domenica 13 dicembre 2015

Inclusione scolastica, sostegno e Bes.

Giustizia non è fare parti uguali tra disuguali,
ma dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno
Don Milani


È vero che non è nostro compito “rendere felici” i ragazzi, anche perché credo che nessuno abbia la ricetta in tasca nemmeno per se stesso. La cultura, però, non dovrebbe essere fine a se stessa, ma dovrebbe in qualche modo legarsi alla vita. Lo studio è fatica, sacrificio e perché il ragazzo lo affronti con più serenità dovrebbe anche capirne i vantaggi, che non dovrebbero essere solo quelli per migliorare il proprio avvenire dal punto di vista lavorativo ed economico, ma anche quelli per imparare ad affrontare la vita con più serenità e consapevolezza. (Star bene a scuola si può)

Se qualsiasi professionista che non sia un docente avesse contemporaneamente 30 persone nel suo ufficio, tutte con bisogni diversi e con qualcuno che non voglia stare lì, e questo professionista dovesse trattarle tutte con cortesia, etica e professionalità per dieci mesi, allora potrebbe avere un'idea di quello che è il lavoro di un docente in classe ...




L’importanza di moltiplicare gli sguardi
Che cosa chiede la legge sui Bisogni Educativi Speciali agli insegnanti? Si tratta di inserire i ragazzi in classificazioni precostituite, o piuttosto di mettere uno sguardo differente e flessibile su ogni allievo, perché ogni allievo è un mondo a sé? 

Il passaggio dalla scuola materna alla primaria implica per i bambini un grande cambiamento esistenziale: il contesto di apprendimento è nuovo, i consueti punti di riferimento scolastici mutano e gli stessi adulti attivano nei confronti dei bambini aspettative diverse rispetto a prima.

Accade spesso che gli allievi in questa fase si sentano disorientati, a disagio, impauriti, attraversino momenti di crisi nel separarsi dall’ambiente familiare, avvertano il peso e la responsabilità per il nuovo corso di vita.

Per questo è particolarmente importante che gli adulti (insegnanti e genitori) agevolino questo passaggio rassicurando i bambini e aiutandoli a elaborarlo.

La storia di Luca
Luca non ha ricevuto questa rassicurazione da parte degli insegnanti e il suo ingresso nella scuola primaria si è rivelato tutt’altro che semplice.
Le sue maestre l’anno precedente hanno insegnato in una classe quinta e probabilmente adesso non sono attrezzate a reggere il confronto con i più piccoli.
Sin dal primo giorno chiedono agli allievi di stare seduti a lungo, mentre loro conducono una lezione frontale. Non propongono attività di accoglienza per creare il gruppo classe e per aiutare i bambini a metabolizzare il passaggio al nuovo ordine di scuola. Esigono da subito silenzio e attenzione.

Non tutti rispondono bene: alcuni allievi fanno fatica ad adattarsi alle nuove regole e Luca è uno di loro. Ha atteso con ansia nei mesi estivi l’inizio della nuova scuola, fidandosi degli adulti che gli garantivano che sarebbe stata una bella avventura. Sin dai primi giorni però la realtà ha tradito le sue aspettative: le maestre sono esigenti e poco empatiche. Lo riprendono continuamente quando si alza dal banco e gli fanno notare i suoi limiti. Accade così che ogni mattina si rifiuti di andare a scuola piangendo disperatamente. Convinto in vario modo dai genitori ad andarci, esprime il suo disagio con enuresi notturna.

Il Piano Didattico Personalizzato
Al secondo mese di scuola le insegnanti convocano i genitori. Al colloquio li informano che il bambino si rifiuta di stare seduto a lungo, fa fatica a rispettare i confini del foglio ed è molto emotivo. Senza neanche ascoltare il punto di vista dei genitori, sostengono che Luca ha Bisogni Educativi Speciali (BES) e che è necessario elaborare un Piano Didattico Personalizzato (PDP), per proporre al bambino attività facilitate rispetto ai compagni di classe. Ipotizzano, inoltre, che Luca possa avere problemi di disattenzione e iperattività e che potrebbe valer la pena consultare uno specialista a riguardo.

