mercoledì 28 settembre 2016

Anna Maria Ortese, Le piccole persone. Davanti al dolore fisico, tutti gli animali sono uguali. Anche l'uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali, e, oppresso o torturato, non può suscitare che un desiderio e un imperativo immediato: il soccorso. Ma, stabilito questo, resta la domanda: perché mai... il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma, se deve procurare qualche nuovo beneficio all'uomo, è una fatalità benedetta? Perché questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente? Soffrono atrocemente e infinitamente?

Davanti al dolore fisico, tutti gli animali sono uguali
Anche l'uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali, e, oppresso o torturato, non può suscitare che un desiderio e un imperativo immediato: il soccorso.
Ma, stabilito questo, resta la domanda: 
perché mai... il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma, se deve procurare qualche nuovo beneficio all'uomo, è una fatalità benedetta?
Perché questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente? Soffrono atrocemente e infinitamente?
Anna Maria Ortese, Le piccole persone


(…) questa Natura, con i suoi rituali eterni e la sua segreta tristezza, ci parla invariabilmente di un passato, di una partenza, di un Altrove raggiante, di pace, e del giorno in cui ne fummo allontanati. E senza questa memoria di una ferita ormai indimostrabile, di questo lutto in sogno, esodo e frontiera perduta, forse non si può “scrivere”. Perché scrivere, quando non si giochi, è proprio questo: cercare ciò che manca, dappertutto – bussare a tutte le porte – raccogliere tutte le voci di un evento che ci ha lasciati, e quando non le voci, i silenzi – scritti in ogni corteccia d’albero, in ogni dura pietra, quando non pure nelle risuonanti, sempre uguali narrazioni del mare.
Anna Maria Ortese, Le piccole persone




IL MALE FREDDO DI ANNA MARIA ORTESE.
Io sono una persona antipatica. Sono aliena, sono impresentabile. Sono esigente col mondo, non vorrei che le cose fossero come sono, ma conoscendo del mondo solo delle parti infime e dando giudizi che invece riguardano tutto, finisco per sembrare e per essere ingiusta, e così preferisco non parlare. Per questo quando mi si chiedono notizie su di me mi viene rabbia. I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può trovarsi. Solo persone così possono amarmi. Il mondo? Il mondo è una forza ignota, tremenda, brutale. Le creature belle che pure ci sono, noi le conosciamo poco, troppo poco.

Non seguo la letteratura contemporanea, so poco chi sono gli scrittori che valgono. Non conosco gli altri, degli altri paesi, e questo è sbagliato. E anche questo va messo sul conto dell’antipatia… i poeti? Caproni. E naturalmente Montale: le sue poesie mi vengono incontro, c’è il Nord, c’è il freddo, certo, ma con una radice dolcissima. Mi piaceva molto Gozzano.
Stevenson ha avuto un’influenza su di me? Sì, perché guardava tutto con gli occhi di un bambino, c’era il gioco della vita, i briganti, l’avventura… Il “cattivo” dell’Isola del tesoro, il Capitano zoppo, non è, come ha detto qualcuno, il male odioso, puro, totale. Dove c’è divertimento, non può esserci il male assoluto, c’è il lato ingenuo del male, il lato infantile. Il male vero è l’industria, è il denaro. Il male è il freddo che essi provocano; se oggi ci fosse più calore, non ci sarebbe tutto questo male. Prima gli uomini avevano a disposizione elementi favolosi di realtà, oggi hanno voluto perderli: non c’è più la campagna, non ci sono gli animali… resta solo il denaro, che chiede e impone un’altra natura, una natura artificiale. Una volta delle persone in cenci potevano sembrare vestite di tutto lo splendore della terra. Ho visto di recente il Pinocchio di Comencini: quanto freddo vero c’era in quegli anni, ma anche quanta libertà: un pezzo di legno, cioè niente, e si apriva il mondo della libertàoggi tantissima gente al confronto sta benissimo, ma è come se avesse perduto ogni energia profonda, e come se avesse perduto la bellezza. Io ho avuto il vantaggio di una famiglia che mi lasciava libera di camminare e di leggere: sono state queste due possibilità a formarmi. Un tempo i giovani pensavano, avevano idee, non finiva tutto in attività organiche come è ora, non c’era un tempo libero da sciupare malamente come lo sciupano oggi. Una persona importante ha detto a proposito dei morti del sabato sera, dopo le discoteche, che bisognerebbe mettere nei pronti soccorsi del personale medico specializzato nel recupero immediato degli organi dei ragazzi morti negli incidenti di auto. Addirittura. Io sono stanca di vedere ricchi, gente che spende troppo per vestire, che vive nell’imitazione di gente ancor più ricca. L’oro, il denaro, hanno tutto questo spazio perché c’è la televisione, non potevano averlo senza le televisioni. Il desiderio è diventato il veleno. Nessuno consiglia il distacco, nessuno consiglia a nessuno: “ferma il desiderio”. Occorre fermare il desiderio. Invidio la libertà che c’era prima dell’industria.

Se uno è soffocato da un peso, questi va aiutato a rimuoverlo. Siamo una famiglia, dobbiamo assumerci le responsabilità di una famiglia. Chi soffre deve essere aiutato subito. Dove questo non avviene, non posso considerarlo il mio mondo. Ognuno è responsabile della caduta degli altri, e deve pagare per loro. Siamo coinvolti non per una nostra colpa, ma come membri di una famiglia. Anche se ne fossimo i membri privi di colpa, abbiamo delle responsabilità. Jimmy Op, in Alonso e i visionari, vuole riparare. Il concetto centrale del libro è questo. Io non credo nella condanna, per esempio non credo nell’inferno. Non vado in chiesa dall’età di 14-15 anni per l’orrore che mi fa l’idea dell’inferno, della pena eterna… dove c’è il dolore bisogna toglierlo, e subito. C’è un ragazzo in America che aspetta da dieci anni il boia che gli dia la morte, che è condannato a morte, che vive nell’attesa. Sarebbe persino meglio se lo ammazzassero, è orribile questa condanna all’attesa. Ma sarebbe meglio se lo liberassero. Chi è caduto va aiutato. Sia esso un verme, un dittatore, una creatura qualsiasi… Bisogna aiutare il prossimo sempre. Ci sono tanti ragazzi colpiti da Aids, che cosa si fa per loro? Chi cade è invece il più disprezzato. Ancora e sempre: guai ai vinti!
Si tolgano i soldi alle spese dei ricchi, alle spese ricchissime. Quando c’è chi soffre, queste spese sono immorali. Il divertimento è immorale, quando gli altri soffrono. Bisogna stangare tutto ciò che è follia consumista, divertimento. Il divertimento è tempo rubato a chi ha bisogno di aiuto. Invece su queste cose nessuno si arrabbia più, si lascia correre. Non bisogna perdonare tutto. È per questo che io risulto antipatica e che mi sento antipatica, che non posso essere simpatica.

