giovedì 8 dicembre 2011

Cartesio. Cogito Ergo Sum. La prima regola è stata di non accettare una cosa per vera finché non la riconoscessi per tale senza neppure un dubbio

«Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l'una dall'altra. Si deve piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni circostanza della vita l'intelletto indichi alla volontà ciò che si debba scegliere; e ben presto ci si meraviglierà di aver fatto progressi di gran lunga maggiori di coloro che si interessano alle cose particolari e di aver ottenuto non soltanto le stesse cose da altri desiderate, ma anche più profonde di quanto essi stessi possano attendersi »
Cartesio dal "Discorso sul metodo"


Mi sembrava che per sapere quali fossero effettivamente le opinioni degli uomini, dovessi piuttosto badare a ciò che facevano che non a ciò che dicevano; non soltanto per il fatto che nella corruzione dei nostri costumi sono pochi coloro che vogliano dire tutto ciò che credono, ma anche perché molti l'ignorano essi stessi.
Cartesio,  René Descartes, “Discorso sul metodo”, III



IL DUBBIO IPERBOLICO
Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, non chiedeva che un punto saldo e immobile. Parimenti, anch'io potrò concepire alte speranze, se avrò tanta fortuna da scoprire UNA COSA SOLA CHE SIA CERTA E INDUBITABILE.
Renè Descartes

La lettura di ogni buon libro è come una conversazione con le persone migliori dei secoli passati
Cartesio

Conquista te stesso non il mondo
Cartesio

Spesso, una falsa allegria vale più di una pena la cui causa è reale
Cartesio

A parte i nostri pensieri, non c'è nulla che sia davvero in nostro potere
Cartesio

Ogni problema che ho risolto è diventato una regola che in seguito è servita a risolvere altri problemi
Cartesio

Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare; infatti esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l'una dall'altra.
Cartesio

«Condurre con ordine i pensieri iniziando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscersi per salire progressivamente, come per gradi, fino alla conoscenza di quelli più complessi; e supponendo
un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedano gli altri e viceversa». 
Cartesio, René Descartes


La prima regola è stata di non accettare una cosa per vera finché non la riconoscessi per tale senza neppure un dubbio
Cartesio. Cogito Ergo Sum


Se vuoi diventare un vero cercatore della verità, almeno una volta nella tua vita devi dubitare, il più profondamente possibile, di tutte le cose 
Cartesio


E pensate che, con questa bella regola, ha riconosciuto come prima cosa vera, oltre ogni possibile dubbio, l'esistenza di Dio.


Letizia Perri

e quanto paghiamo ancora l'irrealtà e la violenza di questa regola ..


E' da tempo che mi sono reso conto di quanto di falso avevo preso per vero fin dall'infanzia e di come sia dubbio tutto quello che in seguito vi avevo costruito sopra...quindi ora che ho sgombrato l'animo e mi ritrovo in solitudine...mi dedicherò, finalmente, con serietà e libertà ad una DISTRUZIONE GENERALE DELLE MIE OPINIONI......
Renè Deschartes - Cartesio

La mia terza massima era di cercare di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri piuttosto che l'ordine del mondo; e, in generale, di abituarmi a credere che non c'è nulla che sia interamente in nostro possesso se non i nostri pensieri, sicché quando abbiamo fatto del nostro meglio, rispetto alle cose fuori di noi, tutto quello che non ci riesce è per noi assolutamente impossibile.
Cartesio



Nella foggia dei nostri abiti la stessa cosa che ci è piaciuta dieci anni fa, e che forse ci piacerà di nuovo prima che ne passino altri dieci, ci sembra oggi stravagante e ridicola.
Cartesio



Cartesio, Non può esserci nessun vuoto.
“ 16. ‹Che non può esserci nessun vuoto nel senso in cui i filosofi prendono questa parola›.
Per quanto riguarda il vuoto, nel senso in cui i filosofi prendono questa parola, cioè per uno spazio dove non c’è sostanza, è evidente che non c’è spazio nell’universo che sia tale, poiché l’estensione dello spazio o del luogo interiore non è differente dall’estensione del corpo. E come, dal fatto solo che un corpo è esteso in lunghezza, larghezza e profondità, abbiamo ragione di concludere che esso è una sostanza, poiché concepiamo che non è possibile che quello che non è nulla abbia dell’estensione, dobbiamo concludere lo stesso dello spazio che si suppone vuoto: cioè che, poiché c’è in esso estensione, c’è necessariamente anche della sostanza.