I genitori sono sconcertati. Il bambino è sempre stato vivace ma anche capace di applicarsi in compiti lunghi e impegnativi se per lui stimolanti. È cresciuto in una casa in campagna ed è abituato a muoversi tanto. Il suo dinamismo, tuttavia, non sembrava affatto dovuto a un eccesso di agitazione e di irrequietezza.

La famiglia a un bivio
La famiglia vive con una certa inquietudine la situazione scolastica di Luca: Il bambino non è “normale”? Quali errori educativi sono stati commessi finora? Possibile che né la madre né il padre né le insegnanti della scuola dell’infanzia si siano mai accorti delle sue difficoltà?

Che fare? Cambiare scuola, o accogliere il punto di vista e le richieste delle insegnanti?
In entrambi i casi potrebbero esserci degli effetti collaterali. Nel caso in cui il bambino cambi scuola si rischia di ricreare una situazione analoga a quella attuale o anche peggio: dovrà ricominciare in un contesto nuovo e le sue insicurezze potrebbero consolidarsi.
Assecondare le indicazioni delle insegnanti vorrebbe dire, d’altra parte, arrendersi al fatto che Luca ha delle difficoltà “oggettive”, non relative, non contestuali... mentre sembra piuttosto che il suo disagio sia legato al nuovo ambiente scolastico.

Domande senza risposta
Viene da chiedersi tuttavia: le cose sarebbero andate diversamente se le insegnanti fossero state più attente a costruire delle attività di accoglienza per tutti i bambini? Se l’impatto con le nuove modalità di studio fosse stato per Luca meno frustrante? Se ci fosse stata più empatia, più comprensione, più attenzione a costruire un graduale percorso di inserimento nella nuova realtà scolastica che potesse permettere a tutti di adattarsi al nuovo sistema? Se si fossero valorizzati i punti di forza di ciascun bambino, e ognuno avesse ricevuto incoraggiamento e gratificazioni?

La legge sui Bisogni Educativi Speciali
È vero che la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 e la Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013 hanno previsto che le scuole (i Consigli di Classe e i Team docenti) debbano identificare gli allievi con Bisogni Educativi Speciali e predisporre per loro un Piano Didattico Personalizzato. Ed è vero il fatto che «ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali». Ma per individuare tali bisogni e per farvi fronte, è necessario ascoltare i bambini, entrare in relazione con loro, accogliere l’evidenza che ogni bambino è “diverso” e in continuo divenire. Il compito della scuola, per altro, dovrebbe essere quello di agevolare questo continuo movimento degli allievi, che apprendono proprio grazie a un processo di elaborazione e trasformazione.

In definitiva
Se Luca, in definitiva, seguirà un Piano Didattico Personalizzato, magari sensato per il suo livello iniziale di competenza, ma le insegnanti continueranno a non ascoltarlo, a non relazionarsi a lui, ai suoi bisogni affettivi, al suo senso di inadeguatezza per la nuova realtà, al suo bisogno di adattarsi lentamente a regole e prescrizioni ancora troppo lontane dal suo mondo, la sua “diversità” si consoliderà tanto da rischiare di compromettere il suo percorso scolastico.

Direi che la legge sui BES, in definitiva, non chiede agli insegnanti di seguire la scorciatoia delle comode classificazioni, ma piuttosto di mettere uno sguardo differente e flessibile su ogni allievo, perché ogni allievo è un mondo a sé.

In questa moltiplicazione di sguardi il vantaggio per gli insegnanti sarà quello di avere relazioni più ricche e nutrienti. Perché la relazione è un’occasione di scambio e se si dà, di sicuro, qualcosa in cambio si riceve. Quanto meno perché, secondo la celebre frase della Montessori: «Si impara da chi si ama».
http://www.giuntiscuola.it/psicologiaescuola/blog-sos/relazioni/l-importanza-di-moltiplicare-gli-sguardi/



L’INCLUSIONE SCOLASTICA,
DALLA LEGGE 517/77 ALLA “BUONA SCUOLA” DI RENZI (E FARAONE) - PARTE I

Dicembre 11, 2015
di Roberto Villani


Il nostro modello pedagogico basato sull’inclusione, definito attraverso la legge 517/77 e la successiva 104/92 è giudicato in tutto il mondo come il più avanzato, nonostante i pesanti tagli alla scuola e al sostegno avvenuti negli ultimi anni. La legge 107 varata a luglio, meglio conosciuta come “Buona scuola”, ha dato una delega in bianco al governo in merito all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali.
di Roberto Villani

