Sette peccati capitali in cerca d’autore
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Ho immaginato di paragonare, come in una sorta di gioco, i sette peccati capitali a grandi personaggi e autori della letteratura. Proprio loro, di cui tanto si è parlato, personaggi che hanno condannato loro stessi e gli altri a vivere una vita dove in fondo il cambiamento e la redenzione non sempre erano contemplati.
Eccoli qui dunque, i sette vizi più gravi, inclinazioni profonde dell’animo umano che si contrappongono alle tanto edificanti virtù. Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia, un elenco temuto che probabilmente nemmeno Dio vorrebbe perdonare.
Sembrerà scontato, ma nel “girone” della superbia metterei proprio Dante Alighieri, colui che tanto ha giudicato gli altri nelle “Divina Commedia”, trovando loro addirittura una collocazione eterna. Il superbo è una persona innamorata della propria superiorità, sia essa vera o presunta, per la quale si aspetta un riconoscimento. L’uomo è in fondo sempre teso ad affermare la propria identità, un processo che non avviene dentro se stessi, bensì si palesa nel rapporto con gli altri. Non dimentichiamo che il bisogno del riconoscimento nell’essere umano è fortissimo, direi uno dei bisogni essenziali e Dante, che è addirittura “uscito a riveder le stelle”, sembrerebbe proprio stare nella giusta posizione. Una piccola “rivincita” di noi comuni mortali, tanto per ribadire il proverbio che “chi la fa l’aspetti”.
Parlando di avarizia, ovvero la scarsa disponibilità a spendere o donare ciò che si possiede, come non pensare al papero più ricco al mondo, lo zio d’America più famoso dei fumetti, il mitico PAPERON DÈ PAPERONI. Lo zio miliardario di Paperino, nei fumetti e nei cartoni animati della Disney, è anche uno dei personaggi più amati al mondo. Egli possiede un “Deposito” colmo di sacchi e banconote, e soprattutto monete d’oro fra le quali ogni tanto si concede una vera e propria “nuotata”, con tanto di regolare tuffo dal trampolino. Forse questo è uno di quei tipici eroi negativi che invece volgono al positivo e si ergono ad esempio. Paperone infatti detesta i fannulloni, è orgoglioso di essersi creato da sé, e impazzisce letteralmente quando qualcuno vuole derubarlo del suo denaro che per lui rappresenta tutte le fatiche affrontate nella vita. Anche se non lo dimostra mai apertamente, in realtà ha un cuore d’oro e vuole molto bene a Paperino e ai “nipotastri”. Un invito alla riflessione, poiché nella vita a volte il proverbio “non è tutto oro quel che luccica” viene contraddetto.
La lussuria mi ha fatto pensare a GABRIELE D’ANNUNZIO, e vi prego di non iniziare a sorridere per qualche episodio peculiare passato alla storia e rivelato al mondo. L’istinto non represso alla sessualità potrebbe anche essere un fattore positivo, ma le passioni danneggiano l’essere umano sia quando sono eccessivamente compresse, sia quando sono scatenate e senza limiti. Il termine designa qualcosa di esagerato, anche se nel corso dei secoli sono state date varie interpretazioni al concetto di lussuria. Dato però che stiamo parlando di un peccato capitale, essa viene intesa come una “menomazione” della volontà e discernimento del bene e del male. Nonostante abitudini più o meno discutibili, di cui non voglio entrare nel merito, trovo che tutto questo “sentire” abbia apportato effetti positivi sulla poesia, creando un nuovo tipo di componimento dove sono i sensi a percepire ciò che accade intorno e a comunicare senza freni inibitori. È il caso ad esempio de “La pioggia nel Pineto”. Possiamo affermare quindi che “non tutto il male viene per nuocere”.
L’invidia, da qualunque parte la si guardi, rimane sempre un sentimento negativo, che si prova nei confronti di una o più persone che hanno qualcosa che noi non possediamo. È un indicatore di come la propria autostima si basi sui risultati anziché provenire da “dentro di sé”. Come non citare IAGO in “Otello” di Shakespeare? Il “cattivo” più emblematico della storia del teatro. Il moro Otello è un valoroso generale al servizio della repubblica di Venezia, che sceglie Cassio anziché Iago come suo luogotenente. Geloso del successo di Otello ed invidioso di Cassio, Iago trama la caduta del Moro facendogli credere che Desdemona, la fedele moglie, abbia una tresca con Cassio. Il fatto che sia definita una “tragedia”, la dice lunga sul proseguo. Dietro ad una malvagità innata sicuramente si nasconde un’invidia profonda per l’uomo che si è fatto rispettare nella società. A meno che non si tratti invece di “omosessualità” repressa, come alcuni hanno suggerito. Mai come in questo caso possiamo dire che vige il proverbio: “L’invidia è la vendetta degli incapaci”.
