La Stoà Pecile (in greco ἡ ποικίλη στοά) o Portico dipinto, originariamente chiamata «Portico di Peisianatte» (in greco ἡ Πεισιανάκτειος στοά, dal nome del cognato di Cimone e finanziatore dell'opera), fu eretta tra il 475 e il 450 a.C., nella zona settentrionale dell'agorà di Atene.
Il portico, costruito in poros, aveva colonne di ordine dorico all'esterno e di ordine ionico all'interno, con i capitelli ionici in marmo; si estendeva in profondità per 12 metri e 60 centimetri su una crepidine dotata di tre gradini che diventavano quattro verso ovest, per coprire il dislivello del terreno.
Originariamente destinata a riunioni pubbliche, questa stoà ha dato il nome a una corrente filosofica, lo stoicismo, fondata da Zenone di Cizio, che era solito esporre e discutere le proprie idee con i suoi discepoli sotto il portico dipinto.
Della decorazione pittorica della stoà furono responsabili il pittore e scultore Micone e Polignoto di Taso. Al tempo di Pausania, che descrive la decorazione senza nominare gli autori (Pausania I, 15, 1), le pitture presenti nel portico includevano:
una battaglia di Oinoe di soggetto e autore sconosciuti;
una Amazzonomachia di Micone;
una Ilioupersis, che Plutarco attribuisce a Polignoto;
una battaglia di Maratona attribuita dalle fonti a Polignoto, a Micone o a Paneno.
La tecnica con la quale vennero eseguiti i dipinti non è conosciuta ma nelle Epistolæ di Sinesio di Cirene (Epist., 135), si narra della asportazione, alla fine del IV secolo, di quelle che vengono definite «tavole» e che possono essere immaginate come pannelli di terracotta o di legno.
Gli Stoici
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt,
il fato è padrone del mondo
Questa volta è la volta degli stoici, grande scuola di pensiero che annoverava fra i suoi massimi esponenti imperatori romani (Marco Aurelio), schiavi poi affrancati e divenuti celebri (Epitteto, “l’acquistato”), tutor di Nerone (Seneca) e liberi professionisti (Sifone, l’idraulico frigio). (Sifone l’idraulico frigio è un’aggiunta apocrifa).
Il nome prende origine, come già saprete, dalla Stoà poikíle, il portico dipinto sito nell’agorà di Atene dove Zenone di Cizio, fondatore della scuola, teneva le sue lezioni nel terzo secolo a.C. (sotto un portico ai tempi ci si istruiva, oggi non basta una scuola). Lo stoicismo ebbe grande diffusione e fortuna, tanto che possiamo distinguere un’antica Stoà di indirizzo greco (terzo e primo secolo a.C.), una media Stoà e una tarda Stoà di indirizzo romano (da Seneca alla morte di Marco Aurelio).
Lo stoicismo è comunemente noto come filosofia della sopportazione, come arte dello schivare i colpi della sorte, non già nascondendosi quanto affrontandoli a viso aperto, senza battere ciglio e con grande senso di dignità, è in effetti quello stoico un pensiero di carattere prevalentemente etico, che incoraggia la partecipazione attiva alle vicende del mondo (al contrario del “vivi nascosto” epicureo) e che fa perno su una visione rigorosamente razionale della natura.
L’antica Stoà definisce la cornice dello stoicismo, l’idea che l’universo sia un organismo composto da un principio attivo, il logos, la ragione, e da uno passivo, la materia, non c’è posto per gli dei, lo stoicismo è ateo quanto lo era Spinoza (e non cito Spinoza a caso) e se parla di Dio è per riferirsi alla necessità immanente che guida provvidenzialmente il mondo (questo mondo non è tanto il migliore dei mondi possibili quanto l’unico possibile secondo ragione e quindi non ha senso lamentarsene).
Lo stoico, avendo ben compreso che il logos permea ogni cosa con la sua necessità, sa che la vera libertà sta nell’assecondarlo ed accettarlo come guida, chi non lo accetta finirebbe comunque per venirne trascinato (Ducunt volentem fata, nolentem trahunt). Esempio massimo di etica stoica il suicidio indotto di Seneca. Il dominio della passioni sulla ragione è la vera ossessione degli stoici: se la ragione è il principio vero e originario, allora le passioni sono l’errore che conduce alla sofferenza, ma questa diffidenza verso le passioni si trova già in Socrate (e il concetto si ritrova anche in Spinoza).
