lunedì 29 agosto 2016

Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata.

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Il familismo amorale (dall'inglese amoral familism) è un concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, 1976), scritto in collaborazione con la moglie Laura Fasano. 


Le tesi di Banfield sono state e sono oggetto di controversia e hanno stimolato un notevole dibattito sulla natura del familismo e sul ruolo della cultura nello sviluppo o nell'arretramento sociale ed economico.

Chiaromonte (alias Montegrano), centro degli studi sul campo che portarono Banfield a enucleare il paradigma del familismo amorale.

La realtà di Montegrano venne analizzata da Banfield durante nove mesi di permanenza sul campo nel biennio 1954/1955, utilizzando strumenti metodologici diversi: osservazione diretta, interviste e test psicologici a campioni rappresentativi della popolazione, dati provenienti da archivi pubblici e privati[5]. Alcuni dei dati raccolti furono poi comparati con quelli provenienti da studi condotti su altre comunità rurali sia della provincia di Rovigo che del Kansas.

Il paradigma del familismo amorale nacque dallo sforzo di Banfield di capire perché alcune comunità siano socialmente ed economicamente arretrate.


Partendo dalla convinzione di Tocqueville che nei paesi democratici la scienza dell'associarsi sia madre di tutti gli altri progressi, e attraverso lo studio di Montegrano, l'autore arrivò a ipotizzare che certe comunità sarebbero arretrate soprattutto per ragioni culturali. La loro cultura presenterebbe una concezione estremizzata dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo. Gli individui sembrerebbero agire come a seguire la regola:

"massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo".[8]

Sarebbe dunque questa particolare etica dei rapporti familiari la causa dell'arretratezza.[9]

L'autore la denominò familismo amorale. 
Familismo perché l'individuo perseguirebbe solo l'interesse della propria famiglia nucleare, e mai quello della comunità che richiede cooperazione tra non consanguinei. A-morale perché seguendo la regola si applicano le categorie di bene e di male solo tra familiari, e non verso gli altri individui della comunità[8].

L'amoralità non sarebbe quindi relativa ai comportamenti interni alla famiglia, ma all'assenza di ethos comunitario, all'assenza di relazioni sociali morali tra famiglie e tra individui all'esterno della famiglia.


https://it.wikipedia.org/wiki/Familismo_amorale



Edward Banfield 
Le basi morali di una società arretrata

Le tesi elaborate in questo libro ormai classico non hanno mai smesso di suscitare un'eco estesa ben oltre il mondo degli studiosi. L'espressione "familismo amorale", coniata da Banfield per spiegare l'arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all'arretratezza, di Montegrano (dietro cui si nasconde Chiaromonte, in Basilicata, alla metà degli anni '50), è diventata di uso corrente per etichettare una molteplicità di fenomeni, ma soprattutto per individuare un presunto "difetto" fondamentale della società italiana. Avverso allo spirito di comunità, disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, il familista amorale si comporta secondo la seguente "regola aurea": massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, nel presupposto che tutti gli altri agiscano allo stesso modo. Una interpretazione discussa ma di indubbia efficacia nell'indicare i guasti provocati dalla cronica carenza di senso civico.

Edward C. Banfield (1916-1999), consigliere di diversi presidenti americani, ha insegnato nelle Università di Chicago e Harvard. Tra le sue opere ricordiamo "Political Influence" (1961) e "The Unheavenly City Revisited" (1974).

https://www.mulino.it/isbn/9788815134165



Il particulare italiano da Guicciardini a Banfield 
Tra l’auto- e l’etero-riconoscimento Pierluca Birindelli In 1958 [...]

Ahi serva Italia, di dolore ostello, 
nave sanza nocchiere in gran tempesta, 
non donna di province, ma bordello! 
Dante Alighieri


L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, / 
ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole. / 
Onestà tedesca ovunque cercherai invano, / 
c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina;/ 
ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, / 
e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé 
Johann Wolfgang von Goethe. 

