Nel mondo romano la schiavitù diventò un fenomeno generale con le guerre di conquista in Italia:
i liberi impegnati nei conflitti erano sostituiti con gli schiavi e questi divennero sempre più numerosi con l’intensificarsi delle campagne anche fuori d’Italia. Dalla nemica Cartagine, che partecipava a un florido commercio di schiavi su tutte le coste del Mediterraneo, i Romani appresero a impiegare gli schiavi anche come soldati. Per la coltivazione dei latifondi, che diventavano sempre più estesi, Roma ricorse anche a metodi più brutali, come le catture di uomini abili al lavoro nelle regioni occupate o il ricorso ai mercati pubblici (a Deio funzionava un mercato che vendeva fino a 10.000 schiavi al giorno); si aggiungevano a questo l’allevamento di bambini abbandonati e la concessione di privilegi agli schiavi che procreavano figli (futuri schiavi). Il trattamento riservato loro era piuttosto duro e ne sono testimonianza le frequenti insurrezioni, che interessavano intere regioni: Roma stessa fu minacciata da ribellioni di schiavi, capeggiati da Enno (136-132 a.C.) e da Spartaco (72-70 a.C.).
Dal lato giuridico lo schiavo non poteva avanzare nessun diritto e il suo padrone aveva su di lui il diritto di vita e di morte: lo stesso suo sostentamento non costituiva un obbligo de iure, ma piuttosto un interesse o, al massimo, una tradizione. Si valutavano però attentamente le qualità degli schiavi e, se si trattava di persona colta, poteva essere adibita a lavori di segreteria o utilizzata come amanuense, bibliotecario o pedagogo. Gli si concedeva anche, pere antichissima tradizione, di poter tenere un piccolo peculio privato, in deroga al principio che tutto ciò che era acquistato dallo schiavo apparteneva al suo padrone.
Lo schiavo giungeva alla liberazione: per riscatto, con l’adozione, con la manomissione da parte del padrone che costituiva l’ex schiavo nella condizione di «liberto». In età imperiale si concesse allo schiavo di poter essere venduto a un altro padrone se sistematicamente maltrattato; di essere venduto assieme alla moglie, se sposato; di possedere ed ereditare.
L’economia fondata sul lavoro servile fu a Roma una delle cause della sua scarsa produttività e lo aveva ben compreso Columella, che considerava la schiavitù «distruttrice della fecondità del terreno», mentre Varrone faceva osservare che l’interesse del libero coltivatore era la vera causa della maggiore produttività della terra. Diocleziano rese il lavoro servile ancora più costrittivo. Nel campo delle idee, gli stoici e Plinio il Vecchio dichiaravano uguali tutti gli uomini – e quindi la schiavitù contro il diritto naturale -, ma nella pratica, pur di puntellare il sistema schiavistico, si ricorreva alla distinzione fra ius naturale e ius gentium: il primo condannava la schiavitù, il secondo la ammetteva come prassi generale e quindi come diritto.
Lo stesso cristianesimo nulla poté contro la schiavitù, anzi, la patristica ne legittimò l’esistenza come punizione dei peccati, trovando un sottile quanto capzioso argomento: il corpo dello schiavo apparteneva al padrone per diritto di proprietà, la sua anima a Dio, perché sua creatura. La schiavitù continuò anche fra i popoli germanici, che s’insediarono nelle terre dell’ex impero. La condizione giuridica degli schiavi non mutò, perché dove mancavano tradizioni germaniche subentrava il diritto romano: in particolare era concesso allo schiavo di sposarsi, ma solo con una schiava; numerose norme regolavano la vita degli schiavi dello Stato e dei conventi, ma identica era la sostanza della loro posizione giuridica: una cosa nelle mani del padrone.
Nel 109 d. C. Traiano conquistò la Dacia, quella che ora si chiama Romania.
L’insaziabile fame di frumento della plebe romana trovava nuova soddisfazione; occorreva, però, che il rifornimento fosse il più regolare possibile, anche nei periodi di navigazione precaria: da novembre a marzo. Brindisi divenne così più che mai indispensabile scalo mercantile: pochissimi giorni di bonaccia facevano azzardare la traversata invernale.