17. ‹Che la parola di vuoto presa secondo l’uso ordinario non esclude ogni sorta di corpo›.
Ma quando prendiamo questa parola secondo l’uso ordinario, e diciamo che un luogo è vuoto, è costante che noi non vogliamo dire che non c’è nulla affatto in quel luogo o in quello spazio, ma solo che non c’è niente di ciò che presumiamo doverci essere. Così, poiché una brocca è fatta per tenere dell’acqua, noi diciamo ch’essa è vuota, quando non contiene che dell’aria; e se non ci sono pesci in un vivaio, diciamo che non c’è nulla dentro, benché sia pieno d’acqua: così diciamo che un vascello è vuoto, quando invece delle mercanzie di cui lo si carica d’ordinario non lo si è caricato che di sabbia, affinché potesse resistere all’impetuosità del vento: ed è in questo stesso senso che diciamo che uno spazio è vuoto, quando non contiene nulla che ci sia sensibile, benché contenga una materia creata ed una sostanza estesa. Poiché noi non consideriamo ordinariamente i corpi che sono vicini a noi, che in quanto essi producono negli organi dei nostri sensi delle impressioni così forti, che possiamo sentirle. E se, invece di ricordarci di quello che dobbiamo intendere con queste parole di vuoto o di nulla, noi pensassimo dopo che un tale spazio, ove i nostri sensi non ci fanno nulla percepire, non contiene nessuna cosa creata, cadremmo in un errore sì grossolano che se, perché si dice ordinariamente che una brocca, nella quale non ci è che dell’aria, è vuota, noi giudicassimo che l’aria che essa contiene non è una cosa o una sostanza.

18. ‹Come si può correggere la falsa opinione di cui si è preoccupati riguardo al vuoto›.
Quasi tutti siamo preoccupati di questo errore fin dal principio della nostra vita, poiché, vedendo che non c’è legame necessario fra il vaso e il corpo che lo contiene, ci è sembrato che Dio potrebbe togliere tutto il corpo che è contenuto in un vaso, e conservare questo vaso nel suo medesimo stato, senza che vi fosse bisogno che alcun altro corpo succedesse nel posto di quello che avesse tolto. Ma affinché possiamo adesso correggere una sì falsa opinione, osserveremo che non c’è legame necessario tra il vaso ed un tal corpo, che lo riempie, ma che esso è tanto assolutamente necessario tra la figura concava che ha questo vaso e l’estensione che dev’essere compresa in questa concavità, che non v’ha maggior repugnanza a concepire una montagna senza vallata, che una tal concavità senza l’estensione che essa contiene, e questa estensione senza qualcosa di esteso, poiché il nulla, com’è stato già notato più volte, non può avere estensione. Ecco perché, se ci si domanda ciò che accadrebbe in caso che Dio togliesse tutto il corpo che è in un vaso, senza che permettesse che ce ne entrasse un altro, noi risponderemo che i lati di questo vaso si troverebbero sì vicini da toccarsi immediatamente. Poiché è necessario che due corpi si tocchino fra loro, quando non c’è nulla fra loro due, poiché sarebbe contraddittorio che questi due corpi fossero lontani, cioè che vi fosse distanza dall’uno all’altro, e che, non di meno, questa distanza non fosse nulla: poiché la distanza è una proprietà dell’estensione, che non potrebbe sussistere senza qualcosa di esteso.”
CARTESIO (1596 – 1650), “I princìpi della filosofia” (1644), trad. di Adriano Thilger, in ID., “Opere”, a cura e introduzione di Eugenio Garin, Laterza, Bari 1967 (I ed.), 2 voll., vol. I, Parte seconda ‘Dei princìpi delle cose materiali’, 16., 17., 18., pp. 81 – 83.

