mercoledì 28 settembre 2016

François Villon. La Ballata degli Impiccati. Poeta raffinatissimo e brutale. Ladro, fomentatore di risse da taverna e assassino di un prete. François Villon, nato a Parigi nel 1431, e morto non si sa n‚ dove n‚ quando, è rimasto incatenato per secoli alla sua fama, fama ambigua quant'altra mai, di poeta maledetto.

Ballata delle donne del tempo passato
Ditemi dove, in quale paese
è Flora, la bella romana,
Alcibiade e Taide,
sua cugina germana,

Eco parlante quando scorre una voce
sul velo di un fiume o di uno stagno,
Eco, bellezza molto più che umana?
Ma dove, le nevi dell’anno passato?

Dov’è la sapiente Eloisa
per cui Abelardo fu castrato
e chiuso in convento a San Dionigi?
Per amore subì tale destino.

Ditemi ancora, dov’è la regina
che ordinò che Buridano fosse gettato
nella Senna in un sacco e affogato?
Ma dove, le nevi dell’anno passato?

E lei come il giglio, Bianca la regina,
che cantava con voce di sirena,
Berta dal grande piede, Alice, Beatrice,
Erembourg signora del Maine,
la buona Giovanna di Lorena,
che gli inglesi bruciarono a Rouan,
dove sono, dove, Vergine suprema?
Ma dove, le nevi dell’anno passato?

Principe, è inutile cercare con affanno
dove sono ora, nel corso dell’anno,
se non vuoi che riprenda il motivo andato,
dove, le nevi dell’anno passato?

François Villon


(Traduzione di Roberto Mussapi)


Ballata controtempo
La bellezza che svanisce è un emblema della condizione umana.
Così François Villon, nominando le belle donne del tempo andato, si contrappone al nulla della morte

La famosa ballata delle donne del tempo andato, o della bellezza femminile, la più bella, che svanisce. Pochi poeti hanno saputo farci tremare con la potenza dei nomi: le donne del bel tempo andato, i signori, i grandi personaggi storici che aleggiano sulla bolgia di Villon (Parigi 1431-1463) come aure della bellezza passata, sono palpitanti emblemi della condizione umana nel suo essere nome, volto nominato a tenerlo in vita. E Villon nomina, chiama tanti nomi, di gente passata e lontana, per adunarli accanto a sé e ai suoi compagni di taverna e di bolgia, per averli accanto e salvarli dalla distruzione del tempo, per cantare i loro nomi nella nostra memoria, per collegare nel ricordo i vivi ai morti, per contrapporre al nulla della morte la pronuncia del nome, l’agonistica e infine vincitrice compassione della poesia. Che è la forza resistente al divenire del tempo, che tutti porta via. Il più grande poeta di lingua francese, il sommo Villon, le donne che svanirono, e, per la forza della poesia, vivono ancora.
http://www.succedeoggi.it/2015/03/ballata-controtempo/




Ballade des dames du temps jadis
Questa celebre ballata, indicata nel manoscritto semplicemente come Ballade, è la prima che interrompe l’impianto narrativo del Testamento e riprende, con le due successive, il motivo dell’Ubi sunt?, dello scorrere inesorabile del tempo che tutto cancella, ampiamente diffuso nella cultura medievale. Fu il poeta ed editore Clément Marot ad attribuirle il titolo che conosciamo:
la ballata presenta infatti una galleria di donne reali e immaginarie dell’antichità classica e cristiana: cortigiane, ninfe, regine ed eroine della storia, della mitologia e delle chansons de geste, descritte la poeta insieme a pochi, ma essenziali elementi che riportano alla mente le loro storie. Donne citate non soltanto come modelli di virtù, ma anche come esempi di effimera bellezza e seduzione e, come le nevi dell’anno passato, ormai scomparse.
Tra di esse, Flora, la bella cortigiana amata da Pompeo;
Taide, la bellissima e dissoluta amante di Alessandro Magno;
Eco, la ninfa innamorata di Narciso;
la triste Eloisa e la regina Bianca di Castiglia.
Unica eccezione in questa rassegna tutta al femminile è Alcibiade, cugino di Pericle, tanto famoso per la sua esemplare bellezza da essere trasformato in una donna dai traduttori di Boezio, il quale lo aveva citato in De consolatione Philosophiæ.
Giovanna d’Arco,
"la bonne Lorraine /
Qu’Engloys brulerent a Rouen",
è forse l’esempio più significativo del tema della fugacità del tempo,
della gloria e della vita umana:
di lei, più nulla rimane, nemmeno il suo corpo, 
distrutto dal fuoco, dissolto come la neve al calore del sole.
La domanda, “ma dove sono le nevi dell’anno passato? 
che ricorre al termine di ogni strofa e che Villon rivolge adesso alla Vergine Maria,
per contro l’unica donna assunta in cielo nella sua integrità corporale, resta senza risposta.
Nemmeno i potenti, evocati con la quartina conclusiva nella figura di un principe che fa da interlocutore al poeta, sono in grado di rispondere, poiché anche loro nulla possono contro la caducità della vita terrena.

Autore: François Villon (1431- dopo il 1463)

Datazione: 1461
http://www.dislocazioni-transnazionali.it/bd/il-mito-di-giovanna-d-arco/emballade-des-dames-du-temps-jadis-em?id=1&ids=7


Fabrizio de Andrè - Ballata dell'Amore Cieco o della Vanità.
Bellissima Canzone di Fabrizio de Andrè, tratta dal Disco "Canzoni" del 1974.
La prima versione della stessa era stata pubblicata nel disco "Tutto Fabrizio de Andrè" nel 1966.

Un uomo onesto, un uomo probo,
tralalalalla tralallaleru
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.

Gli disse portami domani,
tralalalalla tralallaleru
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.

Lui dalla madre andò e l'uccise,
tralalalalla tralallaleru
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.

Non era il cuore, non era il cuore,
tralalalalla tralallaleru
non le bastava quell'orrore,
voleva un'altra prova del suo cieco amore.

Gli disse amor se mi vuoi bene,
tralalalalla tralallaleru
gli disse amor se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene.

Le vene ai polsi lui si tagliò,
tralalalalla tralallaleru
e come il sangue ne sgorgò,
correndo come un pazzo da lei tornò.

Gli disse lei ridendo forte,
tralalalalla tralallaleru
gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.

E mentre il sangue lento usciva,
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s'era ucciso per il suo amore.

Fuori soffiava dolce il vento
tralalalalla tralallaleru
ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato,
quando a lei niente era restato,
non il suo amore, non il suo bene,

ma solo il sangue secco delle sue vene.
https://youtu.be/hEsMZfYGqIM




La Ballata degli Impiccati.
Tutti morimmo a stento 
ingoiando l'ultima voce 
tirando calci al vento 
vedemmo sfumare la luce. 

L'urlo travolse il sole 
l'aria divenne stretta 
cristalli di parole 
l'ultima bestemmia detta. 

Prima che fosse finita 
ricordammo a chi vive ancora 
che il prezzo fu la vita 
per il male fatto in un'ora. 

Poi scivolammo nel gelo 
di una morte senza abbandono 
recitando l'antico credo 
di chi muore senza perdono. 

Chi derise la nostra sconfitta 
e l'estrema vergogna ed il modo 
soffocato da identica stretta 
impari a conoscere il nodo. 

Chi la terra ci sparse sull'ossa 
e riprese tranquillo il cammino 
giunga anch'egli stravolto alla fossa 
con la nebbia del primo mattino. 

La donna che celò in un sorriso 
il disagio di darci memoria 
ritrovi ogni notte sul viso 
un insulto del tempo e una scoria. 

