lunedì 19 dicembre 2011

Foucault fu l'unico che realizzò il progetto storico-genealogico propugnato da Friedrich Nietzsche allorché segnalava che, nonostante ogni storicismo, continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e del sesso.

Paul Michel Foucault (Francia 1926-1984) è stato un sociologo, filosofo, psicologo, archeologo dei saperi, saggista letterario, professore al Collège de France, tra i grandi pensatori del XX secolo Foucault fu l'unico che realizzò il progetto storico-genealogico propugnato da Friedrich Nietzsche allorché segnalava che, nonostante ogni storicismo, continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e del sesso.





"L'ordine del discorso" è il testo della lezione inaugurale di Michel Foucault al Collège de France, e costituisce ancor oggi, pur nella sua brevità, un documento di grande importanza per comprendere l'inflessione che il cantiere foucaultiano avrebbe conosciuto a partire dagli anni settanta. In esso, infatti, l'autore pone al centro delle proprie preoccupazioni teoriche, per la prima volta in maniera esplicita, la questione dei rapporti tra discorso, verità e potere, delineando il progetto critico e genealogico che avrebbe sviluppato e approfondito negli anni successivi. Ne "L'ordine del discorso" Foucault analizza in particolare le varie forme in cui in ogni società la produzione del discorso è al tempo stesso controllata e selezionata, in modo da scongiurarne i poteri e i pericoli, e poterlo così padroneggiare. [...]



Lo storicismo di Foucault.
Foucault, con la sua 'Archeologia del sapere' e la sua analisi della Storia a partire da rapporti di potere e di sapere, ha edificato un interessante approccio alla storia dell’uomo e della cultura, in un contesto di dialettico storicismo, per molti versi.
DI ALEX BARONE - L'Intellettuale Dissidente

Michel Foucault è uno di quegli autori il cui pensiero, per essere descritto ed analizzato nella sua profondità, meriterebbe innumerevoli dibattiti e ricerche, data la complessità, e, soprattutto, la vastità dello stesso.
Foucault fu uno tra i più prolifici pensatori della storia della filosofia, che seppe offrire alla ricerca storico-filosofica in generale importanti contributi e disamine dei rapporti di forza e di potere che guidano la storia umana, alternativi rispetto a quelli tradizionali.
Egli ebbe modo di compiere le proprie ricerche metodologiche all’interno dei più rinomati centri accademici d’Europa. I suoi studi abbracciarono innumerevoli ambiti del sapere umano, come quello della psicanalisi, dell’antropologia, della psicologia, della letteratura, della storia, dell’epistemologia, delle scienze politiche, della sociologia, e, soprattutto, della storia delle idee e delle culture umane. Foucault -inserendosi in quel filone filosofico definito strutturalista, sorto a partire dagli Anni sessanta, in rapporto ad alcune linee di pensiero di derivazione marxista e di concezione della Storia, dunque, alla stregua di rapporti di forze e di potere immersi in un contesto umano inteso in un rapporto tra strutture fondanti e sovrastrutture ideologico/culturali- intende i processi storici umani ed i comportamenti umani conseguenti come determinati da precise condizioni socio-culturali del tempo storico nel quale si svolgono.
Foucault, a differenza dei sostenitori di linee di impostazione filosofica del tutto opposte, concepiva l’agire degli uomini, nel corso delle epoche storiche, non secondo logiche di libertà d’auto-determinazione (il soggetto non sarebbe affatto libero e pienamente consapevole nel suo agire etico), ma, rifacendosi indubbiamente agli studi freudiani sull’inconscio umano (ch’ebbero un’influenza decisiva sulla sua formazione generale), ma come un prodotto di un insieme di regole e norme di sapere imposte dal potere in quella determinata epoca storica.
Ogni sapere, ogni analisi storica, dunque, dev’essere autenticamente storicizzata; ogni studio sull’uomo e sulla cultura (alla luce di questa visione), necessita d’essere compresa e sviluppata a partire da quella che è la consapevolezza intorno ai meccanismi di potere e alle strutture ideologico-culturali dei precisi contesti storici umani. Compito del filosofo ed, in particolare, dello storico della cultura (dell’analisi a dei processi culturali del passato), sarà, dunque, quello di conoscere nel profondo i rapporti di potere e le conseguenti influenze dei poteri dominanti sui saperi collettivi delle strutture sociali del passato, raggiungendo, in questo modo, la consapevolezza di quella cosiddetta “episteme” che si pone a fondamento di quella precisa epoca storica e di quel preciso nucleo culturale.
Ecco che, con Foucault, sorge una nuova disciplina storico-filosofico, la cosiddetta “archeologia del sapere”. In questa concezione dell’analisi sulle culture della storia e sulle forme del sapere umano, si nota anche, per alcuni versi, l’influenza genealogista ch’ebbe sulla formazione culturale ed intellettuale di Foucault il Nietzsche della “Genealogia della morale (opera indubbiamente geniale ed anticipatrice, sul piano delle future riflessioni attorno alla storia dell’etica umana e della morale). Per “Archeologia del sapere” (titolo, anche, di un suo celebre saggio), ha da intendersi una nuova disciplina di pensiero volta ad indagare quelle che sono le radici, le matrici originarie che determinano ed hanno determinato la formazione di precise strutturazioni ed impostazioni culturali, il nucleo archetipo (per l’appunto), che ha prodotto, a partire sempre da una lettura storica dei rapporti umani di forza, una precisa forma di sapere.
Foucault, nel corso della sua esistenza, compì importanti analisi attorno agli istituti di sapere storici, anche a quelli a lui contemporanei, soffermandosi, in special modo, sulla riflessione attorno agli istituti coercitivi dei manicomi, sullo sviluppo delle cliniche di igiene mentale ed, in sostanza, attorno all’evolversi della concezione della follia e del ruolo sociale e culturale del cosiddetto “folle” nel corso delle epoche umane.
La ricerca di Foucault, dunque, si sviluppa a partire da una concezione della storia come di un insieme di determinati rapporti di forza e di potere e come un distribuirsi di determinate linee di sapere e, dunque, di ordini culturali, a partire dall’influenza di questo potere sulla formazione interiore dell’uomo. Ecco, in quale senso, l’intera cultura, e tutte le forme del sapere storico, devono essere storicizzate, per essere comprese a partire dal sub-strato di potere che le ha generate, dalla matrice psicologica di quell’epoca. In questo contesto di idee, Foucault, riprendendo sempre alcune riflessioni avanzate da Nietzsche in merito al concetto di “Volontà di potenza”, inserisce le sue ricerche archeologiche in un macrocosmo di dinamiche culturali influenzate da quella ch’egli chiama “Volontà di sapere”, che si connette con il concetto di “Volontà di verità”. Ma l’approccio alla storia della cultura umana in Foucault si imposta su una logica di discontinuità storica, di una storia intesa non come (nell’ottocentesca visione positivista, che fu poi quella, anche, di un certo marxismo) un percorso di sviluppo lineare destinato a completarsi culminando in un preciso momento, ma come un insieme di rapporti di potere, sviluppatisi secondo contingenze umane e nell’ottica di una totale discontinuità di eventi.
In questo senso, il pensiero di Foucault può, per alcuni versi, essere considerato un pensiero di stampo storicista (o, come è stato anche detto, “neo-storicista”), nel senso che la storia dell’uomo e della cultura, essendo relegata a questi limiti contestuali di potere, può essere analizzata e compresa soltanto nell’ottica di una conoscenza storicizzata della forma culturale stessa, di una critica psico-sociale delle dinamiche che hanno contribuito allo sviluppo di quella precisa forma, che non può essere giudicata al di fuori di sé o estrapolata dal suo contesto d’origine. In un certo senso, quello di Foucault può essere concepito come un relativismo storico (nel senso che gli eventi vengono compresi alla stregua delle relative concezioni della vita nelle epoche), ma non può, tuttavia, essere considerato un relativismo in senso assolutistico, ma soltanto un relativismo della ragione, per così dire. Foucault, ritiene che non esistano metri di giudizio assoluti, poiché il metro di giudizio è dato dall’epoca e dal contesto storico preciso, ma tuttavia non nega l’esistenza di componenti, di costanti assolute nei processi di sviluppo della cultura dell’uomo, ovvero rapporti di forza ed istanze di dominio e di volontà. Quello di Foucault, rimane un importante profilo attorno alla concezione dei rapporti dinamici della storia e all’analisi dei principi arcaici che conducono la Cultura e la Storia.



Foucault, nel novembre del 1983 in un suo scritto «Le Débat», distingue una morale indirizzata verso l'etica e una morale, viceversa, indirizzata verso un codice prescrittivi. C'é un passo in cui viene intervistato, in cui gli viene chiesto se allude alla differenza tra la morale greco-romana e quella cristiana. Ecco cosa risponde Foucault, in proposito.
"Con il cristianesimo vediamo instaurarsi lentamente, progressivamente, un cambiamento rispetto alle morali antiche che erano essenzialmente una pratica, uno stile di libertà. Naturalmente c’erano anche certe norme di comportamento che regolavano la condotta di ciascuno. Ma la volontà di essere un soggetto morale, la ricerca di un’etica dell’esistenza, nell’Antichità, erano principalmente uno sforzo per affermare la propria libertà e per dare alla propria vita una certa forma entro la quale ci si potesse riconoscere, si potesse essere riconosciuti dagli altri, e la stessa posterità potesse trovare un esempio. Questa elaborazione della propria vita come opera d’arte personale, anche se obbediva a dei canoni collettivi, nell’Antichità era al centro, mi sembra, dell’esperienza morale, della volontà di morale, mentre nel Cristianesimo, con la religione del testo, l’idea di una volontà di Dio, il principio di una obbedienza, la morale assumeva molto di più la forma di un codice di regole"



L'etica cristiana è basata sull'idea dell'inferno è quindi una moratoria di certi comportamenti che per l'etica cristiana avrebbero condotto al suplizio eterno.
Viceversa il paganesimo non aveva il concetto dell'inferno e quindi la condotta etica morale è libera in quanto non condizionata dalla paura, e non per questo si lasciava libero campo alla bestialità che c'è in noi, perchè dell'etica ne coglieva l'aspetto pragmatico e sociale del vivere qui ed ora.



