva alla terraferma, oltre a ciò, l’artiglieria continuava a bombardare la città. Il tutto in piena notte.

Il generalo Gedik Pasha guidò personalmente l’assedio dando una enorme prova di coraggio, ma gli Ospitalieri accolsero il tentativo notturno con una pioggia di colpi di colubrina. Molti assedianti raggiunsero però la Torre, o ciò che ne rimaneva. Si dice che il genero di Maometto II, uno dei nemici più temuti per la grande forza fisica, riuscì ad uccidere diversi soldati rodiani. Alla fine, ferito gravemente, fu raggiunto dal Gran Maestro, che chiese personalmente la sua resa. L’ufficiale ottomano la rifiutò, continuando a combattere da solo fino alla morte.

Intanto, un gran numero di brulotti uscirono dal porto ed intercettarono le navi ottomane, incendiandole quasi tutte. I Cavalieri fecero poi fuoco sul ponte di barche, tagliando ogni via di fuga. Migliaia di turchi  finirono annegati, trafitti, bruciati. L’esercito era in rotta. Gli Ospitalieri uscirono dalle mura per inseguire gli assedianti, lo stesso fecero addirittura i contadini, che aggredirono i razziatori delle campagne con zappe e roncole, mettendole in fuga.

Sappiamo per certo che anche un frate francescano, Antonio Fradin (cacciato dal Regno di Francia per i suoi “sermoni” politici), si buttò praticamente in mare. Brandendo uno spadone a due mani, riuscì a decapitare diversi ottomani e a ucciderne altri che tentavano di mettersi in salvo sulle barche superstiti.

Il massacro fu lungo e terribile. I Cavalieri erano più addestrati, coperti d’acciaio e stremati da settimane d’assedio. Sfogarono la loro rabbia sull’esercito in rotta. Duemilacinquecento morti in poche ore, tanto che per tre giorni il mare restituì cadaveri di soldati sulla scogliera e nel porto. Si dice che molti plebei rodiani si arricchirono spogliando i morti dei loro vestiti e delle loro armi.

Una delle bombarde dell’Ordine.
Aveva un corto raggio (100-200 m), e poteva scagliare macigni di 250kg.

Gedik Pasha rimase per tre giorni immobile, ribollendo di rabbia.
Poi decise di lasciar perdere la Torre di San Nicola e concentrare gli sforzi sulla Posta di Italia e sul Muro degli Ebrei. Colubrine e serpentine rialzate ripresero a colpire le mura, furono scavati tunnel per andare a riempire il fossato, ma anche all’interno della città si studiavano le contromosse migliori. Il gran Maestro indisse una riunione cui presero parte tutti, dai Cavalieri ai rodiani, ai mercanti che erano rimasti durante l’assedio. Ognuno disse la sua in merito alle strategie migliori ed il fratello di d’Aubusson fu creato Capitano-generale.

A 37 giorni dal disastro della Torre di San Nicola, Gedik Pasha ordinò un nuovo scroscio d’artiglieria. In pochi giorni, sulle mura arrivarono 3.500 colpi di cannone, senza contare quelli di colubrine e serpentine, tanto che, dice il De Caro:

la città di Rodi, la quale era di nuove e grossissime muraglie, di alte torri e di fortissimi bastioni d’ogni intorno munita e cinta, fu ben presto … sconquassata… smantellata e rovinata, che apparenza di città e fortezza più non aveva…
Attendendo l’assalto finale, D’Aubusson riorganizzò le difese, e collocò in alcuni punti degli squadroni a cavallo, in modo che potessero raggiungere velocemente qualsiasi punto delle mura in caso di necessità. Egli stesso si pose a capo di uno di questi.

Nel campo turco invece, il buon Gedik, per spronare i suoi, promise il saccheggio libero della città e comandò che venissero tenuti in vita i giovanissimi, affinché entrassero nel corpo dei Giannizzeri, e che invece fossero uccisi tutti gli uomini, ad eccezione di 8.000. Per questi ultimi erano previsto l’impalamento. E gli 8.000 pali erano già pronti.

Il 27 Luglio, dopo il solito cannoneggiamento, gli Ottomani si gettarono verso le mura. Il loro impeto iniziale fu inarrestabile. Riuscirono a piantare i loro stendardi sulle Mura degli Ebrei e sulla Posta d’Italia. I Cavalieri italiani si lanciarono in soccorso dei compagni, dando luogo ad uno scontro violentissimo sui camminamenti delle mura.

