sabato 17 giugno 2017

Dino Buzzati. I giorni perduti. Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c’era dentro? E cosa sono tutte queste casse? Quello lo guardò e sorrise: Ne ho ancora sul camion, da buttare. Non sai? Sono i giorni. Che giorni? I giorni tuoi. I miei giorni? I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso? Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno. C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella, la sua fidanzata, che se n’andava per sempre. E lui neppure la chiamava.

DINO BUZZATI – IL TEMPO PERENNE DI UN GENIALE VISIONARIO. 

Dino Buzzati. I giorni perduti.
“Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta e caricava la cassa su di un camion. Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all’estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone. Kazirra scese dall’auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel dirupo che era colmo di migliaia e migliaia di altre casse uguali. Si avvicinò all’uomo e gli chiese: Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c’era dentro? E cosa sono tutte queste casse? Quello lo guardò e sorrise: Ne ho ancora sul camion, da buttare. Non sai? Sono i giorni. Che giorni? I giorni tuoi. I miei giorni? I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. 

E adesso? Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. 
Scese giù per la scarpata e ne aprì uno. C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella, la sua fidanzata, che se n’andava per sempre. E lui neppure la chiamava

Ne aprì un secondo e c’era dentro una camera d’ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari. 

Ne aprì un terzo. 
Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk, il fedele mastino, che lo aspettava da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare. 

Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. 

Lo scaricatore stava dritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere. 
– Signore! – gridò Kazirra. – Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. 
La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole. 

Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì nell’aria, e all’istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l’ombra della notte scendeva.”

S’intitola “I giorni perduti” ed è un piccolo, struggente capolavoro di un autore italiano. 
Nel racconto, il tema centrale è quello del ladro. Ma chi è il vero ladro? 
Lo sconosciuto oppure proprio Kazirra, che rubava il suo stesso tempo, quello che avrebbe potuto dedicare alle persone care che avrebbero avuto bisogno della sua vicinanza? 

Dino Buzzati è stato un geniale visionario, un fascinoso affabulatore, un inventivo di primo piano e un poliedrico artista. 

Quando osservo i suoi quadri (che spesso se non sempre hanno figurato sulle sue copertine) colgo la sensata insensatezza del suo mondo, i richiami ai suoi valori cardine, al suo credo artistico. 

È un’immagine insieme scarna e piena, sazia di vita e contenuti, mai doma e piena di quei colori che da soli significano, impregnano il testo. 

Un Franz Kafka ce l’avevamo anche noi qui in Italia, con in più una maggiore predisposizione per l’arte a tutto tondo e un talento smisurato in certe direzioni. 

“I giorni perduti” è un ottimo esempio di come mostrare senza dire, lasciando al lettore la briga (e il piacere) di scoprirlo e dare al racconto un suo particolare significato, una personale interpretazione.




Buzzati nacque nel 1906 a Passo San Pellegrino, nei pressi di Belluno, in una villa cinquecentesca di proprietà della famiglia. I suoi, però, risiedevano a Milano e il capoluogo meneghino divenne il centro dei suoi studi e della sua prima grande passione: il giornalismo. 

I servizi di cronaca di Buzzati, inserito nel 1928 nell’organico del “Corriere della Sera”, divennero in seguito volumi godibilissimi per stile e fedeltà narrativa (notevole è “Cronache Terrestri”, 1972, pubblicato postumo e contenente circa cento articoli di vario genere, un emblema di come il raccontare la realtà possa divenire arte). 

Come fotoreporter, fu corrispondente di guerra ad Addis Abeba (era stato nel 1927 allievo alla Scuola per Ufficiali di Milano, prima di laurearsi nel 1928 in Giurisprudenza, per cui il contesto non gli era proprio alieno) e partecipò, come cronista, alle battaglie di Capo Teulada, Capo Matapan e agli scontri della Sirte; fu anche inviato al Giro d’Italia (nel 1949), e spesso cronista puro, anche di nera (sempre con un suo inconfondibile piglio – come si può leggere nella raccolta “I misteri d’Italia”, 1978).

