Domenico Caracciolo
12 gennaio 1751 nasceva Ferdinando I di Borbone vero nome Ferdinando Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto (Napoli, 12 gennaio 1751 – Napoli, 4 gennaio 1825) fu re di Napoli dal 1759 al 1799, dal 1799 al 1806 e dal 1815 al 1816 con il nome di Ferdinando IV di Napoli, nonché re di Sicilia dal 1759 al 1816 con il nome di Ferdinando III di Sicilia.
Il mio popolo non ha bisogno di pensare: io m'incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità. Ho ereditato molti rancori, molti desiderii insensati, tutti gli errori, tutte le debolezze del passato: bisogna ch'io restauri, e nol potrei che avvicinandomi all'Austria, senza assoggettarmi a' suoi voleri. Noi non siamo di questo secolo. I Borboni sono vecchi: e se volessero modellarsi sulla forma delle novelle dinastie, si renderebbe ridicoli. Noi faremo come gli Asburgo. Ci tradisca la sorte, ma noi non ci tradiremo mai.
Ferdinando II delle Due Sicilie
27 DICEMBRE 1894: MUORE FRANCESCO II DI BORBONE.
“I re che partono ritornano difficilmente sul trono, se un raggio di gloria non abbia indorato la loro sventura e la loro caduta”. Così, dagli spalti di Gaeta assediata dall’esercito piemontese comandato dal generale Cialdini, Francesco II ultimo re del Regno delle Due Sicilie scriveva a Napoleone III il 13 dicembre 1860. Due mesi dopo ci sarebbe stata la resa e l’esilio a Roma insieme alla consorte, la regina Marie Sophie Amalie von Wittelsbach.
Dopo qualche tempo i due si stabiliranno a Parigi da dove si allontaneranno per brevi viaggi in Austria ed in Baviera presso i parenti della moglie. Vissero privatamente, senza grandi mezzi economici poiché tutti i loro averi erano stati confiscati. Al Governo Italiano che proponeva la loro restituzione in cambio della rinuncia ad ogni pretesa sul trono dell’ex Regno delle Due Sicilie, Francesco II rispose : "Il mio onore non è in vendita".
L’ultimo re Borbone era malato di diabete e si recava per le cure termali ad Arco di Trento, cittadina che faceva allora parte dell’impero asburgico. E fu lì si spense all’età di 58 anni, il 27 dicembre del 1894. Solo allora gli abitanti del posto vennero a conoscenza che il cortese “signor Fabiani”, che ogni giorno era presente alla Messa, recitava il Rosario, si metteva in fila con i contadini del luogo per baciare le reliquie, era il deposto re meridionale. Gli furono tributate esequie solenni e tuttora esiste in quella località una via a lui intitolata.
Il 29 dicembre, appresa la notizia, Matilde Serao dalle colonne del quotidiano “Il Mattino” fondato a Napoli due anni prima, scriveva:
“..Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Colui che era stato o parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità, colui che era stato schernito come un incosciente ha lasciato che tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi. Detronizzato, impoverito, restato senza patria egli ha piegato la testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Francesco di Borbone”.
Le spoglie di Francesco II, insieme a quelle della moglie e della loro unica figlia Maria Cristina riposano, dal maggio del 1984, nella grande chiesa di Santa Chiara a Napoli.
Antonio A. – Fonte:”L’esilio del re Borbone” di Gigi Di Fiore
Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altr'aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni.
Francesco II delle Due Sicilie
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13 FEBBRAIO 1861: LA CAPITOLAZIONE DI GAETA.
Dopo le battaglie del Volturno e del Garigliano, i resti delle truppe borboniche erano asserragliate a Capua e Giuseppe Garibaldi alla guida del suo Esercito meridionale non riusciva a stanarli da lì. Intervenne il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II che nel frattempo, senza alcuna dichiarazione di belligeranza, era entrato nei territori meridionali proveniente dagli Stati Pontifici.
In contemporanea Napoleone III toglieva il blocco navale francese nel Tirreno che di fatto aveva impedito, fino a quel momento, il bombardamento via mare ad opera delle navi piemontesi. Questi nuovi avvenimenti strinsero in una morsa i difensori del Regno delle Due Sicilie e costrinsero re Francesco II di Borbone ad abbandonare Capua per rifugiarsi a Gaeta nella speranza dell’intervento delle diplomazie internazionali e nell’estremo tentativo di salvare il proprio regno.