Gli atti finali dell’assedio.
Il Gran Maestro, avvertito dell’irruzione degli Ottomani, raggiunse la Porta d’Italia con il suo squadrone di cavalieri e fece a pezzi gli ottomani che tentavano di scendere verso la città. Smontato da cavallo, iniziò a salire le scale delle mura, cercando di ricacciare indietro il nemico.

I nemici cadevano dalle scale, dalle mura, inciampavano gli uni sugli altri, mentre i drappelli di Cavalieri li spingevano fuori dal muro appena conquistato. Erano comunque saliti sulle mura oltre 2.500 Ottomani ed, esaurita la spinta iniziale, anche i Cavalieri si trovarono più volte in difficoltà. Il Gran Maestro subì cinque ferite, di cui una grave, ma continuò a combattere.

Lo scontro sulle mura andò avanti in maniera incerta per oltre due ore, ma alla fine la maggioranza dei turchi, non riuscendo a sfondare, andò nel panico, ritirandosi in modo disordinato. Ne rimasero poche centinaia, che furono gettati dai Cavalieri verso i cittadini in armi, che li fecero a pezzi. I Cavalieri invece si lanciarono all’inseguimento dei turchi, massacrandoli e raggiungendo il loro campo base. Il terrore si diffuse talmente tanto tra gli ottomani, che i Cavalieri riuscirono a sottrarre lo stendardo reale, ricamato d’oro e argento. Nell’arco di poche ore erano morti altri 3.500 turchi e altrettanti erano rimasti feriti.

Il Gran Maestro invece fu portato da un gruppo di medici e chirurghi che riuscirono a salvarlo.

Gedik Pasha, fatta la rassegna dell’esercito, comprese che dall’inizio dell’assedio aveva perso 10.000 dei suoi uomini migliori, mentre i feriti ammontavano a 15.000. Decisamente troppi. Mestamente, fece i bagagli e abbandonò Rodi con ciò che rimaneva della sua flotta.

Ma la furia del fu-Michele Paleologo trovò sfogo altrove.
Rifiutandosi di tornare a Costantinopoli senza un bottino e temendo l’ira di Maometto II, trascinò molti dei suoi uomini verso Otranto, già assediata da altre forze ottomane. L’Assedio di Rodi portò dunque a uno dei massacri più efferati del medioevo, quello di Otranto del 1480.

Ma questa è un’altra storia. Maometto II morì l’anno successivo all’Assedio di Rodi, con l’isola ancora saldamente in mano agli Ospitalieri, sognando di conquistare Roma e riunificare l’Impero Romano nel segno della mezzaluna.

Sarà Solimano il Magnifico, nel 1522, a prendere Rodi, dopo un assedio ancora più terrificante di quello del secolo precedente.

Bibliografia
Storia dei gran Maestri e cavalieri di Malta: volume II (1853), Luigi De Caro
The History of the Knights of Malta (1728), Abate Vertot
Knight Hospitaller (2) 1306-1565 (2001), D. Nicolle
Istoria Della Sacra Religione Et Illustrissima Militia Di San Giovanni Gierosolimitano, Giacomo Bosio (1594)
Articolo pubblicato per la prima volta il 26 Marzo 2010.


azzarol ha detto:
bell’articolo, c’è anche da dire come venne creato il primo bastione moderno proprio a rodi dopo questo assedio o quanti altre decine di migliaia di musulmani siano morti nel secondo assedio.
Quel pezzo di artiglieria venne usato anche a costantinopoli nel 1453, proprio ieri su history channel, ha fatto vedere in azione una replica di cotal arma (anche se penso che la polvere pirica non sia stata fabbricata secondo i metodi del XV secolo…).

Nicholas ha detto:
Da ingegnere logistico mi affascina ovviamente la logistica della cosa:
assediare un’isola per mesi con un’esercito di 90.000 soldati (a cui va aggiunto tutto il personale ausiliario) richiede uno sforzo logistico impressionante, immagino centinaia di navi a fare spola, utilizzate per rifornire questa massa enorme di persone in territorio nemico, portare cibo, acqua, munizioni, armi, biada per i cavalli e chi più ne ha più ne metta.
Non ho le competenze per dire se gli arabi erano buoni strateghi ma conoscendo alcune delle loro imprese penso fossero degli ottimi organizzatori.