Forse oggi l'obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare.
Michel Foucault





Mai le guerre sono state più sanguinose che dal XIX secolo in poi e, anche fatte le debite proporzioni, mai i regimi avevano praticato fino a quel momento sulle loro popolazioni simili olocausti. Ma questo formidabile potere di morte si presenta ora come il complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme. Le guerre non si fanno più in nome del sovrano che bisogna difendere; si fanno in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni a uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere. I massacri sono diventati vitali. Come gestori della vita e della sopravvivenza, dei corpi e della razza, tanti regimi hanno potuto condurre tante guerre, facendo uccidere tanti uomini. E attraverso un capovolgimento che permette di chiudere il cerchio, più la tecnologia delle guerre le ha fatte volgere alla distruzione esaustiva, più nei fatti la decisioni che le apre e quella che le chiude si subordinano alla pura questione della sopravvivenza. […] Se il genocidio è il sogno dei poteri moderni, non è per una riattivazione del vecchio diritto di uccidere; è perché il potere si colloca e si esercita a livello della vita, della specie, della razza e dei fenomeni massicci di popolazione.
Michel Foucault, La volontà di sapere






Lezioni sulla volontà di sapere è la trascrizione del primo anno dei corsi di Michel Foucault al Collège de France e la loro pubblicazione segna una svolta nella "recezione" del suo pensiero. Non si potrà più leggerlo come prima. Si scopre qui la profonda unità del progetto che va da Sorvegliare e punire, del 1975, dominato dai temi del potere e della norma, a L'uso dei piaceri e La cura di sé, del 1984, consacrati all'etica della soggettività. Queste lezioni ricordano che il lavoro di Foucault non ha mai avuto che un oggetto: la verità. La verità nasce nei conflitti, nella concorrenza delle pretese che trovano nei rituali del giudizio in tribunale la possibilità di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Nella Grecia antica si succedono e si confrontano differenti forme giuridiche, differenti maniere di distinguere il vero dal falso, nelle quali si inseriranno ben presto le contese dei sofisti e dei filosofi. Sofocle, nell'Edipo re, mette in scena la potenza propria delle forme del dire il vero, le quali istituiscono il potere come lo destituiscono. Contro Freud, che farà dell'Edipo il dramma dell'inconfessabile desiderio sessuale, Michel Foucault dimostra che la tragedia articola i rapporti tra la verità, il potere e il diritto. La storia della verità è quella della tragedia. Al di là dell'irenismo di Aristotele che poneva la volontà di verità nel desiderio di conoscenza. Seguito da Il sapere di Edipo.



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Michel Foucault, L’isterizzazione della donna.
“ Ad un primo sguardo, mi sembra che a partire dal XVIII secolo si possano distinguere quattro grandi insiemi strategici, che sviluppano a proposito del sesso dispositivi specifici di sapere e di potere. Non sono nati d’un sol tratto in quel momento; ma è allora che hanno preso una coerenza, hanno conseguito nell’ordine del potere un’efficacia e nell’ordine del sapere una produttività che consentono di descriverli nella loro relativa autonomia.
‹Isterizzazione del corpo della donna›: triplice processo con il quale il corpo della donna è stato analizzato — qualificato e squalificato — come corpo integralmente saturo di sessualità; con il quale questo corpo è stato integrato, per effetto di una patologia che gli sarebbe intrinseca, al campo delle pratiche mediche; con il quale infine è stato messo in comunicazione organica con il corpo sociale (di cui deve assicurare la fecondità regolata), lo spazio familiare (di cui deve essere un elemento essenziale e funzionale) e la vita dei figli (che produce e che deve garantire grazie ad una responsabilità biologico-morale che dura per tutto il periodo dell’educazione): la Madre, con la sua immagine in negativo che è la «donna nervosa», costituisce la forma più visibile di questa isterizzazione.”
MICHEL FOUCAULT (1926 – 1984), “La volontà di sapere” – “Storia della sessualità” 1, traduzione di Pasquale Pasquini e Giovanni Procacci, Feltrinelli, Milano 2004 (X ed. «Universale Economica», I ed. 1978), IV. ‘Il dispositivo di sessualità’, 3. ‘Campo’, p. 92.
“En première approche, il semble qu’on puisse distinguer, à partir du XVIIIᵉ siècle , quatre grands ensembles stratégiques, qui développent à propos du sexe des dispositifs spécifiques de savoir et de pouvoir. Ils ne sont pas nés tout d’une pièce à ce moment là; mais ils ont pris alors une cohérence, ils ont atteint dans l’ordre du pouvoir une efficacité, dans l’ordre du savoir une productivité qui permettent de les décrire dans leur relative autonomie.
‹Hystérisation du corps de lafemme›: triple processus par lequel le corps de la femme a été analysé qualifié et disqualifié comme corps intégralement saturé de sexualité; par lequel ce corps a été intégré, sous l’effet d’une pathologie qui lui serait intrinsèque, au champ des pratiques médicales; par lequel enfin il a été mis en communication organique avec le corps social (dont il doit assurer la fécondité réglée ), l’espace familial (dont il doit être un élément substantiel et fonctionnel) et la vie des enfants (qu’il produit et qu’il doit garantir, par une responsabilité biologico-morale qui dure tout au long de l’éducation): la Mère, avec son image en négatif qui est la «femme nerveuse», constitue la forme la plus visible de cette hystérisation.”
MICHEL FOUCAULT, “La volonté de savoir” – “Histoire de la sexualité” 1, Gallimard, Paris 1976 (I éd.), ‘Le dispositif de sexualité’, 3 ‘Domaine’, p. 137.


La parrēsia è, in poche parole, il coraggio della verità di colui che parla e si assume il rischio di esprimere, malgrado tutto, l’intera verità che ha in mente; ma è anche il coraggio dell’interlocutore che accetta di accogliere come vera la verità oltraggiosa da lui sentita.
Michel Focault



Bruna Valotta:
"La caratteristica della parresia è data dall'assimetricita'.
Chi la pratica occupa una posizione subordinata. Non ha alcun potere, per questo corre un rischio.
Socrate ha scelto di morire per non piegarsi alla tirannide.
E quindi in questo senso si può dire che  è un esempio di come bisognerebbe vivere in accordo con la verità che si dice e che si pensa".


Non sono un profeta. Il mio compito è quello di creare delle finestre dove prima vi erano dei muri.
Michel Foucault


"Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. [...] Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? Il controllo farmacologico preciso di tutti i sintomi psichici? [...] I progressi della medicina potranno far scomparire completamente 'la malattia mentale', come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravviverà, e cioè il rapporto tra l'uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l'oscura appartenenza dell'uomo alla follia sarà la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia, ma irriducibile come dolore."
Michel Focault, "Storia della follia nell'età classica"



Michel Foucault dopo un internato di psicologia all’ospedale Sainte-Anne di Parigi tra il 1952 e il 1954 così raccontò il vissuto di quella che fu per lui un esperienza angosciante: "A quell’epoca la professione di psicologo negli ospedali psichiatrici non esisteva affatto o cominciava appena a essere disegnata, almeno in Francia. Io ero stato reclutato vagamente come psicologo, infatti non avevo niente da fare e nessuno sapeva cosa farmi fare. Così sono rimasto due anni in tirocinio, tollerato dai medici, ma senza impiego. Di modo che ho potuto circolare alla frontiera tra il mondo dei medici e il mondo dei malati. Non avendo certamente il privilegio dei medici, né la triste sorte dei malati. I rapporti tra medici e malati,le forme istituzionali, almeno negli ospedali psichiatrici, mi hanno stupefatto e sorpreso fino all’angoscia".
Michel Foucault



"Storicamente, il processo con cui la borghesia divenne nel corso del XVIII secolo la classe politicamente dominante viene mascherato con l'istituzione di una cornice giuridica esplicita, codificata e formalmente egualitaria, resa possibile dall'organizzazione di un regime rappresentativo parlamentare. Ma lo sviluppo e la generalizzazione di meccanismi disciplinari costituirono l'altro lato - quello buio - di tali processi. La forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti, egualitari in linea di principio, era sorretta da questi minuscoli, quotidiani, fisici meccanismi, da tutti questi sistemi di micro-potere - essenzialmente non-egualitari ed asimmetrici - che noi chiamiamo discipline."
Michel Foucault



"Il bambino è più individualizzato dell'adulto, il malato più dell'uomo sano, il pazzo e il delinquente più del normale e del non delinquente. È verso i primi, in ogni caso, che si rivolgono i meccanismo individualizzanti; e quando si vuole individualizzare l'adulto sano, normale, legalitario è sempre chiedendogli ciò che c'è ancora in lui del bambino, da quale segreta follia egli è abitato, quale crimine fondamentale ha voluto commettere. Tutte le scienze, analisi o pratiche con radice 'psico' trovano posto in questo rovesciamento storico dei procedimenti di individualizzazione."
Michel Foucault, Sorvegliare e punire


Si imprigiona chi ruba, si imprigiona chi violenta, si imprigiona anche chi uccide. Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni? Forse una vecchia eredità delle segrete medievali? Una nuova tecnologia, piuttosto: la messa a punto, tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo, di tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili nello stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell'esercito, nelle scuole, nei collegi, nelle fabbriche: la disciplina. Il Diciottesimo secolo ha senza dubbio inventato la libertà, ma ha dato loro una base profonda e solida, la società disciplinare, da cui dipendiamo ancora oggi.
Michel Foucault, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione"

Questa necessità di castigo senza supplizio viene formulata dapprincipio come un grido del cuore o della natura indignata: nel peggiore degli assassini, una cosa almeno deve essere rispettata quando si punisce: la sua «umanità». Verrà un giorno, nel secolo Diciannovesimo, in cui quest'«uomo», scoperto nel criminale, diverrà il bersaglio dell'intervento penale, l'oggetto ch'esso pretende di correggere e di trasformare, il campo di tutta una serie di scienze e di pratiche specifiche - «penitenziarie», «criminologiche». Ma in quest'epoca dei Lumi non è come tema di un sapere positivo che l'uomo viene opposto alla barbarie dei supplizi, ma come limite al diritto: frontiera legittima del potere di punire. Non ciò che il potere deve colpire se vuole modificare l'uomo, ma ciò che deve lasciare intatto per essere in grado di rispettarlo. "Noli me tangere". Questo segna un punto d'arresto alla vendetta del sovrano. L'«uomo» che i riformatori hanno eretto contro il dispotismo del patibolo è anch'esso un uomo-misura: non delle cose, tuttavia, ma del potere. Problema, dunque: come quest'uomo-limite è stato opposto alla pratica tradizionale dei supplizi? In qual modo è divenuto la grande giustificazione morale del movimento di riforma? Perché quest'orrore così unanime per i supplizi ed una tale insistenza lirica per castighi che sarebbero «umani»? Oppure, ed è la stessa cosa, come si articolano l'uno sull'altro, in una strategia unica, questi due elementi presenti ovunque nella rivendicazione di una penalità addolcita: «misura» e «umanità»? Elementi così necessari e tuttavia così incerti quali sono, così fluidi, e ancora associati nella medesima incerta relazione, che ritroviamo ancor oggi quando si pone di nuovo, e sempre, il problema dell'economia dei castighi? Tutto si svolge come se il secolo Diciottesimo avesse aperto la crisi di questa economia, proposto per risolverla la legge fondamentale che il castigo deve avere l'«umanità» come «misura», senza per altro aver potuto dare un senso definitivo a questo principio, considerato tuttavia come inaggirabile. Bisogna dunque raccontare la nascita e la prima storia di questa enigmatica «dolcezza».
Michel Foucault, Sorvegliare e punire