“ XVI. ‹Repugnare ut detur uacuum, siue in quo nulla plane sit res›.
Vacuum autem philosophico more sumptum, hoc est, in quo nulla plane sit substantia, dari non posse manifestum est, ex eo quod extensio spatii, uel loci interni, non differat ab extensione corporis. Nam cum ex hoc solo quod corpus sit extensum in longum, latum et profundum, recte concludamus illud esse substantiam, quia omnino repugnat ut nihili sit aliqua extensio, idem etiam de spatio, quod uacuum supponitur, est concludendum: quod nempe, cum in eo sit extensio, necessario etiam in ipso sit substantia.
XVII. ‹Vacuum ex uulgi usu non excludcre omne corpus›.
Et quidem ex uulgi usu, per nomen uacui non solemus significare locum uel spatium in quo nulla plane sit res, sed tantummodo locum in quo nulla sit ex iis rebus, quas in eo esse debere cogitamus. Sic, quia urna facta est ad aquas continendas, uacua dicitur, cum aÎre tantum est plena. Sic nihil est in piscina, licet aquis abundet, si in ea desint pisces. Sic inane est nauigium, quod comparatum erat ad uehendas merces, si solis arenis, quibus frangat impetus uenti, sit onustum. Sic denique inane est spatium, in quo nihil est sensibile, quamuis materia creata et per se subsistente plenum sit: quia non solemus considerare, nisi eas res quae a sensibus attinguntur. Atqui si postea, non attendentes quid per nomina uacui et nihili sit intelligendum, in spatio quod uacuum esse diximus, non modo nihil sensibile, sed omnino nullam rem contineri existimemus: in eundem errorem incidemus, ac si ex eo quod usitatum sit dicere urnam, in qua nihil est nisi aÎr, uacuam esse, ideo iudicaremus aÎrem in ea contentum non esse rem subsistentem.
XVIII. ‹Quomodo emendandum sit praeiudicium de pacuo absolute sumpto›.
Lapsique sumus fere omnes a prima aetate in hunc errorem, propterea quod, non aduertentes ullam esse inter uas et corpus in eo contentum necessariam coniunctionem, non putauimus quicquam obstare, quominus saltem Deus efficiat, ut corpus, quod uas aliquod replet, inde auferatur, et nullum aliud in eius locum succedat. Iam autem, ut errorem illum emendemus, considerare oportet nullam quidem esse connexionem inter uas et hoc uel illud corpus particulare quod in eo continetur, sed esse maximam, ac omnino necessariam, inter uasis figuram concauam et extensionem in genere sumptam, quae in ea cauitate debet contineri. Adeo ut non magis repugnet nos concipere montem sine ualle, quam intelligere istam cauitatem absque extensione in ea contenta, uel hanc extensionem absque substantia quae sit extensa: quia, ut saepe dictum est, nihili nulla potest esse extensio. Ac proinde, si quaeratur quid fiet, si Deus auferat omne corpus quod in aliquo uase continetur, et nullum aliud in ablati locum uenire permittat: respondendum est, uasis latera sibi inuicem hoc ipso fore contigua. Cum enim inter duo corpora nihil interiacet, necesse est ut se mutuo tangant; ac manifeste repugnat ut distent, siue ut inter ipsa sit distantia, et tamen ut ista distantia sit nihil: quia omnis distantia est modus extensionis, et ideo sine substantia extensa esse non potest.”
RENATI DES-CARTES “Principia philosophiæ”, apud Ludovicum Elzevirium, Amstelodami 1644, Pars secunda ‘De Principiis rerum materialium’, XVI – XVIII, pp. 41 – 43.




Cartesio: Il criterio per distinguere una macchina da un essere umano.