Coltiviamo per tutti un rancore 
che ha l'odore del sangue rappreso 
ciò che allora chiamammo dolore 
è soltanto un discorso sospeso.

https://youtu.be/i8HuD5NC7mg

La canzone di De André in cui più evidente appare l' influenza di Villon è, come già detto, La Ballata degli impiccati (titolo che richiama chiaramente la ballade des pendus), inclusa nell' album Tutti morimmo a stento del 1968. 
"La ballata occupa una posizione centrale nell'album di cui fa parte dal punto di vista contenutistico: il primo verso di questa canzone, infatti, dà il titolo al disco. L'inizio è la cruda descrizione dei momenti finali degli impiccati, che muoiono con in gola l'ultima bestemmia, ma il messaggio che vogliono lasciare va al di là della loro condizione: è l'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male; nessuno è colpevole, nessuno è innocente, nessuno ha il diritto di 
giudicare un proprio simile. Nella canzone, gli impiccati augurano a chi li ha derisi di morire nel loro stesso modo; a chi li ha dimenticati, di morire ad un passo dalla meta; infine ad una donna che si è vergognata del loro ricordo, l'augurio è di perdere al più presto la bellezza e di essere sfigurata, senza appello, dal tempo. Il finale è una minaccia per chi vive ancora: la nostra morte non è la fine, ma soltanto una sospensione che proprio voi riprenderete."
(Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva)

La Ballata degli Impiccati, dotata dell'inconfondibile stile del cantautore genovese fatto di versi scarni, ruvidi e sarcastici, dipinge con tinte cupe e macabre, il rancore e la rabbia devastante di chi a causa delle proprie debolezze morali, o per il rifiuto o l'incapacità di rispettare le regole si trova ad essere condannato all' impiccagione.
Gli impiccati, anonimi, muoiono nel momento in cui cantano, e cantando nonriescono a perdonare, ma soltanto a lanciare invettive, contro il mondo intero..
Gli impiccati si rivolgono a tutta l' umanità invitando ad una riflessione sulla vita, proposta attraverso un martellamento ritmico tipico della marcia funebre, una sorta di «dansa macabra» finalizzata ad enfatizzare il senso di caducità della vita e l' ineluttabilità di una morte che viene rappresentata come uno scheletro orrendo.
Esaminando i testi, risulta abbastanza evidente come sia per de De André che per Villon, l'impiccato non sia un criminale da condannare, ma rappresenta piuttosto il simbolo della condizione umana, che vede l'uomo come un disperato in agonia. 
Netta è la correlazione e i punti di contatto tra le due opere.

"Molti sono i fili che la legano alla Ballade des pendus di Villon, primo fra tutti il fatto che l'impiccato non è più il colpevole, giustamente o ingiustamente punito, ma diviene un'allegoria, come la carta dei Tarocchi, il simbolo della condizione umana, sempre sul bordo del male e della morte. Comune, nei testi di Villon e De André, è la descrizione di particolari aspri, dei segni di un'agonia crudele, e l'invito a non sentirsi estranei alla sorte degli impiccati, perché, a ben guardare, c'è poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, e chi si crede incontaminato dal male, al punto da proseguire "tranquillo il cammino", commette anche lui un peccato contro l'uomo".
Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo “Edizioni Associate, Roma 1999

 


François Villon, Poesie, pp. 119, Feltrinelli
Poeta raffinatissimo e brutale. Ladro, fomentatore di risse da taverna e assassino di un prete. François Villon, nato a Parigi nel 1431, e morto non si sa n‚ dove n‚ quando, è rimasto incatenato per secoli alla sua fama, fama ambigua quant'altra mai, di poeta maledetto. Luigi De Nardis, nell'acuto ed esaustivo saggio introduttivo di questa antologia pubblicata nei classici economici di Feltrinelli, risale all'origine delle leggende fiorite intorno all'autore della "Ballata degli impiccati" e, dopo averlo restituito alla sua vita e al suo secolo, lo definisce senza esitazioni "il più grande poeta lirico di Francia". A fare da contraltare al serio e filologico saggio introduttivo, la prefazione di Fabrizio De André. Una breve lettera che si rivolge direttamente al poeta "mascalzone" per raccontargli che la desolata Parigi del 1456 non era poi così diversa, nella sostanza, dalle nostre tecnologiche, iridescenti metropoli. Quanto a Villon, poi, non resta che immergersi nei beffardi "Lais" giovanili, nel più maturo e vario "Testament" e, infine, nelle splendide cupe e disperate "Poésies diverses", per passare, nel giro di poche pagine, dal bordello della "grosse Margot" al convento in cui la vecchia madre del poeta ammira "arpe e liuti in cielo pitturati/ e un inferno dove bollono i dannati".

(C. Bongiovanni, L'Indice 1996, n. 7)
‎Mario De Ronzi‎ a Leggo i classici di letteratura 


La ballata degli impiccati (Ballade des pendus), originariamente chiamata L'epitaffio di Villon (L'épitaphe Villon) e conosciuta anche come Fratelli umani (Frères humains) è un'opera del poeta francese François Villon, pubblicata a stampa per la prima volta nel 1489.
La poesia è un appello alla carità cristiana, valore molto rispettato nel Medioevo:

Perché, se pietà di noi poveri avete,
Dio avrà piuttosto di voi mercé,
perché se voi avete pietà di noi,
Dio avrà più presto pietà anche di voi

Essa presenta un'originalità profonda nella sua enunciazione: sono i morti a rivolgersi ai vivi, in un appello alla compassione e alla carità cristiana, esaltato dalla descrizione macabra. Questo effetto di sorpresa è tuttavia smorzato dal titolo moderno. Il primo verso «Freres humains, qui après nous vivez», conserva difatti ancora oggi un forte potere evocativo ed emotivo: la voce degli impiccati immaginata da Villon trascende la barriera del tempo e della morte.

Villon, che attende di essere condannato all'impiccagione, si rivolge ai posteri per sollecitare la pietà dei passanti ed esprimere dei desideri, sollecitare la nostra indulgenza, descrivere la loro condizione di vita, rivolgere una preghiera a Gesù. In second'ordine si può percepire in questa ballata un appello dell'autore alla pietà del re, giacché quest'ultimo lo ha messo in prigione.

La redenzione è al centro della ballata. Villon riconosce di essersi preoccupato troppo del suo essere di carne a discapito della sua spiritualità. Questa constatazione è rafforzata dalla cruda e insopportabile descrizione dei corpi marcescenti (che fu probabilmente ispirata dal macabro spettacolo del «carnaio degli innocenti») che produce un forte contrasto con l'evocazione dei temi religiosi. Gli impiccati esortano in primo luogo i passanti a pregare per loro; poi, nel corso dell'appello, la preghiera si generalizza verso tutti gli esseri umani.


Fratelli umani che dopo noi vivete,
non abbiate con noi i cuori induriti,
perché se avete pietà di noi, poveri,
Dio avrà più presto pietà di voi.
Voi ci vedete qui, in cinque, sei, appesi:
quanto alla nostra carne, troppo nutrita,
dopo molto tempo è divorata e putrida,
fino all'osso, siam polvere e cenere.
Della nostra sventura, nessun si rallegri,
ma pregate Dio che tutti noi assolva!

Se noi vi chiamiamo fratelli, non dovete
averne sdegno, anche se siamo uccisi
dalla giustizia. Tuttavia voi sapete
che animo turbolento hanno gli uomini.
Perdonateci, perché siamo trapassati,
verso il figlio della Vergine Maria,
ché la sua grazia non ci sia arida,
e ci preservi dalle fiamme infernali.
Siamo morti, nessuno ci tormenti,
ma pregate Dio che tutti noi assolva!

