martedì 6 settembre 2016

“Il glamour della psicoanalisi” ho usato questo termine glamour al posto del termine freudiano sopravvalutazione, perché mi sembra indichi con maggior precisione il fenomeno. Glamour è un termine che ha nobiltà letteraria, malgrado sia ora stato adottato dai media. È stato utilizzato per la prima volta da Walter Scott, che ha ripreso un antico termine scozzese e indica una sorta di incantesimo che porta a vedere le cose diverse da come sono. Non si tratta quindi di una sopravvalutazione o di un errore di valutazione, ma di un’aggiunta, un’aura che impreziosisce l’oggetto. Non possiamo non notare che anche il termine “glamour” viene dal vocabolario della magia. Evidentemente l’amore va molto più d’accordo con la magia che con la biochimica. Nel linguaggio corrente ha cominciato a introdursi la metafora della chimica ma in realtà quesito risale Goethe: le affinità elettive sono affinità tra sostanze, e solo in modo traslato lo sono tra esseri umani. Nella psicoanalisi noi esploriamo precisamente questo altro spazio, questa diversa dimensione agalmatica, di glamour, quell’erotica della vita che ci può passare sotto gli occhi inosservata se siamo solo intenti alla pragmatica degli scambi e dei commerci. È un aspetto che non passa però sicuramente inosservato agli occhi di Ariosto, e lo troviamo colto in una forma mirabile nel secondo canto del poema.

L'amore e il desiderio da Ariosto a Lacan.

Le donne, i cavalieri, l’armi, gli amori, le cortesie, le audaci imprese. 
Il verso iniziale del poema di Ariosto ha scandito la scelta dei temi di questa rassegna per la commemorazione del cinquecentenario della pubblicazione dell’Orlando Furioso, e questa sera siamo al giunti all’accattivante argomento degli amori. 

[...] l’amore in relazione alla follia di Orlando. 
Bisogna dire che la descrizione della follia di Orlando, per quanto Ariosto la sviluppi in chiave comica, è molto realistica. Orlando sembra uno di quei guerrieri vichinghi, i berserker, che presi da un raptus mostravano una forza eccezionale e potevano compiere stragi immani, come quelle che vediamo oggi ogni tanto nelle scuole americane. 

La follia e la strage indiscriminata sono una realtà che si manifesta in forme variate nelle diverse epoche, ed è un peculiare passaggio all’atto psicotico. 

La relazione causale tra amore non corrisposto e follia ha invece un valore letterario, ma non clinico. Per quanto possiamo dire, nel nostro modo di esprimerci abituale, che qualcuno è “impazzito per amore”, in realtà nessuno diventa pazzo per amore se non  è in qualche modo pazzo già prima. L’amore non corrisposto può svuotare la vita di significato per il soggetto, può portare alla depressione e alla disperazione, ma la psicosi è un’altra cosa. [...]

​Il tema dell’amore Ariosto lo eredita dal poema che lo precede e da cui prende le mosse, ovvero l’Orlando innamorato.

Prima del Boiardo, Orlando è semplicemente un eroe di battaglie e di gesta gloriose. Anche nel poema del Boiardo resta comunque un perfetto cavaliere, casto, e non toccherà mai Angelica, che accompagna e difende da Agricane in Albraca, senza, diciamo così, fruirne. 

Nel Boiaro l’amore è un tema di perdizione e che mette in movimento la dinamica degli avvenimenti: Angelica è il vero motore del poema. 

Che cosa fa innamorare? 
Per far innamorare, nel Boiaro, ad Angelica basta semplicemente apparire al ricevimento di Carlo Magno, e tutti, baroni, principi, cristiani o pagani, rivolgono il viso a lei, stupefatti, e si avvicinano. E Orlando, che è tra loro, comincia qui a smarrirsi, a darsi del pazzo (“Ahi paccio Orlando, nel suo con dicia”) perché si sente trasportato dal desiderio questo lo mette in contrasto con la fede, e con la fedeltà. 

Non dimentichiamo infatti che Orlando è sposato. 
Alda la Bella è la sua sposa, ma la bellezza di Angelica è talmente superiore che non è possibile contrastarne la forza d’attrazione (“Io, che stimavo tutto il mondo nulla / senz’arme vinto son da una fanciulla”).

La causa dell’amore, nel Boiardo, è l’apparizione della bellezza assoluta.

Subito dopo la bellezza assoluta vengono però la magia, e gli incantesimi. In questo possiamo dire che Boiardo è molto più realistico, nel suo modo di interpretare la vita, dello scientismo contemporaneo la cui prospettiva riconduce tutto semplicemente alla chimica. 

I ricercatori di serissime Università, nel Maryland e a Tel Aviv, fanno dipendere infatti l’amore da un ormone, l’ossitocina, in una visione di causalità lineare rispetto alla quale quella del Boiardo è decisamente più interessante .
Gli eroi del Boiardo non conoscono gli ormoni, e si innamorano quando bevono da fontane fatate. Prima beve Angelica, che sta fuggendo da una contesa di cavalieri innamorati di lei.
Angelica  ̶ e questo è un tratto che ha in comune con Ofelia  ̶ è un’esca. Viene mandata da Galafrone, re del Catai, come Marco Polo aveva anticamente chiamato la Cina, insieme al fratello Argalia a creare scompiglio tra i paladini di Carlo Magno.
E Angelica ci riesce, perché appena arriva, tutti i cavalieri perdono la testa per lei, e bisogna organizzare una sfida perché il migliore, ovvero colui che riuscirà a disarcionare Argalia, possa averla in isposa. La cosa però risulta complessa, perché Argalia è dotato di armi fatate e di un elmo indistruttibile.