(Io personalmente non penso che si possa condurre un’esistenza seguendo i soli precetti dell’atarassia e dell’apatia, compito disumano, ma nel momento di massimo sconforto un piccolo lumicino di speranza mi viene dal pensare che quel che accade accade perché non poteva accadere altrimenti, che a ben guardare accade sempre e solo quel che accade e mai quel che sarebbe potuto accadere, il “sarebbe potuto” è solo un “flatus mentis”, un’ombra del pensiero causa di mille angustie, rimpianti e preoccupazioni, vero Kierkegaard?).
Ce ne sarebbero da dire ancora sugli stoici ma l’ora è tarda, si è fatta una certa e quel che più mi preme, ora come ora, è condurre le mie povere e reiette membra verso i cari lidi dell’oblio, il sonno è il rifugio dei tormentati (oggi mi sento poeta).
http://fmentis.tumblr.com/post/165841023146/gli-stoici
Per gli stoici, fondamento di ogni attività intellettiva sono le rappresentazioni che la mente elabora sulla base delle impressioni prodotte dagli stimoli provenienti dall'ambiente. Determinante però risulta l'assenso (συγκατάθεσις, adsensus), l'atto con cui il soggetto conoscente aderisce o meno all'oggetto appreso, secondo l'evidenza del suo manifestarsi. Solo passando attraverso il filtro dell'assenso volontario una rappresentazione può essere assunta come "catalettica", vale a dire come afferramento (κατάληψις, comprehensio) dell'oggetto nel suo significato concettuale. A ogni rappresentazione catalettica deve, per converso, necessariamente corrispondere un oggetto reale, non essendo, infatti, possibile avere un'idea chiara ed evidente di una cosa che non esiste. La scienza, infine, ha il carattere di un sapere ben saldo e ben argomentato.
"Zenone, mostrando la mano con le dita tese, diceva: "così è la rappresentazione".
Poi contraendo un poco le dita: "così è l'assenso". Stretta poi la mano a pugno, continuava:
"e questa è la comprensione". [...] Accostata poi la sinistra, e con essa serrato forte ad arte il pugno, diceva che quella era la scienza, di cui è in possesso solo il sapiente"
Nam, cum extensis digitis adversam manum ostenderat, [Zeno] 'visum,' inquiebat, 'huius modi est.' Deinde, cum paulum digitos contraxerat, 'adsensus huius modi.' Tum cum plane compresserat pugnumque fecerat, comprehensionem illam esse dicebat [...] Cum autem laevam manum adverterat et illum pugnum arte vehementerque compresserat, scientiam talem esse dicebat, cuius compotem nisi sapientem esse neminem. ► Cicerone, Academica priora, II, XLVII
Il rapporto con la realtà a livello di conoscenza percettiva-rappresentativa dunque non è di mero rispecchiamento.
Analogamente, le componenti della comunicazione segnica sono definite dal "triangolo semantico":
"Dicevano che vi sono tre cose strettamente collegate l'una con l'altra, il significato, il significante, l'oggetto vero e proprio: significante è l'espressione, per esempio il nome "Dione"; significato la realtà che esso indica e di cui noi abbiamo comprensione come di qualcosa che si pone fronte al nostro pensiero (i barbari non lo afferrano, pur intendendo il suono materiale della voce); l'oggetto è ciò che è esterno al pensiero, in questo caso, per esempio, Dione in carne e ossa. Di queste due cose due sono corporee, l'espressione vocale e l'oggetto; una, la realtà significata, è invece incorporea, e prende appunto il nome di "significato". Nel significato risiede il vero e il falso, tuttavia esso non ha sempre universalmente lo stesso valore: può trattarsi di un discorso imperfetto o di un discorso compiuto; a quest'ultimo tipo appartiene quello che si chiama il giudizio, cosicché essi nelle loro trattazioni dicono: è il giudizio che è vero o falso." ► Sesto Empirico, Adversus logicos II, 11
La cosa, l'oggetto concreto (τυγχάμενον), è il referente che si vuole indicare; il significante (σημαîνον) è la parola, il nome o suono-segno che indica la cosa; il significato (σημαινóμενον, λεκτóν) è il concetto della cosa, ciò che rimane invariato nella comunicazione fra lingue diverse.
