venerdì 16 settembre 2016

George Eliot. “Talvolta si prende come cattiva abitudine l’essere infelici”, proprio a rappresentare un concetto che a tutti noi, spesso, sfugge. Ci abituiamo a trarre le stesse conclusioni da situazioni che sono in realtà diverse; interpretiamo i comportamenti degli altri sempre negli stessi modi, ci abituiamo a provare sempre le stesse emozioni e a pensare sempre le stesse cose su noi stessi e sugli altri, finendo in circoli viziosi potenzialmente distruttivi.

Il narcotico dell'anima.

Anche l’abitudine contribuisce a far diventare vecchi; il processo mortale di fare la stessa cosa allo stesso modo alla stessa ora giorno dopo giorno, prima per trascuratezza, poi per inclinazione, e infine per codardia o inerzia.”
Edith Wharton

La nostra vita è un susseguirsi di abitudini, azioni che si ripetono ogni giorno e che ci permettono di vivere in una stabile continuità. 

Quello che non sappiamo, è che la nostra mente è per natura ripetitiva; ciò, ci serve per adempiere al compito più importante ai fini della sopravvivenza:

L'apprendimento.
Impariamo a conoscere il nostro ambiente e a esercitare su di esso un certo controllo, allo scopo di provare piacere ed evitare dispiacere. Attraverso la ripetizione, possiamo imparare a conservare tutti quei comportamenti, che ci fanno stare bene e che ci allontanano da ciò che ci fa stare male

Tocco il fuoco, mi brucio e molto presto imparerò a non toccarlo più. Ripeterò questo comportamento per evitare il dolore e, a meno che il fuoco non diventi improvvisamente freddo, questa abitudine ci sarà sempre utile.

Quindi, se tendiamo a pensare che la routine sia qualcosa di negativo, in realtà, grazie alle abitudini, possiamo creare sicurezza, indispensabile per sentirci protetti e sereni.

Ognuno di noi, dunque, ripete dei comportamenti, ha delle abitudini, alcune sane, altre meno, alcune consapevoli, altre no.

Quando parliamo di esse, non ci riferiamo solamente alle consuetudini che potremmo avere nel vestirci prima, e poi fare colazione o nell’accendere la sigaretta dopo il caffè, ma anche in quegli automatismi, che riguardano i nostri pensieri e le nostre emozioni.

La scrittrice inglese George Eliot, scomparsa ormai da più di un secolo, affermava che “Talvolta si prende come cattiva abitudine l’essere infelici”, proprio a rappresentare un concetto che a tutti noi, spesso, sfugge.
Ci abituiamo a trarre le stesse conclusioni da situazioni che sono in realtà diverse; interpretiamo i comportamenti degli altri sempre negli stessi modi, ci abituiamo a provare sempre le stesse emozioni e a pensare sempre le stesse cose su noi stessi e sugli altri, finendo in circoli viziosi potenzialmente distruttivi.

Come direbbe Martha Medeiroslentamente moriamo, perché la nostra coscienza si addormenta, ogni volta che ci dimentichiamo di vivere nel momento e di sperimentare la vita con gli occhi ben aperti.

Quando dovremmo pensare a cambiare alcune delle nostre abitudini?
Quando non siamo né abbastanza malleabili, da modificarci a seconda della situazione, né abbastanza forti, da non spezzarci di fronte a questa richiesta e, per questo, viviamo un disagio; se non siamo flessibili, bensì rigidi, rischiamo di mantenere abitudini che, nonostante siano state utili in passato, oggi non lo sono più e anzi, ci creano sempre più sofferenza.

La paura è tutto ciò che ci impedisce di fare qualcosa, la ripetizione è confortevole, la novità, no. Come abbiamo detto più volte, anche se cambiare è faticoso, è necessario per poter crescere ed evolvere in una vita dinamica, che ci permetta di stare in un continuo divenire.

Ecco per voi qualche spunto in merito:

Svegliatevi! Prendete consapevolezza di ciò che fate. 
Le vostre abitudini non vanno aggredite, ma comprese. 
La prossima volta che partirà il pilota automatico, destatevi e chiedetevi: 
Perché sto facendo questo? Lo voglio davvero?”. 
La risposta potrebbe essere anche affermativa, 
ma almeno sarete consapevoli di ciò che state facendo. 
Lasciatevi aiutare dalla respirazione, 
qualcosa di assolutamente meccanico ma che se “pensata”, 
può ancorarvi al momento presente.

