mercoledì 4 novembre 2015

Oswald Spengler. Le civiltà crescono in una magnifica assenza di fini. “Invece della squallida imagine di una storia mondiale lineare, cui ci si può tenere solo se si chiudono gli occhi dinanzi alla massa schiacciante dei fatti, io vedo una molteplicità di civiltà possenti [...]





Oswald Spengler.
Le civiltà crescono in una magnifica assenza di fini.
Invece della squallida imagine di una storia mondiale lineare, cui ci si può tenere solo se si chiudono gli occhi dinanzi alla massa schiacciante dei fatti, io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza elementare dal grembo di un loro paesaggio materno, al quale ciascuna resta rigorosamente connessa in tutto il suo sviluppo: civiltà, che imprimono ciascuna la ‹propria› forma all’umanità, loro materia, e che hanno ciascuna una ‹propria› idea e delle ‹proprie› passioni, una ‹propria› vita, un proprio ‹volere› e sentire, una ‹propria› morte. Qui vi sono colori, luci, movimenti che nessun occhio spirituale ha ancora scorti. Vi è una giovinezza e una senilità nelle civiltà, nei popoli, nelle lingue, nelle verità, negli dèi, nei paesaggi — come vi sono querce e pini, fiori, rami e foglie giovani e vecchi: mentre una «umanità» al singolare che via via s’invecchi, non esiste. Ogni civiltà ha proprie, originali possibilità di espressione che germinano, si maturano, declinano e poi irrimediabilmente scompaiono. Esistono molte arti plastiche, pitture, matematiche, fisiche profondamente diverse nella loro essenza, ciascuna con una sua limitata via, ciascuna in sé conchiusa, come ogni specie vegetale ha i suoi fiori e i suoi frutti, il suo tipo di sviluppo e di deperimento. Queste civiltà, organismi viventi d’ordine superiore, crescono in una magnifica assenza di fini, come i fiori dei campi. Come le piante e gli animali, esse appartengono alla natura vivente di Goethe e non a quella morta di Newton. Nella storia mondiale io vedo un eterno formarsi e disfarsi, un meraviglioso apparire e scomparire di forme organiche. Invece lo storico di mestiere la concepisce quasi come una tenia che produce instancabilmente epoche su epoche.”
OSWALD SPENGLER (1880 – 1936), “Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale” (1918), traduzione di Julius Evola (1957, riveduta e integrata), a cura e introduzioni di Furio Jesi, Margherita Cottone e Rita Calabrese Conte, Longanesi, Milano 1981 (IV ed., I ed. 1975), Parte prima ‘Forma e realtà’, ‘Introduzione’, 7, pp. 40 – 41.


‟ Ich sehe statt des monotonen Bildes einer linienförmigen Weltgeschichte, das man nur aufrecht erhält, wenn man vor der überwiegenden Zahl der Tatsachen das Auge schließt, das Phänomen einer Vielzahl mächtiger Kulturen, die mit urweltlicher Kraft aus dem Schöße einer mütterlichen Landschaft, an die jede von ihnen im ganzen Verlauf ihres Daseins streng gebunden ist, aufblühen, von denen jede ihrem Stoff, dem Menschentum, ihre «eigne» Form aufprägt, von denen jede ihre «eigne» Idee, ihre «eignen» Leidenschaften, ihr «eignes» Leben, Wollen, Fühlen, ihren «eignen» Tod hat. Hier gibt es Farben, Lichter, Bewegungen, die noch kein geistiges Auge entdeckt hat. Es gibt aufblühende und alternde Kulturen, Völker, Sprachen, Wahrheiten, Götter, Landschaften, wie es junge und alte Eichen und Pinien, Blüten, Zweige, Blätter gibt, aber es gibt keine alternde «Menschheit». Jede Kultur hat ihre eignen Möglichkeiten des Ausdrucks, die erscheinen, reifen, verwelken und nie wiederkehren. Es gibt viele, im tiefsten Wesen völlig voneinander verschiedene Plastiken, Malereien, Mathematiken, Physiken, jede von begrenzter Lebensdauer, jede in sich selbst geschlossen, wie jede Pflanzenart ihre eignen Blüten und Früchte, ihren eignen Typus von Wachstum und Niedergang hat. Diese Kulturen, Lebewesen höchsten Ranges, wachsen in einer erhabenen Zwecklosigkeit auf, wie die Blumen auf dem Felde. Sie gehören, wie Pflanzen und Tiere, der lebendigen Natur Goethes, nicht der toten Natur Newtons an. Ich sehe in der Weltgeschichte das Bild einer ewigen Gestaltung und Umgestaltung, eines wunderbaren Werdens und Vergehens organischer Formen. Der zünftige Historiker aber sieht sie in der Gestalt eines Bandwurms, der unermüdlich Epochen «ansetzt».ˮ
OSWALD SPENGLER, ‟Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichteˮ, Beck, München 1920, Erster Band ʽGestalt und Wirklichkeitʼ (erster Auflage Braumüller, Wien 1918), ʽEinleitungʼ, 7, S. 29.

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