Solo chi ce l’ha, sa davvero cos’è il dolore. Sì, è vero, un qualche dolore, una qualche infelicità l’hanno tutti. E allora? Allora si tratta di aiutare tutti, di non dire mai di no a uno che ha bisogno di aiuto, di essere intimamente pronti ad aiutare, sempre. C’è anche il dolore della natura di cui tenere conto, che è immenso; pensiamo soltanto agli allevamenti di animali, a tutte quelle creature tenute rinchiuse per poterle uccidere, pensiamo al dolore degli animali. Sarebbe meglio rinunciare a tutto, piuttosto che condividere queste colpe, o tollerarle. Per salvare il mondo c’è bisogno della nostra responsabilità, per salvare noi stessi dobbiamo responsabilizzarci verso il mondo. La creazione è tarata, ma si può correggerla. Però non bisogna perdere tempo, il tempo che ci resta è poco, la natura sta morendo. E il tempo che ho io è limitatissimo: se non parlo di queste cose, di cosa parlo?
Parlando di libri, di romanzi, di letteratura, bisognerebbe anche parlare di stile. Nell’opera è fondamentale lo stile, ma a volte, quando la società intorno a noi non sente, non conta: lo stile, in questo tipo di società, non conta più nulla.
Non ho più le piccole cose che possono dare consolazione; o meglio: non mi consolo più con le piccole cose. Non è retorica, davvero mi detesto, davvero mi viene sconforto a considerare cosa scrivo e faccio, cosa ho scritto e ho fatto. Le interviste le vedo come delle provocazioni. Io non voglio piacere per un’immagine, io non voglio “immagine”. Non posso più avere rapporti con la realtà, la realtà mi stanca, la realtà è un muro di volti. Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualche cosa, di poter dire: io esisto.
I libri, la scrittura, l’invenzione… sono ricordi e malattie dell’intimo. I libri sono ferite dell’anima. L’ostrica costruisce perle vere, io forse no, le mie sono forse perle false. Però questo so fare. La perla è la malattia dell’ostrica. Scrivere è una malattia; mi costano molto queste cose luccicanti che cerco di costruire.

Nei miei libri ci sono proposte che appaiono ineluttabili, proposte che il mondo rifiuta. Ci vorrebbe rinnovamento, nel mondo, non rivoluzione, che alla fine non cambia niente. L’importante è il rinnovamento.

Questo articolo è stato pubblicato il 30 maggio 2011 alle14:35 e archiviato in carte, incisioni, indiani. Segui le risposte a questo articolo con il feed RSS 2.0.

a cura di Andrea Breda Minello
https://www.nazioneindiana.com/2011/05/30/il-male-freddo-di-anna-maria-ortese/


Nota del Curatore
Due anni prima di morire, Anna Maria Ortese rilasciò a Goffredo Fofi per Linea d’ombra (1996) le dichiarazioni sopra riportate.
La scrittrice può e deve essere annoverata fra la schiera di quei nostri profeti laici troppo spesso vilipesi, mal interpretati o piegati a logiche che con la verità non hanno nulla a che fare. Profetessa laica, come lo sono stati Morante e Pasolini, in una costellazione di sostenitori dello scandalo, come punto di partenza per resistere agli abomini della società post-post-moderna. Questi lacerti, così come gli scritti di Corpo Celeste o il morantiano Pro o contro la bomba atomica e gli Scritti Corsari di PPP, sono il passepartout di una resistenza civile, prettamente umana, di una denuncia quotidiana del “vizio di forma”, corto circuito che palesa unicamente il ripiegamento, un’implosione del mondo.
Eppure Ortese, che talvolta sembra Cassandra, talvolta Sibilla, interiorizza e ripropone la lezione leopardiana della Ginestra con un dettato inusitato, che non ha pari o quasi nel nostro Novecento.
Andrea Breda Minello





AD ANNA MARIA ORTESE

io iguana
in fuga dal mondo
nata da libri incantesimo
in cerca di fiaba apparizione visione…

in cerca d’un luogo
che mi rivoltasse il cuore come un calzino
inchiodata all’abbraccio di tutte le anime
affrancata da ogni sconfitta…

in cerca d’un luogo
in mezzo al deserto
alla finestra d’una misera casa gialla
affacciata sul porto…

lontano
dalle virtù del nulla
che affogano il mondo

in cerca di salvezza

io

in una lacrima
ho visto i colori d’ogni diversità
d’una sola nuda fierezza

nell’indigenza del bene
che parla con parola sommessa….

in compagnia
di zingari e bimbi
in quel luogo trovato
ho amato il mio aleardo
in un luogo in mezzo al deserto
iguana che guarda più in alto…

affiliata al partito
dei cercatori di dio
d’un dio altro dalla pena del mondo
respirando a pieni polmoni
perché sacro
è il respiro
del bosco
del lupo
del cane…

io

in fuga
da trentasei case e dieci città
ho trovato infine quel luogo
in una sola stanza tana in cui

patire scrivere amare…

S. D. A . , 15 . 12 . 2008









Gli scritti di Anna Maria Ortese, il mondo discende dalle stelle.
Nella raccolta di scritti di Anna Maria Ortese Le Piccole Persone (Adelphi) emerge l’universo apocalittico della scrittrice: gli animali e il loro dolore, l’uomo e la natura
di PIETRO CITATI

Sotto il titolo Le piccole persone (In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi), la casa editrice Adelphi pubblica numerosi bellissimi scritti di Anna Maria Ortese, in gran parte inediti. In apparenza sono testi sparsi: frammenti. In realtà, come accade sempre in un grande scrittore, appartengono tutti a un sistema. La Ortese ha una mente lucida, ardimentosa, estrema, abitata da una passione filosofica, che la induce a interrogare i misteri di questo e dell’altro mondo, del qui e del perennemente oltre.

«Le piccole persone» (Adelphi, pp. 272, euro 14)
Il primo dei suoi pensieri è il desiderio-dolore metafisico, la leva di ogni mente umana. «Ogni tanto — scrive nel Cardillo addolorato — , di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo. Dove sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta, la notte, e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? Chi — io — fra miriadi di abitanti la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa sia questa galassia fra le altre galassie? Ma il luogo soprattutto vorrei sapere, e so che non saprò mai: dove tutto ciò è presente, e il suo vero nome, e, se non ha nome, il perché di questo silenzio sul nome». Con il desiderio-dolore metafisico in cuore, la Ortese batte alle porte dell’Essere; e domanda quale sia l’essenza del mondo e della natura e che cosa presieda ai fatti, e quale ne sia l’ordine, il senso, il principio. Scruta la verità con tutto il corpo — con il corpo delle piante, degli alberi, delle pietre, degli animali, degli uccelli — e sopratutto con il corpo delle stelle, dalle quali è discesa.

Il dolore è, in primo luogo, quello degli animali, supremo tra i suoi pensieri. Ascolta questo dolore specialmente il mattino, quando gli uccelli gridano invocando la madre o i figli, che sono stati loro strappati. Anche se Dio apparisse benedicendo dall’alto dei cieli, se il male fosse vinto, se tutte le creature vivessero giuste e felici, se Utopia fosse qui, basterebbe la sofferenza di una lumaca che un bambino ha schiacciato camminando, perché appaia chiara l’ingiustizia e la malvagità dell’universo. La Ortese difende gli animali. Essi sono «anime viventi»: tale è il loro nome nei libri sacri: sono anime viventi come l’uomo: come lui, sono creature di Dio, anzi sono Dio; ma oggi occupano il grado più basso della vita vivente, soggetti alla infame programmazione dell’uomo. L’uomo si appoggia a un passo della Genesi, per affermare il suo dominio sull’universo e gli animali, che considera sua proprietà. Ma quel passo è falso o è stato male interpretato: l’uomo non è mai stato eletto signore degli animali. Dio è presente in tutte le forme dell’universo: in tutti gli immani cortei di stelle, nei pianeti, nel nostro pianeta, nelle montagne, nei mari, nella terra fiorita, nell’uomo, e in tutta la incomparabile energia che organizza le proprie forme, le completa, e poi le disperde in un solo soffio.