Fate un elenco delle vostre abitudini
Alla luce di ciò che è stato detto, riuscite a identificare alcuni dei vostri automatismi mentali che non vanno più bene per la vostra vita?

Cambiate prospettiva. 
Siete abituati a vedere il mondo in un certo modo e ad agire di conseguenza. 
Dovete abituarvi a pensare che possano esistere diversi punti di vista per considerare la realtà e, che questi, saranno utili per rinnovarsi ogni volta che è necessario. Ad esempio, leggere romanzi può essere utile a sviluppare questa tendenza.​

Cambiate le routine obsolete o dannose
Per modificare le abitudini, è necessario limitarsi a fare piccole modifiche che, quando sentirete integrate nelle vostre routine, potranno arricchirsi sempre di più, fino a sostituire, se lo desiderate, uno schema che non vi soddisfa più. Tentando di cambiare dal giorno alla notte, violenterete la vostra routine e non otterreste nulla, se non il senso di fallimento e di colpa, che vi spingerà a ricadere nell’automatismo, che almeno è rassicurante perché familiare.

Cambiate il vostro ambiente
Se tutto intorno a voi non cambia mai, rischiate di non rendervi conto di essere incastrati in abitudini soporifere, che vi intrappolano in una bolla, che, sebbene non vada bucata, andrà almeno ampliata.

Ricordatevi che, riconoscere che qualcosa non funziona più per noi, è il primo passo da compiere per cambiare ma, a volte, è molto difficile capire perché alcune abitudini resistono. Se sentite di non farcela, chiedete aiuto allo psicologo.

http://www.attualmentepsi.com/single-post/2015/06/19/Il-narcotico-dellanimo




Ci andavo spessissimo dopo la disgrazia, quando ero appena sposata; ma dopo un po’ ho cominciato a pensare che vederci li faceva stare peggio. E poi, tra una cosa e l’altra, e i miei stessi problemi…In genere però riesco ad andarci intorno a Capodanno e una volta in estate. Solo che cerco sempre di scegliere un giorno quanto Ethan è in giro da qualche parte. E’ già brutto vedere le due donne che se ne stanno lì sedute – ma il viso di lui, quando si guarda intorno in quel luogo spoglio, mi fa proprio morire
Edith Wharton, Ethan Frome


Romanzo della scrittrice americana Edith Wharton (1862-1937), pubblicato nel 1911. Ethan Frome è il protagonista di un terribile dramma i cui elementi, non nuovi, trovano qui espressione originale, spoglia di ogni crudezza realistica. In una fattoria isolata, nei pressi di Starkefield, Ethan Frome coltiva con durissimo sacrificio una terra avara, che gli dà appena di che vivere miseramente e comprare le medicine per sua moglie, Zenobia, querula, malaticcia e precocemente invecchiata, che egli sposò quando, alla morte della madre di cui Zenobia era infermiera, sentì orrore del silenzio e della solitudine di casa sua. Ora Ethan si sacrifica per lei, dura ed egoista, come già si sacrificò per i genitori; però da qualche tempo il sorriso e la gioventù sono rientrati nella sua vita, con Mattie Silver, una cugina povera e orfana, che Zenobia ha preso in casa non avendo il denaro per pagarsi una serva. Ethan e Mattie si amano di un amore casto e silenzioso; Zenobia vede e tace, finché un giorno annunzia la sua decisione di mandar via Mattie. Ethan può soltanto accompagnare la fanciulla alla stazione: ella non ha un soldo, ed egli è tanto povero che non può nemmeno fuggire con lei. Durante il tragitto i due giovani si confessano il reciproco amore, e, disperati, decidono di morire insieme: avvinti, spingono la slitta nel precipizio. Vent'anni dopo la tragedia, chi narra la storia conosce Ethan, un vegliardo invalido, che ha in s'è una tragica grandezza; sente che egli "vive in una profondità di isolamento morale troppo remota per qualsiasi accostamento casuale". Un giorno, Ethan lo conduce in casa sua; nella squallida cucina sono due vecchie: una alta e dritta, l'altra immobile in una poltrona, che parla con voce lamentosa e aspra. E l'inferma è Mattie; Zenobia, dopo la disgrazia, è divenuta lei l'infermiera solerte e paziente. La tragedia, che soprattutto risiede in quel tentativo fallito di evasione dalla propria sorte, in cui poi Ethan ripiomba come un prigioniero cui sia rincrudita la pena, non ha risoluzione né sbocco. La solitudine interiore, il silenzio in cui il protagonista da vecchio appare sepolto, sono, più che l'espressione, l'immagine di questa fatalità accettata cupamente, senza rassegnazione. Ma la parte migliore del romanzo è forse quella idilliaca, del timido amore fra Ethan e Mattie. La descrizione di una sera in cui, per l'assenza di Zenobia si trovano soli nell'intimità casalinga, e, paghi di quella, sono felici, è tra le pagine più belle e delicate della Wharton.