Il trasporto terrestre, da Brindisi a Roma, doveva procedere anch’esso regolarmente. La via Appia c’era già ormai da oltre 400 anni, ma, proprio la sua età pluricentenaria reclamava restauri che l’Imperatore intraprese in modo sistematico, lungo l’intero percorso.
Nel tratto terracinese per accorciare il percorso di un solo miglio e risparmiare la salita fino a quota 147 metri venne affrontato l’immenso lavoro della tagliata di Pisco Montano. Risale dunque a quel tempo la variante costiera dell’Appia qui stretta tra le rupi e gli spruzzi delle onde del mare.
Fonte: Silvio Adriano Augusto
«Gli schiavi e gli animali domestici sono quasi uguali e rendono su per giù gli stessi servizi. La natura stessa vuole la schiavitù, perché fa differenti i corpi degli uomini liberi da quelli degli schiavi: gli schiavi col vigore che richiedono i lavori a cui sono predestinati, gli uomini liberi incapaci di curvare la loro diritta statura a opere servili e a datti, invece, alla vita politica e alle occupazioni guerresche o pacifiche. Dunque gli uomini sono liberi o schiavi per diritto di natura: la cosa è evidente. Utile agli stessi schiavi, la schiavitù è giusta.»
Secondo Aristotele, il grande filosofo greco del IV secolo a.C., la distinzione fra liberi e schiavi ha origine nella natura stessa: vi sono uomini che nascono liberi, altri che sono destinati da sempre a essere schiavi. L’esistenza degli schiavi sarebbe dunque una necessità naturale, e come tale impossibile da contestare o modificare. L’opinione di Aristotele è l’opinione di tutto il mondo antico, quasi senza eccezione. Per tutta la loro storia, la società greca e quella romana furono società schiaviste, in cui cioè agli schiavi era affidata una quota consistente delle attività produttive; soprattutto furono società in cui, a parte casi rarissimi, nessuno si sognava di mettere in discussione l’esistenza della schiavitù, il diritto di un uomo di essere proprietario di un altro uomo e di poterne disporre liberamente, come oggetto di piacere, o viceversa, come vittima di punizioni e torture, come merce da vendere e comprare, come risorsa da sfruttare in quanto totalmente priva di diritti.
Gli schiavi erano presenti a Roma dai tempi più antichi, ma è nel periodo compreso tra la metà del III e la metà del II secolo a.C., che il loro numero aumentò in modo esponenziale a causa delle grandi conquiste territoriali. Per fare solo un esempio, Emilio Paolo, il vincitore di Pidna (168 a.C.), nei rastrellamenti seguiti alla campagna in Grecia ridusse in schiavitù 150.000 Molossi, una popolazione che abitava la sponda orientale dell’Adriatico. Ed era una cifra modesta rispetto agli sviluppi del secolo successivo: Cesare e Pompeo, i due grandi protagonisti della storia romana nel I secolo a.C., portarono con sé dai territori conquistati rispettivamente un milione e due milioni di schiavi.
Una volta catturate, queste masse sterminate venivano immesse sul mercato. La loro vendita era regolamentata da disposizioni che non si differenziavano, in sostanza, da quelle valide per altre merci: per esempio, gli schiavi erano esposti ai potenziali acquirenti in modo che questi potessero apprezzarne l’aspetto e la robustezza, e il venditore era tenuto a informare l’acquirente di eventuali “difetti della mercanzia”. Dalla metà del II secolo, il cuore del grande commercio internazionale fu l’isola di Delo, al centro del mar Ego: qui il volume delle vendite si aggirava, secondo stime, nei momenti di più intensa attività, a 10.000 schiavi al giorno.
La gran parte degli schiavi razziati in guerra finiva a coltivare i campi.