L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. 
I fessi lavorano, pagano, crepano. 
Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, 
che non fanno nulla, spendono e se la godono 
Giuseppe Prezzolini


L’Italia conta oltre 50 milioni di attori. 
I peggiori stanno sul palcoscenico 
Orson Welles 


[...] Nel 1768 Giuseppe Baretti scrive An Account of the Manners and Customs of Italy; with Observations on the Mistakes of Some Travelers, with Regard to that Country: è la risposta seccata2 alla descrizione di terribile arretratezza delle condizioni economiche, morali e civili dell’Italia (soprattutto meridionale) date dal chirurgo Samuel Sharp, in Letters from Italy (1767)
L’incipit completo afferma: 

1 L’apertura alla letteratura e alla narrativa è indispensabile per comprendere l’immaginario collettivo degli italiani: opere come la Divina Commedia, I promessi sposi, e Pinocchio, per limitarsi agli esempi più significativi, sono essenziali per la comprensione dei tratti connotativi profondi della società e cultura italiana, e non soltanto. 

2 Probabilmente, molti critici di Banfield sottoscriverebbero questo passaggio del Baretti (dalla traduzione Dei modi e costumi d’Italia): 
«Pochi libri sono così ben accetti alla maggior parte dell’umanità come quelli che abbondano di calunnie e invettive. […] Gli uomini s’invaghiscono di ciò che è meraviglioso nei modi e nei costumi come negli eventi; e uno scrittore di viaggi che aspiri alla celebrità nel proprio paese è generalmente quanto basta per portare in patria da oltre i confini di quei materiali in abbondanza per gratificare in un sol colpo la malignità e l’amore della novità predominanti in tanti dei suoi lettori .[…] Così si spaccia agli sprovveduti il falso per il vero, e così si mantengono gli uomini in quella ristrettezza di pensiero e in quei pregiudizi campanilistici che dovrebbe essere il nobile fine del viaggiare e dei libri di viaggi di curare» (2003: 11-12).

[...] L’immagine dell’italiano primitivo viene delineata, pertanto, anche dai viaggiatori del Grand Tour. [...] L’ideale romantico di un’Italia passionaria, ribelle e decadente alimenterà gli scritti di Stendhal nelle Chroniques italiennes e di M.me de Staël in Corinne ou l’Italie; ed è proprio quest’ultimo romanzo-saggio che lancia in Europa il mito dell’Italia e degli Italiani 6 . Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi (1824, le citazioni da un’edizione del 1991) ha come interlocutore implicito proprio Corinne: con questo dialogo a distanza inizia a penetrare per la prima volta in Italia la locuzione “carattere nazionale” – coniata nell’ambito della pubblicistica francese che va da Montesquieu a Voltaire a M.me de Staël. [...] La variabile chiave per comprendere gli attributi morali, oggi culturali, era l’elemento geografico-climatico: uomo del Nord e del Sud. Secondo Leopardi, il clima mite avrebbe indotto gli italiani a condurre una vita prevalentemente sociale (nella piazza, nel corso, etc.) e, quindi, a concentrarsi sugli aspetti visibili dell’identità 7 . 
Lo sbilanciamento sul versante esteriore, sempre secondo Leopardi, avrebbe sminuito il culto della vita interiore: l’uomo italiano del tempo avrebbe avuto, pertanto, difficoltà nella costruzione di un “Io profondo”, slegato dalle interazioni e coltivato nella solitudine domestica – e la problematicità nell’attivare una conversazione interiore avrebbe determinato una difficoltà di conversazione con l’Altro tout court. È sempre Leopardi ad anticipare in maniera sorprendente la principale chiave di interpretazione sociologica della società italiana, ovvero l’assenza di una “società stretta”: una ruling class, una borghesia consapevole del proprio ruolo storico. 6 


[...] È interessante, a questo riguardo, un altro libro cult che ho visto in mano a molti studenti americani in Italia: La bella figura di Beppe Severgnini, che si cimenta nella costruzione di un motto nazionale italiano: «Mangiar bene, comprar qualcosa, mostrarsi molto ed eccitarsi un po’». 