"Molti dei procedimenti disciplinari esistevano da lungo tempo – nei conventi, negli eserciti, nelle manifatture anche. Ma le discipline divennero nel corso del secolo Diciassettesimo e Diciottesimo formule generali di dominazione. Diverse dalla schiavitù poiché non si fondano su un rapporto di appropriazione dei corpi; è la stessa eleganza della disciplina a dispensarla da quel rapporto costoso e violento, ottenendo effetti di utilità almeno altrettanto grandi. Diverse anche dalla domesticità, che è un rapporto di dominazione costante, globale, massiccio, non analitico, illimitato e stabilito sotto la forma della volontà singola del padrone, del suo «capriccio». Diverse dal vassallaggio che è un rapporto di sottomissione altamente codificato, ma lontano, e che verte meno sulle operazioni del corpo che non sui prodotti del lavoro e sugli emblemi rituali della sottomissione. Diverse anche dall’ascetismo e dalle «discipline» di tipo monastico, che hanno la funzione di assicurare delle rinunce piuttosto che delle maggiorazioni di utilità e che, se implicano l’obbedienza ad altri, hanno come fine principale un aumento della signoria di ogni individuo sul proprio corpo. Il momento storico delle discipline, è il momento in cui nasce un’arte del corpo umano, che non mira solamente all’accrescersi delle sue abilità, e neppure all’appesantirsi della sua soggezione, ma alla formazione d’un rapporto che, nello stesso meccanismo, lo rende tanto più obbediente quanto più è utile, e inversamente. Prende forma allora, una politica di coercizioni che sono un lavoro sul corpo, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi comportamenti. Il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone."
Michel Foucault, Sorvegliare e punire



Mai la psicologia potrà dire sulla follia la verità,
perchè è la follia che detiene la verità della psicologia. 
Michel Foucault



Più si aumenterà il numero delle divisioni delle produzioni naturali, più ci si avvicinerà al vero, giacché NON ESISTONO REALMENTE NELLA NATURA SE NON INDIVIDUI, E POICHÉ I GENERI, GLI ORDINI, LE CLASSI, NON ESISTONO SE NON NELLA NOSTRA IMMAGINAZIONE, LE NOSTRE DISTRIBUZIONI IN SPECIE E CLASSI «SONO PIENAMENTE NOMINALI» non rappresentano altro CHE «MEZZI RELATIVI AI NOSTRI BISOGNI E AI LIMITI DELLE NOSTRE CONOSCENZE». Il solo continuo può garantire che la natura si ripeta e che la struttura possa, conseguentemente, divenire carattere.
Michel Foucault

LA SCRITTURA è ciò che permette di SPINGERSI SEMPRE PIU' OLTRE LE FRONTIERE DELL'IMMAGINAZIONE. IL PRINCIPIO DI REALTA' o, piuttosto, la scrittura è ciò che A FORZA DI SPINTE SUCCESSIVE sposta il momento della conoscenza oltre l'immaginazione. La scrittura è ciò che FORZA A FAR LAVORARE L'IMMAGINAZIONE, introducendo un ritardo nel momento in cui IL REALE finalmente SI SOSTITUIRA' AL PRINCIPIO DI REALTA'. LA SCRITTURA SPINGE LA REALTA' FINO A DIVENIRE IRREALE QUANTO L'IMMAGINAZIONE. LA SCRITTURA – ecco la sua prima funzione – ABOLISCE LE FRONTIERE TRA REALTA' E IMMAGINAZIONE. La scrittura esclude la realtà, ecco quindi che cancella tutti i limiti dell´immaginario.
Michel Foucault





Le lezioni tenute al Collège de France tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974 sono sorprendentemente attuali. Siamo negli anni caldi del dibattito antipsichiatrico, della rivoluzione manicomiale di Franco Basaglia e degli esperimenti di Thomas Szasz, di David Cooper e della londinese Kingsley Hall, uno dei primissimi centri di accoglienza non segregativi. Foucault riprende il tema della Storia della follia, in cui aveva ricostruito la genealogia del manicomio e del potere medico-psichiatrico come conseguenza dei progressi del sapere scientifico. Ma ora è più interessato alle strategie, alle azioni, agli stratagemmi, ai rituali che hanno permesso agli psichiatri di assumere il controllo dei corpi. Il modello adottato è quello della guerra: nell’uso degli strumenti di contenzione o delle docce gelate Foucault riconosce non l’inizio per quanto brutale di una presa in carico medica, bensì la messa a punto di una serie di tattiche di assoggettamento dell’altro, tecniche di potere di cui l’ospedale psichiatrico è solo un laboratorio privilegiato. Ciò che vale oggi per i folli varrà domani per i delinquenti, per gli irriducibili alla disciplina scolastica e per tutti coloro che l’organizzazione disciplinare del sociale bolla come suoi "residui". La progressiva psicologizzazione e normalizzazione della nostra vita odierna appare come l’epilogo drammatico di questo progressivo estendersi a tutti gli aspetti dell’esistenza delle tecniche di controllo nate per "trattare" la follia. E la crisi che attraversa oggi il mondo "psy" può essere letta come l’inessenzialità di una professione quando questa è giunta a permeare di sé la società intera.



[...] rinchiuso nella nave, da cui non si sfugge, il pazzo è affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza aperta a tutto. È prigioniero nel mezzo della più libera, più aperta delle strade: saldamente incatenato all'infinito incrocio.
Michel Foucault, storia della follia nell'età classica (1961)


Michel Foucault, La grande follia del mare.
Prigioniero nella nave da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto. Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all'infinito crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli. È questo il rituale che, a causa di questi valori, è all'origine della lunga parentela immaginaria che si può constatare lungo tutta la cultura occidentale? O, al contrario, è questa parentela che dal fondo dei tempi ha evocato e poi fissato il rito dell’imbarco? Una cosa almeno è certa: l’acqua e la follia sono legate per lungo tempo nei sogni dell’uomo europeo.
Già Tristano, travestito da pazzo, si era un tempo lasciato gettare da alcuni battellieri sulla costa di Cornovaglia. E quando si presenta al castello del re Marco, nessuno lo riconosce, nessuno sa da dove venga. Ma fa troppi discorsi strani, familiari e lontani; conosce troppo i segreti di ciò che è ben noto, per non essere di un altro mondo, molto vicino. Non viene dalla terra solida, con le sue solide città; ma dall'incessante inquietudine del mare, da quelle strade sconosciute che nascondono tanti saperi strani, da quella pianura fantastica, rovescio del mondo. Isotta, per prima, sa bene che quel pazzo è figlio del mare, e che è stato gettato lì, come segno di sciagura, da insolenti marinai: «Maledetti siano i marinai che hanno condotto questo folle! Perché non l’hanno gettato in mare!». E più volte nel corso dei tempi riappare lo stesso tema: nei mistici del XV secolo è diventato il motivo dell’anima-navicella, abbandonata sul mare infinito dei desideri, nel campo sterile delle preoccupazioni e dell’ignoranza, tra i falsi riflessi del sapere, nel bel mezzo della follia del mondo-navicella in preda alla grande follia del mare, se non sa gettare l’ancora solida, la fede, o tendere le sue vele spirituali perché il soffio di Dio la conduca in porto. Alla fine del XVI secolo, De Lancre* vede nel mare l’origine della vocazione demoniaca di tutto un popolo: la fatica incerta dei naviganti, l’affidarsi unicamente agli astri, i segreti tramandati, l’assenza di donne, infine l’immagine di quella grande distesa agitata, fanno perdere all'uomo la fede in Dio e tutti i solidi legami con la patria; egli allora si abbandona al diavolo e all'oceano delle sue astuzie. Nell'epoca classica si spiega volentieri la malinconia inglese con l’influsso di un clima marino: il freddo, l’umidità, l’instabilità del tempo, tutte quelle goccioline d’acqua che penetrano i vasi e le fibre del corpo umano e gli fanno perdere la sua solidità, predispongono alla follia.”
* [Pierre de Rosteguy de Lancre (1553 – 1631), magistrato e inquisitore]
MICHEL FOUCAULT (1926 – 1984), “Storia della follia nell’età classica” (1972), traduzione di Franco Ferrucci, prefazione e appendici tradotte da Emilio Lorenzi e Vittore Vezzoli, Rizzoli, Milano 1992 (III ed., I ed. 1976), Parte prima, I ‘‹Stultifera navis›’, pp. 19 – 20.



Gabriella Ponti
Il testo è notevole, la storia della follia. 
Il brano della stultifera navis uno dei più rappresentativi di come il folle fosse affidato al mare e al suo destino. Un grande scienziato sociale Foucault ma un uomo cattivo



"Scacco alla ragione il paradosso antico della nave dei folli
Alla fine del Medioevo la lebbra si ritira dall'Occidente dopo aver rappresentato per secoli il simbolo più scabroso del Male. Il personaggio del lebbroso come emblema dell'esclusione viene sostituito da quello del folle.

Con questa osservazione storica inizia la celebre Storia della follia nell'età classica di Michel Foucault. È in questo passaggio dalla lebbra alla follia che prende corpo la figura letteraria e leggendaria della Stultifera navis che, come ricorda Foucault, «ha ossessionato l'immaginazione di tutto il primo Rinascimento». Si tratta di uno strano battello costipato di folli che naviga senza una meta lungo i fiumi e del quale il fiammingo Bosch ha offerto una straordinaria raffigurazione alla fine del Quattrocento nel suo Nef des Fous.
Qui la follia esprime l'ombra che accompagna la vita umana e dal cui spettro essa vorrebbe liberarsi. La sua dimensione tragica incarna ambiguamente l'orrore e la fascinazione per l'ignoto, l'oscuro, il Male, la Morte, l'eccesso, tutto ciò, insomma, che costituisce il limite della ragione diurna. È quello che simboleggia la strana imbarcazione della Stultifera navis: l'esclusione prende le forme di un allontanamento non solo territoriale- dalla terra ferma al mare -, ma soprattutto mentale dall'ordine della città.
Destinata a vagare senza meta sulle acque, la follia viene isolata e segregata.
Non appartiene all'umano ma è una forma subumana del Male totalmente estranea al regno terso della Ragione. Come ricordano già Diderot e D'Alembert nella loro Enciclopedia, i deliranti sono coloro che, etimologicamente, escono dal solco normale della Ragione. Sono i devianti, gli spettri, i mostri, i degenerati, gli anormali destinati all'erranza perpetua. Il folle è un randagio, senza casa, senza radici, senza identità, espulso, come accadde per il lebbroso, dalla Comunità degli umani.
Il gesto violento che li scaccia dalla vita della polis definisce retroattivamente la natura immunitaria della Comunità dei normali. Il folle è infatti considerato un tabù, un corpo estraneo che deve essere spurgato, allontanato, escluso. I marinai diventano allora i loro custodi: essere stivati nella Stultifera navis e abbandonati sulle acque manifesta l'esigenza di un rituale simbolico di purificazione ma anche un imprigionamento senza alcuna possibilità di redenzione. La libertà di una navigazione senza rotta è, in realtà, una schiavitù impossibile da riscattare. Non siamo ancora al tempo dell'internamento medico-psichiatrico dei folli. La Stultifera navis non è un ospedale, non è un dispositivo ordinato, non è ancora il risultato di una pratica programmatica di segregazione. È piuttosto il tentativo di una cancellazione della follia da ogni diritto di cittadinanza.
In questo senso, come fa notare Foucault, l'esperienza della follia continua silenziosamente quella della lebbra poiché ciò che si cerca di cancellare è innanzitutto l'esperienza stessa della Morte come esperienza che la Ragione può governareFoucault vede nel «Cogito ergo sum» di Cartesio l'origine di quella distinzione inflessibile tra normalità e follia che prepara l'istituzionalizzazione segregativa del folle. L'esercizio della Ragione escluderebbe, infatti, per principio la possibilità della follia.