La Ortese esalta le origini: un Padre, un Paese beato e felice, che sta prima delle origini; sia la natura sia l’uomo sono mossi di lì, e poi sono naufragati. Allora è avvenuta la separazione: la separazione dell’uomo dalla natura, la separazione della natura da un altro incomprensibile; il naufragio, di cui parlarono Leopardi e Pascoli. Questa separazione ha causato il lutto della natura: essa risuona nelle voci degli uccelli, sopratutto di quelli più lieti; «una nota accorata, un’alta e trepida malinconia». Come Leopardi e Pascoli, la Ortese ama gli uccelli: questa famiglia di origine angelica che, nel fitto delle foreste, canta per l’uomo, ricordandogli che Dio non l’ha dimenticato: questi esseri gonfi di cielo, la cui patria è il cielo squillante di colori, splendido e inebriante come uno stendardo azzurro; questi capini macchiati di rosso, con le penne piccole, lisce e diritte, che sembrano uscire da un liquido fuoco o da un largo d’oro e turchino. Per uno scrittore, la cosa essenziale è ascoltare il canto degli uccelli, e ripeterlo. Ma dove sono? «Mi ricordo improvvisamente degli uccelli — dice la Ortese — che un tempo popolavano la mia casa e, non vedendoli più, mi domando con stupore: “Dove sono, dove sono volati?”. Non posso credere che siano morti».

La Ortese non ha fede nella pura letteratura: o soltanto in quella che muove dalla meraviglia, dall’ammirazione e dalla compassione; verso tutte le forme, quelle che sono fuori dal mondo e non vediamo, e quelle che appaiono e scompaiono sul nostro pianeta. La compassione è la qualità propria dell’uomo: senza compassione l’uomo è nulla; niente ha valore in tutta la vita dell’uomo sulla terra, nemmeno l’arte e la religione, se non viene accompagnato dal desiderio di soccorrere un altro, vivo e dolente. La compassione sceglie ciò che è piccolo e segreto. Piccolo è il sentimento di un bambino per il suo cane, o di una donna per il suo ultimo bambino. Il piccolo è anche segreto, perché, essendo piccolo, non è consapevole di esistere. Così le farfalle, specie quelle moribonde. «In un angolo, combattendo ancora, ma molto debolmente, contro la morte — racconta la Ortese —, c’era una di quelle farfalle color seta cruda, piccolissime, quanto un chicco di riso, che spesso, la sera, entrano dalle finestre aperte nelle nostre case. Io ero al corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature allorché vengono catturate e, strette in un pugno, sentono ridere, e con i loro poveri occhietti osservano gli strumenti che serviranno a torturarli. Io sapevo che non possono parlare e neppure esprimersi in altro modo, ma con tutte le loro innocenti forze si ribellano e chiedono la grazia della vita». In ogni momento milioni di vite gaie e dolci chiedono di essere risparmiate, e la risposta è quasi sempre un rifiuto.

Il mondo della Ortese discende dalle stelle e ritorna verso le stelle. Esso è apocalittico. Ora invoca la distruzione dell’uomo, questa creatura senza legge, travolta dai suoi delitti. Ora invoca una Nuova Terra, una terra riscattata dai vecchi e turpi dèi della tortura e del massacro, dove potrà vivere anche l’uomo, trasformato e risorto. «Ecco cosa chiede il vero vivente — a gran voce, nella notte, chiamando lo spirito, uno e solo, di tutta la vita». Persino l’Italia, questa terra corrotta, riapparirà un giorno, calma e gentile sotto un cielo celeste. Ci saranno giardini, boschi, belle città. Una popolazione rara e mite vivrà in questi luoghi benedetti. «Avremo allora — finalmente — la malinconia». Essa sarà presente nelle voci degli uccelli, questa nota suprema e velata, che chiede, interroga, sa tutto sul passare delle cose; e nel dolore dell’uomo, vero colore della sua grazia.



21 aprile 2016 (modifica il 22 aprile 2016 | 17:24)
http://www.corriere.it/cultura/16_aprile_21/anna-maria-ortese-le-piccole-persone-adelphi-libro-a81ea904-07d3-11e6-baf8-98a4d70964e5.shtml


Un giorno l’agnello parlerà.
Siamo un paese senza fronte. O con due dita di fronte. Non posso commentare in altro modo la tranquillità con cui è stata accettata una recente decisione del ministero della sanità. D’ora in poi, vitelli e agnelli italiani, destinati ai mercati del Medio Oriente, verranno uccisi, in Italia, con un rito antico, che garantisce a quelle popolazioni di non essere contaminate (e vedere compromessa la salvezza finale dell’anima) dal sangue animale. Se vogliamo vendere a quei mercati (e l’Italia vuol vendere) bisogna non vendere anche il sangue. Il sangue animale sia versato, ma non contamini la purezza delle anime antiche. Si sa bene che il dolore dato non contamina: dunque, si preferisca il dolore, e si eviti la contaminazione del sangue. Per arrivare a questo risultato, che non resti nel corpo animale traccia di sangue, il rito è antico, quindi efferato: ma il denaro è denaro, la Salvezza è la Salvezza: prevalga il buon accordo.

D’ora in poi in alcuni reparti dei nostri macelli potrebbe entrare – a rifornitura dei mercati del cinema di cultura sadica – anche la macchina da presa. Ne conseguirebbero altri affari, ed altra calata della fronte nazionale. Sembra che questa perdita della fronte sia un bene: sempre meno riconosceremo per buono il disprezzo della civiltà europea.

Certo, dovunque l’uomo è antico, e quindi infame: i riti, o l’indifferenza, sono la sua salute, in questo mondo e nell’altro. Ma una Europa nuova c’è, un mondo moderno esiste, che vede l’infamia, e preferisce salvare la sua fronte a costo della sua salvezza finale. Ricordo a questo proposito una donna: sette-otto anni fa parlò alla televisione, una buona mezz’ora, parlò di quanto aveva fatto (o cercato di fare) a favore degli animali a Parigi. Come visitò i macelli, e si oppose. Cosa fece – e forse ottenne – a favore delle piccole foche canadesi. Era stata, ed era ancora, una donna famosa per beltà e paganesimo. Era adesso un ministro della natura, la mente più alta e più giovane della Francia. (Nome: Bardot, e questo nome la gente non lo dimentichi!).

La natura, si dice, è stata fatta per l’uomo, e gli animali per imbandire la mensa del migliore, dell’Immortale. In nome di questa discriminazione, delitti innominabili, privati, religiosi, di massa, a scopo di gioco e di nutrimento, vengono commessi ogni giorno, da millenni, dalle atroci mani dell’umanità. C’è a questo proposito tutta una informazione storica, ma è dispersa qua e là; e una informazione popolare, o di mercato: ma è sotto i nostri occhi, e per questo non la vediamo.
Quando si sente parlare di diritti della vita, sempre il cuore di taluni è in ascolto. Si vorrebbe – una volta sola nella storia umana – sentir parlare dei diritti del vitello e l’agnello. Ma non ci sono. Agnelli e vitelli e tante altre specie della misteriosa e non delittuosa vita animale non hanno diritto al diritto. Di questi esseri muti che sono gli animali, si può fare ciò che si vuole. Ogni giorno è prigione, ogni alba è massacro, ogni esecuzione è l’inferno. Ho immagini che non oso più guardare, pubblicate, fino ad anni fa, con scandalo: la morte del lupo in gabbia, a disposizione dell’aguzzino abruzzese, l’agonia del cane in un laboratorio a conduzione familiare. Sembrava il peggio. Tre mesi fa un giornale ligure pubblicò la prima foto (credo) di un capretto legato e intento a versare il suo sangue. A edificazione della vita domenicale, perché il giornale uscì proprio di domenica.