Il poeta di Recanati osservava, già allora, l’assenza in Italia di un ceto motore del processo di modernizzazione, cioè una borghesia illuminata che imponesse l’ethos all’intero corpo sociale e che si assumesse la responsabilità di scandire le regole non scritte, ma socialmente stringenti e condivise, le moral basis che costituissero il “tono” di un’intera nazione. Sempre seguendo Leopardi, la base morale rappresenta l’humus culturale per la formazione di un controllo e autocontrollo sociale, indispensabile alla strutturazione di una società moderna. Questi fondamenti promuoverebbero una sorta di universalismo, atto al contenimento dell’atteggiamento opposto, ovvero il particolarismo, che – e questo è il primo punto essenziale di questo saggio – era già stato ben individuato e così nominato verso la fine del Rinascimento, molto prima dell’indagine di Banfield e delle note di viaggio del Grand Tour.

Secondo la prospettiva sviluppata in queste riflessioni, declinare il “familismo amorale” nell’espressione più sobria e di maggior generalità “particolarismo”, permette – assieme ad altri passaggi analitici e rispettive conclusioni – di uscire dalle secche di un dibattito sociologico che dura oramai da un lustro. 

L’invettiva leopardiana contro chi faceva «tuono e maniera da se», seguendo «l’uso e il costume proprio» – massimizzando, cioè, l’interesse privato (proprio, del proprio nucleo familiare, della propria corporazione) a dispetto di quello collettivo – si lega in maniera sorprendente alle interpretazioni di Banfield. Quindi, da una parte l’interpretazione socio-culturale italiana, efficacemente sintetizzata dal guicciardiano particulare, affonda nei secoli, dall’altra – il secondo punto essenziale di questo contributo – è un’attribuzione indigena, in altre parole “ce la siamo detta-data da noi stessi”. 

L’idea di una mancanza strutturale di senso civico, pertanto, appartiene innanzitutto al momento dell’auto-riconoscimento identitario. [...]

Il resoconto narrativo è, infatti, il primo e più potente strumento interpretativo e conoscitivo di cui gli esseri umani – come soggetti socio-culturalmente situati – fanno uso per conferire senso alle proprie esperienze di vita (Bruner 1990, 1991) 9. L’essere umano è stato tradizionalmente definito zoon logikon, animale dotato di ragione; oggi può essere definito, più concretamente, come animale simbolico: prima di quello che potrebbe essere chiamato il logos posteriore della comprensione scientifica e della relativa produzione scritta, c’è il logos anteriore del discorso narrativo. La gente racconta storie dalla creazione del mondo, molto prima di cominciare a costruire la fisica matematica. Il discorso, l’articolazione delle parole (logos) è ciò che distingue l’uomo da tutte le altre specie animali. Nella misura in cui il logos del racconto precede il logos del discorso teoretico, lo zoon logikon della filosofia greca potrebbe essere tradotto come “animale narrante”. Se queste osservazioni venissero condivise, la comunità sociologica italiana non dovrebbe attendere ancora a lungo – un lustro è un lasso di tempo più che sufficiente – come tanti Vladimiri ed Estragoni: l’auspicio è che Godot si rechi nel meridione d’Italia e faccia uno studio di comunità à là Thomas & Znaniecki, o à là coniugi Lynd – perché se è chiaro che si può far meglio di Banfield, è pure chiaro che bisogna provarci. [...]

Ma, sin dai tempi di Orazio, sappiamo quanto siano poca cosa le leggi non supportate dal costume. [...] Ancora sul peso storico del concetto di particolarismo Parafrasando un’efficace proposizione contenuta in un saggio di Alfio Mastropaolo (2009), In principio non era Banfield 12: infatti, l’inizio di questa storia non può essere contrassegnata dalla venuta dello studioso nordamericano in Italia. [...] la locuzione più appropriata è: “In principio era Guicciardini”, oppure “In principio era Leon Battista Alberti”. Leon Battista Alberti, tra il 1433 e il 1441, scrive un trattato: I libri della famiglia (1972). L’architetto fiorentino, considerato espressione sublime e completa dell’umanesimo rinascimentale, intende con “masserizia” l’arte di organizzare la famiglia – luogo strumentale e affettivo al tempo stesso – come un’azienda. Secondo Alberti le famiglie – che si reggono con la “roba”, gli amici e le buone relazioni con l’autorità – non formano mai una civitas; per quanto riguarda la politica, essa serve a portare via qualche licenza, altrimenti è considerata un problema da aggirare: «Non si scorge mai, assolutamente mai, nell’opera di Leon Battista Alberti, un ‘grappolo’ di famiglie, che giungano a formare una civitas, una società» (Tullio-Altan 1986: 23). 