La Ragione — diversamente da quello che Freud mostrerà — non può ospitare nel suo seno la follia senza contraddirsi. La Ragione è misura, ordine, discriminazione delle differenze, capacità di giudizio, discernimento, sensatezza. La follia viene, dunque, esiliata dal pensiero prima ancora che dalla città: «Se l'uomo può sempre essere folle — scrive Foucualt — il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto, non può essere insensato». Il pensiero non può ospitare il suo contrario; il pensiero non può essere insensato.

La fondazione della Ragione avviene dunque sulla esclusione della sua ombra.
La Ragione deve essere resa immune dal morbo della follia. Per questo la sua fondazione coincide con l'attivazione di procedure materiali di esclusione. Il tempo mitico della Stultifera navis che viaggia nella sua solitudine disperata all'aperto, lontana dalle mura della città, è destinata a lasciare il posto nel corso del XVI secolo all'edificazione delle prime grandi case di internamento che non a caso spesso sfruttano il sostegno delle mura degli antichi lebbrosari.

La Ragione può guadagnare la propria identità solo sul fondamento dell'espulsione- recinzione-segregazione dell'alterità del folle: confinare il tabù della sragione è l'atto politico fondamentale sul quale si fonda il regno della Ragione.

In questa nuova prospettiva, secondo Foucault, la follia è destinata a smarrire ogni sua dimensione tragica per essere ridotta, come accadrà da lì a breve, a mera malattia del cervello. La sua segregazione istituzionale, come ha indicato con forza Franco Basaglia, avviene sul principio della sua disumanizzazione di fondo. Ma, come la psicoanalisi insegna, ogni politica di esclusione dell'Altro è destinata a vedere ritornare all'interno quello che viene rigettato ferocemente all'esterno. E' la lezione tragica del Novecento: la Ragione che nel nome della difesa della sua purezza emargina la follia è la stessa che si rivela folle proprio in questa sua spinta auto-affermativa. Tutte le politiche puriste e fondamentaliste di anti contaminazione portano in se stesse il germe della follia più grande.
La libertà di una rotta marina senza bussola è, in realtà, una schiavitù impossibile da riscattare.
Il successivo passo sarà l'internamento medico-psichiatrico"
Repubblica-Massimo Recalcati-29 maggio 2016

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Dibattito tra Michel Foucault e Noam Chomsky sul ruolo delle istituzioni nella gestione del potere politico e sul rapporto tra l'analisi della società odierna e le proposte per il rinnovamento sociale futuro.
PARTE I
http://youtu.be/8dgtXCTmAoI