La pioggia ci ha lavati abbastanza
e il sole ci ha anneriti e seccati;
Gazze, corvi ci hanno gli occhi scavati,
e strappata la barba e le sopracciglia.
Mai un solo istante restiamo seduti;
di qua e di là, come fa il vento soffiando,
a suo agio, senza tregua siam sballottati
più becchettati dagli uccelli che ditali da cucito
Non siate della nostra confraternita
ma pregate Dio che tutti noi assolva!

Principe Gesù che hai potere su tutti,
fa che l'inferno in potere non ci abbia:
non avendo nulla a che spartire con lui.
Uomini, adesso, non derideteci,
ma pregate Dio che tutti noi assolva.


Frères humains qui apres nous vivez
N'ayez les cuers contre nous endurciz,
Car, se pitié de nous pauvres avez,
Dieu en aura plus tost de vous merciz.
Vous nous voyez cy attachez cinq, six
Quant de la chair, que trop avons nourrie,
Elle est pieça devoree et pourrie,
Et nous les os, devenons cendre et pouldre.
De nostre mal personne ne s'en rie:
Mais priez Dieu que tous nous veuille absouldre!

Se frères vous clamons, pas n'en devez
Avoir desdain, quoy que fusmes occiz
Par justice. Toutesfois, vous savez
Que tous hommes n'ont pas le sens rassiz;
Excusez nous, puis que sommes transis,
Envers le filz de la Vierge Marie,
Que sa grâce ne soit pour nous tarie,
Nous préservant de l'infernale fouldre.
Nous sommes mors, ame ne nous harie;
Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre!

La pluye nous a débuez et lavez,
Et le soleil desséchez et noirciz:
Pies, corbeaulx nous ont les yeulx cavez
Et arraché la barbe et les sourciz.
Jamais nul temps nous ne sommes assis;
Puis ça, puis la, comme le vent varie,
A son plaisir sans cesser nous charie,
Plus becquetez d'oiseaulx que dez à couldre.
Ne soyez donc de nostre confrarie;
Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre!

Prince Jhesus, qui sur tous a maistrie,
Garde qu'Enfer n'ait de nous seigneurie:
A luy n'avons que faire ne que souldre.
Hommes, icy n'a point de mocquerie;
Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre.

(Trascrizione del testo tratta dal manuale Lagarde et Michard)

https://it.wikipedia.org/wiki/La_ballata_degli_impiccati




La tipica drammaticità che contraddistingue il modo di rappresentare e cantare la vita di De André ci porta ad accostarlo ad un grande poeta del Quattrocento francese, François Villon, la cui produzione è dominata da un forte senso di caducità e di precarietà nei confronti dell’ esistenza. Una propensione per la cultura medievale, quella di De André che ricorre soprattutto nelle composizioni giovanili.

Numerosi sono i punti di contatto della poetica di Villon con quella del cantautore genovese: Villon come De André canta i disadattati, i marginali, condannati a un destino crudele, non solo ad una prematura morte terrena ma soprattutto alla morte dell’animo e ad una lotta continua verso il sentire comune ed il pensiero unico, facendone dei ribelli nei confronti della maggioranza.

Villon, prende le parti dei diseredati, vittime della debolezza della propria natura, della cattiva sorte, della malvagità umana e dell’ingiustizia sociale. De andré riconoscerà ufficialmente in Villon“un poeta della carità, per lo scandalo delle passioni sfrenate, per le risate scomposte a schernire inauditi dolori, per le inaccettabili sofferenze che sorgono dal tuo canto e toccano il cuore e la mente di chi legge
(F. De André – Prefazione a F. Villon, Poesie, Feltrinelli , Milano 1996 )

La poesia di Villon rappresenta un nodo di profonde contraddizioni. Più volte, nel corso della sua opera manifesta la sua fede profonda, tuttavia conduce una vita da malfattore e delinquente: ruba, ferisce, uccide. Le sue cattive frequentazioni lo condussero a vivere spalla a spalla con gli strati più bassi della società ma al tempo stesso frequentava gli ambienti universitari.
Ha un culto toccante e sincero verso Notre Dame a cui dedicherà una stupenda ballata ma ciò non gli impedirà di frequentare prostitute o ambienti malfamati. E’ proprio in virtù di questa dicotomia e di queste grandi contraddizioni che segnano la personalità del poeta medievale che Villon si distingue per la sua grande capacità di passare dal più raffinato ed elevato lirismo al realismo più crudo. Candido e tragico nello stesso tempo, sensuale e devoto.
Pressoché sconosciuto al tempo in cui visse, Villon ebbe notorietà solo a partire dal XVI secolo quando le sue opere furono recuperate e pubblicate da Clément Marot che ha sottolineato come la vita di François Villon sia piena di zone d’ ombra e mistero, e le sole tracce biografiche certe relativamente alla sua vita adulta sono di origine giudiziaria; ciò da forza e vigore all’ immagine leggendaria di poeta malfattore che gli è stata attribuita dalla fine del Medioevo.

Ecco cosa fu François Villon: ladro, assassino e quanto peggio ancora. Tuttavia è lui l’uomo, a cui é legata la poesia più profondamente penetrante del XV secolo : non c’è alcun dubbio, questo malfattore fu un grandissimo poeta.
(Gustave Lanson - Histoire de la Littérature française - 1894 )

Villon rappresenta il primo grande poeta moderno, ma è al tempo stesso l’ ultimo grande rappresentante della poesia Medievale. Fu capace di realizzare una poesia profondamente personale ed intimista, espressione sincera dei propri sentimenti.
La sua opera rispecchia la sua vita, fatta di contrasti violenti, non nasconde nulla nemmeno l’attrazione verso una vita dissipata che fa di lui un poeta maledetto e avvolto dalla leggenda.
Nonostante questa sua cattiva condotta, il suo animo ed il suo spirito non perdono quell’ ingenuità e quella freschezza che ne caratterizzano la sua poesia.
Villon veste le parole di forme commoventi e toccanti per esprimere la fede religiosa che ha conservato, l’ amore per sua madre, la sua riconoscenza verso tutti quelli che lo hanno stimato, i suoi rimpianti per aver sprecato la sua giovinezza.
Non si può dire che Villon abbia introdotto forme o temi nuovi, il testamento dominato dalla parodia, infatti, esisteva già da tempo come anche la riflessione amara e lucida sul tema della morte, sul destino cieco e beffardo, sull’ ultimo saluto dato alle anime, erano topoi ben conosciuti nel Medioevo; la forza di Villon consiste nel non aver affrontato queste tematiche come delle scelte obbligate e convenzionali ma averle rivisitate come vere e proprie esperienze personali. Villon dipinge un affresco dominato dalla caducità e dall’insensatezza dell’esistenza, spazzando via le falsità e le troppe convenzioni che avevano caratterizzato l’epoca e la cultura medievale: l’immagine dell’amante martire tipico delle regole dell’amor cortese era diametralmente opposta alla sua visione
dell’amore imperniata sul piacere.

