Il movimento é caratteristico di qualsiasi oggetto o essere.
Anche ció che sembra inerte come una pietra possiede una certa frequenza di vibrazioni.
Pitagora
Impara a tacere. Lascia che la tua mente, quieta, ascolti e impari.
Pitagora
Uomo che ami PARLARE molto: ASCOLTA e diventerai simile al SAGGIO.
L'INIZIO DELLA SAGGEZZA E' IL SILENZIO.
Pitagora
Le scelte sono le cerniere del destino. Se non facciamo scelte, le porte del destino resteranno chiuse
Pitagora
Scegli sempre il cammino che sembra il migliore anche se sembra il più difficile:
l’abitudine lo renderà presto piacevole.
Pitagora
Preoccuparsi soprattutto di due momenti della giornata: di quando ci si addormenta e di quando ci si risveglia. Perché in entrambi occorre sottoporre a un esame gli atti già compiuti e quelli ancora da compiere, dando conto a se stessi delle azioni compiute e prevedendo quelle future.
Pitagora
Dà vita a dei buoni esempi: sarai esentato dallo scrivere delle buone regole.
Pitagora
Non chiamare gli dei a testimoni dei tuoi giuramenti, ma cerca di rendere te stesso degno di fede
Pitagora
Non permettere al tuo corpo di divenire la tomba della tua anima
Pitagora
Finchè gli uomini massacreranno gli animali, si uccideranno tra loro.
In verità, colui che semina il seme del dolore e della morte non può raccogliere amore e gioia.
Pitagora
Non fare ciò che non sai fare, ma impara tutto ciò che conviene sapere.
Pitagora
Gli uomini sono creatori dei propri mali. Infelici!
Ignorano che i veri beni sono alla loro portata dentro se stessi.
Pochi sono coloro che conoscono il modo di liberarsi dei propri tormenti.
È questa la cecità degli uomini che turba la loro intelligenza.
Non sospettando la funesta oscurità che li accompagna,
non sanno discernere ciò che è necessario e ciò che devono rifiutare senza ribellarsi.
Pitagora
Come trottole qua e là sono sospinti tra urti senza fine.
Funesta loro compagna, una congenita, inconscia irosità li mena a rovina, irosità alla quale conviene tu non dia esca, né che ad essa resista, ma che devi scansare.
Zeus padre, da tanti mali libereresti certamente gli uomini se rivelassi loro quale sia il loro vero daimone!
Pitagora
Avvezzati ad un regime di vita puro, senza mollezza; e guardati dal fare tutto ciò che ingenera invidia. Non fare spese non opportune come chi è ignaro del giusto; né sii troppo avaro: misura in ogni cosa è meglio. E non accogliere negli occhi ammolliti il sonno prima di avere ciascun atto del giorno passato in esame: In che errai? Che feci? Che cosa che dovevo non feci? Cominciando dal primo, atto per atto ripassa: e, dopo, se cose cattive hai fatto, di esse biasimati, se buone allietati. Fa ciò che non ti sarà dannoso: ma prima di fare riflettici.
Pitagora
“Amici miei, evitate di corrompere il vostro corpo con cibi impuri; ci sono campi di frumento, mele così abbondanti da piegare gli alberi dei rami, uva che riempie le vigne, erbe gustose e verdure da cuocere. La terra offre una grande quantità di ricchezze, di alimenti puri, che non provocano spargimento di sangue né morte.”
Pitagora
Ti ho mai detto che cosa mi aveva attirato verso Pitagora? Il fatto che è stato lui ad inventare la parola amicizia. Lo sapevi? Quando gli chiesero che cosa era un amico, lui rispose: "Colui che è l'altro me stesso, come accade ai numeri 220 e 284". Due numeri sono "amici" o "amicabili" se ognuno di essi è la somma di tutti i divisori dell'altro (esclusi i numeri stessi). I due numeri amicabili più celebri del Pantheon pitagorico sono appunto 220 e 284, che formano una bella coppia. Puoi fare la prova se hai tempo. E noi due, siamo "amici"? Quali sono i tuoi divisori, Pierre? E i miei? Forse è arrivato il momento di fare la somma dei nostri divisori.
Denis Guedj - "Il teorema del pappagallo"
VERSI D’ORO DI PITAGORA
Venera prima di tutto gli dei immortali, come sono stati stabiliti dalla legge e tieni sacro il giuramento;
Quindi venera gli eroi gloriosi e i geni terrestri; compiendo ciò che è di legge;
E onora i genitori e i più vicini parenti; e degli altri fatti amico chi sia il migliore in virtù.
Condiscendi alle parole benigne e alle azioni utili, e non aver odio per il tuo amico a causa di lieve colpa, per quanto puoi:
CHE IL POTERE ABITA VICINO ALLA NECESSITÀ.
Così è, sappi quanto ho detto; quanto ti dico, impara a dominarlo:
il ventre per primo, e il sonno e la concupiscenza e l’ira; non fare mai cose turpi con gli altri né da solo e più che tutto abbi rispetto di te stesso.
Esercita la giustizia e negli atti e nelle parole e non affrontare nessuna situazione con leggerezza; si, tieni presente che morire è destino di tutti.
I beni materiali poi trova giusto ora acquistarli ora perderli. E di quanti dolori per divin fato toccano ai mortali, la parte che a te tocchi, sopportala senza indignarti; che vi rimedi è giusto per quanto puoi; ma questo che ti dico considera:
IL FATO AI BUONI NON DÀ TANTI DOLORI.
Agli uomini capita di ascoltare molti discorsi e buoni e cattivi: di essi non impressionarti, né aver timore quando li ascolti; e ove cosa falsa si dica con dolcezza ritraiti.
CIO’ CHE ORA TI DICO IN OGNI CASO OSSERVALO:
Nessuno ti induca né con la parola né con atto a fare né a dire cosa che non ti convenga.
Rifletti bene prima di agire affinché atti stolti non ne seguano, che fare e dire cose stolte è da uomo meschino;
Sì, fai quelle cose che fatte non ti angustieranno, non fare nessuna delle cose che non sai, ma impara quando abbisogna e la più lieve vita in tal modo trascorrerai.
Neanche la salute del corpo è da trascurare: ma e nel bere misura e nel mangiare e nella ginnastica si osservi: chiamo misura quella che non ti recherà molestia.
Avvezzati ad un regime di vita puro, senza mollezza; e guardati dal fare tutto ciò che ingenera invidia.
Non fare spese non opportune come chi è ignaro del giusto; né sii troppo avaro: misura in ogni cosa è meglio.
Fa ciò che non ti sarà dannoso: ma prima di fare riflettici.
E non accogliere negli occhi ammolliti il sonno prima di avere ciascun atto del giorno passato in esame: In che errai? Che feci? Che cosa che dovevo non feci? Cominciando dal primo, atto per atto ripassa: e, dopo, se cose cattive hai fatto, di esse biasimati, se buone allietati.
A questo adoperati, questo pratica, questo devi amare: questo ti metterà sulle orme della virtù divina.
Si, per colui che alla nostra anima trasmise il numero quaternario, sorgente dell’eterna natura.
Ma nel fare qualsiasi compito prega gli Dei di portarlo a termine.
Se ti sarai reso padrone di queste cose, arriverai a conoscere l’essenza sia degli immortali che degli uomini mortali, sin dove le singole cose differiscono e sin dove tra loro concordino; e arriverai a conoscere, fin dove è concesso, che la natura è in tutto simile a se stessa:
Di modo che non spererai cose non sperabili né alcunché ti resterà nascosto.
E arriverai a conoscere che gli uomini hanno i mali che da sé si sono scelti, infelici, essi che i beni che hanno vicini né scorgono, né intendono: sciogliersi dai mali pochi sanno.
Tale il destino che svia la mente dei mortali:
A guisa di oggetti che rotolano, sono portati ora qua ora là, soffrendo mali infiniti: CHE A LORO INSAPUTA, LI TRAVIA, FUNESTA COMPAGNA, LA CONTESA IN ESSI INNATA, LA QUALE NON VA STIMOLATA BENSÌ CEDENDO EVITATA.
Giove padre, di molti mali per certo libereresti tutti, se a tutti mostrassi qual è il loro destino. Ma tu fatti animo che i mortali, ai quali la sacra natura mostra chiaramente tutte le cose rivelandole, sono di stirpe divina.
Se tu vi partecipi, dominerai ciò che ti ordino e, guarita che avrai la tua anima, da queste pene ti salverai.
Ma astieniti dai cibi che ti dicemmo: e nelle purificazioni come nella liberazione dell’anima usa discernimento e pondera ogni cosa, ponendoti a guida la RAGIONE che viene dall’Alto, l’Eccellente.
E se lasciandoti dietro il corpo, al libero etere pervieni, sarai immortale, dio esente da morte, non più mortale.
“Amici miei, evitate di corrompere il vostro corpo con cibi impuri; ci sono campi di frumento, mele così abbondanti da piegare gli alberi dei rami, uva che riempie le vigne, erbe gustose e verdure da cuocere. La terra offre una grande quantità di ricchezze, di alimenti puri, che non provocano spargimento di sangue né morte.”
Pitagora
Ti ho mai detto che cosa mi aveva attirato verso Pitagora? Il fatto che è stato lui ad inventare la parola amicizia. Lo sapevi? Quando gli chiesero che cosa era un amico, lui rispose: "Colui che è l'altro me stesso, come accade ai numeri 220 e 284". Due numeri sono "amici" o "amicabili" se ognuno di essi è la somma di tutti i divisori dell'altro (esclusi i numeri stessi). I due numeri amicabili più celebri del Pantheon pitagorico sono appunto 220 e 284, che formano una bella coppia. Puoi fare la prova se hai tempo. E noi due, siamo "amici"? Quali sono i tuoi divisori, Pierre? E i miei? Forse è arrivato il momento di fare la somma dei nostri divisori.
Denis Guedj - "Il teorema del pappagallo"
VERSI D’ORO DI PITAGORA
Venera prima di tutto gli dei immortali, come sono stati stabiliti dalla legge e tieni sacro il giuramento;
Quindi venera gli eroi gloriosi e i geni terrestri; compiendo ciò che è di legge;
E onora i genitori e i più vicini parenti; e degli altri fatti amico chi sia il migliore in virtù.
Condiscendi alle parole benigne e alle azioni utili, e non aver odio per il tuo amico a causa di lieve colpa, per quanto puoi:
CHE IL POTERE ABITA VICINO ALLA NECESSITÀ.
Così è, sappi quanto ho detto; quanto ti dico, impara a dominarlo:
il ventre per primo, e il sonno e la concupiscenza e l’ira; non fare mai cose turpi con gli altri né da solo e più che tutto abbi rispetto di te stesso.
Esercita la giustizia e negli atti e nelle parole e non affrontare nessuna situazione con leggerezza; si, tieni presente che morire è destino di tutti.
I beni materiali poi trova giusto ora acquistarli ora perderli. E di quanti dolori per divin fato toccano ai mortali, la parte che a te tocchi, sopportala senza indignarti; che vi rimedi è giusto per quanto puoi; ma questo che ti dico considera:
IL FATO AI BUONI NON DÀ TANTI DOLORI.
Agli uomini capita di ascoltare molti discorsi e buoni e cattivi: di essi non impressionarti, né aver timore quando li ascolti; e ove cosa falsa si dica con dolcezza ritraiti.
CIO’ CHE ORA TI DICO IN OGNI CASO OSSERVALO:
Nessuno ti induca né con la parola né con atto a fare né a dire cosa che non ti convenga.
Rifletti bene prima di agire affinché atti stolti non ne seguano, che fare e dire cose stolte è da uomo meschino;
Sì, fai quelle cose che fatte non ti angustieranno, non fare nessuna delle cose che non sai, ma impara quando abbisogna e la più lieve vita in tal modo trascorrerai.
Neanche la salute del corpo è da trascurare: ma e nel bere misura e nel mangiare e nella ginnastica si osservi: chiamo misura quella che non ti recherà molestia.
Avvezzati ad un regime di vita puro, senza mollezza; e guardati dal fare tutto ciò che ingenera invidia.
Non fare spese non opportune come chi è ignaro del giusto; né sii troppo avaro: misura in ogni cosa è meglio.
Fa ciò che non ti sarà dannoso: ma prima di fare riflettici.
E non accogliere negli occhi ammolliti il sonno prima di avere ciascun atto del giorno passato in esame: In che errai? Che feci? Che cosa che dovevo non feci? Cominciando dal primo, atto per atto ripassa: e, dopo, se cose cattive hai fatto, di esse biasimati, se buone allietati.
A questo adoperati, questo pratica, questo devi amare: questo ti metterà sulle orme della virtù divina.
Si, per colui che alla nostra anima trasmise il numero quaternario, sorgente dell’eterna natura.
Ma nel fare qualsiasi compito prega gli Dei di portarlo a termine.
Se ti sarai reso padrone di queste cose, arriverai a conoscere l’essenza sia degli immortali che degli uomini mortali, sin dove le singole cose differiscono e sin dove tra loro concordino; e arriverai a conoscere, fin dove è concesso, che la natura è in tutto simile a se stessa:
Di modo che non spererai cose non sperabili né alcunché ti resterà nascosto.
E arriverai a conoscere che gli uomini hanno i mali che da sé si sono scelti, infelici, essi che i beni che hanno vicini né scorgono, né intendono: sciogliersi dai mali pochi sanno.
Tale il destino che svia la mente dei mortali:
A guisa di oggetti che rotolano, sono portati ora qua ora là, soffrendo mali infiniti: CHE A LORO INSAPUTA, LI TRAVIA, FUNESTA COMPAGNA, LA CONTESA IN ESSI INNATA, LA QUALE NON VA STIMOLATA BENSÌ CEDENDO EVITATA.
Giove padre, di molti mali per certo libereresti tutti, se a tutti mostrassi qual è il loro destino. Ma tu fatti animo che i mortali, ai quali la sacra natura mostra chiaramente tutte le cose rivelandole, sono di stirpe divina.
Se tu vi partecipi, dominerai ciò che ti ordino e, guarita che avrai la tua anima, da queste pene ti salverai.
Ma astieniti dai cibi che ti dicemmo: e nelle purificazioni come nella liberazione dell’anima usa discernimento e pondera ogni cosa, ponendoti a guida la RAGIONE che viene dall’Alto, l’Eccellente.
E se lasciandoti dietro il corpo, al libero etere pervieni, sarai immortale, dio esente da morte, non più mortale.
DifendiAMO La Cultura:
Pitagora di Samo. Scienziato, filosofo, legislatore, la vita di Pitagora è ammantata di leggenda. Nato nel VI secolo a.C., Pitagora è stato oggetto di diverse biografie, che spesso ne hanno suggerito una natura divina e hanno mischiato i suoi insegnamenti scientifici, la sua dottrina religiosa e il suo celeberrimo teorema con quello dei cosiddetti pitagorici. PRECORRITORE DEL VEGETARIANESIMO, POLITICO, FONDATORE DI UNA SETTA CHE VEDEVA NELLA CONOSCENZA - COMPRESA QUELLA SCIENTIFICA - LA VIA DI PURIFICAZIONE E DI CATARSI DELL'ANIMA, Pitagora è una figura tanto antica quanto ancora portatrice di contenuti per la contemporaneità.
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LA SCUOLA DI ATENE è un affresco (770×500 cm circa) di Raffaello Sanzio, databile al 1509-1510 e situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro "Stanze Vaticane", poste all'interno dei Palazzi Apostolici. Rappresenta UNA DELLE OPERE PITTORICHE PIÙ RILEVANTI DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO, visitabile all'interno del percorso dei Musei Vaticani. L'EVOCAZIONE DEGLI UOMINI ILLUSTRI DEL PASSATO VENNE COLLEGATA INDISSOLUBILMENTE AL PRESENTE, DANDO TALVOLTA AGLI UOMINI ANTICHI LE FATTEZZE DI PERSONAGGI CONTEMPORANEI. Probabilmente nelle figure dell'affresco erano riconoscibili i personaggi della corte pontificia, tra cui umanisti, letterati e principi. Per la critica moderna però, nella generale scarsità di fonti attendibili, scritte o iconografiche, si identifica soprattutto un nutrito gruppo di artisti. Già VASARI MENZIONÒ I RITRATTI DI FEDERICO II GONZAGA, BRAMANTE, E RAFFAELLO STESSO. Particolarmente conosciute, ma non sempre documentate, sono le IPOTETICHE RAFFIGURAZIONI DI MICHELANGELO NELLA FIGURA DI ERACLITO, LEONARDO DA VINCI COME PLATONE E BRAMANTE COME EUCLIDE. La figura di Michelangelo, come si è già accennato, venne aggiunta in un secondo momento e nello stile riecheggia le magniloquenti torsioni del collega, con un forte risalto plastico. Controversa è poi l'identificazione di Francesco Maria Della Rovere nel giovane stante vestito di bianco. La presenza degli artisti nell'affresco ribadiva l'elevazione del loro mestiere tra le arti liberali, secondo lo spirito pienamente rinascimentale.