Il “Discorso” leopardiano dà corpo e peso alla cultura, ai costumi, alla contrapposizione Nord-Sud, ma soprattutto alla famiglia tratteggiata da Leon Battista Alberti e al “paese del tornaconto personale” che Francesco Guiccciardini (1576) chiama il particulare. È, infatti, Guicciardini a estendere per primo l’ombrello semantico del termine “particolare”14 in questa direzione: una 13 L’altra separazione, inopportuna per un’interpretazione sociologica proficua, è l’annosa divisione in due grandi “bande”: strutturalisti e culturalisti. Con una metafora contemporanea, è come tentare di capire l’agire sociale dividendo il software dall’hardware. Questi due grandi gruppi si dividono in ulteriori sottogruppi: chi conta (quantitativi) e chi narra (qualitativi); chi “macro”, chi “micro”, chi (addirittura) “meso”; chi “lavoro” e chi “consumo”; e via dicendo, su piani diversi: cattolici versus marxisti; locale, globale e glocale; chi sta per il capitale sociale e chi per quello economico, in una sorta di regressione infinita che talvolta pare allontanarsi, nei libri come nelle aule, dai maestri della sociologia che si sono dati da fare sia per riunire (Bourdieu che, oltre a quello sociale ed economico, mette in campo il capitale culturale e simbolico), sia per tenere distinte pratiche che dovrebbero appartenere a sfere diverse (Max Weber sulla scienza e sulla politica). Forse il sociologo del 2011 dovrebbe smettere di sentirsi così a suo agio nei panni di Guelfo o di Ghibellino. 14 

Per Aristotele il termine particolare aveva a che fare con la conoscenza umana: «A noi risultano dapprima chiare ed evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi ci consente di individuarne gli elementi e i princìpi. Perciò bisogna procedere dall’universale al particolare» (Fisica I, 1: 20-25). 

È la medesima contrapposizione partitiva ‘tutto/parte’ che ritroviamo in Cicerone
«Non mi sono infatti riproposto una trattazione rigorosa e metodica, e neppure mi riprometto di parlare di tutto, senza omettere alcun particolare» (De re publica, I: XXIV). In generale i romani davano al termine ‘particolare’ un’accezione di residualità rispetto al “tutto”. 

In Dante è presente la contrapposizione particolare/universale: 
«Sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue denti a l’uomo, e non più né meno, e quando fa cinque dita ne la mano, e non più né meno» (Convivio, I: 7,9). 

È, quindi, il Guicciardini a introdurre i significati legati a comportamenti ‘particolaristici’ intesi nell’accezione moderna. [...] Gli esseri umani tratteggiati dal Guicciardini – che adotta un approccio weberiano ante litteram – sono inclini al particulare nei due sensi: sia economico, sia di “fama e reputazione” (classe e ceto). Lo storico fiorentino considera proprio questo “spirito del tempo” – e non altre forme di “idealismo” o di “universalismo” – il vero pilastro per la costruzione di una vita sociale e civile tesa verso la modernità. L’analisi guicciardiana si concentra sui comportamenti “adeguati”, spesso legati a una “strategia dell’apparenza”, necessari per vivere in una realtà sociale e politica percepita come mutevole e instabile. La ricchezza e la “reputazione” sono indicatori basilari di status per la famiglia, e l’amicizia (oggigiorno: il capitale sociale) è intesa in maniera strettamente utilitaristica, cioè in funzione delle esigenze di posizionamento sociale. Avverso al pronunciarsi sulle “regole” del comportamento umano, il Guicciardini suggerisce la “discrezione” (capacità di discernere) come unica bussola per orientarsi in una realtà sociale precaria, frammentata, variabile. La discrezione sarebbe l’arma che consente agli esseri umani di adeguarsi alla “fortuna”: il Guicciardini è, quindi, pure un fatalista. L’autore dei Ricordi riconosce – al pari di Machiavelli – il valore della dissimulazione per l’uomo politico, ma non per una progettazione politica che evada il qui ed ora del particolare: Guicciardini non crede nel valore superiore dello Stato. In un mondo antesignanamente post-moderno, cioè frammentato e imprevedibile – oggi diremmo “liquido” – per Guicciardini bisogna limitarsi a difendere il proprio particolare. La morale guicciardiana consiste nella ricerca dell’utilità universale solamente attraverso quella particolare. Leopardi loda il “pragmatismo” guicciardiano e la sua capacità di muoversi “al di qua” di una scienza della politica separata dall’uomo. Ma il poeta di Recanati, alla fine, se ne discosta profondamente con un j’accuse: «Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli sia» (1824/1991: 67). 