Cristtian Papi ha detto:
“i Templari (che, per quanto ricchi e potenti, ebbero vita breve)”
I Templari ebbero vita breve proprio IN quanto ricchi e potenti:
avevano in mano il Tesoro di Francia, Filippo il Bello era indebitato con loro fino al collo, quindi decide che gli conviene sciogliere l’Ordine del Tempio.

Damiano Franzosi ha detto:
Articolo veramente interessante. Se non è già stato fatto, consiglio la lettura di “Obsidionis Rhodiae urbis descriptio” di Guillame Caoursin. Utilizzai questa testimonianza per la mia tesi di laurea triennale e la reputo davvero interessante.




La Valletta. Il Grande assedio di Malta.

Nel 1566, a un anno dall'assedio, La Valette si guarda intorno soddisfatto. 
I suoi avversari più pericolosi, Solimano e Dragut, non ci sono più. 
Malta ha resistito e i nuovi lavori di fortificazione la renderanno inespugnabile 
(solo Napoleone, con la complicità dei Cavalieri francesi, porrà fine al governo degli Ospitalieri).

Sir Oliver Starkey, l’unico Cavaliere inglese durante l’Assedio, scrive l’epitaffio del Gran Maestro, sepolto nella cripta della Cattedrale di San Giovanni a Malta:

"Qui giace La Valette.
Meritevole di eterno onore
E' stato il flagello di Africa e Asia,
E lo scudo d'Europa,
Da dove cacciò i barbari con le sue Sante Armi,
Il primo a essere seppellito in questa amata città,
di cui fu fondatore."


L’Assedio di Malta del 1565: la Fine e le Conseguenze
Molti si sono impegnati a immaginare il volto di Mustafà nelle varie fasi dell’Assedio di Malta del 1565, e in particolar modo durante la mattina del 7 settembre.

Negli articoli precedenti, abbiamo trattato:

Assedio del 1565: dallo Sbarco dei Turchi alla Presa di S.Elmo;
Assedio del 1565: dalla Presa di S.Elmo all’Assalto della Senglea;
Assedio del 1565: dall’Assalto della Senglea all’Arrivo del Gran Soccorso.

A quasi quattro mesi dal’arrivo dell’esercito Turco, Malta ancora resiste. 
Mustafà ha seppellito (il più delle volte lasciato marcire nei fossati) più di 20.000 soldati, oltre al miglior comandante navale dell’Impero, Dragut, e a centinaia di ufficiali. Le fortificazioni di Borgo e Senglea, in alcuni punti, sono state spianate da 130.000 palle di cannone, ma i due-trecento uomini in arme, Cavalieri e Maltesi, che ancora combattono, non mollano un solo centimetro.

Quella mattina però cambia tutto. Non solo il Gran Soccorso, 8.300 soldati cristiani, è arrivato a Malta, ma ha già raggiunto la Notabile senza incontrare resistenza.

I Turchi ne hanno notizia prima dei difensori. 
Dopo un momento di smarrimento, si ritirano. 
La rabbia di Mustafà è tale che ordina di continuare il cannoneggiamento della Senglea per alcune ore. Ai Cavalieri però non interessa, men che meno ai Maltesi.

Le campane suonano a festa, il Gran Maestro fa un bagno di folla nella piazza di Borgo e ringrazia il Signore. Non si sparano colpi di festa, perché la polvere da sparo è finita, ma quella sera i fuochi d’artificio arrivano dalla Notabile, letteralmente gremita di soldati e rifornimenti.

Mustafà invece vuole solo andarsene da quell’inferno. 
I suoi uomini lavorano notte e giorno per smontare i campi e trasportare tutto l’equipaggiamento alle navi, attraccate al Corradino, al Salvatore e al Marsamuscetto. Le operazioni sono talmente sbrigative, che un grande basilisco finisce in acqua mentre si cerca di caricarlo sulla nave e un altro viene abbandonato vicino al bastione di Burmola: ha una ruota rotta e nessuno ha intenzione di trascinarlo verso l’imbarco.

L’Impero ottomano alla massima espansione, la freccia indica la posizione di Malta.

Il 10 Settembre, con il Soccorso ancora alla Notabile a causa di dissensi interni sulle modalità d’azione, Mustafà, con una mossa dettata dalla stizza piuttosto che dall’acume militare, vuole mettere a ferro e fuoco l’entroterra maltese. Punta la Notabile con 16.000 uomini, mentre Pialì Pasha muove la flotta verso il porto di S.Paolo. I soldati del Soccorso escono dalle mura e incalzano Mustafà, che ha ancora un numero di uomini sufficiente ad avere buone probabilità di vittoria in una battaglia campale.