"Qui in particolare mi ero fermato per far vedere che se ci fossero macchine con organi e forma di scimmia o di qualche altro animale privo di ragione, non avremmo nessun mezzo per accorgerci che non sono in tutto uguali a questi animali; mentre se ce ne fossero di somiglianti ai nostri corpi e capaci di imitare le nostre azioni per quanto è di fatto possibile, ci resterebbero sempre due mezzi sicurissimi per riconoscere che, non per questo, sono uomini veri. In primo luogo, non potrebbero mai usare parole o altri segni combinandoli come facciamo noi per comunicare agli altri i nostri pensieri. Perché si può ben concepire che una macchina sia fatta in modo tale da proferire parole, e ne proferisca anzi in relazione a movimenti corporei che provochino qualche cambiamento nei suoi organi; che chieda, ad esempio, che cosa si vuole da lei se la si tocca in qualche punto, o se si tocca in un altro gridi che le si fa male e così via; ma non si può immaginare che possa combinarle in modi diversi per rispondere al senso di tutto quel che si dice in sua presenza, come possono fare gli uomini, anche i più ottusi. L'altro criterio è che quando pure facessero molte cose altrettanto bene o forse meglio di qualcuno di noi, fallirebbero inevitabilmente in altre, e si scoprirebbe così che agiscono non in quanto conoscono, ma soltanto per la disposizione degli organi".


Cartesio. La verità non può essere se non nell’intelletto.
“Se uno si proponga come problema di esaminare tutte le verità alla cognizione delle quali l’umana ragione sia sufficiente (il che a me sembra che una volta nella vita si debba fare da parte di tutti coloro che sul serio vogliono giungere alla saggezza), egli certamente per mezzo delle regole date troverà che niente si può conoscere prima dell’intelletto, dal momento che da questo dipende la conoscenza di tutte le altre cose, e non viceversa; esaminato poi tutto ciò che viene subito dopo la conoscenza del puro intelletto, tra il resto enumererà tutti gli altri strumenti di conoscenza che abbiamo oltre all’intelletto; ed essi sono soltanto due, ossia la fantasia e i sensi. Pertanto porrà ogni accorgimento nel distinguere ed esaminare tali tre modi di conoscenza, e scorgendo che la verità o la falsità non possono essere propriamente se non nell’intelletto, ma che spesso non traggono origine se non dagli altri due, egli presterà diligente attenzione a tutto ciò da cui può ricevere inganno, per guardarsene; ed enumererà con esattezza tutte le vie che si sono aperte agli uomini verso la verità, affinché possa seguire quella certa; né infatti esse sono in così gran numero, che non le ritrovi facilmente tutte e con enumerazione sufficiente. E, cosa che parrà strana e incredibile agli inesperti, non appena avrà distinto riguardo ai singoli oggetti le cognizioni che servono soltanto a riempire ed adornare la memoria, da quelle per cui veramente uno deve esser detto più addottrinato, la qual distinzione si farà anche facilmente…, sentirà certamente di non poter sapere da un altro uomo proprio niente, di cui anch’egli non sia capace, pur che vi si applichi la mente in maniera adeguata. E quantunque molte cose spesso possano venirgli proposte, la cui ricerca gli è proibita in forza della presente regola – poiché tuttavia percepirà chiaramente che esse superano ogni capacità dell’umano ingegno, non si reputerà per ciò ignorante; ma il fatto medesimo di sapere che la cosa ricercata non può esser saputa da nessuno, soddisferà abbondantemente, se egli è ragionevole, la sua curiosità.”
CARTESIO (1596 – 1650), “Regole per la guida dell’intelligenza” (1627 – 1628. I ed., in olandese, a cura di J.H. Glazemaker 1648, I ed., in latino, P. & J. Blaeu, Amsterdam 1701), trad. di Gallo Galli, in ID., “Opere”, introd. di Eugenio Garin, Laterza, Bari 1967, 2 voll., vol. I, ‘Regola VIII’, pp. 43 – 44.