UN SISTEMA ALL’AVANGUARDIA
Nel 1977, con la legge 517, che riprendeva, definiva ed ampliava un DPR del '75, nasceva nel nostro paese un modello pedagogico-educativo avanzatissimo, basato sull’integrazione scolastica delle persone disabili. Un modello che portava finalmente al superamento del sistema delle tristi e ghettizzanti scuole speciali. Dopo aver trasformato la scuola in senso democratico coi decreti delegati (1973-74), con questo passaggio legislativo veniva realizzato un passo importantissimo verso quell’appianamento delle diseguaglianze definito negli articoli 3 e 34 della nostra Costituzione repubblicana ed antifascista. Nonostante i tagli anche pesanti subiti dalla scuola negli ultimi anni, ancora oggi esperti di tutto il mondo, studiano il nostro sistema integrato scuola – sanità, successivamente definito ed ampliato con la Legge 104/92, che rappresenta una vera e propria eccellenza per il nostro paese. Il sostegno alle persone con disabilità effettuato nella scuola pubblica “di tutti e per tutti”, che si sostanzia attraverso i docenti abilitati nell’insegnamento delle discipline e poi specializzati per favorire l’inclusione, costituisce un vero e proprio punto di riferimento mondiale della pedagogia speciale. E’ attraverso questo sistema pedagogico-educativo d’eccellenza che nelle scuole italiane si può lavorare all’ideale costruzione della società del futuro, una società basata sull’accoglienza e sulla convivenza delle diversità, vissute come valore aggiunto e come utile esperienza di crescita per tutti.

PRIMI ATTACCHI A QUESTO MODELLO
Se da un lato il modello integrativo italiano suscita interesse ed ammirazione, dall’altro molti sono stati gli attacchi interni ed esterni, tesi a metterne in discussione i fondamenti. Da una parte tali attacchi sono giunti dall’estero, dove l’integrazione scolastica non c’è ed esiste ancora il sistema delle scuole o delle classi speciali, certamente ghettizzanti ma probabilmente più “economiche”. Altri attacchi sono giunti invece dall’interno, ed in particolare da ambienti della destra liberista, dove si è sempre più attenti alle esigenze di bilancio che non a quelle della qualità della scuola (specie se pubblica e statale). Tra dichiarazioni ambigue ed ammiccamenti alle scuole speciali, un attacco importante e quanto mai esplicito è giunto nel 2011, con la proposta di Fondazione Agnelli, Caritas e Treelle di eliminazione della figura dell’insegnante di sostegno, grossolanamente considerata un “inaccettabile spreco di risorse e competenze”.

TAGLIO DELLE RISORSE ED ALTRI PROBLEMI
Certamente questi attacchi al modello integrativo definito dalla 517/77 e dalla 104/92 hanno avuto vita più facile dopo i pesanti tagli alla scuola avvenuti negli ultimi anni. E’ chiaro infatti come dopo la riforma Gelmini (133/2008) e dopo altri provvedimenti legislativi (es. legge 244/2007) tesi a tagliare le risorse della scuola riducendo pesantemente l’organico dei docenti curricolari e di sostegno, ci siano state pesanti ricadute proprio sui processi di inclusione, ed in sostanza sull’educazione-formazione degli alunni più deboli ed in difficoltà. Nell’epoca dell’austerità, con i tagli alla spesa pubblica causati dai patti di stabilità (fiscal compact e pareggio bilancio in Costituzione 2012, spending review 2014), riuscire a rendere reale il modello di una scuola in grado di includere e valorizzare ogni diversità è diventata un impresa quasi impossibile. Ogni scelta relativa all’inclusione scolastica è infatti oggi pesantemente toccata dalle esigenze di bilancio:

