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Il familismo amorale (dall'inglese amoral familism) è un concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, 1976), scritto in collaborazione con la moglie Laura Fasano.
Le tesi di Banfield sono state e sono oggetto di controversia e hanno stimolato un notevole dibattito sulla natura del familismo e sul ruolo della cultura nello sviluppo o nell'arretramento sociale ed economico.
Chiaromonte (alias Montegrano), centro degli studi sul campo che portarono Banfield a enucleare il paradigma del familismo amorale.
La realtà di Montegrano venne analizzata da Banfield durante nove mesi di permanenza sul campo nel biennio 1954/1955, utilizzando strumenti metodologici diversi: osservazione diretta, interviste e test psicologici a campioni rappresentativi della popolazione, dati provenienti da archivi pubblici e privati[5]. Alcuni dei dati raccolti furono poi comparati con quelli provenienti da studi condotti su altre comunità rurali sia della provincia di Rovigo che del Kansas.
Il paradigma del familismo amorale nacque dallo sforzo di Banfield di capire perché alcune comunità siano socialmente ed economicamente arretrate.
Partendo dalla convinzione di Tocqueville che nei paesi democratici la scienza dell'associarsi sia madre di tutti gli altri progressi, e attraverso lo studio di Montegrano, l'autore arrivò a ipotizzare che certe comunità sarebbero arretrate soprattutto per ragioni culturali. La loro cultura presenterebbe una concezione estremizzata dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo. Gli individui sembrerebbero agire come a seguire la regola:
"massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo".[8]
Sarebbe dunque questa particolare etica dei rapporti familiari la causa dell'arretratezza.[9]
L'autore la denominò familismo amorale.
Familismo perché l'individuo perseguirebbe solo l'interesse della propria famiglia nucleare, e mai quello della comunità che richiede cooperazione tra non consanguinei. A-morale perché seguendo la regola si applicano le categorie di bene e di male solo tra familiari, e non verso gli altri individui della comunità[8].
L'amoralità non sarebbe quindi relativa ai comportamenti interni alla famiglia, ma all'assenza di ethos comunitario, all'assenza di relazioni sociali morali tra famiglie e tra individui all'esterno della famiglia.
https://it.wikipedia.org/wiki/Familismo_amorale
Edward Banfield
Le basi morali di una società arretrata
Le tesi elaborate in questo libro ormai classico non hanno mai smesso di suscitare un'eco estesa ben oltre il mondo degli studiosi. L'espressione "familismo amorale", coniata da Banfield per spiegare l'arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all'arretratezza, di Montegrano (dietro cui si nasconde Chiaromonte, in Basilicata, alla metà degli anni '50), è diventata di uso corrente per etichettare una molteplicità di fenomeni, ma soprattutto per individuare un presunto "difetto" fondamentale della società italiana. Avverso allo spirito di comunità, disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, il familista amorale si comporta secondo la seguente "regola aurea": massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, nel presupposto che tutti gli altri agiscano allo stesso modo. Una interpretazione discussa ma di indubbia efficacia nell'indicare i guasti provocati dalla cronica carenza di senso civico.
Edward C. Banfield (1916-1999), consigliere di diversi presidenti americani, ha insegnato nelle Università di Chicago e Harvard. Tra le sue opere ricordiamo "Political Influence" (1961) e "The Unheavenly City Revisited" (1974).
https://www.mulino.it/isbn/9788815134165
Il particulare italiano da Guicciardini a Banfield
Tra l’auto- e l’etero-riconoscimento
Pierluca Birindelli
In 1958 [...]
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province,
ma bordello!
Dante Alighieri
L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, /
ancora truffe al forestiero, si
presenti come vuole. /
Onestà tedesca ovunque cercherai invano, /
c’è vita e animazione qui,
ma non ordine e disciplina;/
ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, /
e i capi dello
stato, pure loro, pensano solo per sé
Johann Wolfgang von Goethe.
L’Italia va avanti perché ci sono i fessi.
I fessi lavorano, pagano, crepano.
Chi fa la figura di
mandare avanti l’Italia sono i furbi,
che non fanno nulla, spendono e se la godono
Giuseppe
Prezzolini
L’Italia conta oltre 50 milioni di attori.