Diversamente dai primi due elementi, il significato non ha alcunché di corporeo, sebbene operi da collegamento necessario fra gli altri due. La grande scoperta degli stoici è che sono sufficienti significante e significato a determinare un segno linguistico (in effetti è ciò che avviene per esempio quando riempiamo di senso immaginifico e concettuale quel che leggiamo, utilizzando solo due vertici del triangolo). A livello di comunicazione la relazione con le cose, e quindi con il mondo reale, è possibile, o presupposta, ma non "disponibile". Esistono, infatti, molte parole cui non corrisponde alcunché nella realtà.
CRISIPPO DI SOLI (280-205 a.C.), terzo scolarca e rifondatore dello stoicismo scrisse 705 libri, in grandissima parte perduti; i suoi maggiori contributi riguardano la definizione degli elementi implicati in ogni espressione linguistica (il triangolo semantico); le regole d’uso o definizioni vero-funzionali degli operatori logici (le particelle “e”, “o”, “se…allora”, “non”); i ragionamenti o sillogismi anapodittici, condizionali; i ragionamenti costituiti da sofismi, paradossi, dilemmi, antinomie (tra le quali la celebre antinomia del mentitore), espressi da proposizioni non apofantiche, la cui verità è indecidibile ...
Secondo il filosofo scettico del I secolo d.C. ENESIDEMO DI CNOSSO, Crisippo avrebbe sostenuto che i cani possiedono l’intelligenza e sono in grado di fare ragionamenti anche sofisticati - però solo interiormente, alla maniera di uomini muti - come quello che da un collegamento ipotetico disgiuntivo e dal contrario di una delle parti collegate conclude l'altra, secondo il modus tollendo ponens, del tipo: "O è giorno, o è notte, ma non è notte. Dunque è giorno":
κατὰ δὲ τὸν Χρύσιππον τὸν μάλιστα συμπολεμοῦντα τοῖς ἀλόγοις ζῴοις καὶ τῆς ἀοιδίμου διαλεκτικῆς μετέχει. φησὶ γοῦν αὐτὸν ὁ προειρημένος ἀνὴρ ἐπιβάλλειν τῷ πέμπτῳ διὰ πλειόνων ἀναποδείκτῳ, ὅταν ἐπὶ τρίοδον ἐλθὼν καὶ τὰς δύο ὁδοὺς ἰχνεύσας δι' ὧν οὐ διῆλθε τὸ θηρίον, τὴν τρίτην μηδ' ἰχνεύσας εὐθέως ὁρμήσῃ δι' αὐτῆς. δυνάμει γὰρ τοῦτο αὐτὸν λογίζεσθαί φησιν ὁ ἀρχαῖος ‘ἤτοι τῇδε ἢ τῇδε ἢ τῇδε διῆλθε τὸ θηρίον· οὔτε δὲ τῇδε οὔτε τῇδε· τῇδε ἄρα.’ ► Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, 1,69
“Secondo Crisippo, che si schiera, più di altri, in difesa degli animali privi di logos, il cane partecipa persino della tanto celebrata “dialettica”. Il suddetto autore dice, infatti, che il cane da caccia sa utilizzare il quinto sillogismo indimostrabile – che è abbastanza complicato! -, allorché, dopo essere giunto ad un trivio e dopo aver fiutato le due vie per le quali la fiera non è passata, non si mette neppure a fiutare la terza, ma si lancia senza esitare in quella direzione. L’antico filosofo asserisce che il cane fa virtualmente questo ragionamento sillogistico: “La fiera è passata o di qui o di qui o di qui; ma non è passata né di qui né di qui: dunque è passata di qui””.