"Quali sono le strutture di pensiero e la razionalità che fondano il sistema punitivo?
Quali sono i postulati logici che è necessario riesaminare se si vuole trasformare il rapporto infrazione-pena? In questa intervista, rilasciata alla fine del 1983, Michel Foucault (1926-1984) analizza l'evoluzione del sistema penale occidentale nell'età moderna e il modello culturale che fonda l'idea di pena. Foucault, saggista e storico della cultura, è stato professore al Collége de France, e ha pubblicato numerose opere, tra cui: Sorvegliare e punire (1976), La nascita della clinica (1969), Le parole e le cose (1967), Storia della follia (1963).
Il suo libro, Sorvegliare e punire, è piombato come una meteora sul campo di studio di penalisti e di criminologi. Proponendo un'analisi del sistema penale nella prospettiva della tattica politica e della tecnologia del potere, l'opera ha portato scompiglio tra le tradizionali concezioni sulla delinquenza e sulla funzione sociale della pena. Ha turbato i giudici repressivi, per lo meno quelli che s'interrogano sul senso del loro lavoro. Ha scosso un buon numero di criminologi che però non hanno affatto gradito che le loro teorie fossero definite chiacchiere. Sempre più rari sono oggi i libri di criminologia che si riferiscono a Sorvegliare e punire come a un'opera propriamente inaggirabile.
Tuttavia il sistema penale non cambia e la «chiacchiera criminologica» prosegue immancabilmente. È come se si rendesse omaggio al teorico dell'epistemologia giuridico-penale senza poterne trarre insegnamenti, come se teoria e pratica fossero separate da una paratia stagna. Senza dubbio la sua intenzione non è stata quella di fare opera di riforma, ma non si potrebbe immaginare una politica contro il crimine che si basi sulle analisi e tenti di trarne alcune lezioni?
Bisognerebbe forse preliminarmente precisare che cosa mi sono proposto di fare con questo libro. Non ho voluto fare direttamente opera critica, se si intende per critica la denuncia delle disfunzioni dell'attuale sistema penale. Né ho voluto fare una storia delle istituzioni; nel senso che non ho voluto raccontare come funzionava l'istituzione penale e carceraria nel corso del diciannovesimo secolo. Ho tentato di porre un problema diverso: scoprire il sistema di pensiero, la forma di razionalità che, dalla fine del diciottesimo secolo, sottostà all'idea che la prigione è, in definitiva, lo strumento migliore, uno dei più efficaci e dei più razionali per punire le infrazioni in una società. È evidente che nel fare ciò mi sono preoccupato di come si potrebbe agire ora. Infatti mi sembra che opponendo, come si fa tradizionalmente, riformismo e rivoluzione, non ci si dota dei mezzi per pensare che cosa possa dar luogo a una reale, profonda e radicale trasformazione.
Molto spesso, nelle riforme del sistema penale, si accetta implicitamente e talvolta anche esplicitamente, il sistema di razionalità che era stato definito e messo in pratica nel passato. E che si cerchi semplicemente di sapere quali siano le istituzioni e le procedure che consentano di realizzarne il progetto e raggiungerne i fini. Mettendo in risalto il sistema di razionalità sottostante le pratiche punitive, ho voluto indicare quali fossero i postulati logici che bisognava riesaminare se si voleva trasformare il sistema penale. Non dico che bisognasse necessariamente liberarsene. Ma credo che sia molto importante, quando si vuole fare opera di trasformazione e di rinnovamento, sapere non solo che cosa sono le istituzioni e quali sono i loro effetti reali, ma anche qual è il tipo di pensiero che li supporta: che cosa si può ancora accettare di questo sistema di razionalità? Quali aspetti bisogna invece accantonare, abbandonare, trasformare? Ho cercato di fare la stessa cosa con la storia delle istituzioni psichiatriche. E in realtà sono rimasto un po' sorpreso e un tantino deluso nel constatare che da tutto ciò non derivasse un tentativo di riflessione e di elaborazione teorica che avrebbe potuto riunire attorno allo stesso problema persone molto diverse tra loro, magistrati, teorici del diritto penale, esperti dell'istituzione penitenziaria, avvocati, assistenti sociali o comunque persone che hanno esperienza del carcere.
E vero, da questo punto di vista, per motivi di ordine culturale e sociale, gli anni settanta sono stati estremamente deludenti. Molte critiche sono state lanciate un po' in tutte le direzioni. Spesso queste idee hanno avuto una certa diffusione, talvolta hanno esercitato una certa influenza. Ma raramente si è avuta una cristallizzazione delle questioni poste in un lavoro collettivo per determinare quali fossero le trasformazioni da attuare. Ad ogni modo, per quanto mi riguarda nonostante il mio desiderio, non mi è mai stata offerta la possibilità di avere nessun contatto di lavoro con un professore di diritto penale, un magistrato, né un partito politico. Lo stesso partito socialista, fondato nel 1972, che ha avuto nove anni per preparare la sua ascesa al potere e che fino a un certo punto ha riecheggiato nei suoi discorsi parecchi temi sviluppati nel corso degli anni sessanta-settanta ha mai fatto un serio tentativo per definire preliminarmente quale avrebbe potuto essere la sua azione reale una volta al potere. Sembra che le istituzioni, i gruppi, i partiti politici che avrebbero potuto dar avvio a un lavoro di riflessione non abbiano fatto niente.
Si ha l'impressione che il sistema concettuale non sia per niente cambiato. Nonostante i giuristi, gli psichiatri riconoscano la pertinenza e le novità delle sue analisi, si scontrano, a quanto pare, con l'impossibilità di tradurli sul piano pratico, sul piano della ricerca di ciò che si definisce con un termine ambiguo «politica criminale».
Qui si pone un problema che in effetti è molto importante e complesso. Appartengo a una generazione di persone che ha visto crollare una dopo l'altra la maggior parte delle utopie che erano state costruite nel diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo secolo, e che hanno visto quali effetti perversi e talvolta disastrosi potevano produrre i progetti dalle intenzioni più generose. Non ho mai voluto assumere il ruolo dell'intellettuale profeta che predica alle persone ciò che devono fare e prescrivere loro le strutture di pensiero, gli obiettivi e i mezzi che ha desunto dalla sua testa, lavorando chiuso in una stanza, tra i libri. Mi è sembrato che il lavoro di un intellettuale, di quello che io definisco un intellettuale specifico, consista nel tentare di delineare, nel loro potere vincolante ma anche nella contingenza della loro formazione storica, i sistemi di potere che ci sono diventati ora familiari, che ci sembrano chiari e che compenetrano le nostre percezioni, i nostri comportamenti. Bisogna inoltre lavorare insieme a degli esperti non solo per modificare le istituzioni e le procedure d'azione, ma anche per rielaborare le forme di pensiero.
Ciò che ha definito «chiacchiera criminologica» (definizione che è stata senza dubbio fraintesa) indica quindi il fatto di non mettere in discussione il sistema di pensiero entro il quale sono state condotte, per un secolo e mezzo, tutte queste analisi?
Sì, proprio questo. Forse ho usato una parola un po' disinvolta. Quindi cancelliamola. Ma ho l'impressione che le difficoltà e le contraddizioni che la pratica penale ha incontrato nel corso degli ultimi due secoli non sono mai state riesaminate a fondo. E da ormai centocinquanta anni, vengono ripetuti sempre gli stessi concetti, gli stessi temi, le stesse accuse, le stesse critiche, le stesse esigenze, come se niente fosse cambiato, e in effetti, in un certo senso, niente è cambiato. A partire dal momento in cui un'istituzione che presenta tanti inconvenienti, che solleva tante critiche, dà solo luogo alla ripetizione indefinita degli stessi discorsi, la «chiacchiera» è un sintomo serio.
In Sorvegliare e punire, lei analizza quella strategia che consiste nel trasformare alcuni illegalismi in delinquenza, rendendo l'apparente fallimento del carcere un successo. È come se un certo gruppo utilizzasse più o meno coscientemente questo strumento per produrre degli effetti non dichiarati. Si ha l'impressione, forse falsa, che vi sia in tutto questo l'astuzia del potere che sovverte i progetti, elude i discorsi dei riformatori umanisti. Da questo punto di vista, c'è una certa similitudine tra le sue analisi e il modello d'interpretazione marxista della storia (mi riferisco alle pagine nelle quali mostra come un certo tipo d'illegalismo venga particolarmente represso mentre altri sono tollerati). Ma non si capisce chiaramente, a differenza del marxismo, quale gruppo o quale classe, quali interessi siano in azione in questa strategia.
Nell'analisi di un'istituzione bisogna distinguere varie cose. In primo luogo quella che si potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè gli obiettivi che si prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi obiettivi: in definitiva, il programma dell'istituzione così come è stato definito. In secondo luogo, gli effetti. Solo molto raramente gli effetti coincidono con il fine: così, l'obiettivo del carcere-correzione, il carcere come strumento di riparazione all'errore commesso dall'individuo, non è stato raggiunto.
L'effetto è stato invece contrario e la prigione ha piuttosto rinnovato i comportamenti di delinquenza. Quando l'effetto non coincide con il fine, si hanno parecchie possibilità: o si attua una riforma o si utilizzano questi effetti per un qualcosa che non era stato previsto all'inizio ma che può benissimo avere un senso e un'utilità. Questo qualcosa potremmo chiamarlo l'uso: così la prigione che non ha avuto effetti correttivi, è invece servita come meccanismo di eliminazione. Il quarto livello di analisi è costituito da quelle che potremmo definire configurazioni strategiche: a partire da questi usi in un certo senso imprevisti, nuovi ma nonostante tutto, fino ad un certo grado volontari, si possono costruire nuove condotte razionali, diverse da quelle del programma iniziale, ma che rispondono pur esse a degli obiettivi e nell'ambito delle quali possono collocarsi i giochi tra i diversi gruppi sociali.
Effetti che si trasformano a loro volta in fini...
Proprio così. Sono effetti che vengono inseriti in differenti usi e questi usi vengono razionalizzati o comunque organizzati in funzione di nuovi fini.
Ma tutto non è premeditato, non c'è alla base un progetto machiavellico occulto?
Assolutamente no. Non c'è un soggetto o un gruppo che sia titolare di questa strategia, ma a partire da effetti diversi dai fini originari e dall'utilizzabilità di questi effetti, si costruiscono un certo numero di strategie.
Strategie le cui finalità a loro volta sfuggono in parte coloro che le elaborano...
Sì. Talvolta queste strategie sono completamente consce: il modo in cui la polizia utilizza il carcere è più o meno conscio. Semplicemente, in generale non vengono formulate. A differenza del programma.
Il programma primo dell'istituzione, la finalità iniziale è invece manifesta e funge da giustificazione, mentre le configurazioni strategiche non sono chiare nemmeno agli occhi di coloro che vi occupano un posto e vi svolgono un ruolo. Ma questo gioco può benissimo cristallizzare un'istituzione e credo che il carcere sia stato cristallizzato, nonostante tutte le critiche mossegli, perché parecchie strategie di gruppi diversi sono venute a confluire in questo luogo particolare.
Lei ha spiegato molto chiaramente come la pena detentiva sia stata, sin dall'inizio del ventesimo secolo, denunciata come il grande fallimento della giustizia penale, esattamente negli stessi termini in cui lo è oggi. Non esiste penalista convinto del fatto che il carcere raggiunga gli scopi che gli sono attribuiti: il tasso di criminalità non diminuisce. Invece di risocializzare, il carcere fabbrica delinquenti, accresce la recidiva, non garantisce sicurezza. Gli istituti penitenziari non si svuotano, né si intravede in Francia a questo riguardo l'avvio di un cambiamento sotto il governo socialista. Però nello stesso tempo lei capovolge il problema.
Invece di cercare i motivi di un fallimento infinitamente rinnovato, lei si chiede a che cosa serve, a chi giova questo insuccesso problematico. Si scopre così che la prigione è uno strumento di gestione e di controllo differenziale degli illegalismi. In questo senso, invece di costituire un fallimento è invece riuscita alla perfezione a specificare la delinquenza, quella di ceti popolari, a produrre una determinata categoria di delinquenti, a circoscriverli per meglio dissociarli dalle altre categorie di rei, provenienti soprattutto dalla borghesia. Infine lei osserva che il sistema carcerario riesce a rendere naturale e legittimo il potere punitivo legale, che lo naturalizza. Questa idea è legata all'antica questione della legittimità e del fondamento della punizione, poiché l'esercizio del potere disciplinario non esaurisce il potere punitivo anche se è in questo che consiste, come lei ha dimostrato, la sua funzione principale.
Chiariamo innanzitutto alcuni equivoci. In primo luogo, in questo libro sul carcere, è evidente che non ho voluto porre il problema del fondamento del diritto di punire. Ho voluto mostrare il fatto che a partire da una certa concezione del fondamento del diritto di punire riscontrabile nel pensiero dei penalisti e dei filosofi del diciottesimo secolo, potevano essere concepiti diversi strumenti di punizione. Infatti, i movimenti riformisti della seconda metà del diciottesimo secolo suggeriscono tutta una serie di strumenti punitivi, ma alla fine scopriamo che è la prigione a essere in qualche modo privilegiata. Non è stato l'unico mezzo punitivo, ma è diventato comunque uno dei principali. Il problema è sapere perché si è scelto questo metodo. E come esso abbia piegato non solo la pratica giudiziaria ma anche un certo numero di problemi abbastanza fondamentali in diritto penale. L'importanza data per esempio agli aspetti psicologici o psicopatologici della personalità criminale che si afferma nel corso di tutto il diciannovesimo secolo, è stata fino a un certo punto indotta da una pratica punitiva che si poneva come fine la correzione e che incontrava come unico ostacolo solo l'impossibilità di correggere. Ho dunque lasciato da parte il problema del fondamento del diritto di punire per evidenziare un altro problema che credo sia stato più spesso trascurato dagli storici: gli strumenti punitivi e la loro razionalità.
Ma questo non significa che la questione del fondamento della punizione non sia importante. Su questo punto credo sia necessario essere nello stesso tempo modesti e radicali, radicalmente modesti, e ricordarsi di quello che diceva Friedrich Nietzsche più di un secolo fa, e cioè che nella nostre società contemporanee non si sa più esattamente quello che si fa quando si punisce e questo può in teoria giustificare la punizione: esercitando una punizione lasciamo valere, sedimentate un po' le une sulle altre, un certo numero di idee eterogenee che emergono da storie diverse, da momenti distinti e da razionalità divergenti.
Quindi se non ho parlato del fondamento del diritto di punire non è perché ritengo che non sia importante. Ripensare il senso che si può dare oggi alla punizione legale, nell'articolazione tra diritto, morale e istituzione, sarebbe invece sicuramente un compito rilevantissimo.
Il problema della definizione della punizione è ancora più complesso in quanto non solo non si sa esattamente che cosa significhi punire, ma sembra anche ripugni punire. I giudici infatti si astengono sempre di più dal punire, vogliono curare, rieducare, guarire, un po' come se essi stessi cercassero di discolparsi dall'esercitare la repressione. In Sorvegliare e punire lei d'altra parte scrive: «i confini del discorso penale e del discorso psichiatrico si confondono». «Si stabilisce allora con la molteplicità dei discorsi scientifici un rapporto difficile ed infinito che oggi la giustizia penale non è pronta a controllare. L'arbitro della giustizia non è signore della verità». Oggi, il ricorso allo psichiatra, allo psicologo, all'assistente sociale è un fatto di routine giudiziaria, sia penale che civile. Lei ha analizzato questo fenomeno, che indica senza dubbio un cambiamento epistemologico nella sfera giuridico-penale. La giustizia penale sembra aver cambiato senso. Il giudice applica sempre meno il codice penale all'autore di un infrazione e sempre di più invece tratta delle patologie e dei disturbi della personalità.
Credo che lei abbia perfettamente ragione. Perché la giustizia penale ha allacciato questi rapporti con la psichiatria, che dovrebbe ostacolarla moltissimo? Perché evidentemente tra la problematica della psichiatria e ciò che esige la stessa pratica del diritto penale riguardo le responsabilità non c'è contraddizione bensì eterogeneità. Sono due forme di pensiero che non sono sullo stesso piano e di conseguenza non si riesce a capire secondo quale regola l'una potrebbe avvalersi dell'altra. È certo però, ed è una cosa che sorprende sin dal diciannovesimo secolo, che la giustizia penale di cui si sarebbe potuto supporre la diffidenza verso il pensiero psichiatrico, psicologico o medico, sembra invece esserne stata affascinata. Certamente ci sono stati degli attriti, dei conflitti, non voglio certo sottovalutarli. Ma se si considera un periodo di tempo più lungo, un secolo e mezzo, sembra che la giustizia penale sia stata disposta, e in misura sempre maggiore, ad accogliere queste forme di pensiero. Verosimilmente, la problematica psichiatrica ha intralciato la pratica penale. Oggi sembra invece che la faciliti, permettendo di lasciare nell'ambiguo il problema di sapere quello che si fa quando si punisce.
Lei osserva nelle ultime pagine di Sorvegliare e punire che la tecnica disciplinare è diventata una delle funzioni principali della nostra società. Il relativo potere raggiunge la sua più alta intensità nell'istituzione penitenziaria. Lei dice d'altra parte che il carcere non è necessariamente indispensabile a una società come la nostra poiché perde buona parte della sua ragione d'essere tra i sempre più numerosi dispositivi di normalizzazione. E quindi concepibile una società senza carcere? Questa utopia comincia a essere presa sul serio da alcuni criminologi. Per esempio, Louk Hulsman, professore di diritto penale all'università di Rotterdam, difende la teoria dell'abolizione del sistema penale. Il ragionamento su cui si basa questa teoria si ricollega ad alcune delle sue analisi: il sistema penale crea il delinquente, si rivela fondamentalmente incapace di realizzare le finalità sociali che è supposta perseguire, qualsiasi riforma è illusoria. L'unica soluzione coerente è la sua abolizione. Hulsman osserva che la maggior parte dei reati sfugge al sistema penale senza mettere in pericolo la società. Propone allora di decriminalizzare sistematicamente la maggior parte degli atti e dei comportamenti che la legge considera crimini o reati, e di sostituire al concetto di crimine quello di «situazione-problema». Invece di punire e di stigmatizzare, tentare di regolare i conflitti con delle procedure di arbitrariato, di conciliazione non giudiziaria, considerare le infrazioni alla stessa stregua dei rischi sociali, continuando a ritenere essenziale il risarcimento della parte lesa. L'intervento dell'apparato giudiziario verrebbe riservato ai casi gravi o, in ultima istanza, nel caso d'insuccesso dei tentativi di conciliazione e delle soluzioni di diritti civili. La teoria di Hulsman è di quelle che presuppongono una rivoluzione culturale. Che cosa pensa di questa idea abolizionista riassunta schematicamente?
Credo che siano molte cose interessanti nella tesi di Hulsman, non fosse altro per la sfida che pone alla questione del fondamento del diritto di punire dicendo che non c'è più niente da punire. Trovo anche interessante il fatto che pone la questione del fondamento della punizione tenendo conto nello stesso tempo dei mezzi attraverso i quali si risponde a un qualcosa che è considerato come infrazione. In altre parole, la questione dei mezzi non è semplicemente una conseguenza del modo in cui si sarebbe potuto porre il problema del fondamento del diritto di punire, ma a suo modo di vedere, la riflessione sul fondamento del diritto di punire e il modo di reagire a un infrazione devono costituire un tutt'uno. Tutto ciò mi sembra molto stimolante, molto importante. Forse non ho una conoscenza approfondita della sua opera, ma mi sorgono alcuni dubbi. La nozione di «situazione-problema» non conduce a una psicologizzazione sia dell'atto che della reazione? Una pratica come questa non rischia, anche se non è ciò che spera Hulsman, di condurre ad una specie di dissociazione tra le reazioni sociali, collettive, istituzionali del crimine da una parte che verrà considerato un incidente e dovrà essere regolato alla stessa stregua, e dall'altra, per quanto riguarda il delinquente, a una iper-psicologizzazione che lo rende oggetto di interventi psichiatrici o medici, con dei fini terapeutici?
Ma questa concezione del crimine non porta anche all'abolizione delle nozioni di responsabilità e di colpevolezza? Dato che nelle nostre società il male esiste, la coscienza della colpevolezza (che secondo Paul Ricoeur è nata presso i greci) non adempie una funzione sociale necessaria? E possibile concepire una società completamente esonerata da ogni senso di colpevolezza?
Il problema non è sapere se una società può funzionare senza colpevolezza, il problema è piuttosto stabilire se la società può far funzionare la consapevolezza come principio organizzatore e fondatore di un diritto. Ricoeur fa benissimo a porre il problema della coscienza morale, e lo pone da filosofo o da storico della filosofia. È legittimo dire che la colpevolezza esiste, che esiste da una certa epoca in poi. Si può discutere se l'origine sia greca o meno. Ad ogni modo esiste e non vedo come una società come la nostra, ancora così fortemente radicata in una tradizione che è anche quella greca potrebbe esonerarsi dal senso di colpevolezza. Per molto tempo si è creduto di poter direttamente articolare un sistema di diritto e una istituzione giudiziaria su una nozione come quella della colpevolezza. Per noi invece la questione è aperta.
Attualmente, quando una persona compare davanti all'una o all'altra istanza della giustizia penale, deve rendere conto non solo dell'atto vietato che ha commesso, ma anche della sua stessa vita.
È vero. Negli Stati Uniti per esempio si è discusso molto sulle pene indeterminate. Credo che non si ricorra più ad esse quasi dappertutto. Il loro uso implica una certa tendenza, una certa tentazione che però non mi sembra che sia scomparsa: la tendenza a indirizzare il giudizio penale molto più sull'aspetto in un certo senso qualitativo che caratterizza un'esistenza e un modo di essere che, su un atto preciso. In Francia è stata presa una misura riguardante i giudici che vigilano sull'applicazione della pena. Si è voluto rafforzare (e l'intenzione è buona) il potere e il controllo dell'apparato giudiziario sullo svolgimento della punizione. Ma ecco il punto debole: ci sarà un tribunale composto da tre giudici, credo, che deciderà se a un detenuto potrà essere accordata o meno la libertà condizionale e questa decisione sarà adottata tenendo conto di elementi tra i quali innanzitutto ci sarà l'infrazione principale in qualche modo riattualizzata poiché la parte civile e i rappresentanti della parte lesa saranno presenti e potranno intervenire.
E poi a integrazione gli elementi di condotta del soggetto in carcere così come sono stati osservati, valutati, interpretati, giudicati dalle guardie, dagli amministratori, dagli psicologi, dal medici. E su questo insieme di elementi eterogenei che si fonderà la decisione di tipo giudiziario. Anche se giuridicamente accettabile, bisogna sapere che conseguenze di fatto tutto questo potrà determinare. E nello stesso tempo rendersi conto che per la giustizia penale rischia di rappresentare un modello pericoloso nel suo uso corrente, se effettivamente si prende l'abitudine di formulare una decisione penale in funzione di una condotta buona o cattiva.
La medicalizzazione della giustizia conduce a poco a poco a un'evizione del diritto penale, delle pratiche giudiziarie. Il soggetto di diritto cede il posto al nevrotico o allo psicopatico, più o meno irresponsabile, la cui condotta sarà determinata da fattori psico-biologici. A questa concezione alcuni penalisti oppongono un ritorno al concetto di punizione che si concili meglio con il rispetto della libertà e della dignità dell'individuo. Non si tratta di ritornare a un sistema di punizione brutale e meccanica che astrarrebbe dal regime socio-economico nel quale funziona e ignorerebbe la dimensione sociale e politica della giustizia, ma di trovare una coerenza concettuale e di fare una netta distinzione tra ciò che compete al diritto e ciò che compete alla medicina.
Credo in effetti che il diritto penale faccia parte del gioco sociale in una società come la nostra, e che non debba mascherarlo. Ciò significa che gli individui che fanno parte di questa società devono riconoscersi come soggetti di diritto che in quanto tali possono essere puniti e castigati se infrangono qualche regola. Non vi è in questo, credo, niente di scandaloso. Ma è dovere della società fare in modo che gli individui possano effettivamente riconoscersi come soggetti di diritto. Cosa che è difficile quando il sistema penale in vigore è arcaico, arbitrario, inadeguato ai problemi reali che si pongono a una società.
Consideriamo per esempio il solo campo dei reati economici. Il lavoro che si deve realmente fare a priori non consiste nell'iniettare sempre più medicina o psichiatria per modulare questo sistema e renderlo più accettabile. Bisogna ripensare il sistema penale in sé. Non auspico con questo un ritorno alla severità del codice penale del 1810. Auspico invece un ritorno all'idea seria di un diritto penale che definisca chiaramente ciò che in una società come la nostra può essere considerato passibile di punizione o meno, persino un ritorno a un sistema che definisca le regole del gioco sociale. Diffido di coloro che vogliono tornare al sistema del 1810 con il pretesto che la medicina e la psichiatria fanno perdere il senso della giustizia penale. Ma diffido anche di coloro che pur sistemandolo, migliorandolo e attenuandolo con delle modulazioni psichiatriche e psicologiche, in fondo l'accettano."
Foulek Ringelheim intervista a Michel Foucault Che cosa vuol dire punire di Francesca Arra