Angelica è dunque al centro del poema come oggetto del desiderio di tutti, e non è una posizione comoda, perché pensa subito di darsela a gambe. Nella fuga si ferma per abbeverarsi a una fontana, ma è la fontana dell’acqua che fa innamorare  ̶  così si innamora di Rinaldo.
Naturalmente c’è anche una fontana dell’acqua che fa disamorare, e in questa va a bere Rinaldo, che comincia a provare avversione per Angelica, confermando un dato di realtà molto più sicuro in questi poemi, su questa materia, che negli esperimenti a doppio cieco, e cioè che gli amori corrisposti sono rari e fortunati.

Poi, changez la dame, i cammini si invertono e Rinaldo finisce per bere nella fonte dell’acqua che fa innamorare e Angelica in quella che fa disamorare, così sono al punto di partenza, ma a parti rovesciate.

Questa storia d’amore per incantesimi, è simile a quella che, mettendo un anello al posto dell’acqua, ci racconta Calvino nelle Lezioni Americane riprendendola da un quaderno di appunti di Barbey d’Aurevilly.

“L’Imperatore Carlomagno, in tarda età, s’innamorò di una ragazza tedesca. I baroni della corte erano molto preoccupati vedendo che il sovrano, tutto preso dalla sua brama amorosa e dimentico dalla dignità regale, trascurava gli affari dell’Impero. Quando improvvisamente la ragazza morì, i dignitari trassero un respiro di sollievo, ma per poco: perché l’amore di Carlomagno non morì con lei. L’imperatore, fatto portare il cadavere imbalsamato nella sua stanza, non voleva staccarsene.
L’arcivescovo Turpino, spaventato da questa macabra passione, sospettò un incantesimo e volle esaminare il cadavere. Nascosto sotto la lingua della morta, egli trovò un anello con una pietra preziosa. Dal momento in cui l’anello fu nelle mani di Turpino, Carlomagno s’affrettò a far seppellire il cadavere, e riversò il suo amore sulla persona dell’arcivescovo. Turpino, per sfuggire a quell’imbarazzante situazione, gettò l’anello nel lago di Costanza. Carlomagno s’innamorò del lago e non volle più allontanarsi dalle sue rive”.

Vediamo qui, nelle forme della magia, e degli incantesimi, delinearsi tuttavia uno schema, una logica, la cui fonte è ancora più antica, perché risale a Platone. Troviamo infatti nel Simposio il momento in cui tra i commensali che stanno discutendo sulla natura dell’amore, irrompe Alcibiade ubriaco, che si mette a sedere tra Socrate e Agatone, che è il padrone di casa.
Si elegge a simposiarca, e cambia le regole della serata: non si farà l’elogio di Eros, dice, ma di colui che sta seduto alla propria destra, che per lui è Socrate.
Fa così l’elogio di Socrate come oggetto del suo amore. 
Si vorrebbe che l’amore fosse attratto dalla bellezza, e notoriamente Socrate è brutto, dal volto di satiro e dal ventre sporgente. Ma, dice Alcibiade, è come quelle statuette che si aprono e racchiudono dentro di sé qualcosa di prezioso, un’immagine degli dei. Agalma è il termine greco. Chi contiene l’agalma, la cosa preziosa, l’immagine degli dei, è chi ci fa innamorare. Si vede quindi chiaramente come l’agalma abbia qui la stessa funzione dell’anello nella storia di Turpino, o dell’acqua delle fonti nel poema su Orlando. L’agalma, la cosa preziosa, è l’oggetto che accende il desiderio, e chi lo contiene detiene un potere sul desiderio.
Non occorre che l’oggetto sia concreto come l’acqua o l’anello. 

Lacan riprende i temi del Simposio per mostrare come al di là di tutto quel che l’esperienza di analisi mette in gioco come logica dell’inconscio, come traversata del fantasma, come perseguimento della verità, tutto questo resterebbe inerte se accanto alla logica e alla verità non ci fosse un’erotica, qualcosa che va al di là di quel che le parole dicono, qualcosa che va al di là di quel che le immagini mostrano, che passa attraverso le parole e attraverso le immagini, qualcosa di impalpabile e prezioso, che solo l’innamorato sa vedere.

Parole e immagini non sono indifferenti, ed è abbastanza noto che gli uomini sono attratti più dalle immagini, mentre le donne sono più incantate dalle parole.

Sia le immagini sia le parole però non valgono di per se stesse, sono latrici di una bellezza nascosta, che va al di là di quel che le parole dicono e di quel che le immagini mostrano. 

Incontriamo qui il tema di quel che Freud chiamava la sopravvalutazione sessuale, che vuol dire che quando siamo innamorati di una persona, la vediamo con altri occhi, o vediamo le bellezze segrete che nasconde e che nessun altro vede. Per cui la donna che amo, se non è bella ha però un corpo armonioso, se non ha un corpo armonioso sa muoversi come nessun’altra, se non sa muoversi ha una voce che magnetizza, e se invece ha la voce roca, ha uno sguardo che imprigiona, e così via.

Il termine utilizzato da Freud può risultare fuorviante, perché se diciamo sopravvalutazione possiamo pensare per contrasto a una possibile giusta valutazione che viene un po’ gonfiata o disptorta. Direi piuttosto che l’oggetto d’amore è al di là di ogni valutazione, è fuori mercato, perché il mercato è il luogo degli scambi, delle equivalenze, e l’oggetto d’amore è inestimabile e insostituibile, occupa un altro spazio. 