EPITTETO (Ἐπίκτητος, "colui che è stato acquistato", ossia liberto, 50 circa – 130 circa), filosofo greco antico, esponente dello stoicismo di epoca romana, non scrisse nulla, ma il discepolo Arriano di Nicomedia trascrisse e pubblicò le sue lezioni sotto il titolo di Diatribe o Dissertazioni (Διατριβαί), e ne riassunse le massime più importanti nel Manuale (᾿Εγχειρίδιον). Incline a pensare alla filosofia in termini pratici e socratici, di Crisippo disse:
ὅταν τις ἐπὶ τῷ νοεῖν καὶ ἐξηγεῖσθαι δύνασθαι τὰ Χρυσίππου βιβλία σεμνύνηται, λέγε αὐτὸς πρὸς ἑαυτὸν ὅτι ‘εἰ μὴ Χρύσιππος ἀσαφῶς ἐγεγράφει, οὐδὲν ἂν εἶχεν οὗτος, ἐφ᾽ ᾧ ἐσεμνύνετο.’ ἐγὼ δὲ τί βούλομαι; καταμαθεῖν τὴν φύσιν καὶ ταύτῃ ἕπεσθαι. ζητῶ οὖν, τίς ἐστιν ὁ ἐξηγούμενος: καὶ ἀκούσας, ὅτι Χρύσιππος, ἔρχομαι πρὸς αὐτόν. ἀλλ᾽ οὐ νοῶ τὰ γεγραμμένα: ζητῶ οὖν τὸν ἐξηγούμενον. καὶ μέχρι τούτων οὔπω σεμνὸν οὐδέν. ὅταν δὲ εὕρω τὸν ἐξηγούμενον, ἀπολείπεται χρῆσθαι τοῖς παρηγγελμένοις: τοῦτο αὐτὸ μόνον σεμνόν ἐστιν. ἂν δὲ αὐτὸ τοῦτο τὸ ἐξηγεῖσθαι θαυμάσω, τί ἄλλο ἢ γραμματικὸς ἀπετελέσθην ἀντὶ φιλοσόφου; πλήν γε δὴ ὅτι ἀντὶ Ὁμήρου Χρύσιππον ἐξηγούμενος. μᾶλλον οὖν, ὅταν τις εἴπῃ μοι ‘ἐπανάγνωθί μοι Χρύσιππον,’ ἐρυθριῶ, ὅταν μὴ δύνωμαι ὅμοια τὰ ἔργα καὶ σύμφωνα ἐπιδεικνύειν τοῖς λόγοις. ► Epitteto, Manuale, 49
“Quando uno si vanta di poter comprendere e interpretare i libri di Crisippo, dì a te stesso:
«Se Crisippo non avesse scritto in modo oscuro, costui non avrebbe nulla di cui vantarsi». Che cosa voglio, io? Conoscere la natura e seguirla. Per questo cerco un interprete che me la spieghi: sentendo fare il nome di Crisippo, ricorro a lui. Ma non capisco i suoi scritti: allora cerco chi me li spieghi. Fin qui non c'è ancora nulla di cui vantarsi. Poi, però, trovato l'interprete, tocca a me applicare l'insegnamento che ne ho tratto: ed è proprio questa, solo questa, la cosa di cui vantarsi. Se invece ammiro il semplice atto dell'interpretare, che altro ho concluso, se non di fare il grammatico in luogo del filosofo? Con la sola differenza che mi dedico all'esegesi di Crisippo invece che di Omero. Piuttosto, ogni volta che uno mi dice: "leggimi Crisippo", dovrei arrossire, quando non riesco a mostrare azioni simili e conformi alle parole.”
«Se Crisippo non avesse scritto in modo oscuro, costui non avrebbe nulla di cui vantarsi». Che cosa voglio, io? Conoscere la natura e seguirla. Per questo cerco un interprete che me la spieghi: sentendo fare il nome di Crisippo, ricorro a lui. Ma non capisco i suoi scritti: allora cerco chi me li spieghi. Fin qui non c'è ancora nulla di cui vantarsi. Poi, però, trovato l'interprete, tocca a me applicare l'insegnamento che ne ho tratto: ed è proprio questa, solo questa, la cosa di cui vantarsi. Se invece ammiro il semplice atto dell'interpretare, che altro ho concluso, se non di fare il grammatico in luogo del filosofo? Con la sola differenza che mi dedico all'esegesi di Crisippo invece che di Omero. Piuttosto, ogni volta che uno mi dice: "leggimi Crisippo", dovrei arrossire, quando non riesco a mostrare azioni simili e conformi alle parole.”