Ma il morale dei Turchi è bassissimo e vanno in rotta alla prima carica cristiana. 
La cavalleria ottomana fugge scomposta verso la spiaggia di S.Paolo, lasciandosi dietro tutta la fanteria, che deve aprirsi la strada fino al mare. Gli unici a mantenere la formazione sono i Giannizzeri che scortano Mustafà.

Prendendo forse la miglior decisione dell’intera Campagna, Mustafà arriva fino alla retroguardia e la riorganizza, evitando un massacro completo dei suoi. Combatte anche lui in prima linea, tanto che per due volte i Cavalieri uccidono il suo cavallo. Solo grazie al sacrificio di alcuni Giannizzeri evita la cattura.

I Cavalieri continuano a pressare la retroguardia, alcuni cercano di raggiungere la cavalleria nemica, mentre il resto della fanteria cristiana è qualche chilometro più indietro. In armatura completa e sotto il sole a picco, ben quattro Cavalieri muoiono d’infarto.

Per guadagnare ai suoi il tempo necessario per l’imbarco, Mustafà piazza diversi archibugeri sulle rocce a ridosso della spiaggia; Hassem, il figlio di Dragut, fa lo stesso.

Quando però arriva anche la fanteria cristiana, la battaglia continua fin dentro l’acqua, con gli archibugeri che si scambiano colpi fra spiaggia e imbarcazioni. Centinaia di musulmani muoiono tentando di salire sulle imbarcazioni. Mustafà sale sull’ultima disponibile.

Giunto a conoscenza dell’esito dello scontro, il Gran Maestro scrive al Papa che l’assedio è terminato. Le lodi sono tutte per i Cavalieri e per i Maltesi, mentre manca qualsiasi menzione al Vicerè di Sicilia.

Il Gran Maestro La Valette, che a 27 anni aveva combattuto durante l’Assedio di Rodi del 1522, aveva giurato di non cedere Malta.
E alla fine mantiene la parola.

All’alba del 13 Settembre, l’intera flotta Turca, con a bordo un esercito decimato, si allontana da Malta. Mustafà osserva l’isola, incredulo di essere stato costretto alla ritirata dopo quattro mesi. Sia lui che Pialì non hanno idea di come affrontare Solimano, poco abituato a vedere i propri generali tornare in patria con la coda fra le gambe.

A Malta la situazione è drammatica. 
Le porte di Borgo e Senglea si aprono per la prima volta da Maggio (eccezion fatta per le sortite operate durante l’Assedio) e la popolazione trova la forza di esultare e festeggiare. La Valette limita al minimo il proprio entusiasmo e, da capace gestore della cosa pubblica, chiede un immediato elenco completo dei caduti e delle distruzioni sofferte da Malta.

Fra i combattenti (Cavalieri, mercenari e Maltesi) ci sono 3.000 morti a fronte dei 20.000 Turchi. A questi si aggiungono, purtroppo, 6.000 civili, quasi tutti bambini, donne e anziani.

Il 15 Settembre, con la flotta turca sulla via di Costantinopoli, il Viceré arriva a Malta con 48 galere. Le parole scelte dal Vassallo sono, in questo caso, di puro sarcasmo:

Nell’accoglienza di Don Garcia, il Gran Maestro si attiene al protocollo: grande sontuosità ma nessuna cordialità. Dopo le processioni e i canti, la messa del solito Fra Roberto porta alle lacrime tutti coloro che l’ascoltano.

Dopo un’ispezione delle mura e dei danni provocati dall’assedio, Don Garcia si complimenta ancora con il Gran Maestro, e la sera stessa tira l’ancora a bordo e parte per il Mediterraneo orientale alla ricerca di gloria. A dire il vero ne trova, però, molto poca, tanto che il 15 Ottobre è già nel porto di Messina.

Il 6 Novembre la Flotta Turca arriva a Gallipoli. 
Alla notizia della situazione in cui versano esercito e flotta, sbotta furioso che l’anno successivo avrebbe egli stesso comandato la spedizione per distruggere i Cavalieri di Malta:

La mia spada vale, ma solo quando è brandita da me

Quando la flotta raggiunge Costantinopoli, Solimano ordina che entri in porto a notte fonda, onde evitare che la popolazione veda come è ridotta.