I peggiori stanno sul palcoscenico
Orson Welles
[...] Nel 1768 Giuseppe Baretti scrive An Account of the Manners and Customs of
Italy; with Observations on the Mistakes of Some Travelers, with Regard to that Country:
è la risposta seccata2
alla descrizione di terribile arretratezza delle condizioni
economiche, morali e civili dell’Italia (soprattutto meridionale) date dal chirurgo
Samuel Sharp, in Letters from Italy (1767).
L’incipit completo afferma:
1 L’apertura alla letteratura e alla narrativa è indispensabile per comprendere l’immaginario
collettivo degli italiani: opere come la Divina Commedia, I promessi sposi, e Pinocchio, per limitarsi
agli esempi più significativi, sono essenziali per la comprensione dei tratti connotativi profondi
della società e cultura italiana, e non soltanto.
2 Probabilmente, molti critici di Banfield sottoscriverebbero questo passaggio del Baretti (dalla
traduzione Dei modi e costumi d’Italia):
«Pochi libri sono così ben accetti alla maggior parte dell’umanità
come quelli che abbondano di calunnie e invettive. […] Gli uomini s’invaghiscono di
ciò che è meraviglioso nei modi e nei costumi come negli eventi; e uno scrittore di viaggi che
aspiri alla celebrità nel proprio paese è generalmente quanto basta per portare in patria da
oltre i confini di quei materiali in abbondanza per gratificare in un sol colpo la malignità e
l’amore della novità predominanti in tanti dei suoi lettori .[…] Così si spaccia agli sprovveduti
il falso per il vero, e così si mantengono gli uomini in quella ristrettezza di pensiero e in quei
pregiudizi campanilistici che dovrebbe essere il nobile fine del viaggiare e dei libri di viaggi di
curare» (2003: 11-12).
[...] L’immagine dell’italiano primitivo viene delineata, pertanto,
anche dai viaggiatori del Grand Tour. [...] L’ideale romantico di un’Italia passionaria, ribelle e decadente
alimenterà gli scritti di Stendhal nelle Chroniques italiennes e di M.me de Staël
in Corinne ou l’Italie; ed è proprio quest’ultimo romanzo-saggio che lancia in
Europa il mito dell’Italia e degli Italiani 6
.
Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi (1824, le citazioni
da un’edizione del 1991) ha come interlocutore implicito proprio Corinne:
con questo dialogo a distanza inizia a penetrare per la prima volta in Italia la
locuzione “carattere nazionale” – coniata nell’ambito della pubblicistica francese
che va da Montesquieu a Voltaire a M.me de Staël. [...] La variabile chiave per comprendere gli attributi
morali, oggi culturali, era l’elemento geografico-climatico: uomo del Nord e del
Sud. Secondo Leopardi, il clima mite avrebbe indotto gli italiani a condurre una
vita prevalentemente sociale (nella piazza, nel corso, etc.) e, quindi, a concentrarsi
sugli aspetti visibili dell’identità 7
.
Lo sbilanciamento sul versante esteriore,
sempre secondo Leopardi, avrebbe sminuito il culto della vita interiore: l’uomo
italiano del tempo avrebbe avuto, pertanto, difficoltà nella costruzione di un “Io
profondo”, slegato dalle interazioni e coltivato nella solitudine domestica – e
la problematicità nell’attivare una conversazione interiore avrebbe determinato
una difficoltà di conversazione con l’Altro tout court. È sempre Leopardi ad anticipare
in maniera sorprendente la principale chiave di interpretazione sociologica
della società italiana, ovvero l’assenza di una “società stretta”: una ruling class,
una borghesia consapevole del proprio ruolo storico.
6
[...] È interessante, a questo riguardo, un altro libro cult che ho visto in mano a molti studenti
americani in Italia: La bella figura di Beppe Severgnini, che si cimenta nella costruzione di un motto
nazionale italiano: «Mangiar bene, comprar qualcosa, mostrarsi molto ed eccitarsi un po’».
Il poeta di Recanati osservava, già allora, l’assenza in Italia di un ceto motore
del processo di modernizzazione, cioè una borghesia illuminata che imponesse
l’ethos all’intero corpo sociale e che si assumesse la responsabilità di
scandire le regole non scritte, ma socialmente stringenti e condivise, le moral
basis che costituissero il “tono” di un’intera nazione.