Copia romana di busto ellenistico di Crisippo, conservata al British Museum
STOICISMO: LA NATURA, L'ΟIΚEIΩΣΙΣ E I CERCHI DELLE APPARTENENZE.
Gli stoici ritengono che vi sia una legge universale che regola il tutto e muove ciascun essere a vivere secondo la propria natura e a realizzare il suo destino. Essi chiamano “οἰκείωσις” (termine che Cicerone fa equivalere a "conciliatio") la tendenza, propria di ciascun essere, a conservarsi, ad “apparentarsi con se stesso”, ad “appropriarsi” e a “familiarizzarsi” con quanto gli è conforme, quindi atto ad incrementarlo, e a rifuggire da ciò che gli è contrario o dannoso ...
1. ZENONE DI CIZIO (336-263 a.C.)
► Diogene Laerzio VII, 86-87
"Nel suo trattato "La natura dell'uomo" Zenone fu il primo a sostenere che il fine è vivere in modo coerente con la natura, ossia vivere secondo virtù: e infatti la natura ci guida alla virtù".
Διόπερ πρῶτος ὁ Ζήνων ἐν τῷ Περὶ ἀνθρώπου φύσεως τέλος εἶπε τὸ ὁμολογουμένως τῇ φύσει ζῆν, ὅπερ ἐστὶ κατ' ἀρετὴν ζῆν· ἄγει γὰρ πρὸς ταύτην ἡμᾶς ἡ φύσις.
2. DIOGENE LAERZIO (III sec. d.C.)
Diogene Laerzio, Vitae phil., VII, 85-86
"Sostengono [gli Stoici] che l'animale abbia come primo istinto la conservazione di se stesso, avendoglielo la natura dato sin dall'origine, come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, quando dice che per ogni animale la prima cosa propria è la sua natura e la coscienza di essa. Né infatti sarebbe verosimile che un animale sia nemico di se stesso, né che si inimichi e non sia attaccato alla natura che lo ha fatto. Resta dunque che quella che lo ha fatto lo concili a se stesso. Così infatti evita le cose che nuocciono e ricerca le utili. In quanto a ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo istinto per gli animali è verso il piacere, essi dicono che è una cosa falsa. Infatti essi [gli Stoici] dicono che il piacere, se esiste veramente, è qualcosa che sopravviene quando la natura, avendo cercato da se stessa ciò che si adatta alla sua conservazione, lo ha ottenuto; ed è in questo modo che gli animali godono e le piante fioriscono. La natura, essi dicono, non ha fatto nessuna differenza tra le piante e gli animali, dal momento che essa governa quelli senza istinto e sensazione, e vi è in noi qualcosa di vegetale. Essendovi negli animali in sovrappiù l'istinto, usando il quale ricercano ciò che loro conviene, in questi la vita secondo natura è regolata dall'istinto. E giacché agli esseri razionali la ragione è stata data in modo più perfetto, il vivere rettamente secondo ragione è per questi vivere secondo natura. Infatti la ragione è quella che regola l'istinto."