Me lo diceva con magica semplicità un paziente qualche giorno fa: 
quando sono innamorato il mondo è diverso, è più bello, non sento più la fatica di vivere e la negatività delle cose, sono in un’altra dimensione. Sono momenti in cui il mondo appare quindi in un’altra luce.

Nel mio libro “Il glamour della psicoanalisi” ho usato questo termine glamour al posto del termine freudiano sopravvalutazione, perché mi sembra indichi con maggior precisione il fenomeno. Glamour è un termine che ha nobiltà letteraria, malgrado sia ora stato adottato dai media. È stato utilizzato per la prima volta da Walter Scott, che ha ripreso un antico termine scozzese e indica una sorta di incantesimo che porta a vedere le cose diverse da come sono. Non si tratta quindi di una sopravvalutazione o di un errore di valutazione, ma di un’aggiunta, un’aura che impreziosisce l’oggetto.
Non possiamo non notare che anche il termine “glamour” viene dal vocabolario della magia. Evidentemente l’amore va molto più d’accordo con la magia che con la biochimica. 

Nel linguaggio corrente ha cominciato a introdursi la metafora della chimica ma in realtà quesito risale Goethe: le affinità elettive sono affinità tra sostanze, e solo in modo traslato lo sono tra esseri umani.

Nella psicoanalisi noi esploriamo precisamente questo altro spazio, questa diversa dimensione agalmatica, di glamour, quell’erotica della vita che ci può passare sotto gli occhi inosservata se siamo solo intenti alla pragmatica degli scambi e dei commerci. È un aspetto che non passa però sicuramente inosservato agli occhi di Ariosto, e lo troviamo colto in una forma mirabile nel secondo canto del poema.

Vi do il contesto in cui l’idea compare. 
Rinaldo e Ferraù se le stanno dando di santa ragione. 
Angelica infatti se l’è squagliata dal campo di Carlo Magno mentre Rinaldo e Orlando sono a tenzone per ottenere lei in premio. Baiardo, destriero di gran buon senso, sfugge al suo padrone Rinaldo non in cerca della libertà ma per rimetterlo sulle tracce dell’amata. Arrivato alla meta, lì accanto trova però anche Ferraù in cerca di ristoro presso un corso d’acqua. Non appena i due si vedono cominciano a battersi e intanto, di nuovo, Angelica se la fila. I due si rendono conto che possono duellare finché vogliono, ma nessun vincitore avrà la donna se questa galoppa via come il vento. Si accordano allora per una tregua e per seguirne le tracce prendendo le divergenti strade di un bivio. Ferraù si ritrova a un fiume dove incontra lo spirito di Argalìa. Rinaldo, sempre seguendo Baiardo, si fa portare sulle tracce di Angelica, che non vede miglior via di scampo che affidarsi alla protezione di Sacripante, che lì accanto si sta struggendo anche lui di amore per lei. Naturalmente Angelica pensa solo di fargli qualche moina per tirarlo dalla sua e piantarlo in asso quando non gli servirà più. Gli si aggrappa al collo con il disegno di farsi riaccompagnare nel Catai, e gli fa un dettagliato resoconto di come, allontanatosi da lui, sia rimasta sotto la protezione di Orlando che, cavaliere integerrimo, la salvò più volte dai guai e dal disonore, senza mai mettere a repentaglio la sua verginità,
Forse era vero  ̶  commenta Ariosto  ̶  ma sicuramente non era credibile per chi fosse stato padrone del proprio senno. Ma Sacripante lo credette come la cosa più naturale del mondo. Perché?

“Quel che l’uomo vede, Amor gli fa invisibile, e l’invisibile fa vedere amore”.

Questa è la formula straordinariamente efficace in cui Ariosto esprime l’idea dell’amore come un’operatore d’inversione tra il visibile e l’invisibile.
L’amore rende credibili le parole di Angelica perché Sacripante vuol crederle, perché la vede sotto la luce del glamour. Potrete dire allora che l’amore si presta all’inganno.

Naturalmente vi si presta, ma consideriamo che qui ci troviamo ancora nel caso di un amore non corrisposto, e che Angelica qui si propone come esca, un’esca a cui Sacripante abbocca pienamente. Nell’amore non corrisposto l’amante è in balia del gioco dell’amato, perché cancella in quest’ultimo ogni macchia, scotomizza ogni aspetto negativo, o se lo vede non se ne cura.

Consideriamo invece il caso dell’amore corrisposto: si tratta di un’esperienza che apre l’orizzonte di un altro un mondo, uno spazio estraneo al commercio, agli scambi, ai negoziati. È quel che Houellebecq, in un suo libro, chiama “la possibilità di un’isola”, e che sigla con questi versi:

“Et l'amour, où tout est facile,
Où tout est donné dans l'instant;
IL EXISTE AU MILIEU DU TEMPS
La possibilité d'une île”.


È quest’isola in mezzo al tempo, invisibile quando si guarda con occhi quotidiani, che l’amore rende visibile, mandando sullo sfondo il tempo, le sue tempeste, la divorazione costante e progressiva che fa della nostra vita.

Questa relazione e opposizione tra amore e tempo è qualcosa che i poeti hanno sempre percepito. È un tema presente in Auden, che sente l’amore divorato dal tempo. Scrive in una delle sue poesie più famose, Funeral Blues:


“Pensavo che l’amore  fosse eterno: e avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele pure tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotate l'oceano e sradicate anche il bosco;
perché ormai nulla serve più”.