Sempre seguendo Leopardi, la base morale rappresenta l’humus culturale
per la formazione di un controllo e autocontrollo sociale, indispensabile alla
strutturazione di una società moderna. Questi fondamenti promuoverebbero
una sorta di universalismo, atto al contenimento dell’atteggiamento opposto,
ovvero il particolarismo, che – e questo è il primo punto essenziale di questo
saggio – era già stato ben individuato e così nominato verso la fine del Rinascimento,
molto prima dell’indagine di Banfield e delle note di viaggio del
Grand Tour.
Secondo la prospettiva sviluppata in queste riflessioni, declinare il “familismo
amorale” nell’espressione più sobria e di maggior generalità “particolarismo”,
permette – assieme ad altri passaggi analitici e rispettive conclusioni –
di uscire dalle secche di un dibattito sociologico che dura oramai da un lustro.
L’invettiva leopardiana contro chi faceva «tuono e maniera da se», seguendo
«l’uso e il costume proprio» – massimizzando, cioè, l’interesse privato (proprio,
del proprio nucleo familiare, della propria corporazione) a dispetto di
quello collettivo – si lega in maniera sorprendente alle interpretazioni di Banfield.
Quindi, da una parte l’interpretazione socio-culturale italiana, efficacemente
sintetizzata dal guicciardiano particulare, affonda nei secoli, dall’altra – il
secondo punto essenziale di questo contributo – è un’attribuzione indigena,
in altre parole “ce la siamo detta-data da noi stessi”.
L’idea di una mancanza
strutturale di senso civico, pertanto, appartiene innanzitutto al momento
dell’auto-riconoscimento identitario. [...]
Il resoconto narrativo è, infatti, il primo e più potente strumento interpretativo
e conoscitivo di cui gli esseri umani – come soggetti socio-culturalmente
situati – fanno uso per conferire senso alle proprie esperienze di vita (Bruner
1990, 1991) 9. L’essere umano è stato tradizionalmente definito zoon logikon,
animale dotato di ragione; oggi può essere definito, più concretamente, come
animale simbolico: prima di quello che potrebbe essere chiamato il logos posteriore
della comprensione scientifica e della relativa produzione scritta, c’è il
logos anteriore del discorso narrativo. La gente racconta storie dalla creazione
del mondo, molto prima di cominciare a costruire la fisica matematica. Il discorso,
l’articolazione delle parole (logos) è ciò che distingue l’uomo da tutte le
altre specie animali. Nella misura in cui il logos del racconto precede il logos del
discorso teoretico, lo zoon logikon della filosofia greca potrebbe essere tradotto
come “animale narrante”.
Se queste osservazioni venissero condivise, la comunità sociologica italiana
non dovrebbe attendere ancora a lungo – un lustro è un lasso di tempo più che
sufficiente – come tanti Vladimiri ed Estragoni: l’auspicio è che Godot si rechi
nel meridione d’Italia e faccia uno studio di comunità à là Thomas & Znaniecki,
o à là coniugi Lynd – perché se è chiaro che si può far meglio di Banfield,
è pure chiaro che bisogna provarci. [...]
Ma, sin dai tempi di Orazio, sappiamo quanto siano poca
cosa le leggi non supportate dal costume. [...] Ancora sul peso storico del concetto di particolarismo
Parafrasando un’efficace proposizione contenuta in un saggio di Alfio Mastropaolo
(2009), In principio non era Banfield 12: infatti, l’inizio di questa storia
non può essere contrassegnata dalla venuta dello studioso nordamericano in
Italia. [...] la locuzione più appropriata è: “In principio era Guicciardini”,
oppure “In principio era Leon Battista Alberti”.
Leon Battista Alberti, tra il 1433 e il 1441, scrive un trattato: I libri della famiglia
(1972). L’architetto fiorentino, considerato espressione sublime e completa
dell’umanesimo rinascimentale, intende con “masserizia” l’arte di organizzare
la famiglia – luogo strumentale e affettivo al tempo stesso – come un’azienda.