“ Si quis pro quaestione sibi proponat examinare veritates omnes, ad quarum cognitionem humana ratio sufficiat, quod mihi videtur semel in vita faciendum esse ab iis omnibus, qui serio student ad bonam mentem, ille profecto per regulas datas inveniet, nihil prius cognosci posse quam intellectum, cum ab hoc caeterorum omnium cognitio dependeat, et non contra; perspectis deinde illis omnibus quae proxime sequuntur post intellectus puri cognitionem, inter caetera enumerabit quaecumque alia habemus instrumenta cognoscendi praeter intellectum, quae sunt tantum duo, nempe | phantasia et sensus. Omnem igitur collocabit industriam in distinguendis et examinandis illis tribus cognoscendi modis, vidensque veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectu esse posse, sed tantummodo ab aliis duobus suam saepe originem ducere, attendet diligenter ad illa omnia, a quibus decipi potest, ut caveat, et enumerabit exacte vias omnes, quae hominibus patent ad veritatem, certam ut sequatur: neque enim tam multae sunt, quin facile omnes et per sufficientem enumerationem inveniat, quodque mirum et incredibile videbitur inexpertis, statim atque distinxerit circa singula objecta cognitiones illas, quae memoriam tantum implent vel ornant, ab iis propter quas vere aliquis magis eruditus dici debet: quod facile etiam assequetur ... sentiet omnino se nihil amplius ignorare ingenii defectu vel artis, neque quidquam prorsus ab alio homine sciri posse, cujus etiam non sit capax, modo tantum ad illud idem, ut par est, mentem applicet. Et quamvis multa saepe ipsi proponi possint, a quibus quaerendis per hanc regulam prohibebitur: quia tamen clare percipiet, illa eadem omnem humani ingenii captum excedere, non se idcirco magis ignarum esse arbitrabitur, sed hoc ipsum, quod sciet rem quaesitam a nemine sciri posse, si aequus est, curiositati suae sufficiet abunde.”

RENÉ DESCARTES, “Regulae ad directionem ingenii”, in “Oeuvres de Descartes”, publiées par Ch. Adam et P. Tannery, Nouvelle présentation, en co-édition avec le Centre National de la Recherche Scientifique, J. Vrin, Paris 1966, vol. X (pp. 359 – 469), ‘Regula VIII’, pp. 395 – 396.





Cartesio: Res Cogitans e Res Extensa.
Cartesio fu uno dei maggiori filosofi europei del 1600, nacque in Francia da una famiglia di nobili origini. Perchè vi chiederete voi oggi parliamo di Cartesio? La risposta è semplice, sta nel fatto che egli nel corso dei suoi studi e nell'elaborazione del suo pensiero filosofico si interessò e si occupò del rapporto fra la mente e il corpo degli uomini. La sua teoria a riguardo parlava dell'esistenza nel mondo di una Res Cogitans e di una Res Extensa.


Res Cogitans.
La prima era definita la cosa pensante, ovvero il pensiero, l'ambito delle idee, il contenuto del pensato. La res cogitans, non occupa uno spazio definito e non vive un tempo determinato, è dimensione spirituale non finita. Il  pensiero ha la proprietà di avere coscienza di sé.

La Res extensa era definita come la cosa estesa, il mondo materiale, finito, determinato, dentro il quale i corpi e gli oggetti occupano un certo spazio; le cose estese hanno la proprietà di non essere consapevoli di sé.
http://www.viveremeglio.it/article/cartesio-res-cogitans-e-res-extensa/181.htm





Dualismo cartesiano

 Secondo Cartesio l’uomo ha coscienza di sé come essere pensante: res cogitans. 
L’essenza dell' uomo è la sola sostanza pensante. 
La realtà è divisa in due sostanze: 
res cogitansovvero l’ambito di ciò che è psichico ed in esteso, e res extensa, ovvero tutto ciò che è estensione materiale e movimento meccanico. 
Tutti i corpi, compreso il corpo dell' uomo, sono pure macchine; gli animali sono macchine in quanto
non sono esseri pensanti. Anima e corpo nell’uomo comunicano attraverso la ghiandola pineale. Si noti che secondo Cartesio la sensazione non è una facoltà corporea, essendo il corpo un puro meccanismo; la sensazione e anche l’immaginazione sono modi cogitandi, ovvero modificazioni della sostanza pensante.  Questa definizione della sensazione è utile per comprendere la concezione cartesiana della soggettività delle qualità sensibili. La mente umana è in grado di pensare sia idee chiare e distinte sia contenuti di pensiero confusi. 