Auden mostra la vena malinconica, l’amore inghiottito, consumato, logorato dal tempo. Houellebecq, autore di solito considerato cinico, vede invece piuttosto l’amore come sospensione del tempo, un tempo pensato come Chronos, divoratore dei propri figli, il tempo in cui tutto sorge e tutto rientra e tramonta. Ma quando Houellebecq dice: “tutto è dato nell’istante” si pone al di fuori del problema se l’amore sia eterno o momentaneo. Non c’è bisogno dell’eternità: basta l’istante perché tutto sia dato.

Credo sia interessante mettere in risonanza i temi espressi nel linguaggio di un poeta rinascimentale con l’Ariosto, con il modo in cui risuonano nella sensibilità dei poeti moderni. 

Per Ariosto in fondo l’accento non è tanto posto sul problema del tempo, quanto su quello dello spazio, con il richiamo alla dialettica tra visibile e invisibile. 

Su questo è in Proust che possiamo trovare un’eco della stessa melodia, ne “La prigioniera” quando il narratore esprime il suo desiderio, o la sua ossessione per Albertine. Possederla significa averla non solo tra le sue braccia, ma averla in ogni punto dello spazio che occupa. E se Albertina è la prigioniera del momento in cui la trattengo con me, è però l’evasa di ieri e di domani, e di qualsiasi momento in cui è altrove che nella mia stretta.

Ogni poeta ha un suo modo particolare di mostrare il rapporto con il desiderio, che vuol dire il rapporto con un oggetto che si sottrae, che scivola via di tra le dita. 

Basti pensare a Leopardi con Silvia, che nel momento in cui se ne parla, in cui la celebra, è già svanita. Quando dice “Silvia rimembri ancora…” il tempo della vita mortale che vuol ricordare è già svanito, come la “beltà che splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”.

Da questo punto di vista, l’Orlando furioso, prima ancora che un canto degli amori di dame e cavalieri, è il poema del desiderio. Tutti i personaggi inseguano qualcosa o qualcuno che sfugge loro di mano. I cavalli, le armi, gli oggetti fatati passano continuamente da un personaggio all’altro, e soprattutto, l’oggetto di desiderio centrale del poema, Angelica, è sempre in fuga.
Il poema si apre con la fuga: Orlando e Rinaldo se la contendono e lei, vista la mal parata dell’esercito di Carlo Magno, salta a cavallo e vola via al galoppo. Nella fuga, come abbiamo detto, si ritrova tra Rinaldo e Ferraù che se la contendono e mentre questi si battono, gira i tacchi e sparisce.
Ma c’è, al centro del poema, un dispositivo fatto apposta per far sparire le cose ed è il castello di Atlante. Come dice Calvino, il palazzo incantato del mago Atlante è una sorta di trabocchetto al centro del poema, una specie di vortice che inghiotte uno a uno i principali personaggi. Ruggiero ci entra credendo di inseguire Bradamante. Orlando vi è attratto credendo di correre dietro ad Angelica. Chi cerca un cavallo, chi va dietro a un nemico invisibile. E in realtà – dice incisivamente Calvino – il palazzo è vuoto degli oggetti cercati e pieno solo dei cercatori.
Ma una volta entrati, i personaggi sono come in un labirinto, e non riescono più a uscirne. Se uno fa per allontanarsi sente un richiamo, e quando corre verso l’apparizione questa è svanita. La donna amata che un cavaliere cerca grida: “Aiuto!” e sembra affacciata a una finestra implorando soccorso, ma appena ci si avvicina non la si vede più da nessuna parte. Quel che a Orlando era sembrata Angelica e a Ruggiero Bradamante, a Bradamante sembrerà Ruggiero, e tutti corrono dietro ai miraggi con cui Atlante adesca le brame inappagate, destinate a restare tali. Dice molto bene Calvino: “Il desiderio è una corsa verso il nulla”,  e di fatto il desiderio è tale, perché è essenzialmente insoddisfatto.

Ma la cosa rilevante è che tutti hanno bisogno di mantenere insoddisfatto il desiderio, nessuno vuole davvero essere tolto dalla propria illusione. Questa è una delle lezioni fondamentali che ci insegna l’esperienza psicoanalitica. Le persone vengono in analisi in cerca di aiuto, per ottenere quel che desiderano e che sembra loro che qualche forza interiore impedisca di raggiungere, ma non appena cominciano ad articolare la domanda di quel che desiderano, cominciano gli intoppi, i ripensamenti, le ritrattazioni.

È una logica splendidamente illustrata da Stendhal, che da giovane è perdutamente innamorato dell’attrice Virginie Kubly. Era ossessionato dal pensiero di lei, ma non osava rivolgerle la parola, quasi neppure pronunciare il suo nome. Un giorno, con un atto che considera di coraggio, s’informa di dove abita, e un mattino, passeggiando e pensando a lei come sempre, s’avvia verso la sua casa, quando improvvisamente la scorge dall’altro lato del giardino. Quasi si sente male e invece di correre verso di lei scappa a gambe levate, come rincorso dal diavolo. 

“La felicità di vederla da vicino, a soli cinque o sei passi di distanza, era troppo grande, mi bruciava, e fuggivo questa bruciatura che mi dava un dolore intensamente reale.”