(isabella)
John David Barrow. I pitagorici e gli scandalosi numeri irrazionali.
“Pitagora e i suoi seguaci consideravano i numeri come la genuina essenza delle cose, vedendo nell’aspetto numerico una rappresentazione simbolica del significato dell’universo. Noi siamo abituati a considerare i numeri come descrizioni di insiemi di cose o come relazioni tra le cose; i pitagorici, invece, erano profondamente legati a un’antica credenza mistica riguardo al significato dei numeri stessi. Così un particolare, come il 4, aveva sia una rappresentazione simbolica sia un significato simbolico. Pitagora e i suoi discepoli trasformarono la matematica in una religione mistica in cui i numeri erano segni e simboli di un sapere occulto, posto dietro il mondo delle apparenze, che poteva essere raggiunto solo grazie a una capacità di interpretazione particolarmente acuta. Alla fine, però, si verificò una singolare crisi che scosse dalle fondamenta il credo della setta. I pitagorici erano convinti che tutti i numeri fossero di due tipi: o numeri interi (come 1, 2, 3, …, e così via) o frazioni come 1/2, 4/5, 2/7, …, e così via), ottenute dividendo un qualsiasi numero intero per un altro numero intero. Questi numeri erano chiamati numeri «razionali». Ma il famoso teorema relativo ai triangoli che porta il nome di Pitagora rivelò che, se si disegnava un quadrato di lato pari a un’unità di lunghezza, la lunghezza della diagonale che congiungeva due qualsiasi vertici opposti del quadrato aveva un valore che noi chiamiamo radice quadrata di 2. Nonostante tutti i tentativi fatti con i più sperimentati procedimenti sistematici, i pitagorici non riuscivano a esprimere questo numero come rapporto tra due numeri interi, cioè come frazione. Alla fine fu dimostrato che la radice quadrata di 2 non poteva essere espressa in alcun modo come rapporto di due numeri interi: si trattava di un numero di tipo nuovo e strano, cui inizialmente i pitagorici diedero il nome di ‹árreton›, indicibile, cioè inesprimibile – sotto forma di rapporto. In seguito questi sconcertanti numeri furono chiamati «numeri irrazionali», termine che era inteso a riflettere la medesima idea di inesprimibilità. I numeri come la radice quadrata di 2 apparivano scandalosi ai pitagorici perché non potevano essere misurati con precisione con uno strumento di misura. Ciò costituiva una sfida per la loro fede nel potere fondamentale dei numeri di governare l’universo. Se non riuscivano ad avere ragione di una cosa così banale come la diagonale di un quadrato, la loro intera religione era minacciata. Questo risultato appariva tanto più inquietante perché, a partire da esso, si poteva costruire una serie infinita di altri numeri irrazionali, cominciando dalle radici quadrate di 3, 5, 6 e 7. Esso, inoltre, apriva una spaccatura tra l’aritmetica, che era in grado di creare questi strani numeri «irrazionali», e la geometria, che non era in grado di misurarli.
Secondo la tradizione, quando questi numeri irrazionali furono scoperti, la cosa fu mantenuta segreta dalla confraternita perché non si spargesse la notizia che c’erano numeri tali da sfidare le dottrine pitagoriche. Ippaso commise il peccato di violare il giuramento di segretezza e di rivelare questa terribile verità, e fu affogato. Secondo un commentatore più tardo, «l’indicibile e l’informe dovevano essere tenuti segreti; coloro che svelavano e sfioravano questa immagine della vita ne erano istantaneamente distrutti e dovevano rimanere in balia delle onde eterne». C’è però da sospettare che, come i membri di molte società segrete, i pitagorici si prendessero un po’ pù sul serio di quanto li prendessero gli estranei.”
JOHN DAVID BARROW (1952), “La luna nel pozzo cosmico. Contare, pensare ed essere”, trad. di Tullio Cannillo, Adelphi, Milano 1994 (I ed.), 1. ‘Dal mistero alla storia’, ‘La società segreta’, pp. 28 – 30.
Cenni storici.
La scoperta dei numeri irrazionali viene tradizionalmente attribuita a Pitagora, o più precisamente al pitagorico Ippaso di Metaponto, che produsse una argomentazione (probabilmente con considerazioni geometriche) dell'irrazionalità della radice quadrata di 2. Secondo la tradizione Ippaso scoprì i numeri irrazionali mentre tentava di rappresentare la radice quadrata di 2 come frazione (vedi la dimostrazione sotto). Tuttavia Pitagora credeva nell'assolutezza dei numeri, e non poteva accettare l'esistenza dei numeri irrazionali. Egli non era in grado di confutare la loro esistenza con la logica, ma le sue credenze non potevano tollerarne l'esistenza e, secondo una leggenda, per questo condannò Ippaso a morire annegato.
https://it.wikipedia.org/wiki/Numero_irrazionale
Ippaso di Metaponto: la nascita dei numeri irrazionali
“Tutto è Numero”
pitagora.gif
Il motto di Pitagora sembrava la chiave per svelare i segreti dell’universo, i numeri ed i loro rapporti. Ma il cammino della conoscenza non è mai troppo facile, anzi è impervio ed insidioso. E così saltò fuori un bel problema.
Ci si accorse, a partire dalla semplice figura del quadrato, che il lato e la diagonale avevano lunghezze che non erano esprimibili attraverso un rapporto di due numeri interi. Erano dunque incommensurabili.
Fu un vero e proprio terremoto. Come reagirono i pitagorici? Sicuramente l’atteggiamento non fu dei più lodevoli. Continuarono a divulgare le loro teorie, cercando di tenere nascosto tale aspetto. Magari prima o poi si sarebbe trovata una soluzione, quindi meglio non dire nulla. Ma come spesso succedere, prima o poi la verità viene a galla. E qualcuno parlò.
Il “traditore” fu Ippaso di Metaponto. La reazione dei pitagorici fu durissima: fu bandito e gli fu costruito, quantunque ancora in vita, un monumento funebre. Morì poco tempo dopo vittima di un naufragio, secondo la leggenda, per volere di Zeus adirato.
Scrive il filosofo greco Proclo:
“I pitagorici narrano che il primo divulgatore di questa teoria [degli irrazionali] fu vittima di un naufragio; e parimenti si riferivano alla credenza secondo la quale tutto ciò che è irrazionale, completamente inesprimibile e informe, ama rimanere nascosto; e se qualche anima si rivolge ad un tale aspetto della vita, rendendolo accessibile e manifesto, viene trasportata nel mare delle origini, ed ivi flagellata dalle onde senza pace”.
Ma la conoscenza non lascia nulla nascosto. Così nacquero i numeri irrazionali. Sono quei numeri che non sono esprimibili con un rapporto di interi, come le radici quadrate, cubiche, come la sezione aurea o il pi greco. Sono quei numeri il cui sviluppo decimale, ossia dopo la virgola, procede all’infinito.
Fu così che l’infinito approdò sulle rive della matematica e del pensiero…
https://micheblog.wordpress.com/2008/02/08/ippaso-di-metaponto-la-nascita-dei-numeri-irrazionali/
UN GIALLO pitagorico
PREMESSA
Come è morto Ippaso da Metaponto? chi lo ha ucciso e perché?
A distanza di 25 secoli questo giallo è ancora irrisolto.
Ma chi era Ippaso e che ragioni avevano i Pitagorici per eliminarlo?
Addentriamoci in questo giallo partendo dal profilo della vittima,
cercheremo poi il movente e infine faremo le nostre ipotesi sui colpevoli.
Seguendo le tracce di Ippaso incontreremo anche oggetti matematici molto strani ma,
proprio per questo, molto interessanti.
LA VITTIMA: IPPASO DA METAPONTO
Ippaso da Metaponto è considerato la personalità più rilevante della scuola pitagorica antica dopo il fondatore. Giamblico gli attribuisce la descrizione del dodecaedro regolare e la dimostrazione della sua iscrivibilità in una sfera. Ma la scoperta che gli risulterà fatale sarà l'esistenza di grandezze incommensurabili che scalfiva la perfetta razionalità del sistema pitagorico.
Ippaso, trasgredendo alle rigide regole della scuola, divulgò questo risultato.
Questo, per la scuola Pitagorica, fu una colpa gravissima !!!
IL MOVENTE: IL CROLLO DI UN EDIFICIO PERFETTO
Per comprendere il movente di questo presunto omicidio dobbiamo ricordare che, per la Scuola Pitagorica, tutto e’ numero. Il mondo e la sua armonia erano basati sui numeri interi e sui loro rapporti; i rapporti fra numeri interi davano origine ai numeri “razionali” e su di essi i pitagorici avevano costruito un edificio coerente per l’interpretazione del mondo. Ma……
…..ma, come conseguenza del teorema di Pitagora applicato ad un triangolo rettangolo isoscele, improvvisamente l’edificio così faticosamente costruito subì una scossa paragonabile ad un terribile terremoto .
LA FINE DI UN TRADITORE
Ippaso aveva trasgredito ad una delle regole fondamentali della scuola pitagorica divulgando all’esterno la scoperta dei numeri irrazionali che metteva in crisi le basi su cui la scuola si fondava. Per il suo tradimento, Ippaso venne messo al bando dai pitagorici che, si racconta, gli innalzarono un monumento funebre, perché fosse chiaro che per loro era morto. Si narra anche, ma è sempre leggenda, che lo stesso Giove, adirato contro di lui, lo fece perire in un naufragio.
Il filosofo greco Proclo (412 - 485 d. C.) scrive a questo proposito:
"I pitagorici narrano che il primo divulgatore di questa teoria [degli irrazionali] fu vittima di un naufragio; e parimenti si riferivano alla credenza secondo la quale tutto ciò che è irrazionale, completamente inesprimibile e informe, ama rimanere nascosto; e se qualche anima si rivolge ad un tale aspetto della vita, rendendolo accessibile e manifesto, viene trasportata nel mare delle origini, ed ivi flagellata dalle onde senza pace".
http://iomatematico.altervista.org/pitagora/un_giallo_pitagorico.html
Concetto di infinito nel mondo antico
Nel mondo antico, popoli come quello babilonese o egizio non presero mai in esame l’infinito, non per mancanza di capacità intellettuali,ma semplicemente per il fatto che nei loro problemi pratici l’infinito né compariva, né destava interesse.
Fu invece nell’antica Grecia che grandi matematici e filosofi cominciarono a dibattere e ad interrogarsi sul concetto di infinito. [...]
Nel mondo greco antico il concetto di infinito fu elaborato con numerose accezioni negative.
Si riteneva infatti conoscibile solo ciò che era finito e determinato e di conseguenza impensabile un infinito attuale, cioè concreto e visibile. Tale rifiuto ad ammettere l’infinito attuale nella matematica greca e più generalmente un diffuso disinteresse delle civiltà antiche per l’infinito è detto
“horror infiniti”.
Già Anassimandro (6 sec. a.C.) identificò l’archè, il principio, nell’apeiron una sorta di infinito / indefinito da cui scaturiscono tutte le cose.
Pitagora fu forse il primo filosofo/matematico che realmente ebbe a che fare col concetto di infinito.
La matematica pitagorica è basata sul concetto di “discontinuità”, in quanto essa si fonda esclusivamente sui numeri interi e non irrazionali e dunque l’accrescimento di una grandezza procede per “salti discontinui”, essendo impossibile aggiungere qualcosa che sia minore dell’unità.
In questa visione del mondo tutti gli oggetti erano costituiti da un numero finito di monadi, particelle minuscole simili agli atomi. Due grandezze, dunque, potevano essere espresse con un numero intero ed erano tra loro commensurabili, ammettevano cioè un comune denominatore.
Il pensiero pitagorico verrà messo in crisi dalla scoperta delle grandezze incommensurabili (ovvero che non ammettono denominatori comuni con altre grandezze ), elaborata all’interno della scuola stessa e custodita come un segreto inconfessabile.
La scoperta partì del celeberrimo teorema di Pitagora:
applicando il teorema su un triangolo rettangolo isoscele, che risulta essere metà di un quadrato, notiamo che il rapporto tra ipotenusa e cateto così come tra lato e diagonale del quadrato è uguale a √2 questo numero è decimale, ma irrazionale significa cioè che per determinare le sue cifre dopo la virgola, che sono del tutto casuali, sarà necessario procedere nell’infinitamente piccolo:
1,414213562….
Ciò comporta che lato e diagonale siano grandezze incommensurabili e che dunque non sono più come si pensava composti da un numero finito di punti, ma da un infinità di punti.
Per la prima volta si parla di un infinito concreto e non potenziale.
Va dunque attribuito ai pitagorici il merito di aver individuato uno dei più complessi “labirinti” mentali del pensiero umano: il rapporto tra continuo e discontinuo.
Successivamente, nel V secolo, il filosofo Anassagora che compì degli studi sul problema dell’infinita divisibilità, affermava: “non v’è mai un limite minimo del piccolo, ma v’è sempre un più piccolo, essendo impossibile che ciò che è cessi di essere per divisione”.
Molti interpretano tale affermazione come appunto infinita divisibilità di ogni cosa e dunque alcuni storici della matematica hanno voluto vedervi una primitiva idea del limite.
Anassagora però continua:
“ma anche nel grande v’è sempre un maggiore.
Ed è uguale in estensione al piccolo: di per sé ogni cosa è insieme e grande e piccola…”.
In questo senso è più corretto interpretare la duplice progressione del grande e del piccolo non tanto come infinita divisibilità, ma piuttosto come infinita relatività di tutte le cose reali:
ogni cosa è contemporaneamente grande e piccola a seconda del punto di vista da cui viene osservata.
In questo dibattito intervenne soprattutto Aristotele il quale sostenne con decisione la continuità delle grandezze geometriche insieme alla loro infinita divisibilità.
Per comprendere il concetto di infinito di Aristotele occorre distinguere fra Infinito in atto e Infinito in potenza, intendendo per Infinito potenziale la possibilità di aggiungere sempre qualcosa a una quantità determinata senza che ci sia un elemento ultimo; è d’altronde impossibile che “l’infinito in atto sia” inteso come collezione infinita, compiutamente data, di tutti i punti di una grandezza.
Non si può retrocedere all’infinito.
Si può soltanto retrocedere e avanzare passo per passo.
Aristotele affermava “il numero è infinito in potenza, ma non in atto …
Questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici, per il fatto che esso esclude che l’infinito per accrescimento sia tale da poter essere percorso in atto. In realtà essi stessi allo stato presente non sentono il bisogno di infinito, ma di una quantità più grande quanto essi vogliono, ma pur sempre finita…”
Da tale affermazione possiamo dedurre che l’unica accezione di infinito accettata da Aristotele era l’infinito potenziale inteso come “divenire”.
Un numero o una qualsiasi altra quantità, è potenzialmente in grado di tendere all’infinito, aumentandola ogni volta di poco, ma ogni volta risulterà un entità finita. Ad esempio nei numeri naturali aggiungendo ogni volta un’unità ad un numero si otterranno quantità finite, ma che sembrano potenzialmente in grado di tendere all’infinito.
L’infinito per Aristotele deve essere considerato come qualcosa sempre in via di nascere o di perire, di crescere o diminuire e che, mantenendosi in ogni suo stato finito è sempre diverso nei suoi successivi stati (cfr www. Matematica.uni-bocconi.it).
Nega l’esistenza di un infinito attuale fisico come nega l’esistenza di una infinito attuale mentale.
Il termine usato in greco per designare l’infinito è “apeiron” (senza limiti, dunque illimitato).
La difficoltà inerente all’infinito consiste perciò nella sua inesauribilità:
l’infinito non può mai essere presente nella sua totalità nel nostro pensiero.
L’illimitato non può essere in nessun caso considerato come un tutto completo.
Ciò che è completo ha una fine e la fine è elemento limitante.
Aristotele dunque associa indissolubilmente all’infinito un’idea negativa espressione della sua incompletezza e potenzialità non attuata e non attuabile.
Proprio questa idea negativa porta al rifiuto di introdurre l’infinito attuale nella matematica greca.
Bibliografia
Gianni Micheli, Voce Infinito in Enciclopedia Einaudi. Torino Einaudi, 1980.
Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.1: l’antichità. Il Medioevo. Milano, Garzanti, 1970.
Sitografia
www.polito.it
www.uni-bocconi.it
La tetraktys pitagorica.
Pitagora. La musica delle sfere.
John David Barrow. I pitagorici e gli scandalosi numeri irrazionali.