Il Potere secondo Foucault.
Michel Foucault pensatore francese idealizza una nuova visione del potere: non solo sottomissione, ma vero e proprio sapere. Ma qual è la migliore prospettiva attraverso cui guardare al potere? Ma soprattutto, dove si trova? Il potere è ovunque, inghiotte ogni relazione umana.
DI LUCREZIA LESSIO - L'Intellettuale Dissidente

Il potere, lungi dall’impedire il sapere, lo produce. Se si è potuto costituire un sapere sul corpo, è stato attraverso un insieme di discipline militari e scolastiche. È solo a partire da un potere sul corpo che un sapere fisiologico, organico era possibile”.
Michel Foucault


Michel Foucault è uno dei più valenti maîtres à penser del Novecento, un intellettuale dalla straordinaria potenza analitica, capace di smontare le concezioni moderne. Filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese, che opera tra gli anni Settanta e inizio anni Ottanta, i suoi sono temi controversi e taglienti dalla nascita del pensiero, agli apparati del potere, fino alla sessualità e alla cura di sé.

Centrale in Foucault è senza dubbio la questione del potere, smontandone la concezione moderna, quella istituzionale e giuridica, prendendone le distanze, ma mostrandone il carattere ideologico. Segna una svolta marcando una netta distinzione rispetto alle concezioni tradizionali.
Il potere, secondo Foucault, non può essere esaminato a partire dalle sue forme istituzionali e giuridiche, attraverso i concetti di sovranità e di legge, ma va compreso nella quotidianità degli effetti che esso produce nel mondo sociale.

“Ciò di cui abbiamo bisogno – enuncia in Microfisica del potere – è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge e dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa al re”.
Michel Foucault


Foucault ribalta totalmente la prospettiva da cui guardare al potere, sostituendo una prospettiva più classica, propria dei filosofi, in cui la pretesa era di avere dall’alto una visione globale della sovranità, con una prospettiva invece più moderna che parte da una posizione decentrata e che segue la vita reale in un singolo e minuscolo dettaglio e nelle apparenti casualità. Si tratta di un’analisi dal basso con l’intento di portare alla luce ciò che normalmente viene nascosto sotto la superficie dei fenomeni.

Il potere è una relazione che ha il suo punto d’attacco nel corpo e proprio attraverso di esso organizza le masse di individui. Ma il corpo non può essere assoggettato all’infinito, lo stesso corpo opporrà resistenza.

Là dove c’è potere, c’è resistenza […] non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere”.
Michel Foucault


Proprio la resistenza è l’altra faccia del potere, il potere ha bisogno di un punto di contrasto che gli permetta di misurarsi; la resistenza perciò non deve necessariamente essere soggiogata dal potere, ma essere mantenuta in contrapposizione.

Il rischio della resistenza è però la riproduzione del potere, la riproduzione della sua strategia.

Ciascuno è l’avversario di qualcuno”, le relazioni sociali sono tutte relazioni di potere, la politica è guerra, sia immersi nella lotta di ognuno contro la presa di potere.
Il potere non può essere individuato o identificato in singoli soggetti come lo Stato, i decisori politici o la classe che detiene il controllo in ambito economico. Queste sono solamente manifestazioni dei rapporti di assoggettamento delle relazioni umani.

Per Foucault il potere è onnipresente, ogni rapporto sociale è un rapporto di potere: tra uomo e donna, in famiglia, tra il datore di lavoro e il suo dipendente, tra un maestro e il suo allievo, tra chi detiene un sapere e chi ne è privo. Tra tutti gli individui intercorrono relazioni di potere, dove questo si realizza e si concretizza. Il singolo individuo è perciò un essere sociale, risultato del prodotto di innumerevoli relazioni in cui il potere è inserito e plasmato in qualità di corpo.