Negli anni della sua migliore stagione creativa (1905-1920: dalla Casa dell'allegria, all'Età dell'innocenza) la W., solidamente radicata nel mondo americano, partecipava al declino dell'aristocrazia tradizionale, dalla quale lei stessa proveniva, di fronte all'affermarsi di una nuova classe egemonica fondata sulla potenza finanziaria, e descriveva questo momento di trapasso in termini insieme ironici e pietosi. Nella fase successiva, invece, (La ricompensa della madre), perduto il legame diretto con l'America (viveva ormai in Francia) e risolto il proprio conflitto individuale con l'ambiente che la circondava, ripiega su temi meno legati alle sue vicende personali e li svolge senza quella tensione soggettiva che dava forza alle opere precedenti.
Edith Wharton
http://www.parodos.it/books/rest/edwaetfr.htm


Ethan Frome di Edith Wharton
L'autrice, nota ai più per l'indimenticabile romanzo L'Età dell'Innocenza, occupa un posto speciale nel mio cuore, ma per un altro libro. Ethan Frome.
Meno di cento pagine in cui prende vita una storia triste, desolante, narrata in modo scarno, perchè come affermò la stessa autrice andava trattata "in modo secco e sommario, così come la vita s'era sempre presentata a questi personaggi; e qualunque tentativo di elaborare e complicare i loro sentimenti avrebbe necessariamente sfalsato il tutto".    
Ethan Frome è un giovane uomo di 28 anni che ha dedicato la vita ad occuparsi dei genitori, e che finisce con lo sposare Zenobia, una donna più grande che aveva fatto da infermiera alla madre morente di lui. L'unione con Zenobia, vuota, arcigna e ipocondriaca è una prigione senza finestre in cui Ethan si adagia con pacata rassegnazione. Finchè un giorno non arriva Mattie, una cugina di lei rimasta orfana, con il sole sulle labbra e la luce negli occhi. Una ventenne piena di vita e allegria che si stabilisce in casa loro. L'amore che nasce è platonico, soffocato, fatto di sguardi e silenzi, ma così palesemente vero che Zenobia decide di scacciare Mattie, nonostante questa non abbia un posto in cui andare. Ed è a questo punto che l'amore inconfessato trova sfogo, ma se la felicità ha un prezzo, l'infelicità ne ha uno ancora più alto. Ethan, schiacciato dal senso del dovere, rinchiuso in una gabbia di responsabilità da cui non sa uscire, senza denaro da dare a Mattie, nè tanto meno per poter scappare con lei, decide di compiere un gesto estremo con l'amata. Un gesto che avrà conseguenze devastanti, addirittura peggiori di quelle prospettate.
Il romanzo è un evidente specchio della visione pessimistica che l'autrice voleva riflettere nei suoi scritti. Ethan vive in una fattoria talmente isolata da rendere il paesaggio ancora più muto di quanto la neve e il freddo già non facciano. E la società che circonda i personaggi, nonostante sia un labile contorno, è di quelle che ti lega senza corde e uccide senza veleni. Ethan è oppresso dalle convenzioni, passa la vita a sacrificarsi per gli altri e anche nel matrimonio non trova respiro e gioia; Zenobia è fredda come la terra che lui coltiva ed egoista sempre come quella terra che riesce a malapena a sfamarli.
Ethan annega lentamente nella consapevolezza dei propri errori, la sua vita non è mai contrassegnata da tentativi di riscatto, e l'unico momento che passa da solo con Mattie è un esempio di tale poesia e delicatezza che da solo rende questo libro un vero capolavoro.
A cura di Silvia  (03/2012)
http://leggiamo.altervista.org/classici_ethanfrome.htm