La fronte va sempre più giù. L’orgoglio, al contrario, sale. Siamo i migliori. Vitali, qualche peccatuccio, certo, ma guardate la salute, guardate la cura con cui rimpinguiamo l’industria farmaceutica, e la ricerca scientifica, in ogni luogo! Come non abbiamo scrupoli quando si tratta di rifornire la mensa, e avvezzare il neonato a nutrirsi con ingordigia di un altro neonato. E la chiesa sopravvive! Chi, a Pasqua, non si nutre (siamo più larghi, noi cristiani) della carne e anche il sangue del piccolo agnello? E qualcuno mai non è stato attratto dalla agonia del maiale? Perfino grandi registi. Ciò rende uomini. Patrioti in qualche caso.

Uomini, va bene. Patrioti anche. Ma senza fronte. Scrivete libri, sparate, parlate male del fascismo, difendete diritti! Ma fate uno sciopero, perdio, a proteggere i macelli dalla scimitarra e dai mercati. Assalite i laboratori a conduzione familiare. Fate pagare cara, al signore con macchina, diretto a questa bella estate, l’abbandono, sull’autostrada, del cane.

Questi cavalli e bovini che viaggiano assetati, stremati, in vagoni chiusi, verso la morte, che fanno udire il loro grido alle stazioni isolate, non vi ricordano niente? Via i lager nazisti e russi, naturalmente, ma i vostri sono veramente immortali?

Gli dei non sanno parlare, scoperse Borges. Noi abbiamo troppi dei, il primo è l’uomo. Perciò non sappiamo più parlare. Durerà ancora? Fin quando splenderà il sole e il pianeta riceverà la grazia, ogni giorno, dell’alba? E la meritiamo, questa grazia? Andiamo, vediamo un po’ chi siamo.
Parlerà l’agnello, un giorno! Griderà il cane. Non vedremo più uccelli. Le nostre azioni, ormai di massa, la tortura senza più freno, stanno disponendosi contro di noi, e avanzano. Non parlo qui di nubi nel cielo. Il cielo non è solo a disposizione dell’uomo. Ma la cosa che chiamavamo umanità e civiltà, e pura ragione – e anche tutte le bandiere e le cattedrali –, solo dall’uomo dipendevano. E dalla sua fronte! Ora budella e salvezza vivono insieme! Chi ci riporterà la nostra fronte?
Siamo salvi, e sazi. Ma dov’è la nostra fronte?
Borghesi, A. (2016). Anna Maria Ortese: in difesa degli animali. Un giorno l'agnello parlerà. DOPPIOZERO.
 http://www.doppiozero.com/materiali/un-giorno-lagnello-parlera




[...] L’opera chiave resta il romanzo breve L’Iguana (del 1965): tenera e misteriosa favola, e allo stesso tempo smascheramento del romanzo esotico-ispanoamericano che viveva in quegli anni il suo boom.
Adelphi meritoriamente ripubblica le vecchie opere. Tra queste L’Iguana, che 1988 appare anche in francese, presso Gallimard. [...]
http://www.ilpostodelleparole.it/angela-borghesi/angela-borghesi-le-piccole-persone/



Anna Maria Ortese e gli animali
Perché guardiamo gli animali?
È la domanda che ci pone il libro (Why Look at Animals?, 2009, di recente tradotto in italiano per il Saggiatore), in cui John Berger ha riunito i suoi scritti sul rapporto tra l’uomo e gli altri esseri viventi. Gli animali, osserva Berger, sono entrati nel nostro immaginario «come messaggeri e come promesse»; ma da quando abbiamo smesso di considerare la loro esistenza parallela e autonoma rispetto alla nostra, quella funzione originaria è esaurita. La sottomissione degli animali ne ha spezzato il legame dualistico con l’uomo, alterando l’equilibrio tra venerazione e controllo.

Berger non è il solo scrittore che, negli ultimi anni, ha riflettuto sul valore della vita animale, in sé e come paradigma della relazione individuo/società: da Coetzee a Foer e Franzen, il tema ha guadagnato una presenza crescente nella letteratura, divenendo anche oggetto di una corrente critico-teorica, gli Animal studies, già molto diffusa in ambito nordamericano. Anche nella letteratura italiana contemporanea ci sono esempi che si prestano a un’interpretazione di questo genere: limitandosi ai classici novecenteschi (ma non mancano casi più recenti, da Laura Pugno a Giordano Meacci), si possono citare Tozzi, Calvino, Volponi, Primo Levi. A questi nomi si aggiunge quello di una delle maggiori scrittrici italiane del Novecento, Anna Maria Ortese (1914-1998); il tema del distacco tra uomo e natura attraversa specialmente le sue ultime opere (da Il cardillo addolorato ad Alonso e i visionari e Corpo celeste), fino alla raccolta d’interventi sul tema che esce ora a cura di Angela Borghesi: Le Piccole Persone. In difesa degli animali e altri scritti, Milano, Adelphi, pp. 271, euro 14,00.

Il volume comprende trentasei pezzi, tredici dei quali già apparsi a stampa ma finora mai raccolti; i restanti, selezionati dalla curatrice tra i materiali del Fondo Ortese presso l’Archivio di Stato di Napoli, risultano inediti. Non datati, i testi sono perciò organizzati nel libro in base a un criterio tematico: la prima parte – chiarisce la Nota al testo – accoglie quelli «d’ampio respiro filosofico-naturalistico, di critica culturale e di costume, o di carattere documentaristico-memorialistico»; la seconda i testi «d’impronta militante», percorsi cioè da più accesi sentimenti animalistici.

Il rapporto di uno scrittore adulto con la «Natura», osserva Ortese nello scritto d’apertura (Ma anche una stella per me è «natura»), è segnato dallo scetticismo con cui l’uomo ripensa alle illusioni del bambino; ma senza la coscienza del distacco, senza la «memoria di una ferita ormai indimostrabile», non si può scrivere: perché la scrittura è «cercare ciò che manca». È una tensione quasi leopardiana (Leopardi è uno dei riferimenti impliciti ma più presenti sullo sfondo di questi scritti), che si precisa di brano in brano, passando da una prospettiva più lirica a una più storica (il doppio regime interessa anche lo stile, più concreto e diretto negli scritti ulteriori, specialmente in quelli della seconda parte). [...] il rapporto con la natura e la sua rappresentazione delimitano infatti lo spazio privilegiato da cui guardare e giudicare la letteratura e la società italiane: «Nella narrativa non è mai presente il piccolo né l’interiore. È come se la vita italiana, dall’inizio della sua storia, fosse una lunga e barbarica tavolata, piena di cacciagione o vini pregiati, o anche semplici patate o rape, […] ma, insomma, natura morta. Una immensa natura morta e niente più» (Piccolo e segreto).