L’analisi di Foucault si estende anche al campo della sessualità, dove porta alla luce un modo completamente nuovo di intendere quello che è il potere: ne viene sottolineato l’aspetto produttivo. Importante è il passaggio da una visione negativa del potere – divieto, costrizione potere del no, inibizione – ad una visione invece positiva, il potere come possibilità, produzione di discorsi che istituiscono e controllano. Il potere non è da intendere come un’istanza che opera per mezzo della repressione, ottenendo una sottomissione attraverso punizioni e sanzioni.
La concezione di potere foucaultiano è complessa, ricca di sfumature, ma permea ogni relazione umana.






Il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso.
Michel Foucault

Aiuto. SE È IL CORPO A PARLARE. Michel Foucault o della Corporeità Inquieta.
Michel Foucault di ANTONELLA PIERANGELI
IL CORPO PARLA. IL CORPO RACCONTA. IL CORPO CHIEDE AIUTO. IL CORPO È IL LUOGO IN CUI S’INSCRIVE IL POTERE, è il dominio esteso di una torsione di senso. Se nel corpo stesso si trova esposto il potere, è allora in esso che si possono individuare i tratti devastanti del dominio e le sue regole di formazione e di esercizio. ANALIZZARE IL POTERE SIGNIFICA, DUNQUE, DARE VOCE AL CORPO, assumerne modificazione, forma e natura, come metodo d’indagine e filo conduttore di ogni pratica discorsiva sulla “disciplina del dominio” e sul suo stesso stato. Significa anche metabolizzare quel potere, anonimamente diffuso, che è onnipresente e dappertutto, “non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove”.
Michel Foucault, in un’intervista rilasciata pochi mesi prima di morire, quando L’AIDS AVEVA ORMAI ESTESO SU TUTTO IL SUO CORPO UN CONTROLLO PIENO ED ASSOLUTO, torna drammaticamente sulla QUESTIONE DEL POTERE. Afferma, infatti, di non essere sicuro di aver chiarito adeguatamente, in precedenza, le NOZIONI DI POTERE E, SOPRATTUTTO, DI DOMINIO. Nel tentativo di delineare in maniera più precisa la loro differenza, il filosofo francese definisce, allora, le “RELAZIONI DI POTERE” COME RELAZIONI CORPOREE, all’interno delle quali, si cerca di controllare l’assoluto ontologico dell’altro. Rapporti mobili che possono modificarsi e che non sono totalmente definibili se non come vere e proprie strategie “fisiologiche”, aperte come abissi di senso, tra le libertà dei soggetti. Gli “STATI DI DOMINIO”, INVECE, SI CREANO QUANDO UN INDIVIDUO O UN GRUPPO SOCIALE RIESCONO A BLOCCARE, A CRISTALLIZZARE, TALI RELAZIONI DI POTERE, A RENDERLE IMMOBILI, IRREVERSIBILI, A “DISCIPLINARE”, GRADUALMENTE MA INESORABILMENTE, UN SISTEMA ASSOLUTO DI RAPPORTI DI FORZA. Quindi IL POTERE È, ESSENZIALMENTE, REALTÀ EFFETTUALE: IL POTERE, INFATTI, SI “ESERCITA” e, il senso del dominio, può essere ricercato solo là dove il dominio effettivamente si compie.
In altri termini, dice un sempre lucidissimo ed implacabile Foucault, SE IL POTERE È DOMINIO, SI GARANTIRÀ UNO SPAZIO MATERIALE ENTRO CUI AGIRE, SI DARÀ DELLE REGOLE CHE PRESIEDANO TALE AZIONE PROPULSIVA, SI COSTITUIRÀ UNA “LOCALIZZAZIONE”, METTERÀ IN ATTO UNA SINTASSI, OSSIA UN SISTEMA DI REGOLE, CHE, OPERANDO SU SPAZI CORPOREI, NE DETERMINI IL SIGNIFICATO. IL POTERE VIENE DUNQUE SCRITTO SULLA SUPERFICIE DEL CORPO, perché si obiettiva nel corpo stesso, in esso si fa immagine, in esso diviene ragione immanente di ogni suo essere e significare. Successivamente, attraverso un gioco di trasparenze infinite, OGNI CORPO INCARNA UNA SEQUENZA INFINITA DI SEGNI, costituendo l’epifania del controllo in cui il potere si oggettiva, PRENDENDO “CORPO” NEI CORPI, SULLA CARNE VIVENTE, SU CUI SONO INCISI I SEGNI DEL DOMINIO. In questo modo, afferma Foucault, il NESSO CORPO-POTERE SI REIFICA, DOMINA, PERCHÉ PRODUCE IL SUO SPAZIO e perciò, definendo un’oggettività di regole, di comportamenti, di azioni sociali e una densità storico materiale entro cui dispiegarsi, consente, fra l’altro, la NASCITA DI QUELLA FORMA SPECIFICA DI DOMINIO CHE È IL DISCIPLINARSI DEL SOGGETTO CORPOREO. Questo significa, sul piano teleologico, certamente VIOLENZA, COAZIONE, ESCLUSIONE, AMMINISTRAZIONE COERCITIVA DELLA VITA E DEL DOLORE, MA ANCHE INVESTIMENTO DEL DESIDERIO, DELLA SESSUALITÀ, DI QUELLA FORZA VITALE CHE SPRIGIONA L’ENERGIA DEI CORPI E NEL CONTEMPO LI PLASMA. LA SAGOMA DELLA MATERIA SI MODELLA, ALLORA, SEGUENDO LE REGOLE DEL DOMINIO, IMPRIMENDOSI SULLA SUPERFICIE DELLA REALTÀ E DEL LINGUAGGIO e rendendoli segni viventi di una presenza immanente, noumenica, che INDUCE A CREDERE CHE I CORPI NON “VIVONO” IL POTERE, MA CHE IL POTERE “VIVE” IN ESSI.
Quando poi NEL TEMPO, IL CORPO MUTA GLI EVENTI IN SEGNI, ARTICOLA SPAZIO E LINGUAGGIO, parla come parla ogni cosa – perché LA CORPOREITÀ ASSOLUTA ESPLICA LA CONCEZIONE FOUCAULTIANA DI CORPO, NEI TERMINI DI SPAZIO LINGUISTICO – allora, si arrocca in un aristotelico, magmatico sinolo di MATERIA E FORMA, CHE NON COINCIDE PIÙ CON L’UNITÀ DELLA COSCIENZA MA SI FRAMMENTA NEI DIVERSI SAPERI, PER COMPORRE LA PROPRIA FIGURA NEGLI INTERSTIZI DEL LINGUAGGIO FRANTUMATO. E’ proprio in quella VENATURA FRA CORPO, SAPERE E POTERE, CHE IL NESSO PROFONDO E STRETTISSIMO, E L’URLO DEL CORPO CHE GIÀ NIETZSCHE FEROCEMENTE MOSTRAVA, SPALANCANO UN ABISSO: NON C’È VERITÀ INFATTI CHE NON SIA STRAZIATA DA UN RAPPORTO DI FORZA E CORPO. Sapere e potere sono appunto il diagramma essenziale di un insieme concettuale, dove i singoli momenti stanno in relazione di reciproca specularità, non “essendo” soltanto ma “divenendo”, essi stessi, forme di dominio, infiniti microsistemi di potere. I corpi rappresentano, dunque, i luoghi eminenti dell’urlo della carne, un urlo muto, un grido di aiuto, spaventoso, che si leva dalle piaghe del vero. I CORPI INFATTI SONO LÌ, BASTA GUARDARLI. ESSI AGISCONO, PATISCONO, SONO OLTRAGGIATI, SI DISGREGANO MA IL SIGNIFICATO DEL LORO VIVERE SI MANIFESTA ESSENZIALMENTE NELLA SINTASSI CHE LI GOVERNA.
LO SPAZIO CORPOREO SOGGETTIVO, ritenuto fondamento sicuro, è, dunque, PERENNEMENTE ATTRAVERSATO DA TRAIETTORIE DI POTERE CHE LO FANNO ESSERE QUELLO CHE È, CHE LO PLASMANO NEL PROFONDO, NEI DESIDERI, NELLA COSCIENZA, DOVE QUEL SOGGETTO È PRODOTTO DAI SAPERI CHE CON ESSO NASCONO E DALLE PRATICHE DISCIPLINARI CHE GLI FISSANO UNA IDENTITÀ. Quell’invenzione recente che è il SOGGETTO KANTIANO, creativo in quanto trascendentale, ma OGGETTO IN QUANTO ASSOGGETTATO ALLE PRATICHE DEL SAPERE-POTERE È, PROPRIO PER QUESTO, FORSE GIÀ MORTO. IL POTERE, INFATTI, NON SI LIMITA SEMPLICEMENTE A REPRIMERE, AL CONTRARIO, DISCIPLINANDO, PRODUCE. MA IL CORPO, AVVERTE FOUCAULT, NON È MALLEABILE ALL’INFINITO, IL CORPO OPPONE RESISTENZA: “LÀ DOVE C’È POTERE, C’È RESISTENZA” e questa “non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere”. Bisogna allora ammettere l’esistenza di una realtà complessa e instabile, in cui IL CORPO PUÒ ESSERE CONTEMPORANEAMENTE STRUMENTO ED EFFETTO DI POTERE, MA ANCHE OSTACOLO, INTOPPO, PUNTO DI RESISTENZA ED INIZIO DI UNA STRATEGIA OPPOSTA. Il corpo che trasmette e produce potere lo rafforza ma lo mina anche, lo espone, lo rende fragile e permette di opporgli ostacoli. Allo stesso modo IL SILENZIO DEL CORPO E IL SUO SEGRETO PROTEGGONO IL POTERE, DANNO RADICI AI SUOI DIVIETI; MA ALLENTANO ANCHE LE SUE PRESE ED ORGANIZZANO TOLLERANZE PIÙ O MENO OSCURE. Allora LA RESISTENZA COSTITUISCE L’ALTRO TERMINE NELLA RELAZIONE DELLE FORZE, LA RESISTENZA DIVIENE IL GRIDO DELLA MATERIA FATTASI SENZIENTE, memoria di verità, conflitto torturante e impari con un’ombra poiché sempre, dice Foucault, dove si fronteggia il gorgo “ ciascuno è l’avversario di qualcuno”.
La resistenza viene ad essere, allora, la condizione preliminare di ciò che, forse, funzionerà per sempre come un’illusione: quell’idea eterna di ragione, che dal deserto ci mostra il mare. PER NIETZSCHE, VOLONTÀ DI POTENZA. PER FOUCAULT, LA SCOMMESSA DELL’AUTOPOIESI. E’ comunque sempre il corpo a parlare, nell’assenza, della sua lacerazione. Nella semplicità e nella sublimità di una richiesta d’aiuto.
Articolo precedentemente apparso in “L’Area di Broca”, XXXIV – XXXV, 86 – 87, luglio 2007 – giugno 2008




La biopolitica del potere di foucaultiana memoria !!




Il concetto di biopolitica in Michel Foucault

Che cosa si intende con biopolitica?
Chi ha letto le opere degli anni '70 di Michel Foucault non può non averne sentito parlare. È proprio il famoso filosofo francese che usa per la prima volta la parola “biopolitica” nelle ultime pagine de La volontà di sapere (1976), per riprenderla e sviscerarla nei corsi degli anni successivi.