La notizia della vittoria cristiana viene celebrata a Roma il 23 Settembre. 
Grandi processioni avvengono sia a S.Maria Maggiore che a S.Giovanni. 

Poche settimane dopo, il Pontefice si congratula con il Gran Maestro con una missiva:

"Era naturale che noi provassimo tant’angoscia, e che un assedio così lungo, ed un’aspugnazione così pertinace, l’animo ci tenesse giorno e notte fortemente sollecito al considerare in quanto pericolo si trovasse la salute del popolo cristiano, unitamente coll’Ordine vostro, coll’Italia, colla Sicilia, e le altre isole di questo mare […] Riparate alle rovine il più presto possibile; noi non mancheremo di aiutarvi, né di esortare i principi cristiani a fare lo stesso.”

I ringraziamenti arrivano anche da Filippo di Spagna, che invia al Gran Maestro una spada con a guardia d’oro e diamanti e gli conferisce il titolo di “Grande Eroe del Secolo“.

Anche la protestante Elisabetta d’Inghilterra, che durante l’Assedio aveva detto “Se i Turchi prenderanno Malta, non sappiamo quale altro pericolo potrebbe arrivare al resto della Cristianità“, alla notizia della vittoria de La Valette ordina all’Arcivescovo di Canterbury di officiare messe di ringraziamento tre volte a settimana per sei settimane.

In realtà, passata l’euforia per la vittoria, La Valette già riceve dalle sue spie la notizia che Solimano ha intenzione di guidare un nuovo assedio nel 1566.  A questo punto, mostra (ancora una volta, casomai ce ne fosse bisogno) tutte le sue capacità diplomatiche e di accentratore di interessi. Finge infatti, con tutti i sovrani d’Europa, di voler abbandonare Malta, semidistrutta e spopolata, per ritirarsi in un convento Siciliano. Aggiunge poi che potrebbe cambiare idea se Malta fosse dotata di 15.000 soldati in pianta stabile e se gli avessero dato parte della somma necessaria a costruire una grande città fortificata sul monte Sceberras, prima di S.Elmo.

A spingere La Valette non è l’avidità, ma la certezza che Solimano sta già organizzando i preparativi per l’attacco del 1566. A Malta, addirittura, molte famiglie ricche chiedono al Gran Maestro un salvacondotto per abbandonare l’isola, ed egli quasi sempre lo concede, facendo attenzione a rendere il meno pubblica possibile la cosa.

Il successore di Pio IV (morto il 9 Dicembre 1565) è Pio V, che appoggia completamente i Cavalieri. Assicura al Gran Maestro tutto l’aiuto economico possibile, dopo che Pio IV già gli aveva mandato l’ingegnere fiorentino Francesco Laparelli. Il 28 Dicembre sbarcano sull’isola il Cav. Fortuin (con 5.000 scudi presi in prestito a Palermo e l’ingegner Laparelli.

Il 3 Gennaio 1566 il primo progetto della città è davanti a La Valette, che lo apprezza, mentre gli ingegneri dell’Assedio, Menga e soprattutto Girolamo Cassar, la vorrebbero più grande. Ma l’opinione più importante, dopo quella del Gran Maestro, è quella di Filippo II, cui viene inviata sia la piantina che un modellino di cera in scala. Di grandissimo valore storico è la lettera (in realtà un rapporto sui lavori) che Francesco Laparelli consegna al Gran Maestro:

[…] Prima che passi questo resto di Gennaio qui ci vogliono 5.000 guastatori (ossia operai, manovali), e che la metà di essi abbiano strumenti adatti a tagliare monti e rocce, e gli altri per portare i materiali da usare sopra detto monte; a metà Marzo servono 5.000 fanti per presidiare S.Elmo e la Notabile. Nel caso in cui non si possano costruire altre fortificazioni, saranno invece necessari 12.000 fanti e 200 cavalli leggeri […] Non dico nulla riguardo ad artiglierie, munizioni e rifornimenti, perché V.S.Illma. sa molto bene quello che occorre in un assedio.

Francesco Laparelli da Cortona

Malta, 13 gennaio 1566
La città si sviluppa attraverso strade dritte, che corrono dalle porte d’ingresso a S.Elmo. Alcuni dei bastioni sono alti quasi 50 metri.

malta 1568
malta 1568

Una bella immagine de La Valetta in fase di costruzione (solo le mura). 
Alle sue spalle, il forte di S.Elmo ricostruito e rinforzato.