Secondo Alberti le famiglie – che si reggono con la “roba”, gli amici e le buone
relazioni con l’autorità – non formano mai una civitas; per quanto riguarda la
politica, essa serve a portare via qualche licenza, altrimenti è considerata un
problema da aggirare: «Non si scorge mai, assolutamente mai, nell’opera di
Leon Battista Alberti, un ‘grappolo’ di famiglie, che giungano a formare una
civitas, una società» (Tullio-Altan 1986: 23).
Il “Discorso” leopardiano dà corpo e peso alla cultura, ai costumi, alla
contrapposizione Nord-Sud, ma soprattutto alla famiglia tratteggiata da Leon
Battista Alberti e al “paese del tornaconto personale” che Francesco Guiccciardini
(1576) chiama il particulare. È, infatti, Guicciardini a estendere per primo
l’ombrello semantico del termine “particolare”14 in questa direzione: una
13 L’altra separazione, inopportuna per un’interpretazione sociologica proficua, è l’annosa divisione
in due grandi “bande”: strutturalisti e culturalisti. Con una metafora contemporanea,
è come tentare di capire l’agire sociale dividendo il software dall’hardware. Questi due grandi
gruppi si dividono in ulteriori sottogruppi: chi conta (quantitativi) e chi narra (qualitativi); chi
“macro”, chi “micro”, chi (addirittura) “meso”; chi “lavoro” e chi “consumo”; e via dicendo,
su piani diversi: cattolici versus marxisti; locale, globale e glocale; chi sta per il capitale sociale e
chi per quello economico, in una sorta di regressione infinita che talvolta pare allontanarsi, nei
libri come nelle aule, dai maestri della sociologia che si sono dati da fare sia per riunire (Bourdieu
che, oltre a quello sociale ed economico, mette in campo il capitale culturale e simbolico),
sia per tenere distinte pratiche che dovrebbero appartenere a sfere diverse (Max Weber sulla
scienza e sulla politica). Forse il sociologo del 2011 dovrebbe smettere di sentirsi così a suo agio
nei panni di Guelfo o di Ghibellino.
14
Per Aristotele il termine particolare aveva a che fare con la conoscenza umana: «A noi risultano
dapprima chiare ed evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi
ci consente di individuarne gli elementi e i princìpi. Perciò bisogna procedere dall’universale
al particolare» (Fisica I, 1: 20-25).
È la medesima contrapposizione partitiva ‘tutto/parte’ che
ritroviamo in Cicerone:
«Non mi sono infatti riproposto una trattazione rigorosa e metodica,
e neppure mi riprometto di parlare di tutto, senza omettere alcun particolare» (De re publica, I:
XXIV). In generale i romani davano al termine ‘particolare’ un’accezione di residualità rispetto
al “tutto”.
In Dante è presente la contrapposizione particolare/universale:
«Sì come la natura
particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue denti a l’uomo, e non più né meno, e
quando fa cinque dita ne la mano, e non più né meno» (Convivio, I: 7,9).
È, quindi, il Guicciardini
a introdurre i significati legati a comportamenti ‘particolaristici’ intesi nell’accezione moderna. [...] Gli esseri umani tratteggiati dal Guicciardini – che adotta un approccio
weberiano ante litteram – sono inclini al particulare nei due sensi: sia economico,
sia di “fama e reputazione” (classe e ceto). Lo storico fiorentino considera
proprio questo “spirito del tempo” – e non altre forme di “idealismo” o di
“universalismo” – il vero pilastro per la costruzione di una vita sociale e civile
tesa verso la modernità. L’analisi guicciardiana si concentra sui comportamenti
“adeguati”, spesso legati a una “strategia dell’apparenza”, necessari per
vivere in una realtà sociale e politica percepita come mutevole e instabile. La
ricchezza e la “reputazione” sono indicatori basilari di status per la famiglia,
e l’amicizia (oggigiorno: il capitale sociale) è intesa in maniera strettamente
utilitaristica, cioè in funzione delle esigenze di posizionamento sociale. Avverso
al pronunciarsi sulle “regole” del comportamento umano, il Guicciardini
suggerisce la “discrezione” (capacità di discernere) come unica bussola per
orientarsi in una realtà sociale precaria, frammentata, variabile. La discrezione
sarebbe l’arma che consente agli esseri umani di adeguarsi alla “fortuna”: il
Guicciardini è, quindi, pure un fatalista. L’autore dei Ricordi riconosce – al pari
di Machiavelli – il valore della dissimulazione per l’uomo politico, ma non per
una progettazione politica che evada il qui ed ora del particolare: Guicciardini
non crede nel valore superiore dello Stato. In un mondo antesignanamente
post-moderno, cioè frammentato e imprevedibile – oggi diremmo “liquido” –
per Guicciardini bisogna limitarsi a difendere il proprio particolare. La morale
guicciardiana consiste nella ricerca dell’utilità universale solamente attraverso
quella particolare.