Le escursioni sulle Dolomiti (cominciate nell’estate del 1920) gli aprirono un mondo che avrebbe poi tramutato in parole (sempre con grande senso poetico) negli scritti successivi. In quel mondo maestoso Buzzati (ma un po’ chiunque ami la montagna come entità) credo vedesse il fascino del surreale, il delicato sussurro del vento, la magia del silenzio e dell’impervio, i suoni, i profumi, il gorgoglio interiore dell’ignoto, l’uomo contro la natura. 

Il bosco, regno di fiaba e timore, mondo arcano. 

E in Dino riaffiora tutto. 
Questo amore si ritrova netto e evidente nel suo primo romanzo, “Bàrnabo delle montagne” (1933) e nel successivo “Il segreto del Bosco Vecchio” (1935, di cui ricordo una maestosa interpretazione di Paolo Villaggio nell’omonima pluripremiata pellicola di Ermanno Olmi), ma anche in misura marginale in altri suoi scritti e in opere destinate a un pubblico non necessariamente adulto, come “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” (1945 – splendide le sue illustrazioni). 

L’amore per la montagna io credo anche abbia stimolato la fantasia già fervida dello scrittore, aiutandolo a sviluppare quella vena surreale che sempre distinse le sue opere da quelle di altri autori del Novecento.

La morte – altro tema ricorrente – affiorò nella vita di Buzzati (perdonate il gioco di parole) quando aveva 14 anni, alla scomparsa del padre per un tumore al pancreas, un male che temette sempre di dover sperimentare di persona e che, infatti, fu la causa della sua morte nel 1972. 

I racconti, certo, sono gran parte della sua produzione. 
Raccolti in più volumi, val la pena di menzionare i “Sessanta racconti” (1958, Premio Strega).
A proposito di racconti, negli anni ‘80 fu pubblicata per la prima volta (e ristampata di recente per “Il Sole 24 ORE”) “Il Reggimento parte all’alba” (1985), un insieme di racconti brevi e brevissimi che hanno per comune filo conduttore la morte.

Buzzati era però anche un amante della vita e aveva le sue passioni. 

Una curiosa stravaganza fu la sua collaborazione col cognato Eppe Ramazzotti nella redazione de “Il libro delle pipe” (1946), un’“… operetta didascalica in chiave di umorismo fantastico…” illustrata in stile ottocentesco.

E ancora, il romanzo grafico, o se volete il graphic novel. Pubblicato nel 1969, “Poema a fumetti” è un capostipite del genere, un emblema del Buzzati visionario, un debutto embrionale del fumetto erotico.

E la magia, il surreale?
E dove puoi trovarne se non ne “La Boutique del Mistero” (1968, in cui sono “Sette piani”, “Il Colombre”, “Il cane che ha visto Dio”, ma anche altri titoli che meritano una lettura profonda, come “Eppure battono alla porta”, “Il crollo della Baliverna”, “Paura alla Scala”), una raccolta di storie brevi che parlano di esseri umani e non, di illusioni e delusioni, di morte e solitudine e di metafisiche condizioni di vita, storie che leggi con fame e sete e ti restano dentro, come solo chi padroneggia la fabula può darti. La magia e il mistero, affrontati con un tono fiabesco, sono il pane che Dino dispensa ai suoi seguaci e che, a distanza di più di quarant’anni, lo fa ancora rimpiangere.

Una menzione vorrei farla a due sue opere poco conosciute.
La prima è “Un amore” (1963). 
Era una delle tante giornate grigie di Milano però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse…”. 

Il romanzo affascina perché atipico, diverso dalla produzione buzzatiana. 
È un monologo interiore di un uomo maturo (l’architetto Antonio Dorigo) che si è invaghito di una giovane prostituta, Laide, di cui avverte ogni differenza sociale e generazionale ma subisce anche il potere della giovinezza, il fascino della fresca bellezza. Dorigo, accecato dall’amore, non accetta le bugie e i vizi della ragazza e pecca di gelosia, di un male possessivo che rischia di condurlo su una strada senza ritorno. Scoprirà solo in seguito che la sua era una pia illusione, un amore utile a colmare la sua vita vuota.