Da Banfield ai giorni nostri: oltre mezzo secolo di dibattito Nel 1958 Edward Banfield, dopo aver studiato a lungo Chiaromonte, un paese della Basilicata, pubblica The Moral Basis of a Backward Society. Secondo lo studioso americano, la cultura politica dell’Italia postbellica favoriva la perpetuazione di pratiche tradizionalistiche anziché promuovere la stabilità e l’efficienza di istituzioni democratiche moderne. Si trattava di una cultura particolarista che sosteneva interessi locali e personali; una cultura nella quale il sentimento di fiducia era ristretto al solo ambito familiare. Banfield, a tal riguardo, coniò l’ultracitata espressione “familismo amorale”, che é entrata a far parte del vocabolario delle scienze sociali e umane. Le persone che possiedono questo tratto mentale-culturale si comportano secondo la regola: «Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (1958/1976: 105). Il familista amorale, pertanto, non coltiva né sviluppa condotte community oriented; il familista amorale nutre una profonda sfiducia per la collettività, non coopera con gli altri – a meno che ci sia in ballo un tornaconto personale. La civicness (senso civico) sarebbe, pertanto, l’atteggiamento antitetico al familismo amorale. 

In estrema sintesi16, le tre principali obiezioni al lavoro di Banfield sono: 
metodologiche – le domande per rilevare i valori sono una trappola procedurale (Colombis 1976), la scelta è solo tra familismo e non familismo, non c’è una posizione intermedia; non possiamo prendere il lavoro di Banfield come rappresentativo del Mezzogiorno (Geertz ci direbbe che la questione è mal posta o, più precisamente, inutile, almeno dal punto di vista dell’antropologia culturale17); storiche – alla luce della situazione strutturale, economica e istituzionale, era perfettamente razionale per gli abitanti di Chiaromonte comportarsi così (Pizzorno 1967); politiche – non c’è niente di amorale nell’essere familista, anzi la famiglia poteva essere una buona forma di mediazione tra Stato e cittadino (Miller 1974). 

Quando ero uno studente universitario, le analisi di Banfield non mi parevano così avulse dalla realtà degli anni Novanta (meno che mai da quella attuale). I sociologi italiani, tuttavia, le avevano criticate, e continuavano (continuano) a farlo. Ragioniamo assieme a Pizzorno. Egli diceva che in condizioni di povertà, di marginalità storica e sociale, è razionale cercare vantaggi certi e immediati piuttosto che investire i propri sforzi verso la costruzione di un bene collettivo di là da venire: l’impegno pubblico sarebbe destinato a un sicuro fallimento. Lo studioso italiano, segnalando i limiti di un’impostazione rigida e funzionalistica nello studio dei processi di modernizzazione, considerava il familismo come una variabile dipendente dai rapporti di classe. Pizzorno, 16  [...]

Dopo il familismo e il parrochialismo, viene, sempre seguendo la precisa ricostruzione di Mastropaolo, il clientelismo. Joseph La Palombara nel 1964 pubblica Interests Groups in Italian Politics, uno studio sulle relazioni tra Azione Cattolica, Confindustria e lavoratori della Pubblica Amministrazione. Il titolo nella traduzione italiana del 1967 si trasforma in un più negativo Clientela e parentela. E così, il termine “clientelismo” entra a far parte del linguaggio della sociologia politica: una new entry di un certo peso semantico, potenza retorica, pregnanza e attualità. 