Il rapporto tra insegnanti specializzati ed alunni certificati, che non può superare quello medio di un insegnante per due alunni disabili e che determina una carenza dell’organico di sostegno nelle scuole (con le famiglie che sempre più spesso devono rivolgersi alle aule dei tribunali per veder riconosciuti i propri diritti).
La “stretta” sui criteri per attribuire le certificazioni, con una medicalizzazione progressiva del sostegno (attribuito oggi solo a chi possiede la certificazione 104, art.3 comma 3 e comma 1).
Le aule sovraffollate, la mancanza di compresenze nella scuola primaria, il taglio del tempo pieno (tutte conseguenze della riforma Gelmini), condizioni che peggiorano sostanzialmente la qualità dell’inclusione;
Il mancato rispetto dell’art.5 comma 2 DPR 81/09 che fissa a 20 il numero di alunni per classe in presenza di alunni disabili, con un tetto massimo di certificazioni in ogni classe.
L’assenza, nella cosiddetta “scuola dell’autonomia”, di risorse economiche adeguate e di ausili didattici speciali, ma anche di mediatori culturali e di specialisti nell’alfabetizzazione degli alunni stranieri;
I tagli alla sanità, ai servizi pubblici ed al welfare in generale, ed in particolare il taglio delle risorse alle ASL che determina una carenza nel supporto di neuropsichiatri e psicologi nelle scuole e nei territori.
Oltre ovviamente alla percentuale ancora alta di precarietà nella scuola (con pesanti conseguenze sulla continuità educativa), nonostante le nuove assunzioni e la sentenza della corte europea sulla precarietà…

Si può costruire un integrazione scolastica di qualità in queste condizioni?

UN GRANDE ATTACCO AL SOSTEGNO – LA NASCITA DEI BES
Negli ultimi 10 anni, nella scuola italiana c’è stato un aumento progressivo degli alunni certificati per il sostegno, da 180.000 a oltre 240.000. Un aumento che si è sostanziato (è un caso?) soprattutto dopo i tagli alla scuola previsti dalla Gelmini. Quest’incremento di certificazioni è stato analizzato con preoccupazione tanto dai governi, che da realtà contigue ai poteri economico-finanziari (le già citate Treelle e fondazione Agnelli), non tanto dal punto di vista pedagogico e sociologico, quanto dal punto di vista economico. In sostanza, il sostegno dato a tutti gli alunni in difficoltà secondo i maghi del liberismo costava troppo, per cui era necessario prendere delle decisioni sostanziali per ridurre la relativa voce di spesa. Il taglio del sostegno ai DSA in assenza di commorbilità (170/2010) e le direttiva ministeriale sui “bisogni educativi speciali” (BES) varata nel 2013 hanno avuto proprio questo scopo. In sostanza l’etichetta BES è servita per fare un taglio drastico di risorse umane per il sostegno agli alunni con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), a quelli con iperattività e disturbo dell’attenzione (ADHD), ed agli alunni con funzionamento cognitivo limite (borderline). A tutti questi alunni è stato di fatto tolto l’insegnante di sostegno, sostituendo la necessaria risorsa umana con un piano didattico personalizzato basato sull’uso di metodologie facilitanti (messe in atto da chi?) e di “strumenti compensativi e dispensativi” (uso della calcolatrice, del PC, di tavole e schede facilitanti, tempi più lunghi per le prove etc.) Un vero e proprio stratagemma per risparmiare sulla pelle dei BES (circa un milione di studenti) senza scordare che prima ancora, il diritto al sostegno era stato negato agli alunni con svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. Ovviamente le difficoltà di questi alunni non sono sparite con l’eliminazione dell’insegnante specializzato, per cui nelle scuole si è dovuti ricorrere all’inserimento degli studenti con BES nelle classi di quelli con disabilità certificata dalla 104, per fare in modo che il docente di sostegno possa aiutare anche loro. E tutta l’operazione (a costo zero, quindi perfetta dal punto di vista dei bilanci) si è tradotta in un aumento degli adempimenti burocratici e lavorativi dei docenti curricolari e di sostegno, con relativo decremento della qualità dell’offerta formativa per tutti gli studenti della scuola pubblica.

http://www.lacittafutura.it/italia/universita-e-scuola/l-inclusione-scolastica-dalla-legge-517-77-alla-buona-scuola-di-renzi-e-faraone.html


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