Leopardi loda il “pragmatismo” guicciardiano e la sua capacità di muoversi
“al di qua” di una scienza della politica separata dall’uomo. Ma il poeta di
Recanati, alla fine, se ne discosta profondamente con un j’accuse: «Gli usi e i
costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso
e il costume proprio, qual che egli sia» (1824/1991: 67).
Da Banfield ai giorni nostri: oltre mezzo secolo di dibattito
Nel 1958 Edward Banfield, dopo aver studiato a lungo Chiaromonte, un paese
della Basilicata, pubblica The Moral Basis of a Backward Society. Secondo
lo studioso americano, la cultura politica dell’Italia postbellica favoriva la
perpetuazione di pratiche tradizionalistiche anziché promuovere la stabilità
e l’efficienza di istituzioni democratiche moderne. Si trattava di una cultura particolarista che sosteneva interessi locali e personali; una cultura nella quale
il sentimento di fiducia era ristretto al solo ambito familiare. Banfield, a tal
riguardo, coniò l’ultracitata espressione “familismo amorale”, che é entrata a
far parte del vocabolario delle scienze sociali e umane. Le persone che possiedono
questo tratto mentale-culturale si comportano secondo la regola: «Massimizzare
i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre
che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (1958/1976: 105). Il familista
amorale, pertanto, non coltiva né sviluppa condotte community oriented; il familista
amorale nutre una profonda sfiducia per la collettività, non coopera con
gli altri – a meno che ci sia in ballo un tornaconto personale. La civicness (senso
civico) sarebbe, pertanto, l’atteggiamento antitetico al familismo amorale.
In estrema sintesi16, le tre principali obiezioni al lavoro di Banfield sono:
metodologiche – le domande per rilevare i valori sono una trappola procedurale
(Colombis 1976), la scelta è solo tra familismo e non familismo, non c’è
una posizione intermedia; non possiamo prendere il lavoro di Banfield come
rappresentativo del Mezzogiorno (Geertz ci direbbe che la questione è mal
posta o, più precisamente, inutile, almeno dal punto di vista dell’antropologia
culturale17); storiche – alla luce della situazione strutturale, economica e istituzionale,
era perfettamente razionale per gli abitanti di Chiaromonte comportarsi
così (Pizzorno 1967); politiche – non c’è niente di amorale nell’essere
familista, anzi la famiglia poteva essere una buona forma di mediazione tra
Stato e cittadino (Miller 1974).
Quando ero uno studente universitario, le analisi di Banfield non mi parevano
così avulse dalla realtà degli anni Novanta (meno che mai da quella
attuale). I sociologi italiani, tuttavia, le avevano criticate, e continuavano (continuano)
a farlo. Ragioniamo assieme a Pizzorno. Egli diceva che in condizioni
di povertà, di marginalità storica e sociale, è razionale cercare vantaggi certi e
immediati piuttosto che investire i propri sforzi verso la costruzione di un bene
collettivo di là da venire: l’impegno pubblico sarebbe destinato a un sicuro
fallimento. Lo studioso italiano, segnalando i limiti di un’impostazione rigida
e funzionalistica nello studio dei processi di modernizzazione, considerava
il familismo come una variabile dipendente dai rapporti di classe. Pizzorno,
16 [...]
Dopo il familismo e il parrochialismo, viene, sempre seguendo la precisa ricostruzione
di Mastropaolo, il clientelismo. Joseph La Palombara nel 1964
pubblica Interests Groups in Italian Politics, uno studio sulle relazioni tra Azione
Cattolica, Confindustria e lavoratori della Pubblica Amministrazione. Il titolo
nella traduzione italiana del 1967 si trasforma in un più negativo Clientela e
parentela. E così, il termine “clientelismo” entra a far parte del linguaggio della
sociologia politica: una new entry di un certo peso semantico, potenza retorica,
pregnanza e attualità.