UN CASO TERRIBILE- ETHAN FROME di Edith Wharton
Questa storia l’ho ricostruita pezzetto per pezzetto dai racconti di diverse persone, sebbene, come accade di norma in simili casi, da ogni bocca uscisse in modo diverso.
Se conoscete Strakfield, nel Massachusetts, conoscete anche l’ufficio postalr. Se conoscete l’ufficio postale, avete certamente visto Ethan Frome arrivare con il suo calessino, abbandonare le redini sulla groppa concava del suo baio, e attraversare faticosamente la strada lastricata di mattoni per raggiungere il colonnato bianco della posta; e certamente vi siete informati sul suo conto.
Fu là che, parecchi anni fa, lo vidi per la prima volta; e quella vista mi fece fermare di colpo. Frome era ancora il personaggio più interessante di Strarkfield, sebbene non fosse ormai che un rudere di uomo. Non era tanto la sua statura, perché quasi tutti gli “indigeni” spiccavano a prima vista tra le razza forestiere più tozze proprio per la loro altezza dinoccolata; era piuttosto quel suo aspetto naturalmente vigoroso, nonostante fosse talmente zoppo che, a ogni passo, sembrava che una catena legata ai piedi lo trattenesse di colpo… Aveva nel volto qualcosa di desolato e di chiuso e appariva così rigido e bianco che lo avevo preso per un vecchio, al punto che, quando mi dissero che non aveva più di cinquantadue anni, rimasi stupito.

Quando entrai nella cucina di Frome la voce querula e monotona tacque; delle due donne che vi stavano sedute non potei capire quale fosse stata a parlare.
Una di loro, al mio apparire, alzò la lunga persona ossuta dalla sedia, non per accogliermi, perché non mi lanciò che una rapida occhiata di sorpresa, ma semplicemente per andare a preparare il pasto che l’assenza di Frome aveva fatto ritardare..Un grembiulone sbrindellato di cotonina le pendeva addosso; le ciocche dei radi capelli grigi erano tirate indietro sulla sua fronte alta e fermate sulla nuca con un pettinino rotto. Aveva occhi pallidi e opachi., che non rivelavano e non riflettevano nulla, e le sue labbra strette avevano lo stesso colore terreo del viso.
L’altra donna era molto più piccola e esile.Sedeva raggomitolata in una poltrona vicino alla stufa e, quando entrai, voltò rapidamente il capo verso di me, senza che il resto del corpo facesse il minimo movimento riflesso.Aveva i capelli grigi come quelli della sua compagna , il viso altrettanto esangue e avvizzito, ma ambrato con ombre scure che le affilavano il naso e le infossavano le tempie.Sotto l’abito senza forma, il suo corpo manteneva una immobilità inerte e gli occhi scuri avevano quella fissità lucida e stregata , che, a volte, accompagna le malattie della spina dorsale.
Anche per una casa di quella regione misera , la cucina aveva un aspetto molto squallido..A eccezione della poltrona occupata dalla donna degli occhi scuri , che sembrava il relitto sudicio di un passato splendore, acquistato in qualche asta di paese, il mobilio era di qualità ordinarissimi. Tre piatti di porcellana rozza e una lattiera dal beccuccio rotto erano posati sul tavolo unto e tagliuzzato.
Contro le pareti a calce, erano appoggiate soltanto due sedie di paglia e una credenza di pino senza vernice.

Mamma mia, che freddo fa qui dentro! Il fuoco deve essere quasi spento!, disse Frome, guardandosi attorno con aria contrita, mentre mi seguiva nella stanza.
La donna alta, che si era allontanata da noi per dirigersi verso la credenza , non gli badò, ma l’altra, dalla sua nicchia di cuscini, rispose lamentosamente, con voce sottile e acuta:”E? stato acceso in questo momento.Zeena si è addormentata e ha dormito tanto che credevo di finire congelata prima di riuscire a svegliarla per farglielo attizzare”
Allora capiì che era stata lei a parlare prima che noi entrassimo.
La sua compagna , che si stava riavvicinando al tavolo con i resti di un pasticcio freddo di carne tritata, serviti su un piatto malconcio , depose il suo carico poco appettitoso senza dare a vedere di avere sentito l’accusa.
Frome si fermò con aria incerta, mentre la donna avanzava verso di lui; poi, guardandomi, disse:”Questa è mia moglie, la signora Frome2.E dopo un altro silenzio, volgendosi verso la figura seduta in poltrona, aggiunse:”E questa è la signorina Mattie Silver…

Tutti e due queste brani ( si tratta dell’incipit, e della conclusione) sono estratti dal racconto
Un caso terribile Ethan Frome” (libro pubblicato nel 1911) opera – tra le sue molteplici-della scrittrice americana Edith Wharton ( 1862-1937) , autrice unanimamente nota per una serie di libri aventi come protagonisti persone facenti parte dell’ambiente aristocratico americano, e come trama storie ambientate perlopiù nel periodo storico tra la fine della guerra civile e la prima guerra mondiale, e in particolare negli anni in cui si stava per disgregare la cosiddetta “età dell’oro” per l’arrivo sulla scena sociale di una nuova classe di arricchiti che incombono con la loro avidità “volgare”( uno dei suoi libri più rappresentativi è “L’età della innocenza”).

