a dare all’opre tue l’ultimo tocco;
che colla bruna patina i colori,
ammorbidisca, e accordi; e quella grazia
aggiunga lor che sol può dare il tempo;
porti il tuo nome a’ Posteri, e più rechi
bellezze all’opre tue che non ne toglie
John Dreyden, 1694
“Verrà del tempo la maestra mano”: il concetto di patina
Di Laura Corchia
L’espressione “tempo pittore” fu coniata nel Seicento ed è intesa come il valore positivo del passaggio del tempo sull’opera.
Già il Baldinucci, nel suo Vocabolario toscano dell’arte del disegno, aveva introdotto il concetto di “Patena”: “Voce usata da’ Pittori, e diconla altrimenti pelle, ed è quella universale scurità che il tempo fa apparire sopra le pitture, che anche talvolta le favorisce”.
La patina è dunque sintomo del trascorrere del tempo ed è vissuta come qualcosa di positivo, che smorza la violenza dei colori e conferisce un tono ambrato ed omogeneo, garanzia di autenticità e di antichità. Il tempo era considerato una sorta di artifex, al pari dell’artista:
Verrà del tempo la maestra mano
a dare all’opre tue l’ultimo tocco;
che colla bruna patina i colori,
ammorbidisca, e accordi; e quella grazia
aggiunga lor che sol può dare il tempo;
porti il tuo nome a’ Posteri, e più rechi
bellezze all’opre tue che non ne toglie
John Dreyden, 1694
Marco Boschini, nella sua celebre opera letteraria dal titolo Carta del navegar pitoresco, immaginava un duello tra la personificazione del tempo ed il restauratore: il tempo che con pazienza e lavoro di pennello stende la sua patina ed il restauratore che con un colpo solo la distrugge:
“EI Vechia ferma el tempo e dise: olà
Cosa pensistu a far col tuo velar?
Vustu forsi Pitura inmortalar?
Ferma, che voi che ti resti incantà.
E mostra al tempo una tal tela scura,
Col dirghe: quando xe, che ti laori
A far patina sora sti colori,
Perché vechia deventa sta pitura?
Responde el tempo: l’è cent’ ani, e pi,
Che studio e che me sforzo a colorir
Quel che ‘l penelo no ha possù suplir,
Dove pretendo saver più de ti.
Misier no, misier no, replica el Vechia:
Te vogio depenar quel che ti ha fato;
Vegno ala prova. E là presto, int’un trato,
El neta el quadro, che ognun se ghe ispechia.
Alora dise el tempo: so anche mi,
Che a desfar quel che ho fato se fa ‘presto.
Se in l’operar ti fussi cusì lesto,
M’inchinerave e te daria ‘l bondì,
El Vechia, con la strada vechia aponto,
Propria, particular, industriosa,
Fa una vergogna al tempo gloriosa,
E torna el quadro in pristino int’un ponto”.
Una preziosa testimonianza su questo tema ci viene da Luigi Crespi, pittore e scrittore d’arte.
Nel 1756, egli invia una lettera al conte Algarotti, nella quale affronta in maniera molto lucida temi rilevanti: il concetto di patina, l’opera d’arte e il tempo, il rapporto tra i materiali artistici e il loro invecchiamento, il ruolo del restauro. Egli esprime una dura condanna nei confronti della pratica della pulitura, vista come inevitabile danno, e si schiera a favore della patina. Già in quell’epoca, era chiaro che il restauro non può avere la pretesa di far tornare l’opera come nuova.
La pagina di Crespi è veramente eccezionale per lucidità di analisi:
quando il quadro è molto ingiallito è pericoloso effettuare una pulitura. Trattandosi di una operazione irreversibile, dovrebbe puntare non alla rimozione totale delle vernici ma al loro graduale assottigliamento, in modo da evitare di scoprire integralmente la pellicola pittorica.
Nel Novecento, avendo alle spalle questo tipo di tradizione, si è arrivati alla teoria di Cesare Brandi, difensore della patina intesa come valore storico ed estetico di un’opera.
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