“Pitagora e i suoi seguaci consideravano i numeri come la genuina essenza delle cose, vedendo nell’aspetto numerico una rappresentazione simbolica del significato dell’universo. Noi siamo abituati a considerare i numeri come descrizioni di insiemi di cose o come relazioni tra le cose; i pitagorici, invece, erano profondamente legati a un’antica credenza mistica riguardo al significato dei numeri stessi. Così un particolare, come il 4, aveva sia una rappresentazione simbolica sia un significato simbolico. Pitagora e i suoi discepoli trasformarono la matematica in una religione mistica in cui i numeri erano segni e simboli di un sapere occulto, posto dietro il mondo delle apparenze, che poteva essere raggiunto solo grazie a una capacità di interpretazione particolarmente acuta. Alla fine, però, si verificò una singolare crisi che scosse dalle fondamenta il credo della setta. I pitagorici erano convinti che tutti i numeri fossero di due tipi: o numeri interi (come 1, 2, 3, …, e così via) o frazioni come 1/2, 4/5, 2/7, …, e così via), ottenute dividendo un qualsiasi numero intero per un altro numero intero. Questi numeri erano chiamati numeri «razionali». Ma il famoso teorema relativo ai triangoli che porta il nome di Pitagora rivelò che, se si disegnava un quadrato di lato pari a un’unità di lunghezza, la lunghezza della diagonale che congiungeva due qualsiasi vertici opposti del quadrato aveva un valore che noi chiamiamo radice quadrata di 2. Nonostante tutti i tentativi fatti con i più sperimentati procedimenti sistematici, i pitagorici non riuscivano a esprimere questo numero come rapporto tra due numeri interi, cioè come frazione. Alla fine fu dimostrato che la radice quadrata di 2 non poteva essere espressa in alcun modo come rapporto di due numeri interi: si trattava di un numero di tipo nuovo e strano, cui inizialmente i pitagorici diedero il nome di ‹árreton›, indicibile, cioè inesprimibile – sotto forma di rapporto. In seguito questi sconcertanti numeri furono chiamati «numeri irrazionali», termine che era inteso a riflettere la medesima idea di inesprimibilità. I numeri come la radice quadrata di 2 apparivano scandalosi ai pitagorici perché non potevano essere misurati con precisione con uno strumento di misura. Ciò costituiva una sfida per la loro fede nel potere fondamentale dei numeri di governare l’universo. Se non riuscivano ad avere ragione di una cosa così banale come la diagonale di un quadrato, la loro intera religione era minacciata. Questo risultato appariva tanto più inquietante perché, a partire da esso, si poteva costruire una serie infinita di altri numeri irrazionali, cominciando dalle radici quadrate di 3, 5, 6 e 7. Esso, inoltre, apriva una spaccatura tra l’aritmetica, che era in grado di creare questi strani numeri «irrazionali», e la geometria, che non era in grado di misurarli.
Secondo la tradizione, quando questi numeri irrazionali furono scoperti, la cosa fu mantenuta segreta dalla confraternita perché non si spargesse la notizia che c’erano numeri tali da sfidare le dottrine pitagoriche. Ippaso commise il peccato di violare il giuramento di segretezza e di rivelare questa terribile verità, e fu affogato. Secondo un commentatore più tardo, «l’indicibile e l’informe dovevano essere tenuti segreti; coloro che svelavano e sfioravano questa immagine della vita ne erano istantaneamente distrutti e dovevano rimanere in balia delle onde eterne». C’è però da sospettare che, come i membri di molte società segrete, i pitagorici si prendessero un po’ pù sul serio di quanto li prendessero gli estranei.”
JOHN DAVID BARROW (1952), “La luna nel pozzo cosmico. Contare, pensare ed essere”, trad. di Tullio Cannillo, Adelphi, Milano 1994 (I ed.), 1. ‘Dal mistero alla storia’, ‘La società segreta’, pp. 28 – 30.
Cenni storici.
La scoperta dei numeri irrazionali viene tradizionalmente attribuita a Pitagora, o più precisamente al pitagorico Ippaso di Metaponto, che produsse una argomentazione (probabilmente con considerazioni geometriche) dell'irrazionalità della radice quadrata di 2. Secondo la tradizione Ippaso scoprì i numeri irrazionali mentre tentava di rappresentare la radice quadrata di 2 come frazione (vedi la dimostrazione sotto). Tuttavia Pitagora credeva nell'assolutezza dei numeri, e non poteva accettare l'esistenza dei numeri irrazionali. Egli non era in grado di confutare la loro esistenza con la logica, ma le sue credenze non potevano tollerarne l'esistenza e, secondo una leggenda, per questo condannò Ippaso a morire annegato.
https://it.wikipedia.org/wiki/Numero_irrazionale
Ippaso di Metaponto: la nascita dei numeri irrazionali
“Tutto è Numero”
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Il motto di Pitagora sembrava la chiave per svelare i segreti dell’universo, i numeri ed i loro rapporti. Ma il cammino della conoscenza non è mai troppo facile, anzi è impervio ed insidioso. E così saltò fuori un bel problema.
Ci si accorse, a partire dalla semplice figura del quadrato, che il lato e la diagonale avevano lunghezze che non erano esprimibili attraverso un rapporto di due numeri interi. Erano dunque incommensurabili.
Fu un vero e proprio terremoto. Come reagirono i pitagorici? Sicuramente l’atteggiamento non fu dei più lodevoli. Continuarono a divulgare le loro teorie, cercando di tenere nascosto tale aspetto. Magari prima o poi si sarebbe trovata una soluzione, quindi meglio non dire nulla. Ma come spesso succedere, prima o poi la verità viene a galla. E qualcuno parlò.
Il “traditore” fu Ippaso di Metaponto. La reazione dei pitagorici fu durissima: fu bandito e gli fu costruito, quantunque ancora in vita, un monumento funebre. Morì poco tempo dopo vittima di un naufragio, secondo la leggenda, per volere di Zeus adirato.
Scrive il filosofo greco Proclo:
“I pitagorici narrano che il primo divulgatore di questa teoria [degli irrazionali] fu vittima di un naufragio; e parimenti si riferivano alla credenza secondo la quale tutto ciò che è irrazionale, completamente inesprimibile e informe, ama rimanere nascosto; e se qualche anima si rivolge ad un tale aspetto della vita, rendendolo accessibile e manifesto, viene trasportata nel mare delle origini, ed ivi flagellata dalle onde senza pace”.
Ma la conoscenza non lascia nulla nascosto. Così nacquero i numeri irrazionali. Sono quei numeri che non sono esprimibili con un rapporto di interi, come le radici quadrate, cubiche, come la sezione aurea o il pi greco. Sono quei numeri il cui sviluppo decimale, ossia dopo la virgola, procede all’infinito.
Fu così che l’infinito approdò sulle rive della matematica e del pensiero…
https://micheblog.wordpress.com/2008/02/08/ippaso-di-metaponto-la-nascita-dei-numeri-irrazionali/
UN GIALLO pitagorico
PREMESSA
Come è morto Ippaso da Metaponto? chi lo ha ucciso e perché?
A distanza di 25 secoli questo giallo è ancora irrisolto.
Ma chi era Ippaso e che ragioni avevano i Pitagorici per eliminarlo?
Addentriamoci in questo giallo partendo dal profilo della vittima,
cercheremo poi il movente e infine faremo le nostre ipotesi sui colpevoli.
Seguendo le tracce di Ippaso incontreremo anche oggetti matematici molto strani ma,
proprio per questo, molto interessanti.
LA VITTIMA: IPPASO DA METAPONTO
Ippaso da Metaponto è considerato la personalità più rilevante della scuola pitagorica antica dopo il fondatore. Giamblico gli attribuisce la descrizione del dodecaedro regolare e la dimostrazione della sua iscrivibilità in una sfera. Ma la scoperta che gli risulterà fatale sarà l'esistenza di grandezze incommensurabili che scalfiva la perfetta razionalità del sistema pitagorico.
Ippaso, trasgredendo alle rigide regole della scuola, divulgò questo risultato.
Questo, per la scuola Pitagorica, fu una colpa gravissima !!!
IL MOVENTE: IL CROLLO DI UN EDIFICIO PERFETTO
Per comprendere il movente di questo presunto omicidio dobbiamo ricordare che, per la Scuola Pitagorica, tutto e’ numero. Il mondo e la sua armonia erano basati sui numeri interi e sui loro rapporti; i rapporti fra numeri interi davano origine ai numeri “razionali” e su di essi i pitagorici avevano costruito un edificio coerente per l’interpretazione del mondo. Ma……
…..ma, come conseguenza del teorema di Pitagora applicato ad un triangolo rettangolo isoscele, improvvisamente l’edificio così faticosamente costruito subì una scossa paragonabile ad un terribile terremoto .
LA FINE DI UN TRADITORE
Ippaso aveva trasgredito ad una delle regole fondamentali della scuola pitagorica divulgando all’esterno la scoperta dei numeri irrazionali che metteva in crisi le basi su cui la scuola si fondava. Per il suo tradimento, Ippaso venne messo al bando dai pitagorici che, si racconta, gli innalzarono un monumento funebre, perché fosse chiaro che per loro era morto. Si narra anche, ma è sempre leggenda, che lo stesso Giove, adirato contro di lui, lo fece perire in un naufragio.
Il filosofo greco Proclo (412 - 485 d. C.) scrive a questo proposito:
"I pitagorici narrano che il primo divulgatore di questa teoria [degli irrazionali] fu vittima di un naufragio; e parimenti si riferivano alla credenza secondo la quale tutto ciò che è irrazionale, completamente inesprimibile e informe, ama rimanere nascosto; e se qualche anima si rivolge ad un tale aspetto della vita, rendendolo accessibile e manifesto, viene trasportata nel mare delle origini, ed ivi flagellata dalle onde senza pace".
http://iomatematico.altervista.org/pitagora/un_giallo_pitagorico.html
Nel mondo antico, popoli come quello babilonese o egizio non presero mai in esame l’infinito, non per mancanza di capacità intellettuali,ma semplicemente per il fatto che nei loro problemi pratici l’infinito né compariva, né destava interesse.
Fu invece nell’antica Grecia che grandi matematici e filosofi cominciarono a dibattere e ad interrogarsi sul concetto di infinito. [...]
Nel mondo greco antico il concetto di infinito fu elaborato con numerose accezioni negative.
Si riteneva infatti conoscibile solo ciò che era finito e determinato e di conseguenza impensabile un infinito attuale, cioè concreto e visibile. Tale rifiuto ad ammettere l’infinito attuale nella matematica greca e più generalmente un diffuso disinteresse delle civiltà antiche per l’infinito è detto
“horror infiniti”.
Già Anassimandro (6 sec. a.C.) identificò l’archè, il principio, nell’apeiron una sorta di infinito / indefinito da cui scaturiscono tutte le cose.
Pitagora fu forse il primo filosofo/matematico che realmente ebbe a che fare col concetto di infinito.
La matematica pitagorica è basata sul concetto di “discontinuità”, in quanto essa si fonda esclusivamente sui numeri interi e non irrazionali e dunque l’accrescimento di una grandezza procede per “salti discontinui”, essendo impossibile aggiungere qualcosa che sia minore dell’unità.
In questa visione del mondo tutti gli oggetti erano costituiti da un numero finito di monadi, particelle minuscole simili agli atomi. Due grandezze, dunque, potevano essere espresse con un numero intero ed erano tra loro commensurabili, ammettevano cioè un comune denominatore.
Il pensiero pitagorico verrà messo in crisi dalla scoperta delle grandezze incommensurabili (ovvero che non ammettono denominatori comuni con altre grandezze ), elaborata all’interno della scuola stessa e custodita come un segreto inconfessabile.
La scoperta partì del celeberrimo teorema di Pitagora:
applicando il teorema su un triangolo rettangolo isoscele, che risulta essere metà di un quadrato, notiamo che il rapporto tra ipotenusa e cateto così come tra lato e diagonale del quadrato è uguale a √2 questo numero è decimale, ma irrazionale significa cioè che per determinare le sue cifre dopo la virgola, che sono del tutto casuali, sarà necessario procedere nell’infinitamente piccolo:
1,414213562….
Ciò comporta che lato e diagonale siano grandezze incommensurabili e che dunque non sono più come si pensava composti da un numero finito di punti, ma da un infinità di punti.
Per la prima volta si parla di un infinito concreto e non potenziale.
Va dunque attribuito ai pitagorici il merito di aver individuato uno dei più complessi “labirinti” mentali del pensiero umano: il rapporto tra continuo e discontinuo.
Successivamente, nel V secolo, il filosofo Anassagora che compì degli studi sul problema dell’infinita divisibilità, affermava: “non v’è mai un limite minimo del piccolo, ma v’è sempre un più piccolo, essendo impossibile che ciò che è cessi di essere per divisione”.
Molti interpretano tale affermazione come appunto infinita divisibilità di ogni cosa e dunque alcuni storici della matematica hanno voluto vedervi una primitiva idea del limite.
Anassagora però continua:
“ma anche nel grande v’è sempre un maggiore.
Ed è uguale in estensione al piccolo: di per sé ogni cosa è insieme e grande e piccola…”.
In questo senso è più corretto interpretare la duplice progressione del grande e del piccolo non tanto come infinita divisibilità, ma piuttosto come infinita relatività di tutte le cose reali:
ogni cosa è contemporaneamente grande e piccola a seconda del punto di vista da cui viene osservata.
In questo dibattito intervenne soprattutto Aristotele il quale sostenne con decisione la continuità delle grandezze geometriche insieme alla loro infinita divisibilità.
Per comprendere il concetto di infinito di Aristotele occorre distinguere fra Infinito in atto e Infinito in potenza, intendendo per Infinito potenziale la possibilità di aggiungere sempre qualcosa a una quantità determinata senza che ci sia un elemento ultimo; è d’altronde impossibile che “l’infinito in atto sia” inteso come collezione infinita, compiutamente data, di tutti i punti di una grandezza.
Non si può retrocedere all’infinito.
Si può soltanto retrocedere e avanzare passo per passo.
Aristotele affermava “il numero è infinito in potenza, ma non in atto …
Questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici, per il fatto che esso esclude che l’infinito per accrescimento sia tale da poter essere percorso in atto. In realtà essi stessi allo stato presente non sentono il bisogno di infinito, ma di una quantità più grande quanto essi vogliono, ma pur sempre finita…”
Da tale affermazione possiamo dedurre che l’unica accezione di infinito accettata da Aristotele era l’infinito potenziale inteso come “divenire”.
Un numero o una qualsiasi altra quantità, è potenzialmente in grado di tendere all’infinito, aumentandola ogni volta di poco, ma ogni volta risulterà un entità finita. Ad esempio nei numeri naturali aggiungendo ogni volta un’unità ad un numero si otterranno quantità finite, ma che sembrano potenzialmente in grado di tendere all’infinito.
L’infinito per Aristotele deve essere considerato come qualcosa sempre in via di nascere o di perire, di crescere o diminuire e che, mantenendosi in ogni suo stato finito è sempre diverso nei suoi successivi stati (cfr www. Matematica.uni-bocconi.it).
Nega l’esistenza di un infinito attuale fisico come nega l’esistenza di una infinito attuale mentale.
Il termine usato in greco per designare l’infinito è “apeiron” (senza limiti, dunque illimitato).
La difficoltà inerente all’infinito consiste perciò nella sua inesauribilità:
l’infinito non può mai essere presente nella sua totalità nel nostro pensiero.
L’illimitato non può essere in nessun caso considerato come un tutto completo.
Ciò che è completo ha una fine e la fine è elemento limitante.
Aristotele dunque associa indissolubilmente all’infinito un’idea negativa espressione della sua incompletezza e potenzialità non attuata e non attuabile.
Proprio questa idea negativa porta al rifiuto di introdurre l’infinito attuale nella matematica greca.
Bibliografia
Gianni Micheli, Voce Infinito in Enciclopedia Einaudi. Torino Einaudi, 1980.
Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.1: l’antichità. Il Medioevo. Milano, Garzanti, 1970.
Sitografia
www.polito.it
www.uni-bocconi.it
http://lcalighieri.racine.ra.it/pescetti/ricerca_infinito_2004_05/somm_greci/infi_greci.htm
La tetraktys pitagorica.
Per Pitagora (575 a.C. circa - 495 a.C. circa) la successione aritmetica dei primi quattro numeri naturali, geometricamente disposti secondo un triangolo equilatero di lato quattro, ossia in modo da formare una piramide, aveva anche un significato simbolico:
a ogni livello della tetraktys corrisponde uno dei quattro elementi.
- 1º livello. Il punto superiore: l'Unità fondamentale, la compiutezza, la totalità, il Fuoco
- 2º livello. I due punti: la dualità, gli opposti complementari, il femminile e il maschile, l'Aria
- 3º livello. I tre punti: la misura dello spazio e del tempo, la dinamica della vita, la creazione, l'Acqua
- 4º livello. I quattro punti: la materialità, gli elementi strutturali, la Terra.
Pitagora. La musica delle sfere.
Pitagora e il Monocorde
tratto da: "IL POTERE DI GUARIGIONE DEI SUONI" di Jonathan Goldman
Nell'antica Grecia, IL DIO APOLLO ERA LA DIVINITÀ DELLA MUSICA E DELLA MEDICINA.
Esistevano TEMPLI DI GUARIGIONE CHE USAVANO LA MUSICA COME FORZA PRINCIPALE PER ARMONIZZARE CORPO E SPIRITO.