Negli stessi anni, Sidney Tarrow in Peasant Communism in Southern Italy (1967) accosta al termine clientelismo un’altra parola evocativa, che diverrà comune nel vocabolario sociologico per descrivere i rapporti tra famiglia, politica e potere: patronage. Nell’ambito di questo contributo, interessa sottolineare che Tarrow si discosta dalla rappresentazione di un sud arretrato in maniera omogenea e con poche speranze di cambiare nel futuro. La DC secondo Tarrow era riuscita a sviluppare una strategia di raccolta del consenso nei confronti delle classi medie e basse: Tarrow chiama questa strategia new patronage o horizontal clienteles, che vengono tradotti nell’espressione italiana “clientelismo organizzativo” (Mastropaolo 2009: 324). Tarrow non interpreta il new patronage come sintomo di arretratezza culturale e politica, ma – al pari di Pizzorno – come la via meridionale (pure fioren- 19 

Questa, come commenta, fra gli altri, Mastropaolo, è la cultura politica tipica del mondo anglosassone. Per altre critiche ad Almond e Verba vedi Rokkan (1964). L’Italia secondo il politologo norvegese sarebbe stata ridotta a una monocultura, perdendo la varietà delle sfaccettature regionali. [...] Questo nuovo clientelismo è considerato una forma di arricchimento e mobilità sociale per pochi, che ha scarse ricadute sulla prosperità e sullo sviluppo locale: in pratica, sembra che la ridistribuzione delle risorse statali non possa seguire altro canale al di fuori di quello clientelare

È lo stesso Tarrow che, tuttavia, in un articolo del 1977, The Italian Party System Between Crisis and Transition, si chiede perché in Italia è mancata – manca, direi – una costituency for universalism. La risposta, secondo Tarrow, risiede nella debolezza della borghesia nazionale, quindi del Nord, del Centro e del Sud. [...]

Arriviamo finalmente alle più recenti (1993) analisi di Putnam, che tendono a ricuperare la ‘bontà’ del concetto di familismo amorale e della spaccatura Nord/Sud: nel meridione, in estrema sintesi, manca spirito civico. Putnam, con una vastissima base empirica e con un metodo piuttosto originale 20, segnala quanto la diversa produttività delle amministrazioni regionali italiane sia influenzata dalle diverse tradizioni civiche. [...] Pertanto, la rete di relazioni familiari presenti in una backward society non può essere pensata solamente come ostacolo al processo di sviluppo. [...] 

Anche secondo Tocqueville «Apparteniamo alla nostra classe prima che alle nostre opinioni», che poi aggiunge: «In Italia ciò non è meno vero se sostituiamo alla parola ‘classe’, ‘famiglia’». 22 [...] 

Come hanno accertato decine di ricerche, fra i popoli mediterranei, la famiglia (non l’individuo) è la vera unità decisionale [...] orienta i comportamenti in direzioni precise: trarre vantaggi per sé, per la propria famiglia (o corporazione) a discapito degli interessi collettivi. [...]

Inoltre, è proprio nella premessa teorica implicita o esplicita di queste critiche a Banfield – la profezia che si auto adempie di Merton (1949) – che sta l’altra forza della categoria familismo-particolarismo. Il teorema di Thomas (1923), da cui prende spunto Merton, recita: «If men define things as real, they are real in their consequences». Ed è proprio questo il nodo centrale dell’interpretazione di Banfield che merita riportare nuovamente in inglese: «maximize the material, short-run advantage of the nuclear family; assume that all others will do likewise». [...]

BIRINDELLI, Pierluca. Il particulare italiano da Guicciardini a Banfield Tra l’auto- e l’etero-riconoscimento. SocietàMutamentoPolitica, [S.l.], p. 67-94, nov. 2011. ISSN 2038-3150. Disponibile all'indirizzo: <http://www.fupress.net/index.php/smp/article/view/10319/9548>. Data di accesso: 29 ago. 2016 doi:10.13128/SMP-10319.

http://www.fupress.net/index.php/smp/article/view/10319/9548

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