Avendo letto altre sue opere ambientate in un ristretto ambito sociale dominato da questa elite aristocratica -per censo e educazione- (storie scritte oltretutto dall’interno, essendo la stessa Edith Wharton parte per via di nascita di quell’establishment di cui osa criticare l’eccesso di convenzioni che bloccano in particolare le scelte sentimentali) questo libro è stata per me una vera sorpresa, inizialmente proprio per via della diversa ambientazione, che più differente rispetto alle solite aspettative non avrebbe potuto essere.
Questa breve storia è ambientata infatti in un paesino dal nome inventato- Starkfield- ma situato nel New England, in una zona rurale, per di più durante un gelido inverno.
Il protagonista che fin dalle prime righe inizia a spiccare in un panorama desolato e silenzioso è appunto Ethan Frome, proprietario di una segheria in cattive acque e sposato quasi per obbligo morale alla donna che aveva accudito i suoi vecchi genitori. Poiché Zeena Frome è malata di una qualche malattia non bene definita lei stessa chiama a servizio una sua lontana parente decaduta, in cambio di vitto e alloggio. E sarà proprio questa donna giovane a scompaginare un ambito famigliare già desolato e senza slanci.
Si tratta di una trama essenziale, scarna come lo stesso paesaggio rurale, scarna come il linguaggio usato dai tre personaggi, per lo più secco e sommario, non c’è nessuna cosa in sovrappiù, niente di esornativo, nessun abbellimento nè di alcun genere, sembra esserci solo la crudezza di rapporti dai quali non si può neppure tentare di fuggire: se in qualche miserabile modo lo si tenta, il “terribile”- quel terribile riportato nel titolo stesso- subito e inevitabilmente si concretizza inevitabile, raggiungendo i toni e lo sviluppo proprio di una tragedia greca. C’è ben presto (o forse ha cominciato a determinarsi sin da subito, germinato su una sorta di terreno preparatorio formatosi a partire dagli avvenimenti precedenti) l’irrompere del fato, lo direi un fato atavico e irrimedibile: certo tutti i fati hanno in sè qualcosa di primitivo, di ancestrale ma a mio parere ciò sembra ancora più vero in un ambiente rurale, dove i rapporti umani- e lo si vede benissimo in questo racconto- sono ridotti ai minimi termini, finalizzati – come paiono essere, e necessariamente -alla scelta privilegiata di ragioni di sopravvivenza elementare e di sussistenza materiale.
Questo racconto a me pare un autentico capolavoro, sia dal punto della resa stilistica -ottenuta con una scelta di asciutezza di narrazione – sia per l’estrema aderenza psicologica dei tre protagonisti: all’isolamento dei luoghi- duri perchè rurali e duri per via del gelo – fa da contrappunto una sorta di desolazione morale dei personaggi, magistralmente descritti: l’ottusità rapace e livida di Zeena Frome, la fatale irrisolutezza di Ethan, la drammatica ingenuità della giovane Maggie, che farà deflagrare la trama fino al dramma, poi riassorbito alla fine, sì luttuosamente e per cause di forza maggiore, ma mantenendo sul fondo un freddo e perfino malsano livore, che mi costringe a usare la terminologia di possibile”raffinata crudeltà in ambiente rurale”.
[ Mi verrebbe da fare un’ultima osservazione: anche negli altri famosi romanzi di Edith Wharton -che parlano di alta società e di aristocrazia , e che quindi sono antitetici a questo racconto per via dell’ambientazione – sono ravvisabili nella trama e nei personaggi aspetti rapportabili al tema della rinuncia ( a cui si è costretti dall’opprimente forza delle convenzioni sociali) e della successiva “espiazione”]

VILLA DOMINICA BALBINOT

https://viadellebelledonne.wordpress.com/2009/09/23/altro-autore-dominica/

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