Uno dei pensatori greci più lungimiranti che continua ad influenzare con il suo pensiero la nostra cultura è PITAGORA, un filosofo del VI secolo a.C., conosciuto al giorno d'oggi come il PADRE DELLA GEOMETRIA.
Fu anche il primo intellettuale occidentale a mettere in chiaro le RELAZIONI TRA GLI INTERVALLI MUSICALI.
La chiave di questa scoperta fu uno strumento molto semplice chiamato MONOCORDE, COSTITUITO DA UNA SOLA CORDA TIRATA SU UNA STRUTTURA IN LEGNO.
Usando il monocorde, Pitagora fu in grado di scoprire che LA DIVISIONE MUSICALE CREATA DALL'UOMO DAVA ORIGINE A DETERMINATI RAPPORTI.
Esaminando gli intervalli creati da questa divisione, Pitagora scoprì che TUTTI I RAPPORTI NUMERICI POTEVANO ESSERE ESPRESSI.
Questi rapporti numerici, come 2:1, 3:2, 4:3, erano ARCHETIPI DELLA FORMA, dato che erano DIMOSTRAZIONI DELL'ARMONIA E DELL'EQUILIBRIO CHE SI POTEVANO OSSERVARE IN TUTTO IL MONDO.
Se, per esempio, una corda viene divisa in 2 parti uguali, la nota che essa produce è di un'ottava più alta della nota prodotta dalla corda intera. Le due parti uguali vibrano in un rapporto di 2 a 1(2:1). Se, poi, la corda viene divisa in 3 parti uguali, la corda vibra in un rapporto di 3 a 1(3:1). Quando la corda è divisa in 4 parti uguali, questa crea un rapporto di 4 a i (4:1).
Tornando ai rapporti sviluppati dalle corde armoniche, è evidente che la divisione della corda effettuata dall'uomo segue esattamente i rapporti delle serie armoniche.
È probabile che LA NOSTRA COMPRENSIONE DEI RAPPORTI E DEL SISTEMA MATEMATICO CHE LI GOVERNA SI BASI SULLE OSSERVAZIONI DI PITAGORA IN CAMPO MUSICALE.
Si dice che abbia detto: "STUDIATE IL MONOCORDE E SCOPRIRETE I SEGRETI DELL'UNIVERSO".
Dallo studio di un unica corda vibrante si potrebbero scoprire gli ASPETTI MICROCOSMICI della vibrazione sonora e, grazie a questo, si potrebbero studiare le LEGGI MACROSCOPICHE che regolano il cosmo.
PITAGORA CREDEVA CHE L'UNIVERSO FOSSE UN IMMENSO MONOCORDE, UNO STRUMENTO CON UNA SOLA CORDA TIRATA TRA IL CIELO E LA TERRA.
L'ESTREMITÀ SUPERIORE DELLA CORDA ERA LEGATA ALLO SPIRITO ASSOLUTO, MENTRE L'ESTREMITÀ INFERIORE ERA LEGATA ALLA MATERIA ASSOLUTA.
ATTRAVERSO LO STUDIO DELLA MUSICA COME UNA SCIENZA ESATTA È POSSIBILE CONOSCERE TUTTI GLI ASPETTI DELLA NATURA.
Egli applicò le sue leggi sugli intervalli armonici a tutti i fenomeni naturali, dimostrando la RELAZIONE ARMONICA INSITA IN ELEMENTI, PIANETI E COSTELLAZIONI.
Pitagora parlò di "MUSICA DELLE SFERE".
Pensava che I MOVIMENTI DEI CORPI CELESTI CHE SI SPOSTAVANO NELL'UNIVERSO PRODUCESSERO UN SUONO.
Questi suoni potevano essere percepiti da chi si era preparato con coscienza ad ascoltarli.
La Musica delle Sfere poteva anche essere suonata negli intervalli delle corde pizzicate.
Per Pitagora ed i suoi studenti la Musica delle Sfere era più di una metafora.
SI DICEVA CHE IL MAESTRO GRECO FOSSE IN GRADO DI SENTIRE I SUONI DEI PIANETI CHE VIBRAVANO NELL'UNIVERSO.
Per secoli gli scienziati hanno fatto ipotesi sulla RELAZIONE TRA IL MOVIMENTO DEI CORPI CELESTI ED IL SUONO.
Recentemente, usando avanzati principi matematici basati sulle velocità orbitali dei pianeti, un gruppo di scienziati ha abbinato differenti suoni a differenti pianeti.
SEMBRA CHE ESISTA UN'INCREDIBILE RELAZIONE ARMONICA.
Forse questo antico maestro era davvero dotato di un udito in grado di percepire i movimenti astronomici come suono.
Nell'esempio musicale degli armonici, la loro creazione è spiegata dai rapporti matematici osservati sulla corda pizzicata.
In realtà gli armonici sono una manifestazione di tutte le forme di vibrazione.
L'UDITO È LIMITATO AD OGGETTI CHE VIBRANO CON FREQUENZE TRA I 16 ED I 25.000 HZ (le vibrazioni comprese in questo campo sono percepite come suoni udibili), ma questo non significa che, SOLO PERCHÉ NON POSSIAMO ASCOLTARE SUONI AL DI SOPRA O AL DI SOTTO DI QUESTI LIMITI NON CI SIAMO ONDE SONORE IMPERCETTIBILI OVUNQUE.
Tutto ciò che vibra genera armonici.
Poiché L'UNIVERSO È COMPOSTO UNICAMENTE DI VIBRAZIONI, OGNI COSA CREA NOTE FONDAMENTALI CON ARMONICI, DAGLI ELETTRONI CHE RUOTANO ATTORNO AL NUCLEO AI PIANETI CHE ORBITANO ATTORNO AL SOLE.
Pitagora aveva una scuola sull'isola di Crotone, dove insegnava le sue spiegazioni ai fenomeni dell'universo.
L'antica scuola misterica operava a tre livelli di iniziazione.
Il primo livello, quello degli "acoustici", insegnava a riconoscere ed a mettere in pratica le varie proporzioni musicali, spiegate utilizzando il monocorde.
Il secondo livello, quello dei "matematici", approfondiva il discorso con la conoscenza dei numeri, ma anche con la purificazione individuale e l'autocontrollo mentale.
Prima di accedere al livello successivo era necessario che il discepolo fosse pienamente consapevole nel corpo e nello spirito delle responsabilità legate alle sacre informazioni che stava per ricevere.
Il terzo e più alto livello di iniziazione, quello degli "electi", portava all'apprendimento di procedimenti segreti di TRASFORMAZIONE FISICA E DI GUARIGIONE CON IL SUONO E LA MUSICA.
Ben poco è sopravvissuto degli insegnamenti iniziatici più elevati della scuola di Pitagora. Gli insegnamenti relativi ai suoi teoremi di geometria e delle proporzioni musicali sono parte delle nostre conoscenze attuali in campo numerico e acustico.
I suoi concetti filosofici, come la Musica delle Sfere, continuano a trovare posto nelle dottrine esoteriche.
Ma fino ad ora, i segreti sull'uso del suono e della musica a scopo curativo sono andati perduti.
Si dice che Pitagora morì quando la sua scuola a Crotone andò in fiamme.
Alcuni suoi studenti proclamarono di aver tramandato i suoi segreti insegnandoli ad altri discepoli in altre terre.
Pitagora
Fuggito dalla Grecia, in particolare da Samo, perchè perseguitato dal Tiranno Policrate per le sue idee politiche, venne in Magna Grecia. Scelse Kroton in Calabria per attuare la sua idea di governo.
A Kroton vigeva il governo dei mille, una sorta di oligarchia delle famiglie aristocratiche.
Pitagora pose sopra questo il consiglio dei Pitagorici.
La Scuola Pitagorica da lui fondata a Kroton prese piede in tutta la Magna Grecia arrivando fino ad Agrigento dove Empedocle volle conoscerlo di persona e studiò con lui a Kroton.
Purtroppo a causa dei contrasti con Sibari, una fazione del popolo ne approfittò per suscitare una rivolta democratica e i pitagorici furono scacciati o uccisi.
Si dice che i maggiori rappresentati della Scuola fossero riuniti a casa del campione Olimpico Milone e che la casa fu data alle fiamme.
Nell'incendio persero tutti la vita, ma secondo un'altra versione Pitagora fuggì a Metaponto dove si lasciò morire di fame.
L'avversione di Pitagora per le fave era tale che secondo la leggenda fu ucciso dai seguaci del tiranno di Crotone, Cilone, perché non volle nascondersi in un campo di fave.
L'astensione dalle fave
Scuola pitagorica § Il divieto delle fave.
Una versione della morte di Pitagora è collegata all'idiosincrasia del filosofo e della sua Scuola per le fave, che i pitagorici si guardavano bene dal mangiare, evitando anche il semplice contatto. Secondo la leggenda, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere e uccidere piuttosto che mettersi in salvo in un campo di fave.
Esistono due interpretazioni riguardo al divieto di mangiare fave.
Quella di Gerald Hart,[25] secondo cui il favismo era una malattia diffusa nella zona del crotonese e ciò conferirebbe al divieto una motivazione profilattica-sanitaria. Dunque Pitagora viveva in zone di favismo diffuso, e da questo nasceva la sua proibizione igienica; ma perché i medici greci non avevano identificato questa patologia? Nell'esperienza quotidiana le fave erano un cardine dell'alimentazione che tutt'al più causava flatulenze e insonnia e se qualcuno che aveva mangiato fave contemporaneamente si ammalava i due fatti non venivano collegati. Se dunque Pitagora dell'astenersi dal mangiare fave ne fa addirittura un precetto morale è perché i greci del VI secolo a.C. avevano un modo diverso dal nostro di considerare le malattie nel senso che le riferivano alla religione [26] per cui, come ha messo in luce Claude Lévi-Strauss, le fave erano considerate connesse al mondo dei morti, della decomposizione e dell'impurità, dalle quali il filosofo si deve tenere lontano.
Il vegetarianismo
« Pitagora ed Empedocle avvertono che tutti gli esseri viventi hanno eguali diritti, e proclamano che pene inespiabili sovrastano a coloro che rechino offesa a un vivente. »
(Cicerone[27])
Diogene Laerzio sostiene inoltre che Pitagora fosse solito mangiare pane e miele al mattino e verdure crude la sera; in più implorava i pescatori affinché ributtassero in mare quello che avevano appena pescato.[30]
https://it.wikipedia.org/wiki/Pitagora
Pitagora e il tabù delle fave
(PRIMA PUNTATA)
Home – Antropologia: Pitagora e il tabù delle fave
Pitagora e il tabù delle fave
Secondo la tradizione Pitagora e i suoi discepoli erano vegetariani. Disse un giorno il filosofo: «Astenetevi o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d’uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, ce n’è di quelle che si possono rendere più buone e più tenere con la cottura. E nessuno vi proibisce il latte e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e sangue». E secondo Porfirio «raccomandava anche di non distruggere né danneggiare una pianta coltivata e fruttifera, e nemmeno un animale che non fosse per sua natura nocivo all’uomo».
Pitagora aveva un grande rispetto per gli animali al punto che, insieme ai suoi discepoli, non li uccideva, non li mangiava e non li sacrificava agli dei. Un frammento di Eudosso, conservato da Porfirio, narra che «praticasse la purezza a tal punto e tanto rifuggisse le uccisioni e gli uccisori che non solo si asteneva dagli esseri viventi, ma neppure si accostava mai a macellai e cacciatori». E Diogene scriveva: «In effetti Pitagora proibiva addirittura di uccidere, e a maggior ragione di mangiare gli animali, i quali condividono con noi il privilegio dell’anima».
Per alcuni, questo atteggiamento da parte di Pitagora era legato alla credenza della metempsicosi, secondo la quale, le anime degli uomini morti vivevano nei corpi degli animali, per cui uccidere un animale significava uccidere un uomo o mangiare un animale significava mangiare un uomo. A questo proposito si racconta che un giorno ammonì un concittadino che stava battendo un cagnolino: «Smetti, e non picchiare, perché invero si tratta dell’anima di una persona amica, che ho riconosciuto udendone la voce».
Pitagora era un convinto vegetariano ma vietava anche l’uso delle fave.
Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astienti dalle fave». Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave», mentre secondo Porfirio voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali. A questo proposito si raccontava che, se necessario, Pitagora ricorreva alle sue capacità taumaturgiche: «Invece a Taranto vide un bue al pascolo in mezzo a piante di ogni genere che si stava accostando a delle fave verdi; allora si avvicinò al bovaro e gli suggerì di dire al bue di non toccare le fave. E dato che il bovaro aveva preso a schernirlo, dicendo di non conoscere la lingua dei buoi, si accostò al bue e gli sussurrò all’orecchio non solo di allontanarsi dal campo di fave, ma anche di non toccarle mai più».
Ma perché Pitagora sosteneva che non bisognava mangiare o toccare le fave?
Il carattere segreto della sua scuola non ci aiuta molto a rispondere a questa domanda, mentre le cose dette dai suoi discepoli sono piene di contraddizioni e frutto di chiare rielaborazioni. Ognuno ha infatti cercato di interpretare il suo pensiero e ha aggiunto o tolto ciò che riteneva opportuno. Vi sono addirittura singoli autori che nelle loro narrazioni gli fanno dire cose diverse l’una dall’altra senza mostrare alcun imbarazzo. Riguardo alle proibizioni alimentari Diogene, ad esempio, afferma che Pitagora non uccideva gli animali per le divinazioni, poi però ammette che sopprimeva galli, capretti e porcellini di latte quindi, citando Aristosseno, diceva che mangiava tutti gli esseri animati tranne il bue e l’ariete e poco dopo affermava che mangiava anche i galli. Giamblico, da parte sua, scriveva che Pitagora non sacrificava nessun essere animato e considerava il gallo «sacro al sole», ma poco dopo affermava che sacrificava solo occasionalmente esseri animati come «il gallo, l’agnello o qualche altro animale appena nato, ma non il bue».
Anche sulla proibizione pitagorica di mangiare le fave non tutti gli scrittori sono d’accordo.
La maggior parte affermano che il maestro era fermo nel divieto alimentare, ma alcuni sostengono che al contrario non perdeva occasione per raccomandare di mangiare fave e che lui stesso ne era ghiotto per le sue qualità energetiche e terapeutiche. Gellio, ad esempio, scriveva: «E’ antica opinione diffusa e ben radicata, ma falsa, che il filosofo Pitagora non mangiò mai carne di animali, e che inoltre si sia astenuto dal mangiare la fava, che i greci chiamano Kýamos». E continuava: «Ma il musicologo Aristosseno appassionato cultore di letteratura antica e scolaro del filosofo Aristotele, è autore di un libro ‘Su Pitagora’ nel quale afferma che Pitagora di nessun altro legume fece maggiore uso che delle fave, nella convinzione che questo cibo alleviasse dolcemente il ventre e lo rilassasse. Ecco il testo di Aristosseno: ‘Pitagora pregiò tra i legumi soprattutto la fava: diceva che è lubrificante e lassativa, e per questo ne fece larghissimo uso».
Grandi perplessità sulle testimonianze dei suoi discepoli e sui suoi storiografi, dunque, ma per alcuni era lo stesso Pitagora ad essere contraddittorio. Diogene, citando Timone, ricordava che il maestro, essendo sempre alla caccia di adepti, «inclinava a opinioni ammalianti», mentre Cratino scriveva che i pitagorici quando avevano relazioni con un profano lo travolgevano con discorsi «scombussolandolo e confondendogli la testa a suon di antitesi». In sostanza, Pitagora e i suoi discepoli, poiché erano uomini di grande cultura, erano capaci di affermare tutto e il contrario di tutto. Erano quindi in grado anche di trovare mille motivazioni per mangiare o non mangiare fave.
Giovanni Sole, antropologo
http://www.larosanelbicchiere.it/pitagora-e-il-tabu-delle-fave/
Dicearco scrisse che Pitagora morì nel tempio delle Muse di Metaponto dove si era rifugiato in seguito alla rivolta contro la sua scuola. Alcuni dicono che cessò di vivere dopo avere digiunato per quaranta giorni di seguito. Per Eraclide, invece, dopo avere seppellito Ferecide a Delo, si ritirò a Metaponto dopo pose fine alla sua vita lasciandosi morire di inedia giacché non desiderava vivere più a lungo.
Molti racconti mitici legano però la fine di Pitagora e dei suoi discepoli alle fave.