Negli stessi anni, Sidney Tarrow in Peasant Communism in
Southern Italy (1967) accosta al termine clientelismo un’altra parola evocativa,
che diverrà comune nel vocabolario sociologico per descrivere i rapporti tra
famiglia, politica e potere: patronage. Nell’ambito di questo contributo, interessa
sottolineare che Tarrow si discosta dalla rappresentazione di un sud arretrato
in maniera omogenea e con poche speranze di cambiare nel futuro. La
DC secondo Tarrow era riuscita a sviluppare una strategia di raccolta del consenso
nei confronti delle classi medie e basse: Tarrow chiama questa strategia
new patronage o horizontal clienteles, che vengono tradotti nell’espressione italiana
“clientelismo organizzativo” (Mastropaolo 2009: 324).
Tarrow non interpreta il new patronage come sintomo di arretratezza culturale
e politica, ma – al pari di Pizzorno – come la via meridionale (pure fioren-
19
Questa, come commenta, fra gli altri, Mastropaolo, è la cultura politica tipica del mondo
anglosassone. Per altre critiche ad Almond e Verba vedi Rokkan (1964). L’Italia secondo il
politologo norvegese sarebbe stata ridotta a una monocultura, perdendo la varietà delle sfaccettature
regionali. [...] Questo nuovo
clientelismo è considerato una forma di arricchimento e mobilità sociale per
pochi, che ha scarse ricadute sulla prosperità e sullo sviluppo locale: in pratica,
sembra che la ridistribuzione delle risorse statali non possa seguire altro canale
al di fuori di quello clientelare.
È lo stesso Tarrow che, tuttavia, in un articolo
del 1977, The Italian Party System Between Crisis and Transition, si chiede perché
in Italia è mancata – manca, direi – una costituency for universalism. La risposta,
secondo Tarrow, risiede nella debolezza della borghesia nazionale, quindi del
Nord, del Centro e del Sud.
[...]
Arriviamo finalmente alle più recenti (1993) analisi di Putnam, che tendono
a ricuperare la ‘bontà’ del concetto di familismo amorale e della spaccatura
Nord/Sud: nel meridione, in estrema sintesi, manca spirito civico. Putnam,
con una vastissima base empirica e con un metodo piuttosto originale 20, segnala
quanto la diversa produttività delle amministrazioni regionali italiane
sia influenzata dalle diverse tradizioni civiche. [...] Pertanto, la rete di relazioni
familiari presenti in una backward society non può essere pensata solamente
come ostacolo al processo di sviluppo. [...]
Anche secondo Tocqueville «Apparteniamo alla nostra classe prima che
alle nostre opinioni», che poi aggiunge: «In Italia ciò non è meno vero se sostituiamo alla parola
‘classe’, ‘famiglia’».
22 [...]
Come hanno accertato decine di ricerche, fra i popoli mediterranei,
la famiglia (non l’individuo) è la vera unità decisionale [...] orienta
i comportamenti in direzioni precise: trarre vantaggi per sé, per la propria
famiglia (o corporazione) a discapito degli interessi collettivi.
[...]
Inoltre, è proprio nella
premessa teorica implicita o esplicita di queste critiche a Banfield – la profezia
che si auto adempie di Merton (1949) – che sta l’altra forza della categoria familismo-particolarismo.
Il teorema di Thomas (1923), da cui prende spunto Merton,
recita: «If men define things as real, they are real in their consequences». Ed è
proprio questo il nodo centrale dell’interpretazione di Banfield che merita riportare
nuovamente in inglese: «maximize the material, short-run advantage of the
nuclear family; assume that all others will do likewise». [...]
BIRINDELLI, Pierluca. Il particulare italiano da Guicciardini a Banfield Tra l’auto- e l’etero-riconoscimento. SocietàMutamentoPolitica, [S.l.], p. 67-94, nov. 2011. ISSN 2038-3150. Disponibile all'indirizzo: <http://www.fupress.net/index.php/smp/article/view/10319/9548>. Data di accesso: 29 ago. 2016 doi:10.13128/SMP-10319.
http://www.fupress.net/index.php/smp/article/view/10319/9548
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