L’assedio cominciò ufficialmente l’11 novembre 1860 e fu uno degli ultimi grandi assedi condotti col metodo cosiddetto scientifico. L'esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini era forte di 18000 uomini, 66 moderni cannoni “Cavalli” a canna rigata e 180 cannoni a lunga gittata che decretarono la fine delle fortificazioni costruite fuori terra e causarono danni incalcolabili distruggendo anche gli alberi secolari di olivi della zona .
L’8 gennaio la piazzaforte fu sottoposta ad un cannoneggiamento ininterrotto di dieci ore che distrusse i quartieri civili. Analogamente il 22 gennaio in una cittadina stremata dalla mancanza di rifornimenti ed anche da un’epidemia di tifo. I bombardamenti non cessarono nemmeno quando erano in corso trattative per la resa che venne firmata il 13 febbraio 1861. La contabilità delle vittime dell'assedio di Gaeta parlò in un primo momento di 826 caduti tra i soldati borbonici, successivi ricalcoli che comprendevano anche i civili ed i feriti che morirono nelle settimane seguenti si attestarono su circa 5mila vittime.
La mattina del 14 febbraio Francesco, seguito dalla moglie Maria Sofia di Wittelsbach e da quanti avevano condiviso l'estrema difesa del Regno , saliva a bordo della nave francese "Mouette", diretto a Roma. Qui i sovrani esiliati furono dapprima ospiti di Pio IX, poi spostarono la loro residenza a palazzo Farnese. Con la caduta, poco dopo, delle ultime due roccaforti di Civitella del Tronto e Messina cessava di esistere un’entità territoriale nata la notte di Natale del 1130 ad opera di Ruggero d’Altavilla.
Antonio A. – Fonte: “Gli ultimi giorni di Gaeta” di Gigi Di Fiore
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Dopo le battaglie del Volturno e del Garigliano, i resti delle truppe borboniche erano asserragliate a Capua e Giuseppe Garibaldi alla guida del suo Esercito meridionale non riusciva a stanarli da lì. Intervenne il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II che nel frattempo, senza alcuna dichiarazione di belligeranza, era entrato nei territori meridionali proveniente dagli Stati Pontifici.
In contemporanea Napoleone III toglieva il blocco navale francese nel Tirreno che di fatto aveva impedito, fino a quel momento, il bombardamento via mare ad opera delle navi piemontesi. Questi nuovi avvenimenti strinsero in una morsa i difensori del Regno delle Due Sicilie e costrinsero re Francesco II di Borbone ad abbandonare Capua per rifugiarsi a Gaeta nella speranza dell’intervento delle diplomazie internazionali e nell’estremo tentativo di salvare il proprio regno.
L’assedio cominciò ufficialmente l’11 novembre 1860 e fu uno degli ultimi grandi assedi condotti col metodo cosiddetto scientifico. L'esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini era forte di 18000 uomini, 66 moderni cannoni “Cavalli” a canna rigata e 180 cannoni a lunga gittata che decretarono la fine delle fortificazioni costruite fuori terra e causarono danni incalcolabili distruggendo anche gli alberi secolari di olivi della zona .
L’8 gennaio la piazzaforte fu sottoposta ad un cannoneggiamento ininterrotto di dieci ore che distrusse i quartieri civili. Analogamente il 22 gennaio in una cittadina stremata dalla mancanza di rifornimenti ed anche da un’epidemia di tifo. I bombardamenti non cessarono nemmeno quando erano in corso trattative per la resa che venne firmata il 13 febbraio 1861. La contabilità delle vittime dell'assedio di Gaeta parlò in un primo momento di 826 caduti tra i soldati borbonici, successivi ricalcoli che comprendevano anche i civili ed i feriti che morirono nelle settimane seguenti si attestarono su circa 5mila vittime.
La mattina del 14 febbraio Francesco, seguito dalla moglie Maria Sofia di Wittelsbach e da quanti avevano condiviso l'estrema difesa del Regno , saliva a bordo della nave francese "Mouette", diretto a Roma. Qui i sovrani esiliati furono dapprima ospiti di Pio IX, poi spostarono la loro residenza a palazzo Farnese. Con la caduta, poco dopo, delle ultime due roccaforti di Civitella del Tronto e Messina cessava di esistere un’entità territoriale nata la notte di Natale del 1130 ad opera di Ruggero d’Altavilla.
Antonio A. – Fonte: “Gli ultimi giorni di Gaeta” di Gigi Di Fiore
Il sovrano dal temperamento sbagliato in un momento decisivo della Storia d'Italia.
Onesto, leale e dignitoso, rivolgendosi ai suoi sudditi in riguardo ai piemontesi fu profetico:
non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere.
Personaggio interessante, come la sua storia.