Narra Giamblico su quanto accadde un giorno ad alcuni dei suoi seguaci più stretti:
«Anche quando raccontano Ippoboto e Neante circa i pitagorici Millia e Timica consente di capire quale fosse la temperanza di quegli uomini, nonché il modo in cui Pitagora la tramandò. Il tiranno Dioniso, narrano, poiché pur facendo ogni sforzo non riusciva a farsi amico nessun Pitagorico, dal momento che essi rifuggivano dal suo carattere dispotico e violento, inviò una schiera di trenta uomini, sotto il comando del siracusano Eurimene, fratello di Dione, a tendere un agguato ai Pitagorici che come di consueto si recavano in una determinata occasione, da Taranto a Metaponto: essi si conformavano al mutamento delle stagioni e sceglievano di conseguenza luoghi adatti alle loro riunioni. Eurimene, dunque, appostò i suoi uomini in un luogo nascosto nella zona di Fane, una località del territorio tarantino piena di voragini, dove i Pitagorici sarebbero dovuti necessariamente passare. E come questi, verso mezzogiorno, giunsero lì senza nulla immaginare, gli armati li assalirono, levando alte grida, alla maniera dei briganti. Quelli, atterriti sia per sorpresa, sia per il numero degli assalitori (quanto a loro erano circa dieci), considerando inoltre che combattendo inermi contro gente armata di tutto punto sarebbero inevitabilmente stati catturati, decisero di cercare la salvezza con una fuga precipitosa, non reputandolo contrario alla virtù. Ben sapevano che il coraggio è la scienza di quel che si deve fuggire e di quel che si deve affrontare, secondo che detta la retta ragione. E sarebbe andata loro molto bene, perché gli uomini di Eurimene, ostacolati dal peso delle armi, erano rimasti indietro nell’inseguimento, se non si fossero imbattuti in un campo seminato a fave e già in pieno rigoglio. Così, non volendo contravvenire al precetto che imponeva di non toccare le fave, si fermarono, e spinti dalla necessità, si difesero con pietre, legni e quant’altro capitava, fino a uccidere qualcuno degli inseguitori e a ferirne molti. Ma furono tutti uccisi dai lancieri, e nessuno venne preso vivo. Rispetto a quella sorte, la morte apparve a tutti preferibile, secondo quanto la loro scuola prescriveva. Eurimene e i suoi si trovarono in uno stato di grande confusione, e non certo per caso, dal momento che non avrebbero potuto condurre nemmeno un Pitagorico vivo da Dioniso, il quale li aveva inviati con l’ordine appunto di non fare nulla più di questo. Così, coprirono di terra i caduti innalzando un tumulo comune e se ne tornarono indietro».
E continua il racconto sulla sorte di Millia e Timica, due pitagorici sfuggiti al massacro:
«Ma subito in costoro si imbatterono Millia di Crotone e Timica di Sparta, che erano rimasti indietro rispetto al gruppo perché Timica era all’ultimo mese di gravidanza e perciò procedeva lentamente. Essi li fecero prigionieri e soddisfatti li condussero dal tiranno, dopo averli trattati con ogni cura, affinché rimanessero in vita. Dioniso, una volta informato dell’accaduto, si mostrò assai abbattuto e disse loro: ‘Da parte mia voi riceverete, a nome di tutti gli altri, gli onori che meritate, nel caso vogliate regnare assieme a me’ Poi, visto che Millia e Timica respingevano ogni sua proposta aggiunse: ‘Se mi spiegherete una sola cosa, sarete lasciati andare sani e salvi con una scorta adeguata’. E a Millia che gli domandava che cosa volesse sapere, rispose:
’Per quale ragione i tuoi compagni hanno preferito di morire pur di non calpestare le fave?’.
Al che Millia: ’Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione’. Allora Dioniso, colpito dalla risposta, diede ordine di portar via con la forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio, e per di più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua, staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna, sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligatorio tacere, lei aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario».
Una storia simile a quella dei suoi discepoli narra Diogene a proposito della fine dello stesso Pitagora: «Pitagora morì in questo modo. Mentre lui e i suoi tenevano una riunione nell’abitazione dell’atleta Milone, capitò che uno di quelli che non erano stati ritenuti degni di essere ammessi al sodalizio, per invidia, appiccò il fuoco all’abitazione – peraltro alcuni affermano che siano stati i Crotoniati stessi, nel timore di un tentativo di stabilire una tirannide – . Pitagora dunque fu preso mentre fuggiva: giunto a un campo di fave, pur di non attraversarlo si arrestò, proclamando che era meglio essere catturato piuttosto che calpestarle e preferiva farsi uccidere, piuttosto che parlare; così, fu sgozzato dai suoi inseguitori. Diogene poco dopo riporta un’altra versione: «Invece Ermippo sostiene che durante la guerra tra Agrigentini e Siracusani Pitagora si fosse messo in marcia con i suoi soldati per porsi alla testa degli Agrigentini; ma quando questi vennero messi in fuga, fu ucciso dai Siracusani mentre cercava di girare intorno a un campo di fave per non attraversarlo».
Per quale motivo Millia si lasciò torturare piuttosto che rivelare il motivo del non poter calpestare le fave in fiore? Perché Timica, prossima a partorire il suo bambino, si tagliò la lingua pur di non rivelare il mistero delle fave? Quali erano le ragioni per cui Pitagora si fece catturare e sgozzare pur di non attraversare un campo di fave?
Gioco di significati
Le spiegazioni e le interpretazioni del tabù delle fave di Pitagora sono diverse e ognuna potrebbe avere qualche giustificazione e qualche fondamento.
La tesi avanzata da alcuni, e principalmente da Frazer, secondo cui i tabù pitagorici facevano parte di una mentalità superstiziosa o magica, può avere una sua validità. La proibizione delle fave probabilmente apparteneva ad antichissime religioni totemiche e primordiali credenze arcaiche, apprese da Pitagora durante i suoi lunghi e numerosi viaggi. Secondo la tradizione il maestro di Samo per circa vent’anni dimorò in alcuni paesi come l’Egitto e la Mesopotamia venendo a contatto con sciamani, maghi e sacerdoti i quali gli insegnarono ciò che era puro e ciò che era impuro, ciò che era santo e ciò che era diabolico. Molti tabù pitagorici, come quello delle fave, di non portare addosso anelli e di non voltarsi quando si lasciava la casa, erano del resto diffusi in diversi paesi del Mediterraneo . Secondo alcuni studiosi invece l’impianto religioso di Pitagora rientrava in una cultura indoeuropea, mentre altri sostengono che egli aveva appreso tali credenze delle popolazioni italiche.
Queste sopravvivenze religiose erano comunque frutto del terrore dell’uomo per il soprannaturale. Le fave erano considerate piante magiche, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini. Erano un cibo sacro agli dei dell’oltretomba o un cibo caro ai morti e per questo oggetto di tabù. Tutto ciò che apparteneva alle divinità o agli spiriti era interdetto agli uomini e infrangere il divieto significava mettere in moto contro di se delle forze che punivano i trasgressori o tramite l’oggetto tabuizzato o con altre disgrazie.
Anche la tesi prospettata dalla maggior parte degli scrittori antichi, secondo cui la proibizione delle fave era legata ad un impianto religioso simile a quello orfico, non era del tutto insensata. Pitagora, come gli orfici, credeva che l’anima, sepolta nel corpo per i suoi peccati e immersa nella materia come in una prigione, poteva gradatamente ricongiungersi alla sua origine divina. Era convinto che attraverso un graduale processo di perfezionamento del corpo e dello spirito, l’uomo poteva passare ad un grado più elevato di esistenza e quindi ad un grado superiore di conoscenza che lo avrebbe portato a somigliare agli dei. Le privazioni alimentari, compresa quella delle fave, facevano probabilmente parte di un corpus di leggi che gli adepti dovevano rispettare per raggiungere lo stato della perfezione, per annullare la differenza tra la condizione umana e quella divina. Le fave erano ritenute piante che per le loro caratteristiche ostacolavano fortemente la capacità divinatorie e l’attività onirica.
Pitagora era il sapiente dei sapienti, un uomo posseduto dalle divinità e dalla cui bocca usciva la parola divina. Era in grado, tramite la sua sapienza, di esaminare e di illuminare il senso degli oracoli e di interpretare gli enigmi. Era un eletto e la sua conoscenza di natura divina poteva essere insegnata e trasmessa solo tramite lunghi periodi caratterizzati da istruzioni rituali, purificazioni, digiuni e astensione da certi cibi.
Degna di considerazione può essere anche la teoria che il tabù delle fave avesse scopi di prevenzione sanitaria riguardo alla loro tossicità e soprattutto alla loro capacità di provocare quella terribile malattia che nell’Ottocento sarà chiamata «favismo». A Crotone vi era una scuola di medicina famosissima in tutto il Mediterraneo, seconda a giudizio di Erodoto solo a quella di Cirene. Pitagora conosceva bene le caratteristiche intrinseche dei vari alimenti ed essendo vegetariano era un esperto di piante e preparati a base di piante. Probabilmente egli sapeva che alcuni individui, mangiando fave crude o cotte, o anche inalando il polline di fiori di fava, manifestavano sintomi da grave intossicazione o da allergia, prodotte evidentemente da sostanze non identificate contenute in queste piante.
Il tabù era dunque un mezzo pratico per mettere in guardia gli uomini e sensibilizzare la popolazione che mangiare fave poteva essere pericoloso per la loro esistenza. Suscitando meraviglia e orrore il tabù li avvisava, li faceva riflettere, li induceva ad essere cauti. Gli uomini non si chiedevano la ragione del divieto, ma ne rimanevano colpiti ed erano indotti a rispettarlo. Diventando una divina sentenza il tabù non poteva essere messo in discussione in alcun modo e quindi molte persone che ignoravano di essere fabici si salvavano. Le storie mitiche legate alla morte di Pitagora e dei suoi sodali costituivano un’efficace elaborazione del terrore e contribuivano all’umanizzazione di una pianta pericolosa, ma di cui non si poteva fare a meno. Il tabù culturalmente definiva le fave come probabile causa di pericolo, limitava e localizzava una minaccia nei confronti degli uomini che diventava la sostanza del tabù stesso.
Pure accettabile può essere la tesi che i tabù pitagorici fossero allegorie dai significati profondi e rientrassero nella spiccata tendenza del maestro di Samo ad imporre delle regole di vita ai suoi discepoli. La sua filosofia non era del resto solo uno strumento di dominio ma anche e soprattutto uno strumento educativo. Gli acusmi pitagorici erano metafore simboliche, imperativi religiosi, etici e morali e come tali soggetti a varie interpretazioni e a varie controversie. Le limitazioni, le prescrizioni e le interdizioni, come il divieto di mangiare le fave, erano allegorie dai significati legati alla segretezza della sua scuola. Egli non poteva rivelare le verità divine alla massa degli uomini ma ad un ristretto numero di «iniziati» e la trasmissione e l’apprendimento delle stesse dovevano avvenire soprattutto attraverso un linguaggio allegorico e iniziatico.
Anche l’ipotesi indicata da Aristotele, secondo cui le fave erano avversate da Pitagora perché con esse i democratici eleggevano i rappresentanti del popolo, non può essere considerata del tutto immotivata. Nessuno come Pitagora conosceva il valore dei simboli visto che tutto il suo impianto filosofico era legato ad un’arcana simbologia. Quando Pitagora giunse a Crotone, in tutte le città della Magna Grecia si stava vivendo una forte crisi politico-istituzionale, caratterizzata dal duro scontro che opponeva aristocratici e democratici. Il maestro di Samo, oltre che filosofo era anche un politico e, com’è noto, fautore di una società oligarchica, avversario irriducibile di chi cercava di rinnovare in senso democratico la società aristocratico-sacerdotale del passato. Secondo gli storici fu proprio Pitagora ad organizzare la controffensiva alle polis dei democratici ritenendole una forma di organizzazione sociale non più adeguata a far fronte alle contraddizioni sociali che si erano create nella nuova realtà e ancora causa dei mali che stavano fiaccando le energie e la vita dei suoi concittadini. In tale contesto anche un simbolo come le fave costituiva un pericolo poiché rischiava di risvegliare propositi sovversivi e antiaristocratici.
Non si può nemmeno scartare l’ipotesi che il detto «astieniti dalle fave» fosse solo una semplice raccomandazione, un precetto di buon senso. C’è stato un uso indiscriminato dei tabù, spesso essi sono stati frutto di una proiezione intellettuale del pensiero occidentale nei confronti di culture altre. Sotto la categoria dei tabù sono state fatte rientrare molte cose del tutto differenti tra loro. «Astieniti dalle fave» non era un tabù probabilmente dai significati misteriosi e nascosti, non aveva niente di simbolico o enigmatico, come hanno scritto in molti, ma probabilmente aveva un senso letterale. Pitagora era un maestro e ai suoi allievi consigliava ciò che si doveva fare e non si doveva fare e molti suoi imperativi sono caratterizzati dal buon senso. «Astieniti dalle fave» voleva dire «fai a meno di mangiare fave» poiché prevengono da una pianta che può essere pericolosa. I funghi sono buoni da mangiare ma sono tossici e alcuni letali; le fave sono buone da mangiare ma sono indigeste e per alcuni letali. «Astieniti dalle fave» era un consiglio e cioè quello di non fidarsi di quelle piante che erano diffuse e di cui si poteva fare a meno per vivere, una norma di senso comune, poiché i danni che provocavano le fave erano reali. In questo senso l’avvertimento di Pitagora non era una vera ingiunzione, ma una semplice norma di ordinaria prudenza, una raccomandazione per proteggere individui che, non sapevano di essere in pericolo.
Come non prendere in considerazione l’ipotesi che il tabù delle fave di Pitagora era legato al fatto che esse non fossero buone da mangiare? L’avversione nei confronti delle fave in molte aree del Mediterraneo ci spinge a pensare che questo tabù debba essere messo in relazione con gli altri prodotti agricoli. Il grano, ad esempio, conquistò velocemente il favore della popolazioni e si impose soprattutto su altri tipi di frumento e sui legumi. Il grano vinse sulla fava anche perché era un cibo più buono da mangiare, perché, per le sue proprietà organolettiche proprio di un’alimentazione più raffinata. Le fave subirono così un declassamento e una conseguente desacralizzazione, finirono per diventare un cibo rozzo, buono per sfamare gli animali, per nutrire il terreno o per essere consumate dalla gente del volgo. Fave e lardo, se per i poveri che non avevano da mangiare, erano una ghiottoneria, per la gente raffinata e aristocratica, erano l’emblema della grossolanità e del peccato.
Affascinante e credibile può essere anche la tesi secondo cui il tabù delle fave fosse frutto di una nevrosi ossessiva di Pitagora. Freud scriveva che i tabù avevano un modo di manifestarsi che somigliava molto a quella della nevrosi. I divieti che si ponevano gli ossessi, specialmente quello di toccare, guardare o mangiare qualcosa, erano oscuri come quelli dei tabù. Nella nevrosi ossessiva, come nei tabù, c’era inoltre un’assenza di motivazioni. Un ossesso, ad un certo punto, decide che toccare qualcosa può provocargli una grave disgrazia e da quel momento rispetta in maniera puntuale la rinuncia. In genere, il divieto principale che l’ammalato si autoimpone è quello del contatto, il délire de toucher. Il tabù era una manifestazione di una situazione irrisolta, una fissazione psichica uscita dal conflitto permanente tra divieto e pulsione. Non mangiare, toccare o guardare le fave era un continuo sforzo per espiare, ma anche un modo per frenare e risarcire la pulsione per una cosa proibita. Il fondamento del tabù delle fave era legato alla capacità di proibire qualcosa verso cui nell’inconscio esisteva una forte inclinazione. La funzione del tabù era quella di rammentare agli uomini i propri desideri proibiti i quali avevano quasi sempre una natura sessuale. Le fave avevano una forza magica che induceva gli uomini in tentazione e attraverso il tabù la voglia vietata si spostava nell’inconscio. E’ probabile quindi che Pitagora avesse una serie di ossessioni, tra cui quella delle fave o che l’abbia ereditata e fatta propria. E’ vero che un tabù è diverso da una nevrosi, ma Freud ricorda che se la nevrosi è una religione individuale, il tabù è una nevrosi ossessiva universale. Il tabù non è altro che una nevrosi privata divenuta collettiva grazie all’autorità e al lavoro della collettività.
Più convincente delle altre è, a mio avviso, l’ipotesi che il tabù delle fave fosse un’espressione culturale che aveva la funzione di proteggere la comunità dai pericoli interni ed esterni. Pitagora era perfettamente consapevole che l’ordine ideale di una società veniva garantito dai pericoli esterni che minacciavano coloro che li trasgredivano. Le fave non contaminavano solo l’individuo ma l’intera comunità e costituivano così un mezzo efficace per la coercizione reciproca e la costruzione di consenso. Il tabù delle fave era dunque un meccanismo per consentire il funzionamento nella comunità pitagorica, una legge fondamentale per costruire, sancire e riprodurre la struttura sociale. I detti simbolici rafforzavano inoltre i valori che regolavano il modo di agire del singolo e della collettività, erano rappresentazioni simboliche che esprimevano i sentimenti della comunità, avevano la funzione di regolare la vita della società e trasmettere il senso identitario del passato, del presente e del futuro. I pitagorici si trovavano sempre in relazione con gli altri e quindi da una parte erano costretti ad elaborare strategie che gli permettevano di favorire la reciprocità, dall’altra studiare tecniche che stabilivano separazioni e confini per non rischiare di annullare la propria identità. Il pericolo di qualcosa rappresentava dunque un elemento centrale per il dominio politico e ideologico, era fondamentale per rafforzare la coesione della setta dagli attacchi interni esterni. L’ordine ideale della società veniva garantito dai pericoli esterni e coloro che non rispettavano le sacre obbligazioni per difendersi da essi erano puniti per avere abbandonato la retta via della legge.