Le immagini, le metafore, la simbologia e la macabra lucidità di Villon svolgono dunque un importante ruolo demistificatore e capace di desacralizzare tutta una gamma di valori e costumi.
Alla poetica ed irreale campagna dei pastori e della perfezione bucolica che popolano la poesia del tempo, preferisce Parigi che rievoca spesso in modo alquanto pittoresco. Il suo talento di caricaturista lo spinge spesso ad enfatizzare ed ingigantire i difetti umani, l’ autentica condizione dell’uomo viene dipinta in tutta la sua cruda e orrenda realtà attraverso la descrizione dell’orrore della decrepitezza dei corpi, la violenza e la bassezza dei loro appetiti carnali.
Una poesia vera che si distacca inesorabilmente dalle dolci menzogne della tradizione.
Ma il vero fattore innovativo della poesia di Villon risiede proprio nella personalità dell’autore, dotata di innumerevoli sfumature, capace di emozionare e di intrigare. Tuttavia non è facile carpire la vera essenza del poeta Villon per la sua caparbia abilità nel nasconderla e camuffarla sotto volti e maschere ogni volta diverse; dall’amante respinto ed infelice al sensuale amico delle meretrici, dal figlio tenero e sensibile che compone per sua madre l’ affascinante Ballade pour prier Notre-Dame al crudele peccatore che lamenta la sua eccessiva malvagità.
La celebre espressione del poeta cinquecentesco "Je ris en pleurs", riassume e sottolinea la dicotomia e la dualità profonda d' una coscienza che risulta dominata dalle due facce del poeta più spesso individuate nel corso della sua opera: la faccia triste dell’ uomo afflitto dal rimpianto e dall’ amarezza e quella dominata da una risata cinica ed atroce, lucida e spietata.L'opera di François Villon ha conosciuto un successo immediato.

Le sedici edizioni che si sono succedute, da quella iniziale del 1489 di Pierre Levet alla prima edizione critica e commentata delle sue opere di Clément Marot nel 1532, ne confermano l' immenso successo.
La sua fama è dovuta soprattutto al grande successo che ha esercitato sui poeti del diciannovesimo secolo, i romantici come per esempio Théophile Gautier, che iniziò proprio con uno studio sulla figura di Villon, la sua raccolta dei "grotteschi", una serie di testi critici dedicati agli autori minori del XVI et del XVII secolo. Baudelaire e soprattutto Verlaine ebbero per lui un vero e proprio culto.
Nell'accostarci all'analisi di quest'autore medievale va, dunque, tenuto in considerazione il fatto che la tradizione abbia lasciato di Villon solo un'opera corrotta e frammentaria. Nell'interpretare la sua poesia bisogna tener conto di questa confusione di testi manoscritti o stampati come anche del mistero di cui si sarebbe circondato l'autore.

Questi aspetti problematici non fanno che ingigantire la leggenda letteraria e stimolare l'analisi scientifica. La storia delle diverse interpretazioni testimonia la stupefacente densità del sistema di scrittura di un poeta che ognuno cerca di decifrare a suo modo.
Miracolo di una poesia che si presenta al contempo come enigma e comunicazione, essa suggerisce un'impressione di intimità nonostante la distanza, di autenticità nonostante la maschera. Come già detto, sulla figura di Villon si hanno poche notizie biografiche. François de Montcorbier era nato nel 1431, l' anno dell' esecuzione di Giovanna D' Arco; di origini modeste, rimasto orfano venne poi adottato da Guillaume de Villon, cappellano della chiesa di Saint-Benoit-le-Bétourné, che gli fece seguire gli studi necessari per entrare a far parte del clero e da cui prese il nome in segno di rispetto. Tuttavia il giovane François, terminati gli studi, incontrò grandi difficoltà nel trovare un posto tra le fila del clero ed iniziò ad avvicinarsi alla poesia ed allo spettacolo.

Il 5 giugno 1455 avviene l'episodio che gli cambia la vita e che è storicamente provato: mentre passeggiava in compagnia di un prete di nome Giles incontra nella rue Saint-Jacques un bretone, Jean le Hardi, maestro d'arte, in compagnia a sua volta di un religioso, un certo Philippe Chermoye; scoppia una rissa nella quale Chermoye rimane ferito mortalmente.
Accusato dell'uccisione del religioso, Villon è costretto a lasciare Parigi.
Fu prima di lasciare Parigi che compose ciò che è ora conosciuto come "Petite testament" ("Piccolo testamento") o "Le Lais" ("Lascito"), opera che mostra parte della profonda amarezza e rammarico per il tempo sciupato.
Nel Lais, in procinto di lasciare Parigi, il poeta immagina di lasciare ai suoi amici i pochi beni che possiede ma anche le miserie e le sfortune.
Nel 1458 Villon, rientrato a Parigi, è coinvolto in una rapina al Collegio di Navarra e si trova ancora una volta obbligato a lasciare la città: passa per Angers, Bourges, Blois dove il re, Charles d'Orléans, lo protegge e Villon lo ringrazierà con i suoi versi. Arrestato nuovamente nell'estate del 1461 per ordine del vescovo Thibault d'Aussigny, per un altro furto in una chiesa, è amnistiato e rimesso in libertà il 2 ottobre dello stesso anno.

Rientrato a Parigi, dopo aver scritto "Le testament" (Il testamento), la sua opera principale, viene per l' ennesima volta imprigionato, sempre a causa di furti e risse. Sarà torturato, processato e condannato all' impiccagione (è in questo momento che compose la Ballata degli Impiccati), ma il giudizio verrà annullato il 5 gennaio del 1463 e Villon verrà bandito da Parigi per dieci anni.
A partire da questa data non si hanno più sue notizie.
La sua opera principale, le Grand Testament riprende con maggiore incisività e varietà il tema centrale del Lais e rappresenta una sorta di bilancio della vita di Villon. Comprende anche una ventina di ballate, tra le quali, le più conosciute sono La ballade des dames du temps jadis e la Ballade des seigneurs du temps jadis, dove Villon si chiede cosa siano diventati i personaggi celebri del passato: sono tutti tristemente scomparsi, come le nevi d' un tempo.
Molto conosciuta è inoltre célèbre la Ballade pour prier Notre Dame, dove il poeta fa parlare sua madre, descrivendone la sua meraviglia ingenua nel contemplare un affresco che vede in chiesa. Nel Testamento, tra le Poésies diverses, si trova la poesia più celebre di Villon, l'Épitaphe Villon ou Ballade des Pendus che fu capace più delle altre di attirare l' ispirazione di De André.
Con tutta probabilità scritta da Villon quando si trovava nella sua cella di condannato a morte, la poesia è una rappresentazione dell' esecuzione al patibolo corredata da una vastissima serie di simboli inquietanti.
Il poeta si proietta nella tremenda condizione dell' impiccato in balia dell' accanirsi e dello scherno dei passanti. Incalzato dall' imminenza del suo ultimo respiro il poeta, lancia la sua invocazione per chiedere perdono e misericordia per se e per chi viene giustiziato insieme a lui "Priez Dieu que tous nous veuille absoudre".
Il suo linguaggio sa diventare pudico, commovente, toccante, insistendo sul registro dettato dall' umiltà redentrice La poesia di Villon è un vero e proprio grido di un poeta angosciato; il linguaggio utilizzato è vivo, crudo, spesso brutale ed a volte dotato di una certa dolcezza e malinconia.

Nel descrivere la realtà non utilizza artifici o falsi colori ma lo fa in modo diretto e tragico. I suoi temi principali che influenzeranno i grandi poeti ed artisti (anche Leo Ferré metterà in musica La ballade des pendus) che lo seguirono sono la pietà, il rimpianto per il tempo passato, la fraternità umana ed ancora l' ossessione della morte. Vediamo quindi come appare sempre più chiaro il filo conduttore che lega i due autori, o piuttosto la corda spessa, come dirà lo stesso De André nell' ambito di una Prefazione ad una raccolta di poesie del poeta medievale dove il cantautore genovese palesa apertamente la sua ammirazione per Villon e la condivisione dei principali contenuti.

…C'è un filo o piuttosto una corda spessa, che lega l'antico maestro ai suoi allievi dalle più disparate inclinazioni: per primo tra i profani tu hai dato alla forca dignità poetica, hai fatto dell'appeso qualcosa di sacro, di eterno, simbolo inquietante di impermanenza e disagio. […].
Io ti scrivo da un'altra epoca illuminata di ragione e di tecnica. […] La stessa guerra, rinnovatasi di cento in cento anni, non è ancora finita e gli uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo di quei cento onnipotenti, un solo Thibault d'Aussigny può decretare la fine dell'umanità in un tempo così breve quanto la pressione di un dito su un pulsante.