La sua ricerca si muove nello spazio delle relazioni di potere, perché per Foucault il potere non è mai univoco e dall'alto, ma si realizza in una fitta trama di rapporti tra tutti gli individui. In quest'ottica ogni rapporto è un rapporto di potere, al centro sta il bìos, la vita, ma non la vita di ognuno preso singolarmente, bensì la vita della collettività, della popolazione.

Secondo l'autore infatti vi è un importante cambiamento nel XIX secolo, il passaggio dal potere “sovrano” che agiva appunto dall'alto, con la spada, esercitando il diritto “di far morire o lasciar vivere” i suoi sudditi, a un potere che invece vuole organizzare, ordinare, dirigere la popolazione e vuole quindi gestire la vita, non più la morte! Paradossalmente la morte non esce affatto dal panorama, ma viene sfruttata come strumento per ottenere “un più” di vita. Perché proprio nell'epoca contemporanea si sono viste le più crudeli e terribili guerre e stragi dell'umanità?

Facciamo rispondere Foucault: «le guerre non si fanno più in nome del sovrano che bisogna difendere; si fanno in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni a uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere».

Nell'emergere della pratica biopolitica si crea un nuovo modo di intendere il concetto di popolazione, come corpo compatto governato da determinate e precise leggi.
Queste leggi vanno quindi studiate, analizzate e conosciute al fine di piegarle verso il proprio interesse di governanti e per il mantenimento del corpo stesso, tramite determinati dispositivi quali possono essere la demografia e la statistica, o con l'inquadramento in determinati organismi come l'esercito e la scuola (Foucault opera una distinzione tra tali dispositivi, che non trovo opportuno riportare in questa sede perché ci allontana dal nostro discorso). L'analisi di Foucault procede individuando l'importante e indissolubile legame tra biopolitica e capitalismo: le nuove tecniche di potere agiscono specialmente a livello dei processi economici, per consentire contemporaneamente la crescita e la docilità, ovvero la governabilità della popolazione. L'obiettivo sbandierato è quello del raggiungimento del benessere “per tutti”, che naturalmente fa gola al soggetto popolazione, ma questo benessere come si raggiunge? Ed è davvero un benessere di tutti? Vediamo il modo in cui concretamente agisce il potere che proclama il benessere per tutti. Secondo Foucault più che promulgando leggi da far rispettare, il potere biopolitico agisce creando una “norma” che va seguita se si vuole rientrare nei parametri di chi ha diritto al benessere, fornendo tecniche (come ad esempio quella medica) che permettano di rientrare in questi suddetti parametri.


La resistenza a un simile tipo di potere è pressoché impossibile perché si rimane incastrati nella sua logica e anzi la si fomenta, semplificando: io sto bene, vedo chi sta male e non voglio assolutamente finire così, perciò ringrazio chi mi governa e seguo scrupolosamente le sue indicazioni normalizzatrici. In una situazione di crisi economica come quella attuale la soglia di normalità è sempre più alta e gli esclusi sono sempre di più, perché diventano esclusi anche quelli che non lo sono mai stati. Si viene così a creare una situazione che socialmente può essere pericolosissima, e ne abbiamo un esempio in ciò che accade in Grecia proprio in questi giorni. Foucault aveva compreso e descritto queste dinamiche già trentacinque anni fa, e per questo nei suoi ultimi anni di vita rivolse la ricerca alla possibilità di un nuovo tipo di soggetto, che riesca a plasmarsi dall'interno e che non sia invece soggetto-assoggettato alle relazioni di potere. Questo è l'argomento del corso del 1984 L'ermeneutica del soggetto, ma è un'altra storia.
http://fascinointellettuali.altervista.org/filosofia/33-il-concetto-di-biopolitica-in-michel-foucault

Ma chi non vi riesce comunque? Il folle? Il povero? L'omosessuale? Ancora oggi tristemente ci troviamo di fronte all'esclusione di tali categorie dall'orizzonte della normalità, di chi quindi ha pieno diritto al benessere. Tale esclusione comporta una successiva reclusione in determinati spazi creati appositamente, come poteva essere un tempo il manicomio, come poteva essere la work-houses di vittoriana memoria, e come è stato il campo di concentramento per gli omosessuali in epoca nazista.

Non per niente Foucault individua nel razzismo un potentissimo dispositivo biopolitico: non solo si addita una determinata parte della popolazione come non idonea a farne parte (escludendola dunque di fatto dal corpo stesso della popolazione), ma si lascia aleggiare, se non addirittura si fomenta, la paura che tale parte possa costituire un germe che vada a infettare la parte “sana”, trascinandola nel baratro della sua a-normalità. Un'eco sinistra risuona in queste parole, un deja-vu compare alla mente, non si tratta precisamente di ciò che ha fatto il nazismo? Sì, e la conseguenza è quella che sappiamo (forse ancora troppo poco) tutti. Da affermazioni simili all'eugenetica infatti il passo è breve, questo il ragionamento che sottosta: «più le specie inferiori tenderanno a scomparire, più gli individui anormali saranno eliminati, meno degenerati rispetto alla specie ci saranno, e più io - non in quanto individuo, ma in quanto specie - vivrò, sarò forte, vigoroso e potrò prolificare». Inquietantemente vediamo ricomparire queste derive, secondo Foucault, nella società contemporanea, cui protagonista è l'homo oeconomicus, che è invitato a essere imprenditore di se stesso, a contribuire in prima persona alla crescita, non solo economica, essendo agente attivo che si sposta, si educa e a sua volta educa, per garantire anche una continuità familiare. Si tratta a ben vedere di un governo razionale, che è però ben più dispotico di quel potere sovrano che esercitava il re sul suddito: è razionale perché segue una logica ben precisa che promette risultati dal sapore estatico (il benessere, quasi la felicità), è più dispotica perché le sue trame sono nascoste appunto sotto questa razionalità, che fa apparire giustificata anche l'azione più aberrante.



'Abbiamo l'abitudine di considerare il potere come qualcosa di localizzato tra le mani del governo e che venga esercitato attraverso un certo numero di istituzioni particolari che sono l'amministrazione centrale e locale, la polizia, l'esercito. Sappiamo che queste istituzioni sono state create per trasmettere gli ordini, farli applicare, e punire le persone che non obbediscono. Ma io credo che il potere politico si eserciti ancora, inoltre e di più, attraverso gli intermediari, cioè da un certo numero di istituzioni che hanno l'aria di non aver nulla in comune con il potere politico, che hanno l'aria di esserne indipendenti, ma che non lo sono. L'Univesità, in generale tutto il sistema scolastico, che solo in apparenza serve per distribuire il sapere, sappiamo che la sua funzione è invece quella di mantenere al potere una classe sociale'.
Michel Foucault





http://criticaimpura.wordpress.com/2011/01/23/aiuto-se-e-il-corpo-a-parlare-michel-foucault-o-della-corporeita-inquieta/




Chomsky – Foucault.  - Giustizia e oppressione -
“ Foucault:
A questo punto diventerò, per così dire, un po’ nietzschiano: cioè, mi sembra che l’idea stessa di giustizia sia un’idea inventata e utilizzata in diversi tipi di società proprio come strumento di un certo potere politico ed economico, oppure come arma contro quel potere. A me pare, in ogni caso, che la nozione stessa di giustizia funzioni all’interno della società di classe contemporaneamente come rivendicazione da parte della classe oppressa e come giustificazione da parte di quella dominante.
Chomsky:
Non sono d’accordo.
Foucault:
In una società senza classi non sono sicuro che ci sarebbe bisogno di utilizzare alcuna nozione di «giustizia».
Chomsky:
Su questo mi trovo completamente in disaccordo. Credo che esista una specie di principio assoluto – se mi pressate troppo mi metterete in difficoltà, perché non sono in grado di delinearlo chiaramente – che risiede nelle qualità umane fondamentali, e nel quale è radicato il ‹vero› concetto di giustizia.
Penso che sia troppo riduttivo definire i sistemi di giustizia esistenti semplicemente come veicoli di oppressione di classe; non credo che siano solo questo. Credo invece che essi comprendano sistemi di oppressione di classe insieme a elementi oppressivi di altro genere, ma che allo stesso tempo incarnino una sorta di anelito verso concetti genuinamente umani e preziosi di giustizia, di dignità, di amore, di generosità e armonia, che personalmente considero reali.
Ritengo inoltre che in qualsiasi società futura, che ovviamente non sarà mai una società perfetta, questi concetti continueranno a esistere, e speriamo che saranno sempre più vicini a costituire una difesa dei bisogni umani fondamentali, inclusi il bisogno di solidarietà, di armonia, e così via… anche se per certi versi continueranno probabilmente a riflettere le ingiustizie e gli elementi di oppressione della società esistente.”
NOAM CHOMSKY (1928) – MICHEL FOUCAULT (1926 – 1984), “La natura umana. Giustizia contro potere” (registrato dalla televisione olandese nel novembre 1971, intervistatore: Fons Elders. Sia Chomsky sia Foucault parlarono nella propria lingua e furono sottotitolati in olandese. Il testo fu pubblicato nel 1974), trad. di Teodoro Falchi e Barbara Baisi, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 99 – 101.

“ FOUCAULT: If you like, I will be a little bit Nietzschean about this; in other words, it seems to me that the idea of justice in itself is an idea which in effect has been invented and put to work in different types of societies as an instrument of a certain political and economic power or as a weapon against that power. But it seems to me that, in any case, the notion of justice itself functions within a society of classes as a claim made by the oppressed class and as justification for it.
CHOMSKY: I don’t agree with that.
FOUCAULT: And in a classless society, I am not sure that we would still use this notion of justice.
CHOMSKY: Well, here I really disagree. I think there is some sort of an absolute basis – if you press me too hard I’ll be in trouble, because I can’t sketch it out-ultimately residing in fundamental human qualities, in terms of which a «real» notion of justice is grounded I think it’s too hasty to characterize our existing systems of justice as merely systems of class oppression; I don’t think that they are that.
I think that they embody systems of class oppression and elements of other kinds of oppression, but they also embody a kind of groping towards the true humanly, valuable concepts of justice and decency and love and kindness and sympathy, which I think are real.
And I think that in any future society, which will, of course, never be the perfect society, we’ll have such concepts again, which we hope, will come closer to incorporating a defense of fundamental human needs, including such needs as those for solidarity and sympathy and whatever, but will probably still reflect in some manner the inequities and the elements of oppression of the existing society.”
NOAM CHOMSKY – MICHEL FOUCAULT, “The Chomsky-Foucault Debate on Human Nature”, Foreword by John Rajchman, The New Press, New York 2006, 1. ʻ Human Nature: Justice vs. Power’ (1971), ‘A Debate Between Noam Chomsky and Michel Foucault’ (originally appeared in ‹Reflexive Water: The Basic Concerns of Mankind›, Souvenir Press, London 1974), pp. 54 – 55.








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