 Res cogitans (il pensiero inesteso) e res extensa (l’estensione
materiale nelle sue dimensioni quantitative e misurabili) sono
concepite con evidenza. Secondo Cartesio solo ciò che è
chiaro e distinto ha una corrispondenza certa nella realtà:
all’idea chiara e distinta di estensione, che incontriamo nelle
scienze matematiche e geometriche, può corrispondere nella
realtà qualcosa di reale. Le qualità sensibili (rosso, dolce,
amaro) sono invece qualcosa di percepito in modo oscuro; sono
idee confuse senza un corrispondente certo nella realtà. La
sensazione è un modo confuso di pensare che non ha la
funzione di farci conoscere qualcosa, ma una funzione pratica:
orientare il corpo. Nella VI meditazione Cartesio afferma la
distinzione reale dell' anima dal corpo e presenta le prove
dell' esistenza delle cose materiali 

 Se l’uomo, infatti, si scopre come essere pensante, l’esistenza
delle cose materiali dovrà essere dimostrata. La distinzione
anima-corpo è fondata sul criterio della conoscenza evidente:
a due idee concepite chiaramente e distintamente come
diverse, corrisponderanno due realtà diverse. L’idea chiara e
distinta di me stesso come sostanza pensante è diversa
dall’idea del mio corpo come estensione materiale; l’anima,
quindi, è distinta dal corpo. Una prima dimostrazione della
realtà dei corpi parte proprio dalla differenza tra idee chiare
e distinte ed idee confuse: l’idea dell' estensione è chiara e
distinta, s’impone con evidenza alla nostra mente e quindi
corrisponde ad una cosa realmente esistente. Una seconda
prova è fondata sulla differenza tra immaginazione e
pensiero. 

 Immaginare significa avere presente una figura non definita,
mentre pensare significa definire esattamente.
L’immaginazione, quindi, è un modo della sostanza pensante,
ma non è costitutiva della sua essenza: io continuo ad essere
sostanza pensante anche se non immagino nulla.
L’immaginazione e la sensazione sono modificazioni della
sostanza pensante, non sono costitutive della sua essenza:
l’uomo si scopre come sostanza pensante e potrebbe
continuare ad esistere come essere pensante anche senza
immaginare e sentire. Se immaginare e sentire sono in me , ma
non fanno parte della mia essenza, allora sono l’effetto in me
di qualcosa di diverso da me. Immaginare e sentire sono
facoltà passive implicanti che la causa di ciò che è sentito o
immaginato sia qualcosa di distinto da me stesso, ovvero la

realtà corporea.


Platone è il primo netto sostenitore di una posizione dualistica: 
anima e corpo sono due sostanze distinte, irriducibili l'una all'altra, indipendenti.
In particolare l'anima è immortale e non solo continua a vivere dopo la
morte del corpo, ma è esistita anche prima del corpo al quale è stata
incatenata. L'anima è il centro della vita intellettiva ed etica dell'uomo,
è l'essenza dell'uomo ed è concepita come immateriale.

Aristotele, al contrario, rifiuta il dualismo platonico: pur concentrandosi
sul significato di anima come vita, ritiene che essa non possa essere
separata dal corpo, ma anzi identifica l'anima con capacità specifiche
del corpo, e cioè con quelle capacità che consentono all'organismo di
vivere. In questo senso non ci può essere distinzione, se non a livello
filosofico, tra anima e corpo.

 Durante il Medioevo il rapporto anima-corpo viene dibattuto tra
religione e filosofia nel tentativo di costruire una filosofia cristiana che
conciliasse l'idea dell'immortalità dell'anima e della mortalità del corpo,
con quella dell'uomo inteso come totalità di anima e corpo.

 Con il Rinascimento continua ad essere dibattuta non solo la questione
del rapporto mente-anima come l'avevano impostata Platone da un lato e
Aristotele dall'altro, ma anche l'accezione fondamentale che la nozione
di anima aveva avuto per tutta la sua storia, cioè quella del suo rapporto
essenziale con la vita. Da questo punto di vista il concetto di anima viene

esteso a tutta la natura
http://www.portalefilosofico.com/portale/dualismo_mente_corpo.pdf



Cartesio, Dal cogito alla res cogitans (dalle Meditazioni metafisiche)
Il brano che segue è tratto dalla seconda delle Meditazioni metafisiche, e pone le basi per quella distinzione reale tra anima e corpo, che costituisce una delle finalità generali che Cartesio si propone nell'opera, In effetti, la distinzione reale di sostanza corporea e sostanza pensante è pienamente dimostrata solo dal complesso delle sei meditazioni: in particolare dalla sesta, mediante il ricorso alla potenza divina, che è in grado di creare tutto ciò che posso concepire in modo chiaro e distinto.

"Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.
Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c'è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresen­ta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l'estensione, il movi­mento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimerae]. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v'è nulla al mondo di certo. Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testé ho giudicato incer­te, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v'è forse qualche Dio, o qual­che altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esisto, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere sen­za di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell'ingannarmi sempre. Non v'è dunque dub­bio che io esisto, s'egli m'inganna; e m'inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fer­mo, che questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.
Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di esse­re; di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere im­prudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto per lo innanzi. Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è intieramente in­dubitabile. Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pen­sato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragione­vole, e così, da una sola questione, cadremmo insensibilmente in un'infinità di altre diffi­cili ed avviluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impie­gandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pen­sieri, che nascevan prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dal­la mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. Io mi consi­deravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta d'ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che io designavo con il nome di corpo. Io consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che cammi­navo, che sentivo e che pensavo: e riportavo tutte queste azioni all'anima; ma non mi fer­mavo a pensare che cosa fosse quest'anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo che essa fosse qualcosa di estremamente rado e sottile, come un vento, una fiamma, o un'aria delicatissima, insinuata e diffusa nelle parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo, non dubitavo per nulla della sua natura; perché pensavo di conoscerla molto di­stintamente, e, se avessi voluto spiegarla secondo le nozioni che ne avevo, l'avrei descrit­ta in questa maniera: per corpo intendo tutto ciò che può esser determinato in qualche fi­gura; che può essere compreso in qualche luogo, e riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può essere sentito o col tatto, o con la vista, o con l'udito, o col gusto, o con l'odorato; che può essere mosso in più maniere, non da se stes­so, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva l'impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura corporea il privilegio d'a­vere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario, mi stupivo piutto­sto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi.
Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingan­narmi? Posso io esser sicuro di aver la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v'è bisogno che mi fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell'anima, e vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un al­tro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. [...]
Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m'appartiene: esso so­lo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tem­po? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se ces­sassi di pensare, di cessare in pari tempo d'essere o d'esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono ter­mini il cui significato m' era per lo innanzi ignoto".
da Cartesio, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima


Guida alla lettura. Il tema del dubbio. 
Il brano proposto può essere diviso in due parti. 
La prima riprende il tema della prima medita­zione — il dubbio — e attua un rovesciamento dialettico del dubbio iperbolico (l'ipotesi del ge­nio maligno) nella prima certezza: «Io sono, io esisto». Per ciò che riguarda questa parte, va ri­levato il carattere immediatamente intuitivo del cogito, che non è la conclusione di un ragiona­mento astratto (come gli fu a torto rimprovera­to), ma la visione intuitiva e diretta di una ve­rità: quella secondo cui la certezza soggettiva di esistere è autogarantita dall'atto stesso di pen­siero: se dubito penso, se penso esisto, se non esistessi non dubiterei.

Il pensiero come attributo costitutivo dell'io.
La seconda parte tematizza a livello riflessivo il contenuto del cogito, realizzando il passaggio dal­la certezza soggettiva di esistere al riconoscimento del pensiero come attributo dell'io (res cogi­tans). "Che cosa sono io?", si chiede Cartesio, e risponde: «una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione», ossia una sostanza, il cui attributo essenziale è costituito dal pensiero. Cartesio vuole escludere che l'io si possa identifi­care con i propri atti corporei, o che implicano un legame dell'intelligenza con la sensibilità. Ciò è reso possibile dall'esercizio del dubbio, che ha come funzione essenziale proprio quella di opera­re un distacco psicologico dell'anima dai suoi le­gami corporei. È interessante il procedimento di epoché (sospensione del giudizio) metodica cui Cartesio sottopone sia le nozioni ricavate dal sa­pere comune e psicologico intorno all'io (mediante l'introspezione), sia quelle ricavate dal sa- i pere scientifico (la nozione dell'anima come «qualcosa di estremamente rado e sottile, come un vento» ecc.). Tali nozioni devono essere messe in mora non in quanto false, ma in quanto non sufficientemente certe, ossia fondate sull'eviden­za stessa del cogito. Tale evidenza sembra alla fi­ne gettare la propria luce su uno solo degli attri­buti tradizionalmente riferiti all'anima: il pensie­ro, cioè l'attività di «una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente».