Le proibizioni alimentari, e in particolare il tabù delle fave, avevano dunque lo scopo di contribuire a rafforzare l’identità della setta, di creare uno steccato invalicabile con le altre culture che rischiavano di contaminarla. Non mangiare fave era un imperativo categorico che tutti dovevano rispettare senza discutere poiché esso offriva il privilegio di appartenere ad un gruppo, di rafforzare i valori comunitari. La differenza col mondo esterno passava sui rapporti umani, sessuali e anche sull’alimentazione. I tabù alimentari di Pitagora non avevano lo scopo di definire la dieta dei crotonesi ma dei pitagorici. La proibizione delle fave, come del resto le altre prescrizioni, avevano lo scopo di differenziare gli adepti della setta dalla popolazione, di affermare l’identità del gruppo nei confronti della società. I tabù che apparentemente non avevano alcuna motivazione, di provenienza ignota erano incomprensibili per i non iniziati e naturali per coloro che ne subivano il dominio. Per la comunità pitagorica la proibizione di mangiare carne, fave, molluschi e altri cibi, era un modo per distinguersi dalla società e la società, da parte sua, utilizzava questi divieti per relegarli nella loro diversità.
Ho elencato una serie di ipotesi sul divieto delle fave di Pitagora (e se ne potrebbero aggiungere altre), ma personalmente credo che ogni sua interpretazione in maniera frammentaria è destinata a fallire. Giamblico nella sua biografia dedicata al maestro di Samo, ad un certo punto scriveva: «C’era un tale Ippodemonte di Argo, un pitagorico della cerchia degli acusmatici, il quale sosteneva che Pitagora aveva fornito la spiegazione e la dimostrazione di tutti gli akousmata, ma che per il fatto di essere stati tramandati per il tramite di molte persone, col passare del tempo sempre più incolte, se n’era perduta la spiegazione razionale, mentre era restati unicamente i ‘problemi’». E poco dopo acutamente aggiungeva: «Ora in alcuni detti si trova aggiunta la ragione per cui bisogna agire in un determinato modo (…) in altri invece manca ogni giustificazione razionale. E delle spiegazioni aggiuntive, alcune sembreranno connesse sin dal primo momento ai detti cui si riferiscono, altre invece apposte successivamente; per esempio, a proposito del divieto di spezzare il pane, il fatto che ciò non sarebbe utile al momento del giudizio nell’Ade. Ebbene, le supposizioni esplicative aggiunte a detti di questo tipo non sono pitagoriche, ma appartengono ad estranei che hanno escogitato e cercato di riferire a essi una motivazione plausibile».
Riguardo al divieto di spezzare il pane Giamblico ricorda che, questo derivava dall’usanza di non dividere ciò che serviva ad unire ed il pane, presso alcuni popoli, era un elemento di coesione della comunità poiché ci si riuniva intorno ad esso. Inoltre, sempre secondo Giamblico, spezzare il pane rappresentava un affronto per la comunità degli inferi. Per alcuni il motivo di tale proibizione stava nel fatto che tale gesto rendeva vili in guerra, per altri che fosse di cattivo auspicio, per altri che dal pane avesse origine l’universo.
Riguardo invece al divieto di raccogliere le briciole del pane cadute per terra, diffuso sempre nella comunità dei pitagorici, Aristotele ci informa che questo aveva lo scopo di abituare i discepoli a non mangiare smoderatamente e che le briciole avevano un nesso con la morte di una persona. Per Aristofane invece la ragione di tale tabù risiedeva nel fatto che le briciole che cadevano a terra appartenevano ai daimoni, divinità terrestri o agli eroi.
Un tabù non può essere studiato come un fatto isolato, ma va inquadrato all’interno di una struttura globale di pensiero. Pitagora, com’è noto, sosteneva che all’interno della realtà vi fossero scissioni e contrapposizioni per cui si creavano sistemi di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. La sua dottrina fondamentale si riassumeva essenzialmente in due tipi di dualismo che riflettevano l’opposizione fondamentale tra il bene e il male: quello fra anima e corpo e quella fra limite e illimitato. E’ soprattutto in questi doppi che va a mio avviso rintracciato soprattutto il «mistero» del tabù delle fave.
Nella filosofia di Pitagora l’anima è immortale, ma col passare del tempo è costretta a reincarnarsi in corpi sempre diversi e a trasmigrare dall’uno all’altro dopo la morte fisica di ognuno di essi. Il corpo appare quindi come una prigione dell’anima e, se durante questa prigionia, il corpo riesce a contaminarla con i suoi bisogni materiali, i suoi desideri e le sue passioni, l’anima diventa sempre più impura ed è costretta a scontare la colpa reincarnandosi in animali oppure piante via via inferiori. Il modo per evitare che l’anima venga corrotta è quello di non avere contatti con cose impure, vivere una vita ascetica, coltivare le migliori facoltà dello spirito e rispettare una serie di divieti. La pratica della filosofia diventa così una sorta di esercizio dello scioglimento dei vincoli corporei, purificazione dell’anima, preparazione alla salvezza. L’anima, una volta purificata, sarebbe stata finalmente liberata dal ciclo della trasmigrazione e della reincarnazione e avrebbe potuto raggiungere la divinità da cui proveniva.
E’ in questo quadro che si comprende il valore morale e religioso dell’idea del limite e dell’ordine che domina il pensiero pitagorico. Per Pitagora il saggio deve dedicare la sua esistenza ad insegnare la pratica della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri e delle pulsioni corporee e a convincere tutti, con la persuasione o la forza, a rispettare i canoni divini dell’ordine cosmico.
Attraverso le proibizioni egli proponeva agli uomini un nuovo codice morale. Convinto che la società del suo tempo fosse in preda al disordine e al libero arbitrio, pensava fosse giunto il tempo di fondare una nuova società, caratterizzata da nuove regole e da un nuovo ordine. Questo nuovo cosmo che doveva sostituirsi al caos, doveva stabilire soprattutto ciò che era puro e ciò che era impuro, ciò che era lecito e ciò che era illecito, ciò che era sacro e ciò che era profano, ciò che era limitato e ciò che era illimitato.
Il tabù delle fave non si può comprendere se non viene inserito all’interno di un pensiero dualistico. La differenza tra la specie permessa e quella proibita non era legata alla loro nocività o alla loro purezza, alla loro utilità o inutilità, quanto alla preoccupazione di introdurre una distinzione tra specie e stabilire un ordine. Il mare, in quanto mondo alieno, veniva considerato dai pitagorici nemico degli uomini e chiamato non a caso «lacrime».
Conseguentemente tutto ciò che era connesso ad esso era malvagio e i pesci che abitavano le sue profondità non buoni da mangiare. Fra tutti i pesci però non bisognava mangiarne soprattutto alcune specie e fra questi il melanuro poiché, avendo la coda nera, era legato agli dei terrestri. Ai suoi discepoli Pitagora diceva che bisognava onorare gli dei prima dei Daimoni, i Daimoni prima degli Eroi, gli Eroi prima dei genitori, i genitori prima degli amici, gli amici prima degli altri uomini. Queste proibizioni e queste prescrizioni hanno un senso solo se vengono viste all’interno di una logica che tendeva ad organizzare il mondo in una scala di valori.
La fava era demoniaca e la malva era santissima. Questo paragone non aveva nessun senso se pensiamo che la maggior parte della popolazione si nutriva di fave e che invece la malva era utilizzata di tanto in tanto come infuso. La malva era santissima e le fave erano demoniache perché bisognava comunque scegliere all’interno del mondo vegetale le cose buone e le cose cattive. In tale prospettiva di prescrizioni e restrizioni è del tutto inutile trovare delle ragioni ai tabù, poiché il loro senso era puramente formale, senza contenuto, privo di significato. La divisione tra le specie permesse e quelle proibite, non era legata alle proprietà intrinseche, fisiche o mistiche delle piante, delle cose o degli animali, ma al fatto che si dovevano introdurre delle distinzioni tra specie segnate e non segnate.
Pitagora e i pitagorici tendevano all’armonia e all’equilibrio, volevano tradurre il caos in cosmo e cioè in un sistema razionalmente ordinato comprendente parti diverse. Il numero è l’espressione suprema del limite, la chiave dell’ordine e del principio della realtà.. Il numero, agendo come limite, imponeva una struttura ordinata e costante alla varietà dei fenomeni del mondo, apparentemente limitata e caotica. Il numero pitagorico rappresenta l’unità di un molteplice, il limite, la legge o l’ordine impresso all’informe o al mutevole. I pitagorici avevano dunque trovato nel numero la struttura segreta che in ultima istanza componeva le scissioni esistenti nell’ordine della società e delle cose.
In ognuna delle diversità c’è qualcosa di identico, tutto parte dall’unità e tutto ritorna all’unità, l’arché, il principio da cui le cose si generano e si corrompono non è generabile e corruttibile ma è eterno. L’archè non è solo l’identico nelle cose diverse, la dimensione da cui provengono e in cui ritornano, ma è anche la forza che determina il divenire nel mondo, è il principio che governa il mondo, lo produce e lo fa tornare a sé.
Per Pitagora e i pitagorici la cosa più bella era l’armonia, come diceva Filolao, l’unità del molteplice composto e la concordanza delle discordie. La salute degli uomini, sia quella fisica che psichica, ad esempio, risultava dall’equilibrio e dalla mescolanza proporzionata di qualità che secondo la legge naturale si opponevano due a due, umido e secco, freddo e caldo, amaro e dolce, chiaro e scuro. La malattia si creava quando vi era una supremazia dell’uno e dell’altro elemento. Il tabù delle fave faceva parte di un codice concettuale che si esprimeva attraverso una struttura procedente per coppie di opposizioni, un codice intellettuale che rispondeva al principio dell’unione di termini opposti. Le proibizioni e gli imperatici categorici erano frutto pensava che esprimeva integrazioni e opposizioni , erano all’interno di una struttura mentale che contrapponeva il sacro al profano, il puro e dell’impuro, il lecito all’illecito per porli però in relazione. Ciò spiegherebbe anche il valore ambiguo e il significato doppio che i pitagorici attribuivano alle fave: generatrici e annientatrici insieme, espressione del bene e del male allo stesso tempo; ciò spiega perché all’interno del pensiero pitagorico l’apollineo stava accanto al dionisiaco, perché Apollo si oggettivava in Dioniso o gli stava vicino. Il pitagorismo è infatti una filosofia che fa i conti con l’indeterminato e il senza limite del dionisiaco per affermare una visione apollinea che conferisce forma e ordine al mondo.
Questa struttura mentale che cercava di decifrare e ordinare il mondo attraverso i simboli stava alla base di molti loro tabù. Questo pensiero filosofico concepiva il mondo come un insieme di doppi, di grandi opposizioni, di ordine e disordine, di identità dei contrari. Questo sistema concettuale che ruotava attorno ad una struttura binaria, era come uno strumento logico per passare dalla dualità all’unità, il nucleo più profondo e più antico dello spirito umano.
I tabù come quello delle fave avevano anche lo scopo di favorire la reciprocità. Queste limitazioni rendevano possibile uno scambio tra gli adepti e il loro maestro, tra i vari gruppi di adepti, tra gli adepti e il mondo esterno. I tabù erano forme vuote ma indispensabili per favorire uno scambio tra realtà che altrimenti non avrebbero potuto interagire. Come afferma Lévi-Strauss, la reciprocità è stata stabilita sempre sulla base di proibizioni che hanno segnato il passaggio dalla natura alla cultura.
Il tabù delle fave di Pitagora, visto in questa prospettiva, era dunque un anello che faceva parte di un raffinato pensiero logico, di un ethos che influenza ancora la nostra coscienza. Tutto lo sviluppo del pensiero occidentale è legato ai filosofi della Grecia antica e in particolare a Pitagora il quale, secondo Giamblico, fu proprio lui a dare alla filosofia questo nome, definendola aspirazione della sapienza (sophia).
Giovanni Sole, Antropologo
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Pitagora
Fuggito dalla Grecia, in particolare da Samo, perchè perseguitato dal Tiranno Policrate per le sue idee politiche, venne in Magna Grecia. Scelse Kroton in Calabria per attuare la sua idea di governo.
A Kroton vigeva il governo dei mille, una sorta di oligarchia delle famiglie aristocratiche.
Pitagora pose sopra questo il consiglio dei Pitagorici.
La Scuola Pitagorica da lui fondata a Kroton prese piede in tutta la Magna Grecia arrivando fino ad Agrigento dove Empedocle volle conoscerlo di persona e studiò con lui a Kroton.
Purtroppo a causa dei contrasti con Sibari, una fazione del popolo ne approfittò per suscitare una rivolta democratica e i pitagorici furono scacciati o uccisi.
Si dice che i maggiori rappresentati della Scuola fossero riuniti a casa del campione Olimpico Milone e che la casa fu data alle fiamme.
Nell'incendio persero tutti la vita, ma secondo un'altra versione Pitagora fuggì a Metaponto dove si lasciò morire di fame.
L'avversione di Pitagora per le fave era tale che secondo la leggenda fu ucciso dai seguaci del tiranno di Crotone, Cilone, perché non volle nascondersi in un campo di fave.
L'astensione dalle fave
Scuola pitagorica § Il divieto delle fave.
Una versione della morte di Pitagora è collegata all'idiosincrasia del filosofo e della sua Scuola per le fave, che i pitagorici si guardavano bene dal mangiare, evitando anche il semplice contatto. Secondo la leggenda, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere e uccidere piuttosto che mettersi in salvo in un campo di fave.
Esistono due interpretazioni riguardo al divieto di mangiare fave.
Quella di Gerald Hart,[25] secondo cui il favismo era una malattia diffusa nella zona del crotonese e ciò conferirebbe al divieto una motivazione profilattica-sanitaria. Dunque Pitagora viveva in zone di favismo diffuso, e da questo nasceva la sua proibizione igienica; ma perché i medici greci non avevano identificato questa patologia? Nell'esperienza quotidiana le fave erano un cardine dell'alimentazione che tutt'al più causava flatulenze e insonnia e se qualcuno che aveva mangiato fave contemporaneamente si ammalava i due fatti non venivano collegati. Se dunque Pitagora dell'astenersi dal mangiare fave ne fa addirittura un precetto morale è perché i greci del VI secolo a.C. avevano un modo diverso dal nostro di considerare le malattie nel senso che le riferivano alla religione [26] per cui, come ha messo in luce Claude Lévi-Strauss, le fave erano considerate connesse al mondo dei morti, della decomposizione e dell'impurità, dalle quali il filosofo si deve tenere lontano.
Il vegetarianismo
« Pitagora ed Empedocle avvertono che tutti gli esseri viventi hanno eguali diritti, e proclamano che pene inespiabili sovrastano a coloro che rechino offesa a un vivente. »
(Cicerone[27])
Diogene Laerzio sostiene inoltre che Pitagora fosse solito mangiare pane e miele al mattino e verdure crude la sera; in più implorava i pescatori affinché ributtassero in mare quello che avevano appena pescato.[30]
https://it.wikipedia.org/wiki/Pitagora
Pitagora e il tabù delle fave
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Pitagora e il tabù delle fave
Secondo la tradizione Pitagora e i suoi discepoli erano vegetariani. Disse un giorno il filosofo: «Astenetevi o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d’uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, ce n’è di quelle che si possono rendere più buone e più tenere con la cottura. E nessuno vi proibisce il latte e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e sangue». E secondo Porfirio «raccomandava anche di non distruggere né danneggiare una pianta coltivata e fruttifera, e nemmeno un animale che non fosse per sua natura nocivo all’uomo».
Pitagora aveva un grande rispetto per gli animali al punto che, insieme ai suoi discepoli, non li uccideva, non li mangiava e non li sacrificava agli dei. Un frammento di Eudosso, conservato da Porfirio, narra che «praticasse la purezza a tal punto e tanto rifuggisse le uccisioni e gli uccisori che non solo si asteneva dagli esseri viventi, ma neppure si accostava mai a macellai e cacciatori». E Diogene scriveva: «In effetti Pitagora proibiva addirittura di uccidere, e a maggior ragione di mangiare gli animali, i quali condividono con noi il privilegio dell’anima».
Per alcuni, questo atteggiamento da parte di Pitagora era legato alla credenza della metempsicosi, secondo la quale, le anime degli uomini morti vivevano nei corpi degli animali, per cui uccidere un animale significava uccidere un uomo o mangiare un animale significava mangiare un uomo. A questo proposito si racconta che un giorno ammonì un concittadino che stava battendo un cagnolino: «Smetti, e non picchiare, perché invero si tratta dell’anima di una persona amica, che ho riconosciuto udendone la voce».
Pitagora era un convinto vegetariano ma vietava anche l’uso delle fave.
Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astienti dalle fave». Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave», mentre secondo Porfirio voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali. A questo proposito si raccontava che, se necessario, Pitagora ricorreva alle sue capacità taumaturgiche: «Invece a Taranto vide un bue al pascolo in mezzo a piante di ogni genere che si stava accostando a delle fave verdi; allora si avvicinò al bovaro e gli suggerì di dire al bue di non toccare le fave. E dato che il bovaro aveva preso a schernirlo, dicendo di non conoscere la lingua dei buoi, si accostò al bue e gli sussurrò all’orecchio non solo di allontanarsi dal campo di fave, ma anche di non toccarle mai più».
Ma perché Pitagora sosteneva che non bisognava mangiare o toccare le fave?
Il carattere segreto della sua scuola non ci aiuta molto a rispondere a questa domanda, mentre le cose dette dai suoi discepoli sono piene di contraddizioni e frutto di chiare rielaborazioni. Ognuno ha infatti cercato di interpretare il suo pensiero e ha aggiunto o tolto ciò che riteneva opportuno. Vi sono addirittura singoli autori che nelle loro narrazioni gli fanno dire cose diverse l’una dall’altra senza mostrare alcun imbarazzo. Riguardo alle proibizioni alimentari Diogene, ad esempio, afferma che Pitagora non uccideva gli animali per le divinazioni, poi però ammette che sopprimeva galli, capretti e porcellini di latte quindi, citando Aristosseno, diceva che mangiava tutti gli esseri animati tranne il bue e l’ariete e poco dopo affermava che mangiava anche i galli. Giamblico, da parte sua, scriveva che Pitagora non sacrificava nessun essere animato e considerava il gallo «sacro al sole», ma poco dopo affermava che sacrificava solo occasionalmente esseri animati come «il gallo, l’agnello o qualche altro animale appena nato, ma non il bue».
Anche sulla proibizione pitagorica di mangiare le fave non tutti gli scrittori sono d’accordo.
La maggior parte affermano che il maestro era fermo nel divieto alimentare, ma alcuni sostengono che al contrario non perdeva occasione per raccomandare di mangiare fave e che lui stesso ne era ghiotto per le sue qualità energetiche e terapeutiche. Gellio, ad esempio, scriveva: «E’ antica opinione diffusa e ben radicata, ma falsa, che il filosofo Pitagora non mangiò mai carne di animali, e che inoltre si sia astenuto dal mangiare la fava, che i greci chiamano Kýamos». E continuava: «Ma il musicologo Aristosseno appassionato cultore di letteratura antica e scolaro del filosofo Aristotele, è autore di un libro ‘Su Pitagora’ nel quale afferma che Pitagora di nessun altro legume fece maggiore uso che delle fave, nella convinzione che questo cibo alleviasse dolcemente il ventre e lo rilassasse. Ecco il testo di Aristosseno: ‘Pitagora pregiò tra i legumi soprattutto la fava: diceva che è lubrificante e lassativa, e per questo ne fece larghissimo uso».
Grandi perplessità sulle testimonianze dei suoi discepoli e sui suoi storiografi, dunque, ma per alcuni era lo stesso Pitagora ad essere contraddittorio. Diogene, citando Timone, ricordava che il maestro, essendo sempre alla caccia di adepti, «inclinava a opinioni ammalianti», mentre Cratino scriveva che i pitagorici quando avevano relazioni con un profano lo travolgevano con discorsi «scombussolandolo e confondendogli la testa a suon di antitesi». In sostanza, Pitagora e i suoi discepoli, poiché erano uomini di grande cultura, erano capaci di affermare tutto e il contrario di tutto. Erano quindi in grado anche di trovare mille motivazioni per mangiare o non mangiare fave.
Giovanni Sole, antropologo
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Dicearco scrisse che Pitagora morì nel tempio delle Muse di Metaponto dove si era rifugiato in seguito alla rivolta contro la sua scuola. Alcuni dicono che cessò di vivere dopo avere digiunato per quaranta giorni di seguito. Per Eraclide, invece, dopo avere seppellito Ferecide a Delo, si ritirò a Metaponto dopo pose fine alla sua vita lasciandosi morire di inedia giacché non desiderava vivere più a lungo.
Molti racconti mitici legano però la fine di Pitagora e dei suoi discepoli alle fave.
Narra Giamblico su quanto accadde un giorno ad alcuni dei suoi seguaci più stretti:
«Anche quando raccontano Ippoboto e Neante circa i pitagorici Millia e Timica consente di capire quale fosse la temperanza di quegli uomini, nonché il modo in cui Pitagora la tramandò. Il tiranno Dioniso, narrano, poiché pur facendo ogni sforzo non riusciva a farsi amico nessun Pitagorico, dal momento che essi rifuggivano dal suo carattere dispotico e violento, inviò una schiera di trenta uomini, sotto il comando del siracusano Eurimene, fratello di Dione, a tendere un agguato ai Pitagorici che come di consueto si recavano in una determinata occasione, da Taranto a Metaponto: essi si conformavano al mutamento delle stagioni e sceglievano di conseguenza luoghi adatti alle loro riunioni. Eurimene, dunque, appostò i suoi uomini in un luogo nascosto nella zona di Fane, una località del territorio tarantino piena di voragini, dove i Pitagorici sarebbero dovuti necessariamente passare. E come questi, verso mezzogiorno, giunsero lì senza nulla immaginare, gli armati li assalirono, levando alte grida, alla maniera dei briganti. Quelli, atterriti sia per sorpresa, sia per il numero degli assalitori (quanto a loro erano circa dieci), considerando inoltre che combattendo inermi contro gente armata di tutto punto sarebbero inevitabilmente stati catturati, decisero di cercare la salvezza con una fuga precipitosa, non reputandolo contrario alla virtù. Ben sapevano che il coraggio è la scienza di quel che si deve fuggire e di quel che si deve affrontare, secondo che detta la retta ragione. E sarebbe andata loro molto bene, perché gli uomini di Eurimene, ostacolati dal peso delle armi, erano rimasti indietro nell’inseguimento, se non si fossero imbattuti in un campo seminato a fave e già in pieno rigoglio. Così, non volendo contravvenire al precetto che imponeva di non toccare le fave, si fermarono, e spinti dalla necessità, si difesero con pietre, legni e quant’altro capitava, fino a uccidere qualcuno degli inseguitori e a ferirne molti. Ma furono tutti uccisi dai lancieri, e nessuno venne preso vivo. Rispetto a quella sorte, la morte apparve a tutti preferibile, secondo quanto la loro scuola prescriveva. Eurimene e i suoi si trovarono in uno stato di grande confusione, e non certo per caso, dal momento che non avrebbero potuto condurre nemmeno un Pitagorico vivo da Dioniso, il quale li aveva inviati con l’ordine appunto di non fare nulla più di questo. Così, coprirono di terra i caduti innalzando un tumulo comune e se ne tornarono indietro».
E continua il racconto sulla sorte di Millia e Timica, due pitagorici sfuggiti al massacro:
«Ma subito in costoro si imbatterono Millia di Crotone e Timica di Sparta, che erano rimasti indietro rispetto al gruppo perché Timica era all’ultimo mese di gravidanza e perciò procedeva lentamente. Essi li fecero prigionieri e soddisfatti li condussero dal tiranno, dopo averli trattati con ogni cura, affinché rimanessero in vita. Dioniso, una volta informato dell’accaduto, si mostrò assai abbattuto e disse loro: ‘Da parte mia voi riceverete, a nome di tutti gli altri, gli onori che meritate, nel caso vogliate regnare assieme a me’ Poi, visto che Millia e Timica respingevano ogni sua proposta aggiunse: ‘Se mi spiegherete una sola cosa, sarete lasciati andare sani e salvi con una scorta adeguata’. E a Millia che gli domandava che cosa volesse sapere, rispose:
’Per quale ragione i tuoi compagni hanno preferito di morire pur di non calpestare le fave?’.
Al che Millia: ’Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione’. Allora Dioniso, colpito dalla risposta, diede ordine di portar via con la forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio, e per di più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua, staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna, sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligatorio tacere, lei aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario».
Una storia simile a quella dei suoi discepoli narra Diogene a proposito della fine dello stesso Pitagora: «Pitagora morì in questo modo. Mentre lui e i suoi tenevano una riunione nell’abitazione dell’atleta Milone, capitò che uno di quelli che non erano stati ritenuti degni di essere ammessi al sodalizio, per invidia, appiccò il fuoco all’abitazione – peraltro alcuni affermano che siano stati i Crotoniati stessi, nel timore di un tentativo di stabilire una tirannide – . Pitagora dunque fu preso mentre fuggiva: giunto a un campo di fave, pur di non attraversarlo si arrestò, proclamando che era meglio essere catturato piuttosto che calpestarle e preferiva farsi uccidere, piuttosto che parlare; così, fu sgozzato dai suoi inseguitori. Diogene poco dopo riporta un’altra versione: «Invece Ermippo sostiene che durante la guerra tra Agrigentini e Siracusani Pitagora si fosse messo in marcia con i suoi soldati per porsi alla testa degli Agrigentini; ma quando questi vennero messi in fuga, fu ucciso dai Siracusani mentre cercava di girare intorno a un campo di fave per non attraversarlo».
Per quale motivo Millia si lasciò torturare piuttosto che rivelare il motivo del non poter calpestare le fave in fiore? Perché Timica, prossima a partorire il suo bambino, si tagliò la lingua pur di non rivelare il mistero delle fave? Quali erano le ragioni per cui Pitagora si fece catturare e sgozzare pur di non attraversare un campo di fave?
Gioco di significati
Le spiegazioni e le interpretazioni del tabù delle fave di Pitagora sono diverse e ognuna potrebbe avere qualche giustificazione e qualche fondamento.
La tesi avanzata da alcuni, e principalmente da Frazer, secondo cui i tabù pitagorici facevano parte di una mentalità superstiziosa o magica, può avere una sua validità. La proibizione delle fave probabilmente apparteneva ad antichissime religioni totemiche e primordiali credenze arcaiche, apprese da Pitagora durante i suoi lunghi e numerosi viaggi. Secondo la tradizione il maestro di Samo per circa vent’anni dimorò in alcuni paesi come l’Egitto e la Mesopotamia venendo a contatto con sciamani, maghi e sacerdoti i quali gli insegnarono ciò che era puro e ciò che era impuro, ciò che era santo e ciò che era diabolico. Molti tabù pitagorici, come quello delle fave, di non portare addosso anelli e di non voltarsi quando si lasciava la casa, erano del resto diffusi in diversi paesi del Mediterraneo . Secondo alcuni studiosi invece l’impianto religioso di Pitagora rientrava in una cultura indoeuropea, mentre altri sostengono che egli aveva appreso tali credenze delle popolazioni italiche.
Queste sopravvivenze religiose erano comunque frutto del terrore dell’uomo per il soprannaturale. Le fave erano considerate piante magiche, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini. Erano un cibo sacro agli dei dell’oltretomba o un cibo caro ai morti e per questo oggetto di tabù. Tutto ciò che apparteneva alle divinità o agli spiriti era interdetto agli uomini e infrangere il divieto significava mettere in moto contro di se delle forze che punivano i trasgressori o tramite l’oggetto tabuizzato o con altre disgrazie.
Anche la tesi prospettata dalla maggior parte degli scrittori antichi, secondo cui la proibizione delle fave era legata ad un impianto religioso simile a quello orfico, non era del tutto insensata. Pitagora, come gli orfici, credeva che l’anima, sepolta nel corpo per i suoi peccati e immersa nella materia come in una prigione, poteva gradatamente ricongiungersi alla sua origine divina. Era convinto che attraverso un graduale processo di perfezionamento del corpo e dello spirito, l’uomo poteva passare ad un grado più elevato di esistenza e quindi ad un grado superiore di conoscenza che lo avrebbe portato a somigliare agli dei. Le privazioni alimentari, compresa quella delle fave, facevano probabilmente parte di un corpus di leggi che gli adepti dovevano rispettare per raggiungere lo stato della perfezione, per annullare la differenza tra la condizione umana e quella divina. Le fave erano ritenute piante che per le loro caratteristiche ostacolavano fortemente la capacità divinatorie e l’attività onirica.
Pitagora era il sapiente dei sapienti, un uomo posseduto dalle divinità e dalla cui bocca usciva la parola divina. Era in grado, tramite la sua sapienza, di esaminare e di illuminare il senso degli oracoli e di interpretare gli enigmi. Era un eletto e la sua conoscenza di natura divina poteva essere insegnata e trasmessa solo tramite lunghi periodi caratterizzati da istruzioni rituali, purificazioni, digiuni e astensione da certi cibi.
Degna di considerazione può essere anche la teoria che il tabù delle fave avesse scopi di prevenzione sanitaria riguardo alla loro tossicità e soprattutto alla loro capacità di provocare quella terribile malattia che nell’Ottocento sarà chiamata «favismo». A Crotone vi era una scuola di medicina famosissima in tutto il Mediterraneo, seconda a giudizio di Erodoto solo a quella di Cirene. Pitagora conosceva bene le caratteristiche intrinseche dei vari alimenti ed essendo vegetariano era un esperto di piante e preparati a base di piante. Probabilmente egli sapeva che alcuni individui, mangiando fave crude o cotte, o anche inalando il polline di fiori di fava, manifestavano sintomi da grave intossicazione o da allergia, prodotte evidentemente da sostanze non identificate contenute in queste piante.
Il tabù era dunque un mezzo pratico per mettere in guardia gli uomini e sensibilizzare la popolazione che mangiare fave poteva essere pericoloso per la loro esistenza. Suscitando meraviglia e orrore il tabù li avvisava, li faceva riflettere, li induceva ad essere cauti. Gli uomini non si chiedevano la ragione del divieto, ma ne rimanevano colpiti ed erano indotti a rispettarlo. Diventando una divina sentenza il tabù non poteva essere messo in discussione in alcun modo e quindi molte persone che ignoravano di essere fabici si salvavano. Le storie mitiche legate alla morte di Pitagora e dei suoi sodali costituivano un’efficace elaborazione del terrore e contribuivano all’umanizzazione di una pianta pericolosa, ma di cui non si poteva fare a meno. Il tabù culturalmente definiva le fave come probabile causa di pericolo, limitava e localizzava una minaccia nei confronti degli uomini che diventava la sostanza del tabù stesso.
Pure accettabile può essere la tesi che i tabù pitagorici fossero allegorie dai significati profondi e rientrassero nella spiccata tendenza del maestro di Samo ad imporre delle regole di vita ai suoi discepoli. La sua filosofia non era del resto solo uno strumento di dominio ma anche e soprattutto uno strumento educativo. Gli acusmi pitagorici erano metafore simboliche, imperativi religiosi, etici e morali e come tali soggetti a varie interpretazioni e a varie controversie. Le limitazioni, le prescrizioni e le interdizioni, come il divieto di mangiare le fave, erano allegorie dai significati legati alla segretezza della sua scuola. Egli non poteva rivelare le verità divine alla massa degli uomini ma ad un ristretto numero di «iniziati» e la trasmissione e l’apprendimento delle stesse dovevano avvenire soprattutto attraverso un linguaggio allegorico e iniziatico.
Anche l’ipotesi indicata da Aristotele, secondo cui le fave erano avversate da Pitagora perché con esse i democratici eleggevano i rappresentanti del popolo, non può essere considerata del tutto immotivata. Nessuno come Pitagora conosceva il valore dei simboli visto che tutto il suo impianto filosofico era legato ad un’arcana simbologia. Quando Pitagora giunse a Crotone, in tutte le città della Magna Grecia si stava vivendo una forte crisi politico-istituzionale, caratterizzata dal duro scontro che opponeva aristocratici e democratici. Il maestro di Samo, oltre che filosofo era anche un politico e, com’è noto, fautore di una società oligarchica, avversario irriducibile di chi cercava di rinnovare in senso democratico la società aristocratico-sacerdotale del passato. Secondo gli storici fu proprio Pitagora ad organizzare la controffensiva alle polis dei democratici ritenendole una forma di organizzazione sociale non più adeguata a far fronte alle contraddizioni sociali che si erano create nella nuova realtà e ancora causa dei mali che stavano fiaccando le energie e la vita dei suoi concittadini. In tale contesto anche un simbolo come le fave costituiva un pericolo poiché rischiava di risvegliare propositi sovversivi e antiaristocratici.