La tendenza di gran parte degli storici è sempre quella di parlare dell'arretratezza del regno borbonico, senza specificare che pure quello savoiardo lo era. La vera sciagura mi sa che è toccata a noi del nord che in un attimo siamo passati dagli Asburgo ai Savoia.
Il regno borbonico aveva eccellenze nel campo tecnologico, industriale ma anche culturale ed economico...il tutto fu depredato e depauperato dai savoiardi! A partire dalle proprietà reali, fino alle macchine industriali smontate e trafugate! Il regno dei savoia era in enormi difficoltà finanziarie e non aveva industrie ne tecnologia...e come dicono a Napoli "t'aggia trattat!!!!"
Economia del Regno delle Due Sicilie
Regno arretrato o all’avanguardia?
Al momento dell’Unità d’Italia, nel Regno delle Due Sicilie furono ritirati 443,3 milioni di monete di vario conio, di cui 424 milioni d’argento, pari al 65,7% di tutte le monete circolanti nella penisola.[1]
La grande quantità di monete è però un indice solo apparente della ricchezza del paese borbonico. Infatti era frutto della politica economica mercantilistica voluta da Ferdinando II di Borbone. Nel 1830, quando ascese al trono, il deficit del Regno delle Due Sicilie ammontava a 1.128.167 ducati. Il nuovo re ottenne il pareggio di bilancio attuando numerosi tagli alle spese di corte, ed in seguito ridusse il peso fiscale. Pur di mantenere sempre all’attivo la bilancia economica, senza ricorrere all’innalzamento della pressione fiscale, venne di fatto abolita ogni spesa per la costruzione di infrastrutture. Nel 1860, erano presenti solo 14.000 km di strade, contro i 28.000 km della Lombardia, 4 volte più piccola.[2]
Secondo la Relazione Massari del 1863, ben 1.321 comuni su 1.848 nel Mezzogiorno continentale erano privi di rete stradale. Le poche strade presenti, inoltre, erano colpite frequentemente dai briganti, fenomeno endemico nel Mezzogiorno fin dall’occupazione spagnola del XVI secolo.[3] Anche se fu il primo Stato in Italia ad avere una linea ferroviaria, nel 1861 c’erano 181 km di ferrovia, di cui nessuna in Sicilia. In tutta Italia però le ferrovie percorrevano una distanza di circa 2520 km.[4]
Istruzione e sanità
Nel 1859 si contavano appena 2.010 scuole primarie con 39.881 allievi, 27.547 allieve e 3.171 maestri, su una popolazione di oltre 9.000.000 di abitanti. Al momento dell’Unità il numero degli analfabeti si aggirava nel Regno in media intorno al 70-75%[5], anche se secondo alcuni studiosi l’indice arrivava al 90%. [6] Invece il sistema sanitario era tutto sommato niente male: in tutto il regno vi erano 80 ospedali, in prevalenza allestiti nei monasteri dove, durante l’occupazione spagnola, il clero si occupava dell’assistenza medica. Vi erano inoltre 9.390 medici e chirurghi per 9 milioni di abitanti, contro ai 7.087 medici e chirurghi per i 13 milioni di abitanti del Settentrione. Ciononostante, vi furono 170 mila morti nel 1836-37 per l’epidemia di colera, causata dalle pessime condizioni igieniche e dalla mancanza di impianti di scarico fognario e a volte addirittura di acqua.[7]
Esercito ed industria
Le spese militari erano ingenti.[8] ll Real Esercito nel 1860 contava circa 70.000 soldati di professione e a ferma prolungata, 20.000 soldati di leva e circa 40.000 riservisti (ultime 5 classi di leva pronte al richiamo). L’Armata di Mare invece poteva fare affidamento su circa 6.500 marinai di professione, 2.000 marinai di leva, più di 90 navi a vela e 30 navi a vapore.[9] La grande attenzione prestata alle forze armate ebbe l’effetto positivo di creare una buona industria pesante nel Regno delle Due Sicilie. Le Officine di Pietrarsa, il bacino di carenaggio dell’Arsenale di Napoli, il cantiere navale di Castellammare di Stabia, gli opifici di Mongiana e la Fabbrica d’armi di Torre Annunziata prosperarono grazie alla continua richiesta di materiali militari. Nel 1861 nel Regno delle Due Sicilie vi erano circa 5000 operai impegnati nel settore siderurgico e/o bellico. In Sicilia vi erano importanti miniere di zolfo, date in appalto ad una compagnia britannica.[10] La tecniche di estrazione usate erano però molto arretrate, tanto che un terzo dello zolfo andava perduto.[11] Importante era anche il settore tessile (Valle del Liri, San Leucio, Piedimonte d’Alife); impiantato da numerosi imprenditori svizzeri. Come nel resto d’Italia, l’industria nel Regno delle Due Sicilie ebbe a soffrire varie deficienze strutturali: la scarsezza di materie prime quali il carbon fossile e ferro, la mancanza di capitali (principalmente investiti in rendite fondiarie e titoli di stato), la mancanza di una educazione tecnica degli operai che relegava l’attività manifatturiera principalmente all’ambito artigiano e casalingo, e la scarsezza del mercato interno del regno stesso.[12]