De André rivolgendosi al poeta "maledetto", lontanissimo nel tempo, ma che sente molto vicino a se per le tematiche trattate e per il crudo realismo con cui dipinge a tinte cupe ma lucide, l' ingiustizia dell'esistenza e l'inesorabile trascolorare del tempo sottolinea come l' enorme distanza temporale non abbia di fatto mutato lo stato delle cose; il cantautore evidenzia il ripetersi della storia e come il progresso, per molti versi, anziché approdare ad un' evoluzione abbia sancito un' involuzione ed un sostanziale regresso della condizione dell' umanità.
Se un tempo i potenti che decretavano e stabilivano il destino degli uomini si servivano della forca adesso la prepotenza e l' ingiustizia si avvalgono di nuovi strumenti per decretare la fine dell'esistenza dei propri simili.
La canzone di De André in cui più evidente appare l' influenza di Villon è, come già detto, La Ballata degli impiccati (titolo che richiama chiaramente la ballade des pendus), inclusa nell' album Tutti morimmo a stento del 1968. "La ballata occupa una posizione centrale nell'album di cui fa parte dal punto di vista contenutistico: il primo verso di questa canzone, infatti, dà il titolo al disco.
L'inizio è la cruda descrizione dei momenti finali degli impiccati, che muoiono con in gola l'ultima bestemmia, ma il messaggio che vogliono lasciare va al di là della loro condizione: è l'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male; nessuno è colpevole, nessuno è innocente, nessuno ha il diritto di giudicare un proprio simile.
Nella canzone, gli impiccati augurano a chi li ha derisi di morire nel loro stesso modo; a chi li ha dimenticati, di morire ad un passo dalla meta; infine ad una donna che si è vergognata del loro ricordo, l'augurio è di perdere al più presto la bellezza e di essere sfigurata, senza appello, dal tempo. Il finale è una minaccia per chi vive ancora: la nostra morte non è la fine, ma soltanto una sospensione che proprio voi riprenderete." Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva"

In tutti morimmo a stento, il senso del tragico che ha sempre caratterizzato le opere di De André, raggiunge il suo punto più alto.
Si tratta di un vero e proprio viaggio ossessionante in un girone dantesco della desolazione umana e di morte.
E proprio la morte, intesa come negazione della vita, della dignità e della felicità, rappresenta la fondamentale ed inquietante chiave di lettura dell'intera opera che allinea tutto il triste campionario di un'umanità derelitta: tossicomani, impiccati, bimbi impazziti, adolescenti traviate.
Su tutti alleggia, nel dolente racconto dell'autore, la consapevolezza dei proprio peccato e dell'impossibilità a riscattarsene, l'avidità di luce e di quiete cui fa riscontro la condanna all'ombra e al tormento.
L'atmosfera dominante è tetra, funerea, densa di presagi di morte. I brani si susseguono senza pause, scanditi dagli Intermezzi, in un crescendo che culmina nel Recitativo e si scioglie nel coro finale.
La canzone di DeAndré ripercorre il doppio binario tematico su cui è corsa la letteratura italiana: da un lato la linea estetico-intimista e, dall' altro, il versante etico-civile. […]
Tutti morimmo a stento è un album strutturato sull' alternanza dei due registri con quegli intermezzi evasivi di matrice rimbaudiana che affiancano l' allegorismo di un discorso che risente della lezione di François Villon, come di Franz Kafka (il potere, il processo e il castello…), di Dante ( loscenario infernale) come di Bertold Brecht (le interpellazioni finali), del Georges Brassens di Le Père Noel et la petite fille.
Ezio Alberione - Frammenti di un canzoniere - Accordi Eretici - 1997

La Ballata degli Impiccati, dotata dell'inconfondibile stile del cantautore genovese fatto di versi scarni, ruvidi e sarcastici, dipinge con tinte cupe e macabre, il rancore e la rabbia devastante di chi a causa delle proprie debolezze morali, o per il rifiuto o l'incapacità di rispettare le regole si trova ad essere condannato all' impiccagione.
Gli impiccati, anonimi, muoiono nel momento in cui cantano, e cantando nonriescono a perdonare, ma soltanto a lanciare invettive, contro il mondo intero..
Gli impiccati si rivolgono a tutta l' umanità invitando ad una riflessione sulla vita, proposta attraverso un martellamento ritmico tipico della marcia funebre, una sorta di "dansa macabra" finalizzata ad enfatizzare il senso di caducità della vita e l' ineluttabilità di una morte che viene rappresentata come uno scheletro orrendo.
Esaminando i testi, risulta abbastanza evidente come sia per de De André che per Villon, l'impiccato non sia un criminale da condannare, ma rappresenta piuttosto il simbolo della condizione umana, che vede l'uomo come un disperato in agonia.

Netta è la correlazione e i punti di contatto tra le due opere.
"Molti sono i fili che la legano alla Ballade des pendus di Villon, primo fra tutti il fatto che l'impiccato non è più il colpevole, giustamente o ingiustamente punito, ma diviene un'allegoria, come la carta dei Tarocchi, il simbolo della condizione umana, sempre sul bordo del male e della morte.
Comune, nei testi di Villon e De André, è la descrizione di particolari aspri, dei segni di un'agonia crudele, e l'invito a non sentirsi estranei alla sorte degli impiccati, perché, a ben guardare, c'è poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, e chi si crede incontaminato dal male, al punto da proseguire "tranquillo il cammino", commette anche lui un peccato contro l'uomo". Doriano Fasoli, Fabrizio De André.
Passaggi di tempo "Edizioni Associate, Roma 1999
Comune risulta anche la descrizione di particolari raccapriccianti e aspri che pongono ulteriormente l' accento sul martirio tremendo di cui sono oggetto i corpi degli impiccati.
A questo proposito bisogna dire che è il letterato francese a sviluppare maggiormente questo aspetto, con una dettagliata, cruda e macabra descrizione della disumana fine dei corpi degli impiccati:

"La pioggia ci ha lavati e risciacquati,
E il sole ormai ridotti neri e secchi;
Piche e corvi gli occhi ci hanno scavati,
E barba e ciglia strappate coi becchi.
Noi pace non abbiamo un sol momento:
Di qua, di Là, come si muta, il vento,
Senza posa a piacer suo ci fa volgere,
Più forati da uccelli che ditali.
A noi dunque non siate mai uguali;
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere! " (Villon)

Anche nel cantautore genovese ritroviamo tali dettagli cupi e macabri:

…l'urlo travolse il sole…
…l'aria divenne stretta…
…chi la terra ci sparse sull'ossa...
…un rancore che ha l'odore del sangue rappreso…(De André)

Nel confronto tra i due testi ciò che sembra distinguersi principalmente è il sentimento dominante da parte degli impiccati nei confronti degli "altri".
Se Villon conclude con un'invocazione a Gesù, per salvarsi l'anima, in De André gli impiccati serbano rancore ("che ha l'odore del sangue rappreso") e morendo bestemmiano.
Dalla poesia di De André esce uno spaccato, prima degli ultimi istanti di vita del condannato, poi le sue maledizioni lanciate contro chi sopravviverà, l' odio e il rancore di chi lascia la vita per mano altrui; appare chiaro il disprezzo del cantautore verso un giudizio risolutorio di un uomo (chi giudica) verso un proprio simile (il giudicato).
Di fronte alla morte si è tutti uguali, innocenti e colpevoli, un concetto che sarà ripreso più volte ne "Il testamento" quando De André canta: "quando si muore si muore soli" Nella ballata di De Andrè, i condannati a morte si trasfigurano ed appaiono animati da un disperato, smisurato rancore.
Una profonda rabbia ed un'amara avversione sono gli elementi caratterizzanti l'invettiva con cui gli impiccati, masticando l' ultima bestemmia, si rivolgono a chi li ha giudicati e condannati; gli impiccati, prima di abbandonare la vita, auspicano una simile fine tremenda a tutti coloro i quali li hanno derisi, condannati, dimenticati; alla donna che si è vergognata del loro ricordo, augurano di perdere la bellezza e di essere sfigurata.
Una maledizione lanciata contro il genere umano intero che vuole enfatizzare l' uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male e come nessuno abbia il diritto di giudicare un proprio simile.

"Chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull'ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch'egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino
La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria". (De André)

Mentre invece ogni singolo verso della poesia di Villon è una vibrante invocazione alla pietà umana. Il poeta s' immagina impiccato, insieme ad altri, giudicato per le sue colpe verso gli uomini e Dio, per aver trasgredito quelle che sono le leggi dettate dal sentire comune e dal pensiero unico.
Villon, poetà della carità, si rivolge a chi lo ha condannato chiamandolo "fratello", invitandolo a pregare per lui e gli altri impiccati, nella misericordia di Dio, il quale avrà misericordia anche di loro.
Condannati ad un destino crudele, gli impiccati si rivolgono alla pietà umana, ormai destinati ad una fine orrenda cercano almeno quel perdono che coinciderebbe alla salvezza dell' anima e così quegli stessi uomini che li hanno condannati alla forca vengono invocati come "fratelli" già nel celebre incipit della ballata cinquecentesca "Fratelli umani, che ancor vivi siete Non abbiate per noi gelido il cuore, Ché, se pietà di noi miseri avete Dio vi darà più largo il suo favore:

Appesi cinque, sei, qui ci vedete:
La nostra carne, già troppo ingrassata,
E' ormai da tempo divorata e guasta;
Noi ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!" (Villon)

Ed ancora palese appare tale invocazione della misericordia umana nella ripetizione reiterata per ben cinque volte del verso

"Ma Dio pregate che ci voglia assolvere" (Villon)

E così mentre De André insiste particolarmente sull' agonia e sulla malvagità della pena inflitta:

ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un'ora.
Poi scivolammo nel gelo
Di una morte senza abbandono
Recitando l'antico credo
Di chi muore senza perdono.
Chi derise la nostra sconfitta
E l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscerne il nodo (De André)

Villon cerca di scuotere la pietà e la carità umana:

Non abbiate per noi gelido il cuore,
Ché, se pietà di noi miseri avete Dio
vi darà più largo il suo favore
Poiché siam morti, per noi ottenete
Dal figlio della Vergine Celeste
Che inaridita la grazia non resti, (Villon)

Inoltre, entrambi insistono sullo scherno del pubblico, mentre Villon lo fa per tre volte, De André si limita ad una ma evidenzia ugualmente il suo rimprovero verso lo scherno di chi guarda qualcuno che va al patibolo e paga con la vita per il male fatto in un'ora:

Nessun rida del male che ci devasta
Morti siamo: nessuno ci molesti
Uomini, qui non v'ha scherno (Villon)

…chi derise la nostra sconfitta… (De André)

C'è dunque l'invito al pubblico, da parte degli impiccati, presi a simbolo della condizione umana, a condividere la loro stessa sorte, a non sentirsi tranquilli e quindi impossibilitati di intrapendere il cammino con la coscienza pulita, un invito a riflettere sull'ingiustizia della pena di morte e dell' assurdità del destino umano.
A parlare attraverso la voce degli impiccati sono, i condannati a morte per qualsiasi reato, di tutti i tempi, di tutte le razze, di tutte le religioni; per il male fatto in un'ora, la società umana decide di giustiziarli, utilizzando un potere che solo Dio dovrebbe avere, toglie loro la vita.Sintomatico è come De André inizi la sua canzone, con quel "Tutti morimmo a stento" che dà il titolo all'album, in quel "tutti", comprende tutto il genere umano, i colpevoli e soprattutto gli innocenti, gli onesti, coloro che sopravviveranno sfuggendo la tragedia con la derisione, l'insensibilità e la vergogna di dar memoria; verso di loro i condannati lanciano una tremenda maledizione.

De André: ..chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull'ossa
E riprese tranquillo il cammino
Giunga anch'egli stravolto alla fossa (De André)

Villon: Fratelli umani, che ancor vivi siete
Non abbiate per noi gelido il cuore,
Ché, se pietà di noi miseri avete
Dio vi darà più largo il suo favore.
Appesi cinque, sei, qui ci vedete
La nostra carne, già troppo ingrassata,
E' ormai da tempo divorata e guasta;
Noi ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere! (Villon)

Questo voler coinvolgere indistintamente tutto il genere umano al dolore ed all' atrocità di cui sono vittima i condannati che viene ben enfatizzata dal verso finale della canzone di De André "ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso" ) che vuole mettere in ulteriore evidenza come tutti viviamo in una condizione di "peccato" e dunque tutti, chi ha giudicato e chi è stato giudicato, chi ha condannato e chi è stato giustiziato, tutti sono coinvolti.
E' fondamentale far notare come, qualche anno dopo, in un contesto apparentemente diverso, sarà la Canzone del maggio, ispirata da un canto del maggio francese ad accomunare gli individui a un unico destino
"…per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti…"
(un verso che compare anche in Nella mia ora di Libertà - Storia di un impiegato del 1973); si tratta di una canzone di protesta, liberamente tratta da un canto degli studenti parigini del maggio '68, quando si registrarono scioperi operai e manifestazioni studentesche contro il sistema capitalistico, accusato di produrre sfruttamento e ingiustizie sociali e di manipolare le coscienze con le verità dei mass-media.
Nella canzone del maggio De André rievoca gli avvenimenti accaduti e, rivolgendosi a quelli che alla lotta non hanno partecipato, li accusa e ricorda loro che chiunque - anche chi, in quelle giornate, si è chiuso in casa per paura, menefreghismo o avversione - è ugualmente coinvolto negli avvenimenti. Il finale sostiene che la rivolta, lungi dall'essere esaurita, ci sarà ancora, ed ancora più forte, in futuro.
Se con l' album Morimmo a stento De André si avvicina in maniera diretta a Villon, bisogna constatare come già nella sua produzione iniziale, nel cosiddetto primo periodo, quello più nettamente "brassensiano", si possono notare riferimenti all'autore medievale, talvolta mediati dall' influenza osmotica del cantautore di Sète.