E veniamo alla gola. Darsi una misura nell’assunzione del cibo può essere molto difficile, perché gusto e olfatto sono i sensi più arcaici che mettono in moto le zone più primitive del nostro cervello. Il rapporto col cibo è un problema serio che investe molti aspetti legati all’esistenza. Infatti i disturbi di alimentazione nascondono sempre un disagio interiore dell’individuo, soprattutto se manifestano gravi forme di malattia, quali l’obesità, la bulimia e l’anoressia. La mia mente avrebbe chiamato in causa ben altri prototipi, ma ho dovuto ricredermi. Si dice che un personaggio molto goloso, passato alla storia, fosse l’insospettabile ed insospettato ALESSANDRO MANZONI. Per sua ammissione pigrissimo, anche se si costringeva a percorreva almeno 15 km a piedi ogni giorno; amava giocare alla roulette e godere del buon cibo. Adorava la testina di vitello glassato e soprattutto i dolci, fra tutti panettone e cioccolata. Gli piaceva tanto il caffè e, aneddoto che la dice lunga, sembra che sia arrivato a farsi realizzare un bicchiere per il vino più grande di quelli in commercio, in modo che se qualcuno lo avesse accusato di aver ecceduto, poteva rispondere di averne bevuto solo due bicchieri. Se questa condotta di vita ha contribuito ad alimentare il suo genio, ben venga, anche perché, come si usa dire, “Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere”.
L’ira è percepita come qualcosa d’altro da noi, che può impossessarsi della nostra personalità, facendoci perdere la ragione e la capacità di controllo. Servito su un piatto d’argento, ecco ACHILLE. Eroe della mitologia greca, protagonista dell’Iliade e della guerra di Troia. Figlio della nereide Teti e di Peleo, re dei Mirmidoni della Tessaglia, fu immerso da bambino nelle acque dello Stige che lo resero immortale. La madre però lo immerse reggendolo per un tallone, che rimase il suo unico punto vulnerabile. Durante l’assedio di Troia, Achille si distinse in molte battaglie, ma quando il re di Micene, Agamennone, pretese per sé la giovane prigioniera Briseide, Achille vietò ai guerrieri di combattere e si chiuse nella sua tenda. Il principe troiano Ettore, scambiandolo per Achille, uccise il suo compagno di armi ed amico Patroclo, che aveva guidato i mirmidoni in battaglia, nonostante il divieto. L’ira di Achille esplose funesta. Egli riprese le armi e duellò con Ettore, al fine di vendicare il giovane amico Patroclo. Una volta vinto, ne trascinò il cadavere trionfalmente dietro il suo carro, come il più insensibile dei barbari. Il rapporto fra Achille e Patroclo è uno degli elementi chiave dei miti associati alla guerra di Troia. Quale sia stata la sua effettiva natura e fino a che punto si sia spinta questa amicizia è oggetto di controversie. Con lui Achille si dimostra molto tenero, quando invece con tutti gli altri è spietato; tanto che a volte questo rapporto è considerato alla luce della “pederastia pedagogica”, alludendo alla relazione dei due guerrieri basata sul sesso, dove Patroclo è poco più di un ragazzo e Achille il suo protettore. In questo caso, “quel che è fatto è reso”.
E veniamo infine all’accidia. Viene definita il male del nostro tempo. Il disagio di quella generazione di “sdraiati” che manifestano noia, indifferenza, afflizione. Un senso di scoraggiamento che induce a lasciar perdere di fronte alle avversità. L’accidia consiste nella paura di affrontare la vita con le sue frustrazioni e nella fuga di fronte a noi stessi per ciò che percepiamo come “vuoto”. Chi è in preda all’accidia non sa compiere scelte durature, ricerca emozioni sempre diverse, come se proiettasse la propria felicità in un altro luogo. Spesso questo tipo di disagio sfocia in depressione, o in altre malattie di natura psicosomatica. Ad incarnare perfettamente questo concetto di “noia esistenziale” secondo me è GIACOMO LEOPARDI, che tanto si è interrogato e lamentato della sua vita, ma che in sostanza non ha mai agito per cambiarne le sorti. Attraverso il suo pessimismo storico, psicologico e cosmico, la teoria trova convalida da sé. Secondo Leopardi così come è stato anche per Rousseau, l’uomo nasce felice, nell’età primitiva e a contatto con la natura. Ma poi si mette alla ricerca del vero, attraverso la ragione, che lo porta a fare esperienze catastrofiche. La storia non è progresso, bensì decadenza, perché apre gli occhi a tristi verità. L’ossessiva ricerca di un piacere che comunque non verrebbe mai appagato, porta l’infelicità ad essere costante della condizione umana. Il piacere non si può avere, così come la sofferenza non si può evitare. Il dolore è portato dalla natura, che ha creato l’uomo desideroso di felicità, pur sapendo che non l’avrebbe mai raggiunta. Una natura “matrigna”, che trova riscontro nel celebre verso “o natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor?”. E ancora: “Perché di tanto inganni i figli tuoi?”.
È vero che se Leopardi fosse stato un tipo allegro e sicuro di sé, certe meravigliose liriche non sarebbero mai scaturite dalla sua mente e non sarebbero qui ad allietare i posteri. D’altro canto, mentre corro a collocare me stessa fra i superbi insieme con Dante, per avere tanto osato, bisogna ribadire il concetto che egli non ha minimamente agito per cercare di cambiare la sua sventurata esistenza. È rimasto a piangersi addosso. Si fosse rimboccato le maniche, forse adesso non saremmo qui a parlare di lui, ed in un certo senso a pensare che “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.
http://www.lundici.it/2014/03/sette-peccati-capitali-in-cerca-dautore/
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