Di conseguenza, nel corso del II secolo a.C., la proprietà terriera tese sempre di più a scomparire a favore dei grandi latifondi, nei quali il lavoro era affidato a veri e propri eserciti di schiavi. Sulla condizione di questi schiavi siamo informati abbastanza bene grazie ad un’opera di Catone il Censore, il De Agricoltura, una sorta di manuale di buona amministrazione destinato al proprietario di una azienda agricola. Ecco alcuni dei suoi consigli:
«Il padrone faccia vendite all’asta. Venda l’olio, se ha il prezzo alto; venda il frumento in sovrappiù, buoi invecchiati, bestiame e pecore in cattivo stato, lana, pelli, carri vecchi, ferri vecchi, schiavi vecchi, schiavi malati; se ha qualcos’altro di superfluo, lo venda.»
Due cose colpiscono nelle parole di Catone.
Anzitutto, gli schiavi sono inclusi in un elenco che li pone sullo stesso piano di bestiame, carri e ferri vecchi. In secondo luogo, il consiglio di vendere schiavi vecchi e malati rivela una mentalità prettamente utilitaristica: dato che un servo in cattive condizioni fisiche non è redditizio per il padrone, tanto vale che si cerchi di ricavarne un ultimo guadagno, vendendolo. In un altro punto del suo manuale Catone spiega che il padrone «quando gli schiavi sono ammalati, non deve dare loro molto cibo»: ancora una volta, evidentemente, perché durante la malattia lo schiavo risulta improduttivo, e dunque “consuma” cibo senza restituirlo in forma di lavoro prestato. Catone del resto aveva trovato il modo di rendere economicamente conveniente persino l’attività sessuale dei propri schiavi, visto che organizzava, beninteso a pagamento, appositi incontri fra i suoi servi e le sue ancelle. Tra l’altro, poiché i figli di una schiava erano essi stessi schiavi, con questo meccanismo Catone incrementava anche a costo zero il numero dei suoi servi.
Non tutti gli schiavi andavano incontro alla medesima sorte.
Gli addetti al lavoro nelle miniere vivevano in assoluto la condizione peggiore del mondo antico; migliore, invece, quella di chi serviva presso la residenza urbana di un aristocratico. Qui confluivano normalmente schiavi dotati di una certa cultura, che potevano svolgere anche compiti di responsabilità nella gestione dei beni del padrone, o divenire precettore dei suoi figli.
Tutti gli schiavi potevano essere impunemente picchiati, torturati, uccisi, e non solo dai loro padroni; durante le inchieste giudiziarie, per esempio, era normale impiegare la tortura per estorcere la confessione a uno schiavo, mentre questa prassi era rigorosamente vietata nei confronti di uomini liberi. Inoltre, un’antica norma imponeva che, se un servo uccideva il proprio padrone, tutti gli schiavi presenti sotto lo stesso tetto dovevano essere messi a morte insieme al colpevole, sulla base del presupposto che erano stati complici dell’assassino o, quanto meno, non gli avevano impedito di agire. Ancora nel I secolo d.C. (più precisamente nel 57 d.C.), l’uccisione di un importante magistrato da parte di un suo schiavo portò a giustiziare tutti i suoi 400 servi; e a chi si lamentava del’eccessivo rigore della punizione, un senatore spiegò che «l’unico modo per tenere a freno questa accozzaglia di schiavi è il terrore.»
Abbiamo parlato finora degli schiavi maschi, ma naturalmente esistevano a Roma anche moltissime schiave. Le ancelle erano perlopiù al servizio personale della padrona come cameriere, truccatrici, ecc.; in questo caso la loro condizione era per molti aspetti migliore di quella dei loro colleghi uomini, ma anche qui non si può generalizzare: sappiamo dalle fonti che una signora scontenta del lavoro della sua schiava pettinatrice poteva punirla conficcandole nella carne le forcine e le spille usate per reggere i capelli. Le schiave erano però anche oggetti sessuali a disposizione dei loro padroni, che potevano goderne i favori in qualsiasi momento. D’altra parte, come si è già detto, i figli delle schiave ereditavano la condizione della madre: un modo come un altro per incrementare senza oneri economici il numero dei propri servi.
Fonte: Antonio Palo
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