Vedete come è strana la logica del desiderio: finché l’oggetto si sottrae, il soggetto lo insegue a perdifiato. Finché Angelica fugge, tutti i cavalieri si dannano l’anima per inseguirla e se le danno di santa ragione per contendersela. L’episodio di Stendhal è  Madame Kubley e mostra il versante contrario: l’oggetto appare, si presenta a portata di mano, ed è il soggetto a fuggire.

La stessa logica si ritrova nell’Ariosto, perché Orlando passa tutta la prima parte del poema a inseguire Angelica in lungo e in largo, e quando finalmente la incontra, sulla spiaggia, a cavallo, mentre con Medoro fa rotta verso il Catai, è lui che non c’è più, che è fuggito sulla luna dove è andato a finire il suo senno. Per cui, da essere abbruttito e coperto di fango a cui si è ridotto, semplicemente inciampa in lei, e lei finisce a gambe levate nella sabbia. Il poema si congeda da Angelica con questa poco gloriosa immagine di capitombolo, che la spoglia un po’ dell’aura prestigiosa di oggetto desiderato da tutti. Anche perché ormai non è più disponibile, visto che il suo cuore è per Medoro.

Dicevo che l’Orlando furioso è il poema del desiderio, ma c’è un momento in cui si disegna a forti linee l’amore. Se nel desiderio vediamo la fuga, l’evitamento e la giostra di illusioni architettata dal palazzo di Atlante, nell’amore c’è invece la magia dell’incontro. Ma appare anche il contrasto tra forza e debolezza.

Angelica ha sdegnato tutti i capitani, eroi di forza straordinaria, re e conti di regni esotici e mirabolanti, paladini pronti a proteggerla e a mettere il loro braccio al suo servizio. E invece, cosa succede? Che la freccia di Cupido viene scoccata con il nome di un povero fante, e per di più messo alla mal parata, non certamente in grado di proteggerla e anzi bisognoso lui di protezione e anche di cure.
Medoro viene presentato dall’Ariosto con tutte le patenti di nobiltà d’animo: anche se è solo un povero soldato, è fedele al suo comandante, Dardinello, ucciso in battaglia, e si ripropone insieme a un compagno d’armi, Cloridano, di recuperarne il cadavere.
Vengono però intercettati da una pattuglia di scozzesi comandati da Zerbino, e nel tafferuglio che ne nasce viene gravemente ferito. Anche il modo del ferimento è espressivo: circondati dagli scozzesi, Medoro e Cloridano vogliono vendere cara la pelle e cominciano a far strage. Quando Zerbino acciuffa Medoro, lo prende per i capelli e vuole tagliargli la gola, “ma come gli occhi a quel bel volto mise, gli ne venne pietade, e non l’uccise”. Vi prego di apprezzare la splendida sintesi verticale di questo verso: Medoro sta facendo strage tra gli scozzesi, gli animi sono surriscaldati e gli occhi iniettati del sangue della vendetta. Potremmo pensare che tutto questo ribollire richieda tempo e diversi passaggi e mediazioni per placarsi, ma il turbine e l’odio della battaglia cessano in un istante quando Zerbino vede la bellezza di Medoro. Mentre Medoro supplica che gli sia data solo la grazia di seppellire il suo comandante, un armigero bruto e insubordinato, ed evidentemente insensibile al bello, lo trafigge lasciandolo in una pozza di sangue. È così che lo trova Angelica, che per la prima volta vediamo muoversi a pietà e sgelarsi. Se ne prende cura, cerca delle erbe per lenirgli le ferite, lo conduce a riparo presso un pastore.
Con straordinaria maestria Ariosto ci fa qui vedere come man mano che guarisce la ferita nel corpo di Medoro, si apre quella nell’animo di Angelica.

Il tema dell’amore non è quindi, come per il desiderio, quello della fuga, ma quello dell’incontro. Ciò che lo muove non è la volontà di impossessamento che fa agire gli abituali corteggiatori di Angelica, sempre tesi, aggressivi, in cerca di primati, non è la forza del prestigio, ma la debolezza, la ferita. 

Come se il canto soggiacente a questo fosse: 
“Non ti amo perché mi brami con tutte le tue forze, finanche a perdere il senno, come Orlando, ma perché vedo nelle tue ferite l’impossibilità per te di vivere senza me, vedo in te il posto che mi dai, e questo apre in me una ferita altrettanto profonda, e la mia mancanza si colma della tua.” 

Non è più allora un oggetto di soddisfacimento che cerchiamo per appagarcene, per placare la nostra sete, perché nell’amore c’è una mancanza che si alimenta di una mancanza, e la tua presenza non placa la mia sete, ma la accresce, e più sei qui più ti vorrei, e non mi basti mai, e non c’è un punto di sazietà che mi dice che sono appagato. In questo sta l’intemporalità dell’amore, che è eterno anche se dura un istante, perché proietta in una profondità senza fondo, in una dimensione diversa da quella della realtà, dove si cammina su un solido terreno, dove si sa dove si mettono i piedi e si bada a non farsi male, ma si è piuttosto sospesi come gli amanti nei quadri di Chagall, uno dei più straordinari pittori d’amore, i cui personaggi volano su città irreali senza bisogno di nulla su cui poggiare, perché poggiano l’uno sull’altra (o l’uno sull’altro o l’una sull’altra, l’amore non è mai omofobo)   ̶  ed è questo il volo dell’amore che prendono Angelica e Medoro, dove Angelica vuol fare Medoro imperatore del Catai, reggitore, sovrano e mago dei suoi sogni d’Oriente.