Non si può nemmeno scartare l’ipotesi che il detto «astieniti dalle fave» fosse solo una semplice raccomandazione, un precetto di buon senso. C’è stato un uso indiscriminato dei tabù, spesso essi sono stati frutto di una proiezione intellettuale del pensiero occidentale nei confronti di culture altre. Sotto la categoria dei tabù sono state fatte rientrare molte cose del tutto differenti tra loro. «Astieniti dalle fave» non era un tabù probabilmente dai significati misteriosi e nascosti, non aveva niente di simbolico o enigmatico, come hanno scritto in molti, ma probabilmente aveva un senso letterale. Pitagora era un maestro e ai suoi allievi consigliava ciò che si doveva fare e non si doveva fare e molti suoi imperativi sono caratterizzati dal buon senso. «Astieniti dalle fave» voleva dire «fai a meno di mangiare fave» poiché prevengono da una pianta che può essere pericolosa. I funghi sono buoni da mangiare ma sono tossici e alcuni letali; le fave sono buone da mangiare ma sono indigeste e per alcuni letali. «Astieniti dalle fave» era un consiglio e cioè quello di non fidarsi di quelle piante che erano diffuse e di cui si poteva fare a meno per vivere, una norma di senso comune, poiché i danni che provocavano le fave erano reali. In questo senso l’avvertimento di Pitagora non era una vera ingiunzione, ma una semplice norma di ordinaria prudenza, una raccomandazione per proteggere individui che, non sapevano di essere in pericolo.
Come non prendere in considerazione l’ipotesi che il tabù delle fave di Pitagora era legato al fatto che esse non fossero buone da mangiare? L’avversione nei confronti delle fave in molte aree del Mediterraneo ci spinge a pensare che questo tabù debba essere messo in relazione con gli altri prodotti agricoli. Il grano, ad esempio, conquistò velocemente il favore della popolazioni e si impose soprattutto su altri tipi di frumento e sui legumi. Il grano vinse sulla fava anche perché era un cibo più buono da mangiare, perché, per le sue proprietà organolettiche proprio di un’alimentazione più raffinata. Le fave subirono così un declassamento e una conseguente desacralizzazione, finirono per diventare un cibo rozzo, buono per sfamare gli animali, per nutrire il terreno o per essere consumate dalla gente del volgo. Fave e lardo, se per i poveri che non avevano da mangiare, erano una ghiottoneria, per la gente raffinata e aristocratica, erano l’emblema della grossolanità e del peccato.
Affascinante e credibile può essere anche la tesi secondo cui il tabù delle fave fosse frutto di una nevrosi ossessiva di Pitagora. Freud scriveva che i tabù avevano un modo di manifestarsi che somigliava molto a quella della nevrosi. I divieti che si ponevano gli ossessi, specialmente quello di toccare, guardare o mangiare qualcosa, erano oscuri come quelli dei tabù. Nella nevrosi ossessiva, come nei tabù, c’era inoltre un’assenza di motivazioni. Un ossesso, ad un certo punto, decide che toccare qualcosa può provocargli una grave disgrazia e da quel momento rispetta in maniera puntuale la rinuncia. In genere, il divieto principale che l’ammalato si autoimpone è quello del contatto, il délire de toucher. Il tabù era una manifestazione di una situazione irrisolta, una fissazione psichica uscita dal conflitto permanente tra divieto e pulsione. Non mangiare, toccare o guardare le fave era un continuo sforzo per espiare, ma anche un modo per frenare e risarcire la pulsione per una cosa proibita. Il fondamento del tabù delle fave era legato alla capacità di proibire qualcosa verso cui nell’inconscio esisteva una forte inclinazione. La funzione del tabù era quella di rammentare agli uomini i propri desideri proibiti i quali avevano quasi sempre una natura sessuale. Le fave avevano una forza magica che induceva gli uomini in tentazione e attraverso il tabù la voglia vietata si spostava nell’inconscio. E’ probabile quindi che Pitagora avesse una serie di ossessioni, tra cui quella delle fave o che l’abbia ereditata e fatta propria. E’ vero che un tabù è diverso da una nevrosi, ma Freud ricorda che se la nevrosi è una religione individuale, il tabù è una nevrosi ossessiva universale. Il tabù non è altro che una nevrosi privata divenuta collettiva grazie all’autorità e al lavoro della collettività.
Più convincente delle altre è, a mio avviso, l’ipotesi che il tabù delle fave fosse un’espressione culturale che aveva la funzione di proteggere la comunità dai pericoli interni ed esterni. Pitagora era perfettamente consapevole che l’ordine ideale di una società veniva garantito dai pericoli esterni che minacciavano coloro che li trasgredivano. Le fave non contaminavano solo l’individuo ma l’intera comunità e costituivano così un mezzo efficace per la coercizione reciproca e la costruzione di consenso. Il tabù delle fave era dunque un meccanismo per consentire il funzionamento nella comunità pitagorica, una legge fondamentale per costruire, sancire e riprodurre la struttura sociale. I detti simbolici rafforzavano inoltre i valori che regolavano il modo di agire del singolo e della collettività, erano rappresentazioni simboliche che esprimevano i sentimenti della comunità, avevano la funzione di regolare la vita della società e trasmettere il senso identitario del passato, del presente e del futuro. I pitagorici si trovavano sempre in relazione con gli altri e quindi da una parte erano costretti ad elaborare strategie che gli permettevano di favorire la reciprocità, dall’altra studiare tecniche che stabilivano separazioni e confini per non rischiare di annullare la propria identità. Il pericolo di qualcosa rappresentava dunque un elemento centrale per il dominio politico e ideologico, era fondamentale per rafforzare la coesione della setta dagli attacchi interni esterni. L’ordine ideale della società veniva garantito dai pericoli esterni e coloro che non rispettavano le sacre obbligazioni per difendersi da essi erano puniti per avere abbandonato la retta via della legge.
Le proibizioni alimentari, e in particolare il tabù delle fave, avevano dunque lo scopo di contribuire a rafforzare l’identità della setta, di creare uno steccato invalicabile con le altre culture che rischiavano di contaminarla. Non mangiare fave era un imperativo categorico che tutti dovevano rispettare senza discutere poiché esso offriva il privilegio di appartenere ad un gruppo, di rafforzare i valori comunitari. La differenza col mondo esterno passava sui rapporti umani, sessuali e anche sull’alimentazione. I tabù alimentari di Pitagora non avevano lo scopo di definire la dieta dei crotonesi ma dei pitagorici. La proibizione delle fave, come del resto le altre prescrizioni, avevano lo scopo di differenziare gli adepti della setta dalla popolazione, di affermare l’identità del gruppo nei confronti della società. I tabù che apparentemente non avevano alcuna motivazione, di provenienza ignota erano incomprensibili per i non iniziati e naturali per coloro che ne subivano il dominio. Per la comunità pitagorica la proibizione di mangiare carne, fave, molluschi e altri cibi, era un modo per distinguersi dalla società e la società, da parte sua, utilizzava questi divieti per relegarli nella loro diversità.
Ho elencato una serie di ipotesi sul divieto delle fave di Pitagora (e se ne potrebbero aggiungere altre), ma personalmente credo che ogni sua interpretazione in maniera frammentaria è destinata a fallire. Giamblico nella sua biografia dedicata al maestro di Samo, ad un certo punto scriveva: «C’era un tale Ippodemonte di Argo, un pitagorico della cerchia degli acusmatici, il quale sosteneva che Pitagora aveva fornito la spiegazione e la dimostrazione di tutti gli akousmata, ma che per il fatto di essere stati tramandati per il tramite di molte persone, col passare del tempo sempre più incolte, se n’era perduta la spiegazione razionale, mentre era restati unicamente i ‘problemi’». E poco dopo acutamente aggiungeva: «Ora in alcuni detti si trova aggiunta la ragione per cui bisogna agire in un determinato modo (…) in altri invece manca ogni giustificazione razionale. E delle spiegazioni aggiuntive, alcune sembreranno connesse sin dal primo momento ai detti cui si riferiscono, altre invece apposte successivamente; per esempio, a proposito del divieto di spezzare il pane, il fatto che ciò non sarebbe utile al momento del giudizio nell’Ade. Ebbene, le supposizioni esplicative aggiunte a detti di questo tipo non sono pitagoriche, ma appartengono ad estranei che hanno escogitato e cercato di riferire a essi una motivazione plausibile».
Riguardo al divieto di spezzare il pane Giamblico ricorda che, questo derivava dall’usanza di non dividere ciò che serviva ad unire ed il pane, presso alcuni popoli, era un elemento di coesione della comunità poiché ci si riuniva intorno ad esso. Inoltre, sempre secondo Giamblico, spezzare il pane rappresentava un affronto per la comunità degli inferi. Per alcuni il motivo di tale proibizione stava nel fatto che tale gesto rendeva vili in guerra, per altri che fosse di cattivo auspicio, per altri che dal pane avesse origine l’universo.
Riguardo invece al divieto di raccogliere le briciole del pane cadute per terra, diffuso sempre nella comunità dei pitagorici, Aristotele ci informa che questo aveva lo scopo di abituare i discepoli a non mangiare smoderatamente e che le briciole avevano un nesso con la morte di una persona. Per Aristofane invece la ragione di tale tabù risiedeva nel fatto che le briciole che cadevano a terra appartenevano ai daimoni, divinità terrestri o agli eroi.
Un tabù non può essere studiato come un fatto isolato, ma va inquadrato all’interno di una struttura globale di pensiero. Pitagora, com’è noto, sosteneva che all’interno della realtà vi fossero scissioni e contrapposizioni per cui si creavano sistemi di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. La sua dottrina fondamentale si riassumeva essenzialmente in due tipi di dualismo che riflettevano l’opposizione fondamentale tra il bene e il male: quello fra anima e corpo e quella fra limite e illimitato. E’ soprattutto in questi doppi che va a mio avviso rintracciato soprattutto il «mistero» del tabù delle fave.
Nella filosofia di Pitagora l’anima è immortale, ma col passare del tempo è costretta a reincarnarsi in corpi sempre diversi e a trasmigrare dall’uno all’altro dopo la morte fisica di ognuno di essi. Il corpo appare quindi come una prigione dell’anima e, se durante questa prigionia, il corpo riesce a contaminarla con i suoi bisogni materiali, i suoi desideri e le sue passioni, l’anima diventa sempre più impura ed è costretta a scontare la colpa reincarnandosi in animali oppure piante via via inferiori. Il modo per evitare che l’anima venga corrotta è quello di non avere contatti con cose impure, vivere una vita ascetica, coltivare le migliori facoltà dello spirito e rispettare una serie di divieti. La pratica della filosofia diventa così una sorta di esercizio dello scioglimento dei vincoli corporei, purificazione dell’anima, preparazione alla salvezza. L’anima, una volta purificata, sarebbe stata finalmente liberata dal ciclo della trasmigrazione e della reincarnazione e avrebbe potuto raggiungere la divinità da cui proveniva.
E’ in questo quadro che si comprende il valore morale e religioso dell’idea del limite e dell’ordine che domina il pensiero pitagorico. Per Pitagora il saggio deve dedicare la sua esistenza ad insegnare la pratica della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri e delle pulsioni corporee e a convincere tutti, con la persuasione o la forza, a rispettare i canoni divini dell’ordine cosmico.
Attraverso le proibizioni egli proponeva agli uomini un nuovo codice morale. Convinto che la società del suo tempo fosse in preda al disordine e al libero arbitrio, pensava fosse giunto il tempo di fondare una nuova società, caratterizzata da nuove regole e da un nuovo ordine. Questo nuovo cosmo che doveva sostituirsi al caos, doveva stabilire soprattutto ciò che era puro e ciò che era impuro, ciò che era lecito e ciò che era illecito, ciò che era sacro e ciò che era profano, ciò che era limitato e ciò che era illimitato.
Il tabù delle fave non si può comprendere se non viene inserito all’interno di un pensiero dualistico. La differenza tra la specie permessa e quella proibita non era legata alla loro nocività o alla loro purezza, alla loro utilità o inutilità, quanto alla preoccupazione di introdurre una distinzione tra specie e stabilire un ordine. Il mare, in quanto mondo alieno, veniva considerato dai pitagorici nemico degli uomini e chiamato non a caso «lacrime».
Conseguentemente tutto ciò che era connesso ad esso era malvagio e i pesci che abitavano le sue profondità non buoni da mangiare. Fra tutti i pesci però non bisognava mangiarne soprattutto alcune specie e fra questi il melanuro poiché, avendo la coda nera, era legato agli dei terrestri. Ai suoi discepoli Pitagora diceva che bisognava onorare gli dei prima dei Daimoni, i Daimoni prima degli Eroi, gli Eroi prima dei genitori, i genitori prima degli amici, gli amici prima degli altri uomini. Queste proibizioni e queste prescrizioni hanno un senso solo se vengono viste all’interno di una logica che tendeva ad organizzare il mondo in una scala di valori.
La fava era demoniaca e la malva era santissima. Questo paragone non aveva nessun senso se pensiamo che la maggior parte della popolazione si nutriva di fave e che invece la malva era utilizzata di tanto in tanto come infuso. La malva era santissima e le fave erano demoniache perché bisognava comunque scegliere all’interno del mondo vegetale le cose buone e le cose cattive. In tale prospettiva di prescrizioni e restrizioni è del tutto inutile trovare delle ragioni ai tabù, poiché il loro senso era puramente formale, senza contenuto, privo di significato. La divisione tra le specie permesse e quelle proibite, non era legata alle proprietà intrinseche, fisiche o mistiche delle piante, delle cose o degli animali, ma al fatto che si dovevano introdurre delle distinzioni tra specie segnate e non segnate.
Pitagora e i pitagorici tendevano all’armonia e all’equilibrio, volevano tradurre il caos in cosmo e cioè in un sistema razionalmente ordinato comprendente parti diverse. Il numero è l’espressione suprema del limite, la chiave dell’ordine e del principio della realtà.. Il numero, agendo come limite, imponeva una struttura ordinata e costante alla varietà dei fenomeni del mondo, apparentemente limitata e caotica. Il numero pitagorico rappresenta l’unità di un molteplice, il limite, la legge o l’ordine impresso all’informe o al mutevole. I pitagorici avevano dunque trovato nel numero la struttura segreta che in ultima istanza componeva le scissioni esistenti nell’ordine della società e delle cose.
In ognuna delle diversità c’è qualcosa di identico, tutto parte dall’unità e tutto ritorna all’unità, l’arché, il principio da cui le cose si generano e si corrompono non è generabile e corruttibile ma è eterno. L’archè non è solo l’identico nelle cose diverse, la dimensione da cui provengono e in cui ritornano, ma è anche la forza che determina il divenire nel mondo, è il principio che governa il mondo, lo produce e lo fa tornare a sé.
Per Pitagora e i pitagorici la cosa più bella era l’armonia, come diceva Filolao, l’unità del molteplice composto e la concordanza delle discordie. La salute degli uomini, sia quella fisica che psichica, ad esempio, risultava dall’equilibrio e dalla mescolanza proporzionata di qualità che secondo la legge naturale si opponevano due a due, umido e secco, freddo e caldo, amaro e dolce, chiaro e scuro. La malattia si creava quando vi era una supremazia dell’uno e dell’altro elemento. Il tabù delle fave faceva parte di un codice concettuale che si esprimeva attraverso una struttura procedente per coppie di opposizioni, un codice intellettuale che rispondeva al principio dell’unione di termini opposti. Le proibizioni e gli imperatici categorici erano frutto pensava che esprimeva integrazioni e opposizioni , erano all’interno di una struttura mentale che contrapponeva il sacro al profano, il puro e dell’impuro, il lecito all’illecito per porli però in relazione. Ciò spiegherebbe anche il valore ambiguo e il significato doppio che i pitagorici attribuivano alle fave: generatrici e annientatrici insieme, espressione del bene e del male allo stesso tempo; ciò spiega perché all’interno del pensiero pitagorico l’apollineo stava accanto al dionisiaco, perché Apollo si oggettivava in Dioniso o gli stava vicino. Il pitagorismo è infatti una filosofia che fa i conti con l’indeterminato e il senza limite del dionisiaco per affermare una visione apollinea che conferisce forma e ordine al mondo.
Questa struttura mentale che cercava di decifrare e ordinare il mondo attraverso i simboli stava alla base di molti loro tabù. Questo pensiero filosofico concepiva il mondo come un insieme di doppi, di grandi opposizioni, di ordine e disordine, di identità dei contrari. Questo sistema concettuale che ruotava attorno ad una struttura binaria, era come uno strumento logico per passare dalla dualità all’unità, il nucleo più profondo e più antico dello spirito umano.
I tabù come quello delle fave avevano anche lo scopo di favorire la reciprocità. Queste limitazioni rendevano possibile uno scambio tra gli adepti e il loro maestro, tra i vari gruppi di adepti, tra gli adepti e il mondo esterno. I tabù erano forme vuote ma indispensabili per favorire uno scambio tra realtà che altrimenti non avrebbero potuto interagire. Come afferma Lévi-Strauss, la reciprocità è stata stabilita sempre sulla base di proibizioni che hanno segnato il passaggio dalla natura alla cultura.
Il tabù delle fave di Pitagora, visto in questa prospettiva, era dunque un anello che faceva parte di un raffinato pensiero logico, di un ethos che influenza ancora la nostra coscienza. Tutto lo sviluppo del pensiero occidentale è legato ai filosofi della Grecia antica e in particolare a Pitagora il quale, secondo Giamblico, fu proprio lui a dare alla filosofia questo nome, definendola aspirazione della sapienza (sophia).
Giovanni Sole, Antropologo
http://www.larosanelbicchiere.it/pitagora-e-il-tabu-delle-fave-2/
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