Τὴν δὲ πρώτην ὁρμήν φασι τὸ ζῷον ἴσχειν ἐπὶ τὸ τηρεῖν ἑαυτό, οἰκειούσης αὐτὸ τῆς φύσεως ἀπ' ἀρχῆς, καθά φησιν ὁ Χρύσιππος ἐν τῷ πρώτῳ Περὶ τελῶν, πρῶτον οἰκεῖον λέγων εἶναι παντὶ ζῴῳ τὴν αὑτοῦ σύστασιν καὶ τὴν ταύτης συνείδησιν· οὔτε γὰρ ἀλλοτριῶσαι εἰκὸς ἦν αὐτὸ <αὑτῷ> τὸ ζῷον, οὔτε ποιήσασαν αὐτό, μήτ' ἀλλοτριῶσαι μήτ' [οὐκ] οἰκειῶσαι. Ἀπολείπεται τοίνυν λέγειν συστησαμένην αὐτὸ οἰκειῶσαι πρὸς ἑαυτό· οὕτω γὰρ τά τε βλάπτοντα διωθεῖται καὶ τὰ οἰκεῖα προσίεται. Ὃ δὲ λέγουσί τινες, πρὸς ἡδονὴν γίγνεσθαι τὴν πρώτην ὁρμὴν τοῖς ζῴοις, ψεῦδος ἀποφαίνουσιν. ἐπιγέννημα γάρ φασιν, εἰ ἄρα ἔστιν, ἡδονὴν εἶναι ὅταν αὐτὴ καθ' αὑτὴν ἡ φύσις ἐπιζητήσασα τὰ ἐναρμόζοντα τῇ συστάσει ἀπολάβῃ· ὃν τρόπον ἀφιλαρύνεται τὰ ζῷα καὶ θάλλει τὰ φυτά. οὐδέν τε, φασί, διήλλαξεν ἡ φύσις ἐπὶ τῶν φυτῶν καὶ ἐπὶ τῶν ζῴων, ὅτι χωρὶς ὁρμῆς καὶ αἰσθήσεως κἀκεῖνα οἰκονομεῖ καὶ ἐφ' ἡμῶν τινα φυτοειδῶς γίνεται. Ἐκ περιττοῦ δὲ τῆς ὁρμῆς τοῖς ζῴοις ἐπιγενομένης, ᾗ συγχρώμενα πορεύεται πρὸς τὰ οἰκεῖα, τούτοις μὲν τὸ κατὰ φύσιν τῷ κατὰ τὴν ὁρμὴν διοικεῖσθαι· τοῦ δὲ λόγου τοῖς λογικοῖς κατὰ τελειοτέραν προστασίαν δεδομένου, τὸ κατὰ λόγον ζῆν ὀρθῶς γίνεσθαι <τού>τοις κατὰ φύσιν· τεχνίτης γὰρ οὗτος ἐπιγίνεται τῆς ὁρμῆς. ►
3. MARCO TULLIO CICERONE (106-7 a.C.)
“Vivere secondo natura” per l'uomo - in forza del pieno ed autocosciente possesso del λόγος, che costituisce e contraddistingue la dignità dell'umano - vuol dire estendere l'οἰκείωσις oltre l'individuo e la famiglia, fino a coinvolgere la comunità, lo stato e l'intero genere umano (οἰκείωσις come communis hominum inter homines commendatio, Cic. De finibus III, 63).
Prima est enim conciliatio hominis ad ea, quae sunt secundum naturam. […] simul autem cepit intelligentiam vel notionem potius, quam appellant ἔννοιαν illi, viditque rerum agendarum ordinem et, ut ita dicam, concordiam, multo eam pluris aestimavit quam omnia illa, quae prima dilexerat, atque ita cognitione et ratione collegit, ut statueret in eo collocatum summum illud hominis per se laudandum et expetendum bonum, quod cum positum sit in eo, quod ὁμολογίαν Stoici, nos appellemus convenientiam, si placet,— cum igitur in eo sit id bonum, quo omnia referenda sint, honeste facta ipsumque honestum, quod solum in bonis ducitur, quamquam post oritur, tamen id solum vi sua et dignitate expetendum est; eorum autem, quae sunt prima naturae, propter se nihil est expetendum. ► Cicerone, De finibus, III, 20-21
"L'uomo, dunque, si concilia prima di tutto con le cose conformi alla sua natura […] Quando poi acquista la capacità d'intendere (ἔννοια) e vede l'ordine e, per così dire, la coerenza con le azioni da compiere, attribuisce a questa conoscenza un valore assai più grande che a tutte le cose amate dapprima; e per via di conoscenza e di ragione si convince che lì è riposto quel sommo bene che è il suo stesso fine. Quel sommo bene è riposto nella «ὁμολογία», cioè nella coerenza (convenientia) di tutta una vita; e ad esso si riportano tutte le azioni virtuose e la virtù stessa. Riconosciuto, questo sommo bene diviene l'unico e il solo desiderabile; e i beni naturali, che erano serviti per raggiungere questo scopo, non appaiono affatto desiderabili in se stessi."
"... poiché nessuno vuol condurre la vita nella più deserta solitudine, neppure con infinita abbondanza di piaceri, è facile intendere che noi siamo nati per la congiunzione ed associazione degli uomini e per la naturale comunità."