Inoltre non vi erano norme a tutela delle condizioni lavorative: l’operaio non aveva il diritto di protestare per ottenere migliori condizioni di lavoro e lo sciopero poteva essere punito dalla legislazione borbonica come “atto illecito tendente al disturbo dell’ordine pubblico”.[13] L’agricoltura, dominante nello Stato borbonico come nel resto d’Italia, di basava sulla produzione di grano, orzo, avena, patate, legumi e olio. Importanti erano anche le coltivazioni di agrumi e di molte altre piante idonee al clima mediterraneo, quali l’olivo e la vite. Lo sviluppo tecnico agricolo nei latifondi lasciava molto a desiderare, a causa del disinteresse del latifondista. I metodi di coltivazione usati erano talvolta superati da secoli, come la rotazione biennale [11]. Durante l’epoca napoleonica il nuovo regime intraprese un’energica campagna contro il latifondismo e il feudalesimo, provocando così la nascita di un ceto borghese nelle campagne. La nuova borghesia agricola lottò per prendere il sopravvento contro la vecchia aristocrazia latifondista, fallendo a causa del sostegno della monarchia assolutista nei confronti di quest’ultima. In questo modo il ceto medio divenne la classe sociale più ostile alla dinastia, trasformandosi nella spina dorsale dei movimenti costituzionali ed unitari protagonisti della dissoluzione del reame nel 1860.
Articolo di Mattia Tuccelli
Economia del Regno delle Due Sicilie
Regno arretrato o all’avanguardia?
Al momento dell’Unità d’Italia, nel Regno delle Due Sicilie furono ritirati 443,3 milioni di monete di vario conio, di cui 424 milioni d’argento, pari al 65,7% di tutte le monete circolanti nella penisola.[1]
La grande quantità di monete è però un indice solo apparente della ricchezza del paese borbonico. Infatti era frutto della politica economica mercantilistica voluta da Ferdinando II di Borbone. Nel 1830, quando ascese al trono, il deficit del Regno delle Due Sicilie ammontava a 1.128.167 ducati. Il nuovo re ottenne il pareggio di bilancio attuando numerosi tagli alle spese di corte, ed in seguito ridusse il peso fiscale. Pur di mantenere sempre all’attivo la bilancia economica, senza ricorrere all’innalzamento della pressione fiscale, venne di fatto abolita ogni spesa per la costruzione di infrastrutture. Nel 1860, erano presenti solo 14.000 km di strade, contro i 28.000 km della Lombardia, 4 volte più piccola.[2]
Secondo la Relazione Massari del 1863, ben 1.321 comuni su 1.848 nel Mezzogiorno continentale erano privi di rete stradale. Le poche strade presenti, inoltre, erano colpite frequentemente dai briganti, fenomeno endemico nel Mezzogiorno fin dall’occupazione spagnola del XVI secolo.[3] Anche se fu il primo Stato in Italia ad avere una linea ferroviaria, nel 1861 c’erano 181 km di ferrovia, di cui nessuna in Sicilia. In tutta Italia però le ferrovie percorrevano una distanza di circa 2520 km.[4]
Istruzione e sanità
Nel 1859 si contavano appena 2.010 scuole primarie con 39.881 allievi, 27.547 allieve e 3.171 maestri, su una popolazione di oltre 9.000.000 di abitanti. Al momento dell’Unità il numero degli analfabeti si aggirava nel Regno in media intorno al 70-75%[5], anche se secondo alcuni studiosi l’indice arrivava al 90%. [6] Invece il sistema sanitario era tutto sommato niente male: in tutto il regno vi erano 80 ospedali, in prevalenza allestiti nei monasteri dove, durante l’occupazione spagnola, il clero si occupava dell’assistenza medica. Vi erano inoltre 9.390 medici e chirurghi per 9 milioni di abitanti, contro ai 7.087 medici e chirurghi per i 13 milioni di abitanti del Settentrione. Ciononostante, vi furono 170 mila morti nel 1836-37 per l’epidemia di colera, causata dalle pessime condizioni igieniche e dalla mancanza di impianti di scarico fognario e a volte addirittura di acqua.[7]
Esercito ed industria