Cartesio, L'estensione e le sue proprietà (dalle Meditazioni metafisiche).
Nel brano che segue, tratto dalla seconda meditazione, Cartesio approda all'idea di res extensa, cui si riporta la realtà sostanziale dei corpi. L'extensio non è qui affermata mediante un processo di astrazione dalle qualità sensibili dei corpi (secondo la vecchio mentalità scolastica), non é cioè un concetto estratto, ma una nozione intuitiva. Essa è colta dalla mente in un atto di visione diretta, dopo la distruzione scettica della certezza sensibile; senza il ricorso all'immaginazione, che rappresenta ancora una facoltà di tipo sensibile, ma con un atto di pura intellezione.

"Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di com­prendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d'ordinario più confu­se, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall'alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora qualcosa dell'odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s'incontrano in questo. Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l'odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch'essa resta; e nessuno può negarlo. [...]
Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l'odorato o la vista o il tatto o l'udito si trovano cambia­te, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando lo concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto re­sta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io immagino che questa cera, es­sendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una figura trian­golare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di ricevere un'infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere quest'infinità con la mia immagi­nazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d'immaginare. Ma che cos'è questa estensione? Non è, essa pure, scono­sciuta, poiché nella cera che si fonde aumenta e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa è la cera, se non pensassi ch' essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l'estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l'immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v'è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual è questa cera, che non può essere concepita se non dall'intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l'azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un'immagina­zione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una vi­sione della mente [solius mentis inspectio], la quale può essere imperfetta e confusa, co­me era prima, oppure chiara e distinta, com'è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta".
da Cartesio, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima.


Guida alla lettura 
La descrizione fenomenologica del pezzo di cera 
Il brano può essere suddiviso in due parti. Nella prima Cartesio descrive le trasformazioni che si possono osservare in un pezzo di cera quando venga sottoposto all'azione del fuoco. Si osservi come la descrizione segua da vicino i dettami del­la psicologia aristotelica. Sono enumerate, nell'or­dine, le qualità sensibili, corrispondenti ai cinque sensi esterni: gusto, odorato, vista, tatto, udito. L'azione distruttrice del fuoco lascia però intatta la "sostanza" della cosa, della cui permanenza giudichiamo mediante un atto del giudizio: sia prima sia dopo la metamorfosi delle qualità sensi­bili deve trattarsi dello stesso pezzo di cera. Che qualcosa debba permanere nel continuo divenire del mondo sensibile è del resto un antico principio della metafisica: ex nihilo nihil (altrimenti ogni cambiamento di stato ci porrebbe di fronte al mi­stero inesplicabile di una creazione dal nulla).

L'interpretazione metafisica dell'esperienza descritta 

Nella seconda parte, Cartesio si interroga sul significato reale, ossia metafisico, dell'esperienza constatata a livello psicologico. Il carattere sostanziale (ossia "permanente") del corpo non è più concepito, aristotelicamente, come forma, bensì mediante l'analogia con le proprietà geometriche degli enti matematici. Cartesio distingue, a questo proposito, tra pensiero e immaginazione. Pensare qualcosa significa concepirla chiaramente e distintamente. Immaginarla vuol dire invece raffigurarla sensibilmente. Allo stesso modo, l'infinita modificabilità della extensio (in questo caso della cera) può essere solo concepita dal pensiero, non ri­cavata dall'immaginazione. L'estensione, che corrisponde alla sostanza dei corpi, non è qui un concetto astratto, ma una nozione intuitiva, che si riferisce alla medesima cosa, che era pri­ma oggetto della conoscenza sensibile. Lo stes­so si dica dell'atto di visione (mentis inspectio) che mi consente di coglierla. Come ha scritto efficacemente Jean Laporte, uno studioso di Cartesio, per lui savoir se réduit à voir — il sapere si riduce a vedere —, l'evidenza corrispon­de alla presenza delle cose, colta da una «co­scienza spettatrice», ossia dalla mente.
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