Come altri scrittori italiani del secondo Novecento, Pasolini in particolare, Ortese osserva e interpreta i cambiamenti occorsi nella società, nel paesaggio materiale e morale dal Dopoguerra, in chiave etologica: la violenza esercitata contro la natura e soprattutto contro gli animali è il riflesso dello «spirito che invase l’Italia tra il Cinquanta e il Settanta […], uno spirito di volgarità, per prima cosa, e di perversità, come conseguenza». Così scrive in Ferocia e mollezza, due termini che definiscono emblematicamente lo scadimento dell’etica nazionale, specialmente il primo: di «immortale ferocia» parla infatti anche in Al rallentatore (viene da pensare alla fortuna recente che la parola, in una prospettiva non dissimile, ha conosciuto grazie al titolo dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia).

Anche ‘perversità’ è parola ricorrente negli scritti di Piccole persone; Ortese la usa per spiegare la ragione che le fa apparire i delitti contro gli animali più gravi di quelli contro gli esseri umani: «il loro orrore» è «nella perversità» (Il secolo della crudeltà). È qui, in un confronto di questo genere, che si delinea il punto di vista dell’Ortese animalista, al centro, come si è detto, dei testi raccolti nella seconda parte del libro. I massacri degli animali corrispondono a quelli perpetrati dall’uomo contro i propri simili; la distruzione dell’habitat di altre specie è equiparata ai roghi dei villaggi nella «terribile guerra». L’idea che ognuno perseguiti i più deboli secondo la propria forza è autorizzata da grandi modelli, anche letterari: i capponi agitati da Renzo subiscono l’arbitrio e la violenza che, su altra scala, patiscono gli stessi protagonisti del romanzo. Ma Ortese si spinge fin dove senso storico e morale consiglierebbero di non andare, proponendo l’equivalenza tra il dolore inflitto agli animali e quello subito dalle vittime del lager: tutto il male «che un certo stato europeo, venticinque anni fa, rivolse all’uomo, inflisse all’uomo europeo: deportazioni, viaggi nei vagoni piombati, inumano isolamento», adesso è inflitto agli animali, in Italia e in altri paesi (Il criminale prudente). «Provate ad andare in Lager…»: così Primo Levi, che pure ha riflettuto sulla sofferenza inflitta agli animali in Contro il dolore, rispondeva quando le sue Storie naturali venivano lette come adattamenti fantastici della Shoah.
Ortese prevede lo scandalo delle sue parole, anticipa le obiezioni, denuncia il ricatto morale; ma le sue posizioni, «certo discutibili, ingrate e radicali» scrive Angela Borghesi nel fine e partecipe saggio conclusivo «la consegnano all’isolamento, all’incomprensione dei più». Tuttavia certe espressioni – spiega ancora Borghesi – sono il prodotto di «un cumulo d’anni di rabbie gridate o represse, d’impegno misconosciuto, di scrittura ossessiva». ‘Ossessione’ è la parola che meglio definisce, in due sensi, gli scritti della seconda parte del libro. Da una parte, l’ossessione dell’autrice per i suoi argomenti (molti dei quali sacrosanti: contro la caccia, per esempio, e contro il folklore cruento della corrida, che nessun valore simbolico basta a riscattare). Dall’altra parte, l’ossessione suscitata nel lettore, che di pagina in pagina sempre più si sente tratto nell’inferno degli animali. Al netto delle critiche (anche sull’ambiguità di certe idealizzazioni: «La vita è buona. Alberi e bestie sono buone», un «cane è un angelo»: Una sentenza della Corte di Cassazione), perciò, Piccole persone è un libro che impressiona e che ammonisce al rispetto verso coloro con cui condividiamo una dimora, l’Umwelt, in senso biologico e sociale.

Niccolò Scaffai, 24 maggio 2016

http://www.leparoleelecose.it/?p=23101


Anna Maria Ortese, L'Iguana. Capitolo I.
Come tu sai. Lettore, ogni anno, quando è primavera, i Milanesi partono per il mondo in cerca di terre da comprare. Per costruirvi case e alberghi, naturalmente, e più in là, forse, anche case popolari; ma soprattutto corrono in cerca di quelle espressioni ancora rimaste intatte della -natura-, di ciò che essi intendono per natura: un misto di libertà e passionalità, con non poca sensualità e una sfumatura di follia, di cui, causa la rigidità della moderna vita a Milano, appaiono assetati. Incontri con gli indigeni, e la cupa nobiltà di questa o quella isola, sono tra le emozioni più ricercate, e se ti viene in mente che emozione sia un traguardo inadeguato alle vaste possibilità del denaro, rifletti sulla stretta corrispondenza tra grandezza economica e indebolimento dei sensi, per cui, al massimo del potere di acquisto, si ha non so che ottundimento, che generale incapacità di discernere, di gradire; e colui che, ormai, potrebbe cibarsi di tutto, non gusta più che poco o niente. Allora, di certi forti sapori (che poi non sono affatto forti, anzi banalissimi), va a caccia, e darebbe la vita per quelli. Non è forse il caso della maggioranza dei Milanesi, che, stretti dalla vita aziendale, ancora non hanno viaggiato né visto niente, e, in più, hanno curiosità rudimentali; ma certo che una minoranza, quella, infine, che dà lustro alla città, è fatta così, e non si deve pensare, tuttavia, che manchino in mezzo ad essa elementi ingenui, puri, raziocinanti, il meglio, insomma, dell'antica Lombardia. Tutt'altro. Don Carlo Ludovico Aleardo di Grees, dei Duchi di Estremadura-Aleardi, e conte di Milano, casata, come appare evidente, di origine per due terzi svizzero-iberica, e non pertanto il più allegro e buon lombardo che si possa dare, era di questi. Sui trentanni, ormai, figlio unico, rimasto ancor giovanissimo, a causa della morte del padre, il buon conte Aleardi, padrone di una estesa sostanza, oculatamente amministrata dalla contessa madre, associava la passione della vela, e una indistinta idealità, che venivagli dal padre, a una meno indistinta per quanto involontaria attenzione ai precisi e macchinosi interessi materni che prevedevano per il giovane, nei prossimi anni, una sempre più serrala e progressiva moltiplicazione di quei beni (ch'erano in case e terreni); e partiva perciò ogni primavera in cerca di terre, dove lui. eh "era architetto, avrebbe costruito poi ville e circoli nautici per la buona società estiva di Milano. (...)
Non si era ancora sposato, né. malgrado le pressioni della contessa madre, che aveva già visitato alcune cospicue famiglie svizzere, pensava di farlo, in quanto gli sembrava che ciò lo avrebbe limitato... in che cosa, poi, non si sa. Conduceva la vita più semplice, quasi monotona, che si possa dare, vera vita di certosino: tutto il giorno in studio a disegnare case come un bambino, mentre, la sera, sua unica distrazione era vedersi con Boro Adelchi, un giovane editore della nouvelie vague, ambiziosissimo e ancora nei guai, cui il Daddo, sia detto fra parentesi, passava continuamente, di nascosto della madre, fior di denari.
E fu proprio l'Adelchi, una di quelle sere di aprile, che Milano è tutta verde, tutta delicata, e la Via Manzoni sembra non finire mai, a gettare il seme dell'avventura che narriamo. Disse dunque il Boro Adelchi, un po' pensierosamente:
• Sì, le cose non vanno male... ma ci vorreblie qualche cosa d'inedito, di straordinario. La concorrenza è forte... Tu che vai viaggiando, Daddo, perché non mi procureresti qualcosa di primitario, magari d'anormale? Tutto è già scoperto, ma non si sa mai... tutto può darsi...-.
Ci vorrebbero le confessioni di un qualche pazzo, magari innamorato di una iguana - rispose il Daddo scherzosamente, e come gli fosse venuto in mente non si sa. Ma subito tacque, pentito di quel suo prendersi gioco della malattia e della animalità, due cose per le quali, pur non avendone alcuna esperienza, provava, come molti Lombardi, una pietà grandissima. I...I