Brassens, infatti, sposa il ruolo che Villon si era creato nel Medioevo al punto tale che si può parlare di un incontro tra letteratura, musica e poesia che lascerà le sue indimenticabili ed indelebili tracce nell' immensa produzione di Brassens che seppe far proprio e rivisitare l' autore cinquecentesco. François Villon , poeta malfattore la cui figura resta avvolta nella leggenda, poeta della miseria e della carità che da voce agli impiccati, sul punto di abbandonare la loro esistenza, per implorare i passanti, i "fratelli umani", perché abbiano misericordia di loro.
Possiamo vedere in Villon una sorta di fratello e guida ispiratrice di Brassens; troviamo nelle loro opere le stesse tematiche, la stessa ironia mordente, lo stesso sarcasmo drammatico, gli stessi valori. Si pensi soltanto al fastidio di Brassens, per usare un eufemismo, nei confronti della polizia e di tutto ciò potesse rappresentare il potere costituito.
Villon sbeffeggia continuamente i ricchi e i potenti che opprimevano il popolo, di cui si fa portavoce nel denunciare le angherie e i soprusi cui i più umili sono sottoposti. Si pensi poi, al rapporto tra Brassens e le donne, descritte spesso come tentatrici, sadiche, spietate nei confronti dei sentimenti e della sensibilità dell' uomo, al punto che il cantautore francese venne addirittura tacciato di misoginia. Basta leggere l' opera di Villon per riscontrare la stessa atmosfera, i due poeti denunciano la stessa sofferenza causata dalle donne amate.
E tra la villoniana Ballade de la grosse Margot dove il poeta racconta la sua vita da protettore e amante al tempo stesso di una prostituta dalla quale viene umiliato e "Le mauvais sujet repenti" di Brassens sembra esserci un invisibile filo conduttore che ha resistito al passare dei secoli.
Quello di Brassens nei confronti di Villon è un vero e proprio culto tanto che arriverà a citarlo espressamente nel testo di una delle sue canzoni Le Moyenâgeux:

Dopo un abbondante pasto
Mi sarebbe piaciuto, senza alcuna vergogna,
correre dietro una sottana
seguendo i passi di François Villon

dove il cantautore dichiara espressamente la sua passione e la sua affinità nei confronti del poeta medievale e del Medioevo in generale.
Si ricordi poi che Brassens ha messo in musica una delle più belle e conosciute ballate di Villon "La Ballade des dames du temps jadis" una riflessione su come tutto scorre inesorabilmente, come la miseria e la gloria scorrono via velocemente allo stesso modo, una amara ma lucida riflessione sull' universalità della morte che porta Villon a chiedersi dove siano andati a finire le grandi donne di un tempo e la risposta che trova e che sono scomparse come le nevi di un tempo.

Dove sono? Non saranno certo in terre laide
Flora la bella romana, l'etera di Sofocle,
e Taide che fu di lei germana.
Eco che canta se c'è baccanale
vicino a stagni e a rivi,
ch'ebbe bellezza fuori dal normale
ma dove sono le nevi d' un tempo?
Dov'è il senno di Heloise?
Per lei Abelardo ottenne castrazione
E l'ordine di frate a St. Denis.
Per amor suo subì tale sanzione.
Così dov'è la nobildonna
che ordinò con cenni lievi
che Buridano fosse buttato nella Senna
ma dove sono le nevi d' un tempo?

Villon, proveniente da origini molto umili, dimostra come non fosse necessario essere potente o benestante per essere un artista geniale; ci ha dimostrato che il mondo dei diseredati, degli umili, del popolo merita di essere raccontato quanto quello dei ricchi e dei benpensanti; ci ha dimostrato che la bravura e la vera originalità di un artista consiste nel saper dipingere ed esaminare la società con uno sguardo ironico ed amaro, senza mai smettere di aver fiducia nell'uomo e nella sua capacità di progresso e sviluppo. E' soprattutto in questo che si ritrova Brassens; e non è un caso se questi due grandi poeti rappresentarono il principale punto di riferimento per l' ispirazione di Fabrizio De André.
Lunga è dunque la serie di riferimenti, diretti o indiretti, e punti in comune nei quali s' intreccia il sentire comune di De André con quello di Villon e vengono affrontate tematiche profondamente insite nel loro intimo come il trascolorare del tempo e della bellezza, la morte vista come unica forza capace di appianare le disuguaglianze e le ingiustizie che separano tragicamente la vita degli uomini, la solitudine, la drammatica condizione dei poveri e degli emarginati; entrambi capaci di trattare queste sia con crudezza sia con metafore poetiche, entrambi dotati di una forza e di un' invettiva mai fine a se stessa e lontanissimi dalla tentazione di assumere facili ed ipocrite posizioni unilaterali.
Un tema che troviamo accomunare entrambi è quello dell' inesorabile trascolorare del tempo, dell'ineluttabile avanzata della vecchiaia che comporta la perdita della bellezza; in "Valzer per un amore" del 1964 questa tematica domina l' intera canzone, il tema dell'amore che va colto "finché è primavera", perché il tempo cambia continuamente e trascorre veloce e si concretizza nell' invito che l' uomo fa alla donna perché non aspetti.

Vola il tempo lo sai che vola e va
forse non ce ne accorgiamo
ma più ancora del tempo che non ha età
siamo noi che ce ne andiamo
e per questo ti dico amore amor
io t'attenderò ogni sera
ma tu vieni non aspettare ancor
vieni adesso finché è primavera (De André)

Versi che richiamano inequivocabilmente la Ballata dell' amica di Villon contenuta nel Testamento dove i contenuti sono veramente simili.
Per entrambi c'è l'invito a godere, finché è possibile, dei frutti che la vita offre, senza rimandare fino a quando non sarà più possibile coglierli.
Bere finché c'è acqua, cogliere il fiore finché è primavera.

Tempo verrà che ben farà appassire,
Seccare, sfiorire il tuo fiore superbo (Villon).
Io sarò vecchio, tu brutta, scolorita,

Bevi a piena gola fino a che c'è acqua;
Non dare a tutti lo stesso dolore:
Senza infierire soccorrere chi soffre (Villon).

Liana Nissim, in un suo saggio contenuto nel libro Accordi eretici, ha riconosciuto nel Valzer per un amore di De André l' influsso di Ronsard:
" Non bastano a De André le parole che egli stesso sa inventare per cantare l'amore incerto, per cantare la donna amante: egli unisce talvolta le sue parole a quelle dei poeti e canta con loro l'amore che fugge, il tempo che fugge.
Come non riconoscere nel Valzer per un amore il celebre sonetto "Quand vous serez bien vieille" contenuto nel libro dei Sonets pour Helene. Canta De André:

Quando carica d'anni e di castità tra i ricordi e le illusioni
del bel tempo che non ritornerà troverai le mie canzoni
nel sentirle ti meraviglierai che qualcuno abbia lodato
le bellezze che allor più non avrai e che avesti nel tempo passato. (De André)

E canta Ronsard:

Quando sarete vecchia, seduta accanto al fuoco
a parlare e filare al lume di candela,
direte, cantando i miei versi e meravigliandovi,
Ronsard mi lodava nel tempo in cui ero bella. (Ronsard)

Il sentimento della vita, apprezzata nei suoi valori precari della giovinezza, della bellezza e dell'amore, induce De André e induce Ronsard all'invito a godere dell'effimera primavera, delle effimere rose:

ma tu vieni, non aspettare ancor, vieni adesso finché è primavera (De André)

Vivete, se volete darmi ascolto, non aspettate domani:
cogliete fin da adesso le rose della vita. (Villon)

Liana Nissim - Fabrizio De André - Accordi eretici - 1997

Un tema quello dell' inesorabile trascorrere del tempo che è abbondantemente presente nell' ambito della produzione villoniana, lo ritroviamo nella "Ballata delle donne d' un tempo" (Ballade des dames du temps jadis) ne "I rimpianti della bella fabbricante di elmi" (Les regrets de la belle heaulmière) dove il rimpianto lirico del tempo perduto sembra procedere sotto braccio con il personaggio femminile protagonista di Valzer per un amore di De André. Anche nel poema di Villon, infatti, la fabbricante di elmi vede sfiorire miseramente la sua bellezza, si ritrova vecchia ed abbruttita dal tempo e ripensa sospirando al fascino che possedeva un tempo e che non tornerà più.
Così dopo aver lanciato la sua aspra invettiva contro la vecchiaia vigliacca che così presto le ha tolto la bellezza, rievoca con grande nostalgia ed un amaro rimpianto tutti quegli amori di cui non fu capace di godere sufficientemente.
Anche qui, appare abbastanza palese quello che è l' alquanto cinico "carpe diem" gridato dalla poesia di Villon a profittare della bellezza e della giovinezza prima che la vecchiaia e la morte sopravvengano inesorabili.