In Spagna, la discussione su come rifornire e rifortificare Malta vede interpellato anche Don Garcia, il cui tardivo soccorso aveva mandato su tutte le furie il Gran Maestro. Il Viceré ritiene sufficiente riparare le fortificazioni esistenti e trincerare il monte Sceberras. A prevalere presso Filippo II è però il partito di La Valette e Pio V. Il Re di Spagna invia a Malta il Priore d’Ungheria, Cav. Serbelloni, grande esperto di fortificazioni, che approva i progetti di Laparelli.

L’impegno di Pio V per rendere Malta inespugnabile è piuttosto intenso, tanto che il Vassallo reputa che se Adriano VI si fosse impegnato altrettanto con Rodi nel 1522, questa e il Gran Maestro Lisleadamo non si sarebbero dovuti arrendere a Solimano. Oltre a concedere finanziamenti in proprio, Pio V intercede con i sovrani europei, facendo capire loro che una Malta in mano cristiana è molto utile sia dal punto di vista politico che commerciale.

Filippo secondo concede 80.000 lire, Carlo IX di Francia 40.000 e Sebastiano di Portogallo, forse il meno interessato, addirittura 30.000 crusados. Anche sul fronte italiano, l’opera dei Pio V e dei Cavalieri della Lingua Italiana portano i loro frutti, visto che Cosimo de Medici concede prestiti vantaggiosi e altri favori.

Nell’Aprile del 1566 mancano solo le milizie. 
Sono appena arrivati 400 fanti assoldati in Sicilia, ma servono quelli promessi da Filippo II. Quest’ultimo, fra l’altro, palesa al Gran Maestro l’idea di voler riconquistare Algeri, ma il navigato La Valette lo fa desistere, chiedendogli di presidiare innanzitutto Malta e le coste italiane, anche perché c’è ancora incertezza su quale punto della cartina geografica abbia puntato gli occhi Solimano.

La flotta di Pialì Pascià è di nuovo in acqua nella primavera del 1566, funestando le isole in mano a Veneziani e Genovesi, ma i paesi del sud Europa tirano un sospiro di sollievo quando si accorgono che le vere mire di Solimano si dirigono verso Vienna.

Sovrano di tempra e volontà fuori dal comune, Solimano affronta la campagna in prima persona nonostante i 72 anni e una grave forma di gotta, che lo costringe su una carrozzella. La sconfitta di Malta lo ha colpito nell’orgoglio ed egli si rimprovera di non averla condotta personalmente.

Durante il terrificante Assedio di Szigetv, in Ungheria, le condizioni fisiche di Solimano peggiorano, ma decide di rimanere a dirigere le operazioni fino al 6 settembre 1566, quando muore.

In mezzo al Mediterraneo, il suo coetaneo La Valette si guarda intorno soddisfatto. 
I suoi avversari più pericolosi, Solimano e Dragut, non ci sono più. 

Malta ha resistito e i nuovi lavori di fortificazione la renderanno inespugnabile (solo Napoleone, con la complicità dei Cavalieri francesi, porrà fine al governo degli Ospitalieri).

Il Gran Maestro non vede però il completamento della città che porta il suo nome, muore infatti nel 1568, colto da un malore, che si aggrava nei giorni successivi, durante una battuta di caccia (una insolazione).
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La Valletta nel 1705.

La Valletta nel 1705. Una città inespugnabile come richiesto dal suo fondatore.
Sir Oliver Starkey, l’unico Cavaliere inglese durante l’Assedio, scrive l’epitaffio del Gran Maestro, sepolto nella cripta della Cattedrale di San Giovanni a Malta:

Here lies La Valette.
Worthy of eternal honour,
He who was once the scourge of Africa and Asia,
And the shield of Europe,
Whence he expelled the barbarians by his Holy Arms,
Is the first to be buried in this beloved city,
Whose founder he was.


"Qui giace La Valette.
Meritevole di eterno onore
E' stato il flagello di Africa e Asia,
E lo scudo d'Europa,
Da dove cacciò i barbari con le sue Sante Armi,
Il primo a essere seppellito in questa amata città,
di cui fu fondatore."

http://zweilawyer.com/2016/04/15/lassedio-malta-del-1565-la-fine-le-conseguenze/

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