... quodque nemo in summa solitudine vitam agere velit ne cum infinita quidem voluptatum abundantia, facile intellegitur nos ad coniunctionem congregationemque hominum et ad naturalem communitatem esse natos. ► Cicerone, De finibus, III, 65-67
4. FILONE DI ALESSANDRIA (20 a.C.-45 d.C.)
► Filone, De opificio mundi III
"L'uomo che si conforma alla legge è francamente cittadino del mondo (cosmopolita) e dirige le azioni secondo il volere della natura, conformemente alla quale tutto quanto il mondo si governa."
καὶ τοῦ νομίμου ἀνδρὸς εὐθὺς ὄντος κοσμοπολίτου, πρὸς τὸ βούλημα τῆς φύσεως τὰς πράξεις ἀπευθύνοντος, καθ᾿ ἣν καὶ ὁ σύμπας κόσμος διοικεῖται.
5. LUCIO ANNEO SENECA (4 a.C. - 65 d.C.)
"Ci chiedevamo se tutti gli esseri umani avessero coscienza del proprio essere. Si direbbe proprio di sì, perché essi muovono le membra con disinvoltura e speditezza, proprio come se fossero stati educati a tal fine. […] È la costituzione, come voi dite, la parte che conta dell'anima, perché è essa che si adatta in un certo modo al corpo. […] Obietta quello: voi sostenete che ogni animale tende a conformarsi con la sua propria costituzione. Ora la costituzione dell'uomo è di natura razionale, e pertanto l'uomo si concilia a se stesso non in quanto animale, ma in quanto essere razionale: l'uomo insomma ama se stesso per quello che ha di umano."
► Sen., Epistulae Morales Ad Lucilium, Liber XX, 121
Quaerebamus an esset omnibus animalibus constitutionis suae sensus. Esse autem ex eo maxime apparet quod membra apte et expedite movent non aliter quam in hoc erudita. […] Constitutio' inquit 'est, ut vos dicitis, principale animi quodammodo se habens erga corpus. […] 'Dicitis' inquit 'omne animal primum constitutioni suae conciliari, hominis autem constitutionem rationalem esse et ideo conciliari hominem sibi non tamquam animali sed tamquam rationali; ea enim parte sibi carus est homo qua homo est.
6. PLUTARCO (45-120 d.C.)
"L'istinto dell'appropriazione, infatti, sembra consistere nella sensazione e nella percezione di ciò che è familiare."
► Plut., De stoicorum repugnantiis, 12, 1038 c (SVF II 724)
ἡ γὰρ οἰκέιωσις αἴσθησις ἔοικε τοῦ οἰκέιου καὶ ἀντίληψις εἶναι
7. Scrive MAX POHLENZ:
«L'essere vivente differisce dalla pianta a causa dell'anima, la cui prima manifestazione è la percezione. Appena l'essere vivente percepisce qualcosa di bianco o di caldo, ha anche coscienza del processo interno con cui viene colpito dall'impressione del bianco o del caldo. Con la percezione esterna è quindi connessa fin dalla nascita una συναίσθησις, una "compercezione" interna, una coscienza del proprio io; da questa percezione di sé nasce il primo movimento attivo dell'anima in direzione di un oggetto, e cioè il primo istinto. Esso consiste in un rivolgersi del soggetto verso il proprio essere, quell'essere che sente appartenente a sé, οἰκεῖον, e che egli "si appropria". Questa è la οἰκείωσις. Ma poiché la percezione di sé è necessariamente accompagnata da un senso di compiacimento (εὐαρέστησις), anche l'amore di sé è innato nell'essere vivente, e questo amore praticamente si manifesta nell'istinto di conservazione, il quale riceve tutto ciò che favorisce il proprio essere ed evita il contrario. Qualcosa di analogo possiamo osservare anche nel mondo vegetale: la vite s'arrampica come con delle mani intorno al palo ed evita la vicinanza del cavolo, nociva al suo sviluppo. In questi casi però è la provvidente natura universale che regola direttamente lo sviluppo. Nell'essere vivente invece essa ha infuso, insieme con la coscienza di se stesso, anche l'istinto di provvedere da sé alla conservazione e allo sviluppo del proprio essere »
M. Pohlenz, La Stoa, I, pp. 228 sgg.; cfr. anche pp. 104 sg.
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