Altro tema ricorrente nella produzione di Villon è quello della morte, bisogna considerare che il poeta medievale passò buona parte della sua vita con la consapevolezza di dover essere impiccato per le colpe per cui veniva imprigionato frequentemente.
Il poeta dunque sentiva molto il peso e l' incombere della morte sulla sua esistenza ma al tempo stesso nell' inesorabile falce della morte vedeva una forza positiva in quanto unica forza capace di eliminare ed annientare totalmente quelle differenze tra gli uomini e quelle ingiustizie che tanto rendono diseguale l' esistenza degli esseri umani; l' unica forza in grado di mettere tutti su uno stesso piano, di mettere l' uomo di fronte alla sua essenza e alla sua solitudine.

Il tema della morte percorre l' intera produzione del poeta medievale e non a caso la sua opera principale è Il Testamento, in cui Villon, vicino ormai all' ultimo istante di vita, elenca in modo sferzante ed ironico i lasciti ai suoi che cari probabilmente resteranno delusi.
Troviamo una versione del Testamento anche in Brassens dove però non si può parlare di una traduzione dell' opera di Villon ma di una ripresa semantica da parte del cantautore francese che sviluppa la stessa tematica della solitudine cui deve far fronte l' uomo quando la morte lo viene a chiamare.

A proposito del Testamento di Villon possiamo notare come echi di quest'opera siano presenti anche in un'altra canzone di De André, Il Testamento, in cui il richiamo al poeta francese è evidente anche nella scelta del titolo.
E' naturale, che il Testamento villoniano avesse un influenza diretta sul cantautore genovese anche perché il tema della morte è un tema caro a De Andrè, presente nell' ambito di tutta la sua produzione ed affrontata sotto un ottica pressoché identica a quella di Villon.

"Insistito e modulato secondo un vasto spettro di registri era il tema della morte: vero e proprio tabù per la mentalità della piccola borghesia arricchita (lo storico Philippe Ariès ha parlato di pornografia della morte ) nelle società occidentali avanzate. Suicidi, impiccati, annegati, ammazzati, spesso innamorati affollano le canzoni di Fabrizio De André [...].Scandaloso oltre al tema era il modo di parlarne: una morte senza elaborazione del dolore, senza conforti religiosi e senza lutto, senza vertigini esistenzialistiche o decadentismi poetici (ma con qualche sotterraneo rimando a Cesare Pavese e forse anche a Umberto Saba e a Federico Garcìa Lorca), una morte ostentata e virile e anche talvolta rancorosa, scarna e contenta, luminosa, non notturna, quasi si direbbe ottimista, ridente e irridente [...].
La morte era pure, qualche volta, la morte in guerra, forse la più assurda umanamente, benché storicamente indistruttibile. Le canzoni di Fabrizio De André ponevano una questione allora molto sentita, specialmente a livello giovanile ma anche tra intellettuali come Bertrand Russelle o Jean Paul Sartre: pacifismo e critica del bellicismo, incitamento all'obiezione di coscienza e ironia amara sulla retorica dell'eroismo militare".
Fulvio De Giorni,. in Fabrizio De André. Accordi eretici

Nel testamento, il moribondo lascia a ognuno qualcosa, che si tratti di beni materiali o meno questo poco importa, è il senso del lascito che conta per svelare gli affetti, i rancori e, in sostanza, la natura dei sentimenti che legano il morto a coloro che restano.
Questa canzone si inserisce in quel filone della letteratura che nel Quattrocento francese ha dato molti capolavori e al quale lo stesso Villon aveva attinto. Non vi è però, né in De André né in Villon, il riferimento, tipico di quella tradizione, a quella danza macabra della morte che prende per mano tutti, a qualunque categoria sociale appartengano, per farli ballare insieme. Ma qui non c'è una sola condizione umana che valga qualcosa di fronte alla morte, non c'è il conforto di essere morto come tutti gli altri, c'è al contrario lo sconforto di essere morti e di essere morti da soli. Nessuno in punto di morte può alleviare la sofferenza dell'addio. Non c'è sdegno contro tutto ciò, ma solo un sentimento di impotenza che viene dalla constatazione di quest'ultima solitudine.

Chiunque muore, muore con dolore[…]
Né c'è chi dei suoi mali lo sollevi… (Villon).

…Cari fratelli dell'altra sponda
Cantammo in coro giù sulla terra
Amammo in cento l'identica donna
Partimmo in mille per la stessa guerra.
Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore, si muore soli.
Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore si muore soli…(De André).

Anche qui i versi sono completamente diversi, c'è una forte manipolazione da parte di De André che prende da Villon solo i contenuti, li usa per chiudere la canzone, mentre in Villon questi versi precedono i lasciti assolvendo ad un funzione introduttiva.
È presente poi in Villon una breve disquisizione sulla natura delle donne che offre a De André lo spunto per un lascito:

…Così, secondo questa usanza, si presero
L'amante, è tutto chiaro:
Amavano tenendolo nascosto,
Visto che nessun altro ci passava.
E tuttavia questo amore poi si spezza,
perché quella che ne aveva uno solo
Da lui si stacca e va per la sua strada
E preferisce amarli tutti quanti […]
I folli amanti ne pagano lo scotto
E le signore li battono sul tempo.
È la giusta ricompensa che tocca agli amanti,
ogni patto vi è sempre violato.
Per qualche dolce bacio o qualche abbraccio,
con cani e uccelli, armi e amori,
È pura verità ben nota a tutti -
Per una gioia cento dolori… (Villon).

…Voglio lasciare a Biancamaria
Che se ne frega della decenza
Un attestato di benemerenza
Che al matrimonio le spiani la via
Con tanti auguri per chi c'è caduto
Di conservarsi felice e cornuto… (De André).

Questo è il primo riferimento al Testamento di Villon che troviamo nell’omonima canzone di De André. Da Villon prende il succo dei versi: le donne seguono la regola di amare un uomo alla volta, ma prima o poi questo amore finisce, allora da «uno solo» si passa ad amare «tutti quanti».
Ciò significa per Villon che alle donne un solo uomo non basta. E ciò non è una colpa, poiché dipende proprio dalla loro natura, è una condizione propria dell'essere donna.
Perciò all'uomo che di una donna si innamora non resta, per una sola gioia, che sopportare cento dolori.
De André nel suo testamento, in modo ironico, fa di questa natura un attestato di benemerenza per la disinvolta Biancamaria che essendo donna e fregandosene della decenza inventata dall'uomo, dà libero sfogo ai suoi sensi.
Scorrendo tra i lasciti di Villon, arriviamo a quello per la moglie:

… al mio amore, alla mia cara rosa,
Non lascio il cuore e neanche i fegato;
Le piacerebbe di più qualche altra cosa,
Benché abbia abbastanza denaro…
E cosa? Una gran borsa di seta,
piena di scudi, ben profonda e larga,
Ma che sia subito impiccato, me compreso,
Chi le lasciasse né scudo né targa… (Villon).

… Per quella candida vecchia contessa
che non si muove più dal mio letto
per estirparmi l'insana promessa
di riservarle i miei numeri al lotto
non vedo l'ora di andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati… (De André).

In questo lascito c'è un luogo comune, quello della satira contro le donne avide di soldi, verso le quali si scaglia però l'ironica vendetta di De André. Infatti se Villon lascia maledizioni a chi voglia assecondarle, De André le prende in giro rivelando l'intenzione, di rivelare da morto, in sogno, i numeri del lotto, ma naturalmente quelli sbagliati.

http://www.nakataimpastato.com/inner/fda/fda/inside/french/pages/villon.htm

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