Mentre la realtà della vita quotidiana deve essere ben fondata, solida, un terreno sicuro su cui costruire, e il matrimonio, che appartiene alla realtà, si regola in base a un contratto, a precisi scambi di beni, è benedetto dalle istituzioni e dalle famiglie, l’amore ha bisogno solo della reciproca stretta, e deve trovare man mano il materiale, la costruzione comune che prolunga il tempo magico, istantaneo, dell’incontro, per essere eterno anche nell’istante, per essere la possibilità di un’isola.  

Dott. Marco Focchi
Psicoanalisi, psicoterapia, società

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Orlando furioso: il poema della coscienza
Paolo Gervasi

Come ha scritto Sergio Zatti, l'Orlando Furioso è un “discorso geniale sulla psicologia umana perfettamente compatibile con l’assenza di una psicologia dei personaggi”.

L’affermarsi del romanzo moderno come forma narrativa egemone ha radicalizzato la tendenziale identificazione tra narrazione e intreccio: le diverse declinazioni del romanzo, infatti, da quelle psicologiche a quelle indiziarie, avrebbero in comune un’idea della narrazione come movimento vettoriale di un soggetto, e di una situazione, attraverso il tempo. Le teorie narrative più recenti, al contrario, attente alle implicazioni cognitive ed esperienziali dei racconti, si interrogano sulla narrazione come trasformazione conoscitiva. Non basta il verificarsi di un avvenimento per dare senso a una storia, serve il prodursi di un evento che determini un aumento di conoscenza sul mondo. Il requisito per definire un enunciato narrativo non è tanto la sua transitività, quanto la sua densità cognitiva. Ciò che distingue una storia da un’inerte giustapposizione di fatti è la sua capacità di rappresentare una qualità dell’esperienza, di incorporare i qualia dell’esistenza, i suoi tratti fondamentali, le strutture primarie dell’emozione.

Concepita come espansione e stilizzazione di un nucleo fondamentale di senso, la narrazione sembra aderire ai processi profondi di emersione della coscienza descritti dalle neuroscienze, e in particolare dal neurologo Antonio Damasio. Il controllo corporeo dei meccanismi biologici di base, secondo Damasio, fa affiorare un proto-sé definito dalla percezione delle sensazioni primarie di esistenza. Quando l’organismo stabilisce una relazione con l’ambiente, entrando in contatto con i suoi oggetti di conoscenza, si struttura un sé nucleare che modifica il proto-sé: è questa modificazione a costituire il primo evento cui l’organismo partecipa, e quindi la sua prima azione. Organizzando il succedersi delle pulsazioni del sé nucleare, poi, la mente costruisce il sé autobiografico che dispone gli eventi puntuali, le singole interazioni tra il sé e l’ambiente, in schemi narrativi più complessi che costituiscono i livelli superiori della coscienza. L’enunciato narrativo minimo equivale al costituirsi del sé nucleare, in quanto racchiude il significato di un evento primario, di un’interazione di base tra il soggetto e il contesto; il sé autobiografico si incarica di comporre gli eventi in intrecci più complessi, in narrazioni strutturate che assicurano la continuità e la persistenza dell’io.  

Non basta, in definitiva, il valore azionale del verbo a identificare un racconto: il racconto ha bisogno che il cambiamento della situazione di un soggetto sia cognitivamente significativa. Suggestivamente, Roland Barthes ha definito una delle narrazioni fondanti della modernità letteraria, la Recherche di Marcel Proust, come l’espansione narrativa delle sensazioni che emanano da un nome proprio. Il romanzo è la ricostruzione delle risonanze memoriali e conoscitive del nome in quanto nucleo di significato che contiene un evento, ovvero una relazione fondamentale tra il soggetto e il mondo.

Risalendo dunque la tradizione del romanzo moderno è possibile individuare l’esistenza di modalità narrative diverse, che lavorano per espansione e aggregazione di nuclei significativi. Tra le opere fondanti del canone narrativo occidentale, l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto si offre come case study privilegiato in quanto rappresenta un punto di connessione e di ibridazione tra forme narrative antiche, legate ai moduli dell’oralità e alle diverse tradizioni dell’epica classica e cavalleresca, e una narrativa moderna, più propriamente romanzesca, alla cui fissazione e organizzazione concettualmente prospettica non è estranea la forma simbolica del libro a stampa.
Gianni Celati, scrittore la cui ricerca stilistica ha sempre puntato verso tipologie narrative in grado di emanciparsi dalla costruzione dell’intreccio come sistema temporalmente e logicamente consequenziale, ha scritto che la narrazione del poema cavalleresco si fonda sulla rappresentazione di nuclei emotivi minimi ed elementari, primordiali, generalmente legati a fenomeni fisici. Gli eroi del poema ariostesco agiscono “trascinati dai furori maniacali, dai moti di attrazione e repulsione”; gli atti della volontà sono sostituiti da “risposte fisse in conseguenza di eccitazioni esterne che li colpiscono”; il motore delle azioni è un “furioso e automatico slancio verso la fonte dello stimolo, verso lo scontro o l’inseguimento, dove la massima esaltazione è legata alla gioia bambinesca del cozzare e del percuotere.”