Ma c’è un’altra opera che ho scoperto per caso e mi ha affascinato: 
Il grande ritratto” (1960). Forse è il primo romanzo italiano di genere fantascientifico che si sia svincolato dalla sci-fi di stampo fumettistico o narrativo americano e anglosassone. 
La trama è semplice: in un misterioso centro ricerche tra le montagne, due coniugi sono alle prese con una gigantesca macchina pensante, in grado di simulare i sentimenti e la coscienza umana, seppur inizialmente pensata per scopi militari

Lo scienziato Ermanno e la moglie Elisa scoprono questa meravigliosa creatura che, essendo priva di corpo umano, con mille propaggini e antenne esplora il terreno circostante, esprimendosi in linguaggio matematico che viene percepito come una voce femminile

Il capo del centro ricerche, Endriade, aveva modellato la macchina a somiglianza della moglie morta in un incidente d’auto. Pregi e difetti della donna sono riversati nell’invenzione, ma è il contatto con un corpo vero di donna che risveglia del tutto la coscienza e il dolore della stessa, che si comporterà sempre più come un essere umano

Il grande ritratto” è l’altro romanzo “diverso” di Buzzati; tra quelle righe lo scrittore affrontò il tema dell’intelligenza artificiale – tanto abusato negli anni a venire, il rapporto sentimento/macchina, la sensibilità femminile.

Infine, ma non per minore importanza (gli anglofoni direbbero last but not least), c’è quello che è ritenuto il capolavoro dello scrittore (e con chi lo ritiene tale io mi sento immodestamente d’accordo, tanto da considerarlo uno dei libri più belli che abbia mai letto), “Il deserto dei Tartari” (1940); inizialmente, quando nel 1939 Buzzati consegnò il manoscritto per farlo pervenire a Leo Longanesi che l’avrebbe poi pubblicato nella collezione “Il Sofà delle Muse”, il titolo era “La fortezza”. 

In seguito, pare sia stato lo stesso Longanesi a convincerlo a cambiare il titolo per evitare riferimenti all’imminente scoppio della guerra. A Buzzati, l’idea venne contemplando la propria monotona routine nella redazione, nelle lunghe nottate in cui il lungo tran tran gli parve dover andare avanti per sempre consumandogli l’esistenza. I Tartari menzionati nel titolo, sovente identificati con le popolazioni mongole, sono in realtà un nome evocativo per indicare un generico nemico, infido e nascosto sotto il lenzuolo dell’orizzonte. Dal romanzo è stato tratto un film omonimo, del 1976, ultimo a essere diretto da Valerio Zurlini, e con un cast d’eccezione nel quale spiccano Vittorio Gassman, Philippe Noiret e Max Von Sydow. 

La vicenda, o quantomeno i luoghi, hanno ispirato in seguito altre pellicole. 
La vicenda narra del sottotenente Giovanni Drogo e della sua permanenza nella desolata Fortezza Bastiani, avamposto del Regno verso la desolata pianura chiamata deserto dei Tartari; Drogo è intenzionato a lasciare subito, deluso, il posto di assegnazione. Convintosi ad attendere qualche mese prima di compilare la domanda di trasferimento, il giovane assorbe dentro sé pian piano la malìa del luogo, il rigore della vita militare sugli spalti e sui camminamenti, in attesa di veder comparire all’orizzonte il Nemico. Questo, però, tarda a comparire

A tenere saldo al posto loro Drogo e gli altri commilitoni c’è quindi la speranza di aver l’occasione giusta, di poter ben presto dimostrare il proprio valore con un’azione eroica contro il fantomatico Nemico. E in tale attesa si susseguono i giorni i mesi e gli anni

Quando è ormai troppo tardi, dopo aver inutilmente atteso, finalmente si presenta il momento tanto bramato: il Nemico (non di certo i Tartari, ma l’esercito di uno stato confinante) si ammassa alla frontiera, pronto per scatenare l’assalto al Regno. 

Per Drogo però è troppo tardi, egli è vecchio e malato. Ha fallito così l’obiettivo, ha fallito anche tornando per breve tempo nella società, che vede ormai estranea e in cui non si trova più a suo agio

“Il deserto dei Tartari” è anche e soprattutto un romanzo psicologico. 
Il “Deserto” racconta l’uomo, racconta le sue piccole vittorie e le sue innumerevoli sconfitte. 
Non resta che attendere, con orgoglio, l’arrivo della Morte, avendo la consapevolezza che, da buon soldato, è riuscito a sconfiggere almeno la paura di morire. 

“… No, non pensarci. Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare. La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.”


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