Capitolo 3
Grande, a questo punto, fu la sorpresa del Daddo, nell'accorgersi che quella che egli aveva preso per una vecchia, altri non era che una bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembialetto fatto di vari colori, giacché era la somma evidente di tutti i cenci della famiglia. In testa, a nascondere l'ingenuo muso verdebianco, quella servente portava una pezzuola anche scura. Era scalza. E sembrava, benché quelle vesti, dovute a uno spirito puritano dei padroni, la impacciassero non poco, adatta a svolgere tutti i mestieri con una certa sveltezza. In quel momento, però, sembrava proprio non farcela. Una delle sue verdi zampette era fasciata, e con l'altra, sospirando intensamente, essa si sforzava invano di tirare su dal pozzo un grosso secchio.
Immediatamente il Daddo, con quello spirito di cavalleria che lo rendeva così amabile, senza perdere tempo a chiedersi, come avrebbe voluto la religione che egli professava, se quella creatura era cristiana o pagana (come più sembrava), si precipitò accanto alla bestia, che gli levò in volto due occhietti supplichevoli e fantasticanti, mormorando -mentre il conte prendeva lui il secchio:
• Grazie o senhorì, Grazie!-.
• Non c'è di che, nonnina!-.
•Sì, il raffio si è guastato- osservò don Ilario, che non appariva affatto preoccupato dall'impressione che una tale servente poteva fare sul forestiero; e bastò questo accento tranquillo, e privo in modo assoluto di imbarazzo o di pena, a persuadere il Daddo che non vi era in quella "vecchietta" nulla di meraviglioso; o, se per caso vi era, faceva parte della normalità del mondo, che esso stesso (dato che all'inizio non era, e poi è stato, e non si vede chi o che casa l'abbia originato) era abbastanza enigmatico. In ciò lo aiutava moltissimo quel suo spirito estatico, che dappertutto, nel meccanismo della natura, scorgeva un'anima uguale, e avveniva un appello alla propria fraternità. Si aggiunga che vi era effettivamente, nella creatura, un che di umile, di pensieroso.
da L'iguana, Adelphi, Milano, 2003
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Una complessa trama allegorica
La creatura a metà tra l'uomo e l'animale (al centro anche di un'altra opera dell'Ortese, Il cardillo innamorato) è allegorìa di duplice significato, a seconda che si interpreti come immagine dell'uomo trasformato in animale o dell'animale trasformato in uomo: nel primo caso rappresenta la bestialità, l'incarnazione del male (qui, in particolare, la donna-iguana sembra richiamare la donna-serpente della tradizione cristiana, cioè la donna tentatrice e fonte di peccato, assimilata al serpente tentatore dell'Eden); nel secondo, simboleggia l'innalzamento della natura allo stesso grado di nobiltà dell'uomo, contro la sua pretesa di superiorità. Per il suo aspetto ambiguo e mostruoso, inoltre, rappresenta ciò che agli occhi della cultura e delle istituzioni ufficiali è considerato diverso, folle, peccaminoso e, perciò, oggetto di esclusione e oppressione (l'iguana, un tempo apprezzata dal marchese, è stata poi ridotta a fare la sguattera e a vivere miseramente): è dunque simbolo dell'opposizione natura/cultura che caratterizza tutto il percorso della modernità. Ma il riscatto finale dell'iguana, che si trasforma in donna grazie al sacrificio e alla morte di Daddo, potrebbe alludere anche all'umanità redenta da Cristo; nella triste condizione dell'iguana, poi, non è difficile cogliere un riflesso autobiografico della solitudine e delle sofferenze che hanno accompagnato tutta la vita dell'Ortese.

La morale della favola
Temi ricorrenti nell'Ortese, e in qualche modo sintetizzati nella storia di Estrellita, sono quelli della natura, del paesaggio, della pari dignità di ogni creatura vivente, della polemica contro il gretto antropocentrismo nella moderna variante del materialismo consumistico (ben rappresentata dalla tipologia del compratore di isole, titolo della prima parte del romanzo), dell'attenzione alle vittime delle violenze e delle discriminazioni che caratterizzano la società odierna. La morale della favola, dunque, sembra consistere in una crìtica radicale alla logica della conquista materiale che è alla base della civiltà moderna. Non è forse casuale che il viaggio di Daddo si compia nel Mediterraneo, più o meno sulla rotta di quello dell'Ulisse dantesco, simbolo supremo delle velleità di conquista del mondo occidentale. Il benessere, frutto ambitissimo del falso Eden della modernità, produce ottundimento di sensibilità e di moralità: questo concetto, posto non a caso in premessa di romanzo, ne è il principale fondamento teorico: c'è una stretta corrispondenza tra grandezza economica e indebolimento dei sensi, per cui, al massimo del potere di acquisto, si ha... ottundimento, generale incapacità di discernere, di gradire; e colui che. ormai, potrebbe cibarsi di tutto, non gusta più che poco o niente.


Compassione cristiana, leggerezza e ironia
La soluzione dell'Ortese sembra essere quella di un Cristianesimo puro e sostanziale, fondato sulla "compassione" autentica. Si vedano i sentimenti di Daddo verso l'iguana: nota la "mostruosità" di Estrellita, ma non vi dà peso; dà importanza invece alla sua sofferenza, alla sua derelitta condizione di serva, ed instaura subito con lei un rapporto di tipo affettivo (si notino i di minutivi-vezzeggi alivi bestiola, sottanina, grembialetto, pezzuola, zampette ecc.), mostrando un autentico spirito di cavalleria (righe 49-66). Senza alcun moralismo severo e serioso, tuttavia, bensì all'insegna della leggerezza (come suggerisce la stessa scelta del genere della favola) e dell'ironia, subito in primo piano nell'attacco metanarrativo del romanzo (Come tu sai. Lettore...) e nella presentazione del modo di vivere e di pensare dei Milanesi (righe 1 -6); ironica è l'enfatizzazione dei nomi e dei titoli del protagonista (riga 18); comicamente ironico è lo spirito puritano dei padroni che impongono all'iguana di vestirsi (riga 55), ecc.
Lo stile, molto personale, tende ad un'armonica complessità di tipo classico. I periodi sono lunghi (cfr. ad esempio riga 20 e segg.: da Sui trent'anni...) e di struttura ipotattica, con molti incisi, inversioni di costrutto e iperbati: Allora, di certi forti sapori (che poi non sono affatto forti, anzi banalissimi), va a caccia (riga 12), Don Carlo [...] era di questi (righe 18-20) ecc.; il lessico ostenta (ironicamente) forme colte: nonpertanto, venivagli, primitario ecc.