La fantasia dei personaggi è riducibile a “puri moti fisici, dove anche i sentimenti si manifestano come azione materiale di corpi che si scontrano: dall’amore inteso come ‘dolce assalto’, fino ai pensieri che turbano la mente, spesso indicati come l’azione fisica di qualcosa che ‘rode e lima’ il cervello.” La struttura stessa del poema è fondata sul piacere di “narrare l’eterno ritorno di moti bradi, di reazioni selvatiche, con la riconoscibilità di manie tipiche e proverbiali.” Le diverse furie che attraversano il poema sono “qualcosa come l’incaponimento d’un animale per montare la femmina, o per scornare i rivali, o per dominare il gregge, la mandria, il gruppo.”
Le risposte automatiche agli stimoli esterni descritte da Celati richiamano le relazioni tra la coscienza primaria del proto-sé e i contesti ambientali che strutturano il sé nucleare. Facendo perno sull’individuazione di questa dinamica, si può ipotizzare che l’Orlando furioso sia costruito a partire da nuclei emotivi fondamentali, e che il movente primario della narrazione sia la rappresentazione di forme elementari della coscienza e del loro problematico costituirsi come coscienze estese attraverso l’immersione nella complessità crescente dei contesti relazionali.



A confermare questa descrizione della struttura profonda dell’Orlando furioso sta anche la sua dimensione temporale, caratterizzata da una discontinuità che rende la cronologia interna irricostruibile, e costituisce il poema come uno spazio acronico. Il tempo della narrazione si compone di emergenze puntuali, irrelate, paragonabili alle pulsazioni della coscienza nucleare: gli eventi si manifestano in un tempo senza durata, in un succedersi di momenti presenti sospesi in una costellazione simultanea. Di volta in volta le pulsioni che muovono i personaggi vengono attivate dallo sguardo del narratore, che si sposta dall’uno all’altro evento, attratto dalle ossessive ricerche individuali che reclamano di essere innescate, e sabotano la possibilità di intrecciare ordinatamente il filo della trama:  “Dovea cantarne, et altro incominciai, / perché Rinaldo in mezzo sopravenne; / e poi Guidon mi diè che fare assai, / che tra camino a bada un pezzo il tenne. / D’una cosa in un’altra in modo entrai, / che mal di Bradamante mi sovenne: / sovienmene ora, e vo’ narrarne inanti / che di Rinaldo e di Gradasso io canti” (XXXII, 2).

Le componenti nucleari del poema sono spinte emotive, emergenze psichiche, energie dinamiche che non si attivano per comporre un intreccio univoco e finalizzato, che non si dispongono mai a definire logicamente lo schema e il significato della fabula, se non per mezzo di una chiusura forzata. Più che a un finale compiuto, infatti, la risoluzione del poema somiglia all’arresto di una macchina narrativa potenzialmente perpetua. O allo spegnersi di un organismo che muore insieme ai suoi personaggi.
Nonostante le differenze che lo distinguono dalla narrazione finalizzata, l’intreccio ariostesco è una componente fondamentale del poema, ha caratteristiche compositive innovative, e svolge una funzione strutturale più volte indicata come uno degli elementi più significativi del poema. In prospettiva cognitiva, la vertiginosa complicazione dell’intreccio ariostesco rappresenta un tentativo di espansione e di connessione reciproca delle coscienze nucleari, che vengono immerse in una complessa rete di relazioni perché possano costruirsi come coscienze autobiografiche, dotate cioè di continuità e persistenza. Il caotico dinamismo che rende l’intreccio difficilmente dominabile può essere interpretato come un’immagine dei faticosi, frammentari, sempre differiti e disturbati processi di costruzione del sé. La soggettività in via di formazione del poema ariostesco è continuamente sabotata dall’errore, dalla disgiunzione, dalla disgregazione, percorsa dal brivido del possibile riassorbimento nelle “forme semplici” della coscienza nucleare.

Anche da un punto di vista dell’archeologia culturale il poema ariostesco si colloca storicamente su una faglia conoscitiva, sulla linea di separazione dalla quale si sta staccando una nuova forma di soggettività: la concezione moderna dell’individuo conosce nel labirinto del Furioso tutta la precarietà e la difficoltà della sua costruzione.
La forza che più potentemente incarna tanto la tensione della mente-corpo verso l’esperienza relazionale, quanto il rischio di smarrimento e dissoluzione del sé, è la passione amorosa. L’amore è la selva in cui “la via / conviene a forza, a chi vi va, fallire: / chi su, chi giù, chi qua, chi là travia” (XXIV, 2, vv. 3-5). Le rappresentazioni dell’eros nel poema mostrano la difficoltà di armonizzare le pulsioni elementari della coscienza nucleare e le competenze cognitive superiori che consentono di gestire la dimensione intersoggettiva. La rete delle illusioni e degli inganni generata dall’amore, le proiezioni sempre fallaci del desiderio, e soprattutto il continuo fraintendimento delle intenzioni e degli stati mentali altrui, mettono in scena nel poema lo spazio delle funzioni cognitive più complesse, e in particolare di quella che viene definita “teoria della mente”. Il mind reading, la capacità degli individui di costruire proiezioni della situazione psicologica altrui, e quindi di inferire le idee, i pensieri, le intenzioni, i progetti, i desideri che disegnano uno spazio psichico indipendente dal proprio, è per la soggettività in costruzione che si esprime nel Furioso una facoltà difettosa, incompleta, che genera per lo più letture sbagliate. Ovvero gli errori che continuamente rilanciano il movimento della narrazione.