Le spese militari erano ingenti.[8] ll Real Esercito nel 1860 contava circa 70.000 soldati di professione e a ferma prolungata, 20.000 soldati di leva e circa 40.000 riservisti (ultime 5 classi di leva pronte al richiamo). L’Armata di Mare invece poteva fare affidamento su circa 6.500 marinai di professione, 2.000 marinai di leva, più di 90 navi a vela e 30 navi a vapore.[9] La grande attenzione prestata alle forze armate ebbe l’effetto positivo di creare una buona industria pesante nel Regno delle Due Sicilie. Le Officine di Pietrarsa, il bacino di carenaggio dell’Arsenale di Napoli, il cantiere navale di Castellammare di Stabia, gli opifici di Mongiana e la Fabbrica d’armi di Torre Annunziata prosperarono grazie alla continua richiesta di materiali militari. Nel 1861 nel Regno delle Due Sicilie vi erano circa 5000 operai impegnati nel settore siderurgico e/o bellico. In Sicilia vi erano importanti miniere di zolfo, date in appalto ad una compagnia britannica.[10] La tecniche di estrazione usate erano però molto arretrate, tanto che un terzo dello zolfo andava perduto.[11] Importante era anche il settore tessile (Valle del Liri, San Leucio, Piedimonte d’Alife); impiantato da numerosi imprenditori svizzeri. Come nel resto d’Italia, l’industria nel Regno delle Due Sicilie ebbe a soffrire varie deficienze strutturali: la scarsezza di materie prime quali il carbon fossile e ferro, la mancanza di capitali (principalmente investiti in rendite fondiarie e titoli di stato), la mancanza di una educazione tecnica degli operai che relegava l’attività manifatturiera principalmente all’ambito artigiano e casalingo, e la scarsezza del mercato interno del regno stesso.[12]
Inoltre non vi erano norme a tutela delle condizioni lavorative: l’operaio non aveva il diritto di protestare per ottenere migliori condizioni di lavoro e lo sciopero poteva essere punito dalla legislazione borbonica come “atto illecito tendente al disturbo dell’ordine pubblico”.[13] L’agricoltura, dominante nello Stato borbonico come nel resto d’Italia, di basava sulla produzione di grano, orzo, avena, patate, legumi e olio. Importanti erano anche le coltivazioni di agrumi e di molte altre piante idonee al clima mediterraneo, quali l’olivo e la vite. Lo sviluppo tecnico agricolo nei latifondi lasciava molto a desiderare, a causa del disinteresse del latifondista. I metodi di coltivazione usati erano talvolta superati da secoli, come la rotazione biennale [11]. Durante l’epoca napoleonica il nuovo regime intraprese un’energica campagna contro il latifondismo e il feudalesimo, provocando così la nascita di un ceto borghese nelle campagne. La nuova borghesia agricola lottò per prendere il sopravvento contro la vecchia aristocrazia latifondista, fallendo a causa del sostegno della monarchia assolutista nei confronti di quest’ultima. In questo modo il ceto medio divenne la classe sociale più ostile alla dinastia, trasformandosi nella spina dorsale dei movimenti costituzionali ed unitari protagonisti della dissoluzione del reame nel 1860.
Articolo di Mattia Tuccelli
Fonti:
[1]Francesco Saverio Nitti, L’Italia all’alba del secolo XX.
[2]http://www.150anni.it/webi/index.php?s=37&wid=103
[3]Raffaello De Cesare, La fine di un Regno https://archive.org/stream/lafinediunregnon02deceiala#page/114/mode/2up
[4] Svimez, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud.
[5] http://www.150anni.it/webi/index.php?s=35&wid=93
[6] Italiano e dialetto dal 1861 a oggi, di Pietro Trifone http://www.treccani.it/lingua_italiana/speciali/italiano_dialetti/Trifone.html
[7] https://archive.org/stream/lafinediunregnon02deceiala#page/116/mode/2up
[8] “L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe dell’Oriente.” Giustino Fortunato – IL MEZZOGIORNO E LO STATO ITALIANO – Discorsi Politici (1880-1910).
[9] Lamberto Radogna, Storia della Marina Militare delle Due Sicilie.
[10] https://it.wikipedia.org/wiki/Questione_degli_zolfi
[11] Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997.
[12] D. Demarco, Il crollo delle Regno delle Due Sicilie. La struttura sociale e Angelo Massafra, Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni.
[13] Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell’Ottocento.
https://amantidellastoria.wordpress.com/2016/01/16/economia-del-regno-delle-due-sicilie/
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