Comprensione
1. Riassumi il brano.
Analisi e interpretazione
2. Che cos'è un'iguana e che cosa rappresenta in questo romanzo?
3. Chi è Daddo e quali sono le sue passioni?
4. Come è vestita l'iguana? Per chi o che cosa l'aveva scambiata Daddo?
5. Definisci lo stile e la lingua di Anna Maria Ortese facendo precisi riferimenti a questo testo.
Approfondimenti
6. Rileggi il brano e le relative Linee di analisi testuale. Quindi tratta sinteticamente il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo:
La favola dell 'iguana e la sua morale.
7. Uno dei temi ricorrenti nell'opera della Ortese è quello del potere della parola, della scrittura, capaci di fare chiarezza nella vita dell'uomo, di rispondere alle sue ansie e ai suoi interrogativi, di curarne le angosce. Ecco che cosa ha affermato l'autrice dell'Iguana a proposito della scrittura:
Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente , cioè solo per sé , rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando — per ragioni pratiche — è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera.
Commenta le affermazioni della scrittrice ed esprimi le tue considerazioni alla luce della tua personale esperienza.
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L'iguana e la bestia di Anna Maria Ortese - Benedetta Sonqua Torchia
 «(…) Un brav’uomo va in un’isola - è molto ricco e può andare dovunque - e conosce un mostro. Lo prende come cosa possibile, e vorrebbe reintegrarlo - suppone ci sia stata una caduta - nella società umana, anzi borghese, che ritiene il colmo della virtù. Ma si è sbagliato: perché il mostro è un vero mostro anzi esprime l’animo puro e profondo dell’Universo di cui il signore non sa più nulla, tranne che è merce».
Così Anna Maria Ortese riassume le vicende de L’Iguana.