L’erranza innescata dall’esperienza d’amore segnala il conflitto tra pulsioni del desiderio e necessità di costruire una soggettività coerente. La mutabilità, l’instabilità, gli equivoci e i fraintendimenti che alimentano il dispositivo narrativo e producono il livello più complesso dell’intreccio, mettono in figura la densità cognitiva dell’esperienza, le insidie che interferiscono con la costruzione del sé autobiografico. L’intreccio ariostesco realizza anche, come suggerisce Alberto Casadei nel suo libro appena pubblicato da Marsilio, Ariosto: i metodi e i mondi possibili, un universo virtuale, un «mondo possibile» in cui si avvera una realtà altra ma costantemente ancorata al mondo storico, che diventa un laboratorio di sperimentazione della tenuta della soggettività, un campo di esercizio delle potenzialità cognitive fondamentali.

Tuttavia, seppure in un differimento che tende all’infinito, Ariosto intuisce il principio unificatore della soggettività moderna, e rappresenta lo sforzo di autocoscienza dell’individuo che tenta di organizzare le proprie pulsioni nucleari. E non tanto perché i suoi personaggi conoscano una significativa evoluzione individuale, una maturazione psicologica che li emancipi dalla ricorrenza delle loro ossessioni. È l’intreccio, e la sua gestione da parte del narratore, a mostrare una facoltà riflessiva e una tensione del sé verso un dispiegamento autobiografico; tensione spesso frustrata e contraddetta dalla difficoltosa ricomposizione di tutti i fili della narrazione in un disegno complessivo ordinato. Il significato psicologico del poema si dispiega nella sua dimensione relazionale, nelle continue interferenze che fanno cozzare le diverse nuclearità, e che fanno del Furioso, come ha scritto Sergio Zatti, un “discorso geniale sulla psicologia umana perfettamente compatibile con l’assenza di una psicologia dei personaggi”.

In particolare, c’è un personaggio del Furioso che può essere interpretato come la messa in figura di un’ipotesi di continuità e ricomposizione della soggettività: Astolfo, il paladino che, trasformato dalla maga Alcina in mirto, entra nel poema emergendo da un’esistenza puramente biologica. Astolfo conosce lo smarrimento dell’identità, la perdita di sé, l’oblio metaforizzato dal cedimento agli incanti della maga. Riconquistata la forma umana, affronta e sconfigge diverse manifestazioni della dismisura, del mostruoso, dell’informe: il gigante Caligorante che si nutre di esseri umani; il metamorfico ladrone Orrilo, le cui membra continuamente rinascono, incarnando l’ostinazione cieca di un esistere viscerale, la persistenza del biologico; le Arpie, perversione dell’equilibrio etico simbolizzato dalla figura umana; le femmine omicide, rovesciamento paradossale e distopico dell’ordine sociale. Astolfo trasforma le pietre in cavalli e le foglie in navi, quasi replicando il gesto di Cadmo, e quindi mimando la funzione dell’eroe civilizzatore. Soprattutto, Astolfo dissolve il castello di Atlante, il luogo in cui l’ottusità nucleare degli eroi ariosteschi, la loro ostinazione maniacale, la loro fedeltà ai sentimenti primordiali che li muovono, è portata alle estreme conseguenze: tutti vagano in cerca del proprio oggetto del desiderio, e le pulsioni del proto-sé sembrano intrappolate in una ripetitività che impedisce loro di dispiegarsi. Dissolvendo l’incantesimo di Atlante, Astolfo dà la possibilità alle coscienze nucleari di estendere la loro consapevolezza. Recuperando il senno di Orlando, poi, il paladino non solo risolve la vicenda bellica del poema, ma restituisce all’universo poematico la possibilità stessa di affermare la persistenza della coscienza.

Astolfo, eroe che attraversa la mutevolezza, rappresenta la coscienza estesa alle prese con l’instabilità dell’esperienza, e svolge nell’intreccio del poema la funzione di ciò che Damasio definisce la coscienza-testimone, la coscienza che si occupa di collegare e dare continuità alle emergenze puntuali della coscienza basica. E davvero Astolfo è testimone, più che protagonista, di questo processo, dal momento che le sue azioni sembrano determinate dal caso: anziché agire, Astolfo è agito dalle soluzioni che si compiono attraverso di lui, e riesce a esercitare un controllo soltanto empirico e strumentale sugli eventi.
Astolfo è l’eroe ariostesco che percorre nel poema il cammino più lungo e tortuoso: misura il mondo, quasi cartografandolo, ed esplora i suoi confini più estremi, visitando l’Inferno e raggiungendo il Paradiso terrestre e il Cielo della Luna. Il suo volo sull’ippogrifo è il volo della mente che diventa autocosciente e che cerca di conquistarsi una visione prospettica sul reale. E l’ippogrifo, animale che difficilmente si lascia governare, è la forza dalla quale il soggetto è condotto all’autocoscienza; frutto non tanto della volontà, quanto di processi impersonali, contemporaneamente biologici e sociali, la soggettività è sempre precaria, e Astolfo è destinato a perderla di nuovo nell’oscurità dei Cinque Canti, dove, risucchiato dalla follia d’amore, tornerà prigioniero della maga Alcina, in un inquietante movimento circolare della sua vicenda (XXXIV, 86 e poi, nei Cinque Canti, IV, 54 - 74).

Una versione più ampia di questo testo è stata pubblicata in inglese, con il titolo Plot of meanings. Ludovico Ariosto’s Orlando furioso as a case-study on narrativity and cognition, sulla rivista «Reti, saperi, linguaggi. Italian Journal of Cognitive Sciences», 8, 4, 2/2015, pp. 335-347.

http://www.doppiozero.com/materiali/orlando-furioso-il-poema-della-coscienza


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