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Le parole si trovano tra gli scritti raccolti in Corpo Celeste ed è lì che svela e racconta anche la necessità e l’urgenza di mettere in discussione la superiorità dell’uomo sulla natura e il rapporto tra intelligenza umana - troppe volte strumento in mano a una singola porzione di mondo - e ragione universale, garante della dignità del creato.
L’Iguana è quel confine fragile tra umanità e bestialità dell’uomo e nell’uomo.
Oggi, a cinquanta anni dalla pubblicazione, è ancora un libro difficile che porta con sé qualcosa della fecondità della matrioska e del mistero delle scatole cinesi e, sarà per tutti i significati annidati nel testo, che poco si presta a una lettura leggera o alle estrapolazioni e alle sintesi degli aforismi. Anna Maria Ortese non ha mai venduto né molto, né a tutti, eppure, quando ci si imbatte ne L’Iguana, non ci si riesce più a disincagliare da quel porto dove la poesia e i rimandi autobiografici coincidono nella favola e nella storia del suo protagonista: «(…) sentì che il suo viaggiare era stato immobilità, e ora, nella immobilità cominciava il vero viaggiare. Sentì poi che questi viaggi sono sogni, e le iguane ammonimenti. Che non ci sono iguane, ma solo travestimenti ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società. Questa società egli aveva espresso, ma ora ne usciva. Di ciò era contento».
Architetto senza troppe doti che lo facessero brillare nella società della Milano da bere e per bene, il conte Carlo Ludovico Aleardo di Grees dei duchi di Estremadura, detto Daddo, viene inviato per mare, dalla madre, a cercare terre su cui speculare. Il viaggio, in questa storia, è un atto di conquista. Nessuna curiosità filantropica, solo espansione di un modello economico che tende a moltiplicarsi per rafforzarsi.
A giustificare il viaggio, si aggiunge anche la sfida lanciata dall’amico editore Adelchi circa la possibilità di scovare un manoscritto inedito che possa destare un qualche interesse tra i lettori annoiati e sempre alla ricerca di amenità: «(…) tu che vai viaggiando, Daddo, perché non mi procureresti qualcosa di primitario, magari d’anormale» come, ad esempio, le vicende di un pazzo che si innamora di una Iguana. A neanche venti pagine dall’inizio, i crinali delle politiche editoriali e dell’industria culturale e del turismo appaiono così: crudi e semplici come la cronaca di un quotidiano assodato, impossibili da rovesciare ma da cui è necessario deviare. La narrazione non denuncia, piuttosto è constatazione. Tutt’altro che disperante, trova consolazione in logos inusuali (come cantine, lavatoi, pegni d’amore di nessun valore, vezzeggiativi e colori cangianti) e si serve di una grammatica capace di moltiplicare i contenuti esplodendoli in mille sottotesti: nelle parentesi, negli incisi e nelle numerose subordinate. Per dirla breve, L’Iguana è difficile perché è un libro densissimo.
Ogni descrizione è minuta e serve al racconto ma prende anche in giro se stessa, a partire dai nomi altisonanti ridotti a nomignoli o dalla descrizione di alcuni paesaggi, lirici e subito stucchevoli, ridotti a essere i fondali di una atmosfera da acquario. Ogni elemento che si somma alla trama mette il lettore in allerta. Lo invita a cercare l’errore, ad attendere un rovesciamento di senso, a capire perfino, a volte, quale sia l’eroe e l’antieroe.
Daddo si imbarca e si imbatte in un’isola sconosciuta a forma di corno, Ocaña, una volta fastosa e splendida, oggi abitata da don Ilario Jimenez della casata dei Guzman, insieme con i due fratellastri, Hipolito e Felipe. Ilario, un giovane (almeno così appare all’inizio) bibliofilo appassionato letterato, si muove tra le quinte di giardini trascurati, palazzi in cattivo stato, soffitte polverose e sogni tenuti nel cassetto troppo a lungo per essere davvero desideri. Cerca di distrarsi dalla decadenza della sua condizione e dall’abbrutimento cui sembrano condannati i fratelli (quasi del tutto privi di parola, almeno all’inizio) con lo studio e l’esercizio delle lettere (almeno all’inizio).
A sparigliare tutto quello che è ancora plausibile compare un mostro, inerme e innocuo; una «bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna». Insieme all’iguana prende piede un’inquietudine - nel lettore - prima ancora che nel protagonista, «la sensazione costante di trovarmi in un luogo ignoto, non mio assolutamente, e della cui serenità sono anch’io, in qualche modo responsabile». (da Corpo celeste)
L’iguana, Estrellita, diventa il simbolo di quegli umili di cui le classi più abbienti dovrebbero assumerne il carico e la responsabilità civile prima che morale. Cattura le attenzioni di un Daddo talmente sensibile da mutare la sua curiosità in amore. Egli, a sua volta, a tratti ridicolo ma forte della sua posizione sociale, del suo sentimento e delle sue ragioni, vuole salvare l’animale sposandolo e conducendolo a Milano. Ma quella stellina non vuole essere salvata, né vuole abbandonare l’isola, né vuole sposare Daddo. L’iguana intrepreta la sua bestialità rassegnandosi alla deprivazione e alla subalternità e continua a struggersi per il marchese Ilario.
La mostruosità della relazione tra uomo e bestia viene assunta come un fatto possibile. Di contro, un’ombra gigantesca aleggia di continuo: la ricerca di un senso di tutte le cose che accadono in questa storia. Una ricerca che quasi mai ha un esito positivo ma che implica lo sforzo - troppo spesso eluso dalle figurine che compaiono nel romanzo - di essere presenti a se stessi e, soprattutto, di voltarsi indietro a rileggere la propria storia. Tutto, invece, sembra spinto avanti da un unico desiderio: non soffrire più, anche a costo di desiderare niente di diverso da quello che le convenzioni dettano: «una coscienza decapitata, ecco la nostra coscienza umana». L’iguana si rassegna alla subalternità, Daddo si rassegna a viaggiare spinto da fini merceologici e speculativi. Ilario si rassegna al suo isolamento. Ocaña, l’isola, non è un paradiso, ma un giardino in cui tutti sono caduti e decaduti. «La caduta avviene quando la cultura smette di essere luogo di memoria e smette di essere eterna aratura e diventa raccolto. Il raccolto solo, subito gratis e per sempre.» (da Corpo celeste): è quanto dimostra lo sbarco sull’isola della famiglia Hopins. L’arrivo, insospettabile per il lettore ma atteso dai fratelli Guzman, rompe il corso degli eventi in una direzione inattesa: la famiglia americana - come i capitali stranieri che negli anni Sessanta sbarcavano in Europa per finanziarne i progetti industriali - è interessata alla acquisizione dell’isola e del titolo nobiliare. Ilario è destinato al matrimonio con la figlia bionda, silenziosa, affascinante e un po’ scialba. Per Daddo sfuma il suo mandato affaristico; gli rimane ancora aperta la seconda sfida, quella di trovare un manoscritto su un pazzo innamorato di una iguana.
Se, fino all’arrivo degli Hopins, è possibile conservare ancora qualche incertezza, con l’arrivo dell’arcivescovo «nero» al seguito degli americani, tornano forti le gerarchie e le categorie della cultura dominante e svaniscono i dubbi: per l’alto prelato, l'iguana è l'incarnazione del male. Estrellita, che si racconta fosse stata trattata come «gentile e affascinante figliolina», è messa al bando e, come «un vero serpente», viene estromessa dal paradiso e dal circolo degli affetti umani. La solitudine diventa dannazione: Ilario vuole sposarsi e abbandonare l’isolamento e l’isola; Daddo, invece, vuole salvare l’iguana. Dunque, pare che il libro da proporre all’amico milanese Adelchi, per incrementare il mercato editoriale, sia proprio quello che stiamo leggendo.
Il dramma è che non si riuscirà mai a dire per davvero perché e cosa amassero Ilario o Daddo nell’Iguana se non ad ammettere che quando si ama, si ama tutto, anche la bestialità altrui. Non c’è niente di male ad amare una iguana perché il male non deriva dalla deprivazione (economica) ma «è solo quello recato per una errata valutazione - lo sbaglio - a se stessi». E spesso lo sbaglio è pensare che tutto - anche un amore - possa essere sostituito non appena termini la sua funzione: la scimmia Perdita ha distolto Ilario dalla madre; l’iguana lo ha distolto dalla morte della scimmia; a sua volta, l’iguana viene sostituita dalla nuova moglie con la promessa di un engagement sociale. Privo di qualsiasi dimensione sentimentale e del tempo psichico necessario alla elaborazione, questo passaggio per Ilario non è altro che l’esemplificazione dell’uso e della funzione materiale della rappresentazione amorosa. L’illusione che cercare sempre qualcosa di nuovo (rispetto al noto) possa garantire la felicità è la menzogna diffusa contro cui la Ortese si scaglia. È in questa continua sostituzione, e dietro questa strana storia d’amore e di pena che lega più uomini a una iguana, che trova espressione la critica profonda al sistema capitalistico; in fondo, «ciò che abbisogna. Ecco ciò che è reale».
La cosa strana è che - arcivescovo a parte - niente o nessuno sembra mai lo stesso. È tutto un guardare, un sentire e poi voltarsi al passato per essere certi di essere ancora gli stessi ma senza una reale consapevolezza di ciò che si è diventati. Un delirio in cui reale e irreale si fondono nell’incantesimo dei luoghi e delle situazioni. Anche i personaggi cambiano carattere, età, aspetto: non si è mai sicuri se a tratteggiare le prime figure abbiano contribuito le reminiscenze dei romanzi dell’ottocento inglese o del romanticismo tedesco o sia stato un trucco della Ortese per continuare a viaggiare sull’isola senza alcun punto di riferimento. Anche l’iguana si trasforma in vecchina, giovinetta, domestica, amante, aguzzina ma, incurante, continua a mostrare l’anima bestiale e irrazionale del suo essere primitivo e per questo comunque amabile. «Inaudito» dirà del libro Pietro Citati a vent’anni di distanza dalla prima edizione ed è ancora così, anche cinquanta anni dopo.
Sul finire, Daddo inciampa nei suoi deliri e muore affogando in un pozzo. Eppure, morto il protagonista niente è perduto, anzi. In fondo, se (e avviene a circa metà del libro) si assiste al processo che sanciva la morte di Dio e il mondo è rimasto in piedi, la morte del protagonista non chiude le vicende, piuttosto ne sblocca la loro evoluzione, fino alla fine che, nel paradosso, è quasi un lieto fine per tutti tranne che per chi è morto e non esiste più.
Conan Doyle scriveva che «togliendo l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità». Ecco, l’Ortese fornisce gli elementi per ridurre l’impossibile, incastonandolo nelle questioni del quotidiano e ricorre alla dimensione fantastica per rendere lecito tutto ciò che è possibile anche quando improbabile, come trovare una iguana innamorata su un’isola.
Con L’Iguana si cade (esattamente come accade per l’Alice di Carroll). La caduta porta al centro del mondo e dei suoi meccanismi pur essendo, di fatto, alla sua estrema periferia. Una sorta di gentifrication letteraria e ante litteram dove la periferia è un’isola portoghese che si «muove impercettibilmente». Una sorta di simbolo posto al di là delle classiche colonne d’Ercole, oltre le quali si trova ancora qualcosa di centrale per la ragione dell’Uomo, come il dolore di un amore non ricambiato e l’ingiustizia agita nei confronti degli altri.
L’iguana era una sfida; una sfida persa, come lei stessa racconta - avendo venduto 1990 copie nei primi cinque anni.
Era una sfida difficile, lanciata dai bordi del mondo, lì dove stava lei e da cui, come Daddo, esercitava quel sentimento sottile e doloroso che è il rispetto dell’altrui dignità. Al di là di tutte le considerazioni che si possono fare sulla dimensione onirica, sullo straniamento, sugli inviti al lettore, l’unica cosa sensata da dire è che L’Iguana affronta temi oggi ancora irrisolti, come i rapporti di forza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento, l’assenza di dignità e amore che conducono alla morte e all’esilio, la menzogna dell’autoaffermazione a qualunque costo come formula per raggiungere livelli di godimento sempre più vicini alla felicità.
«C’è molto dolore nel mondo, (…) perché l’irreale - il non conosciuto - è assai più profondo. Mille ragioni, di Stato o pratiche, vi si oppongono. Non per malvagità, ma perché a quelle condizioni che mantengono il disordine su cui cresce il dolore, sono legati innumerevoli interessi, anche di cultura o vecchia cultura; quindi di autorità. Quando per esempio dai il mondo come spiegato - per così dire: naturale - ci edifichi sopra le cose degli uomini. Quando lo dai come inspiegabile, cioè innaturale e lo definisci come visione del fuggevole, ci edifichi l’uomo. Non è una differenza da poco. Edificare l’uomo è gratuito. Edificare le cose (dell’uomo e sull’uomo) porta compensi molto altri, non solo economici. Ma perde l’uomo.» (da Corpo Celeste)


Benedetta Sonqua Torchia

L’Iguana, Veronica Leffe (2015)

Bibliografia:

L’Iguana, Vallecchi (1965); Adelphi (1986, 10ª ediz.)
Corpo celeste, Adelphi (1997)

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