Francisco Franco, il piccolo borghese che si fece CaudilloFranco, il piccolo borghese che si fece Caudillo
Ottant'anni fa cominciava in Spagna la dittatura, raccontata da un romanzo-biografia di Manuel Vazquez Montalban che ora torna in libreria
di EZIO MAURO
C'erano 20 gradi nell'umidità di Salamanca, cielo coperto sulle tre colline, quel 21 settembre del 1936 quando i quattro soldati di guardia scattarono sull'attenti davanti alla porta della sala d'onore nell'aeroporto San Fernando. Un saluto militare che non finiva mai: uno dopo l'altro, infatti, entrarono nella stanza tre generali di divisione, cinque generali di brigata, due colonnelli, due capitani. Erano i congiurati, alla loro riunione decisiva due mesi dopo l'Alzamiento , la sollevazione militare contro la Repubblica. "Siamo qui per decidere - disse il generale Mola - . O scegliamo un Capo unico o io mi ritiro in otto giorni". "Ma ci sono due modi di dirigere una guerra - obiettò il generale Cabanellas - , o con un Generalissimo, o con una Giunta". "È vero - tagliò corto il generale Kindelán - , esistono due modi, solo che con uno si vince e con l'altro si perde". Votarono, in silenzio: con la totalità dei voti, meno uno, si prese la strada del Generalissimo.
E come "Caudillo de España por la gracia de Dios" si scelse un uomo di bassa statura, un po' pingue, poco marziale, con i baffetti della piccola borghesia militare di provincia. Aveva 44 anni, si chiamava Francisco Franco. Uscendo dalla sala, Cabanellas scosse la testa: "Nessuno lo conosce come me che l'ho avuto ai miei ordini in Africa. Ora che gli avete consegnato la Spagna crederà che sia sua e non permetterà che nessuno lo sostituisca fino alla morte". Non ci fu risposta ma il vecchio generale aveva ragione, una ragione lunga quarant'anni.
Lui aveva una fede incrollabile nel Dio degli eserciti e della Spagna fin da bambino, quando non poteva nemmeno immaginare che un giorno avrebbe camminato sotto un baldacchino, antico privilegio reale, e dopo la morte sarebbe stato addirittura venerato come santo dalla Chiesa cattolica scismatica Palmariana. Naturalmente fu battezzato in una parrocchia militare per poi crescere nella città-bastione di El Ferrol, in una casa con la veranda, un grande tavolo ovale e la tovaglia di velluto verde scuro con sopra gli ultimi numeri di Abc . Lì ascoltava i racconti dei viaggi marinari a Cuba, nelle Filippine, a Suez e a Manila del padre Nicolas prima che se ne andasse con una nuova compagna a Madrid. Lì, soprattutto, si sentiva per sempre protetto dalla madre Pilar che anche quando il figlio era Capo dello Stato saliva regolarmente al santuario del Chamorro per implorare in ginocchio la Madonna di salvarlo.
Qualcun altro, in quei quarant'anni, sarà salito allo stesso santuario per chiedere nel silenzio dei vinti che finisse la dittatura con la sua violenza e la libertà calpestata nel nome di Dio. Fin da quando fece il suo giuramento alla bandiera nell'Alcazar di Toledo, Franco interpretò la scelta militare "come un matrimonio con la Spagna vessata e depredata da secoli", ossessionato dai comunisti e dai massoni. Ma soltanto tra il 1939 e il '43 questo matrimonio contò 200 mila esecuzioni con la fucilazione o la garrota, le carceri piene, la tortura per i "sovversivi", i "paseos", le passeggiate delle squadriglie armate che prelevavano le vittime da casa per giustiziarle fuori città, gli arrestati che volavano dalle finestre delle caserme.
Il Generale si vantò sempre di non aver mai visto tremare la sua mano mentre controfirmava gli ordini di fucilazione. Era un rito delle ore del riposo, davanti a una tazza di cioccolata calda con pane abbrustolito e due sedie su cui si accumulavano i fogli con le condanne da eseguire e quelle da rinviare, secondo il visto in due colori del Caudillo, convinto che ci volesse tempo e metodo non solo per vincere ma per "estirpare la zizzania" e purificare la Spagna. Per i nemici ideologici del regime, il Generalissimo aggiungeva personalmente la scritta "garrota e stampa", cioè esecuzione senza onore e pubblicità. La matita della morte era un lapis Faber, rosso e blu.
L'autobiografia che il Generale non ha mai scritto è lunga 964 pagine dall'infanzia alla morte, con una mole immensa di materiale documentale trasformato in un racconto da cui emerge la psicopatologia di una dittatura feroce. Un romanzo biografico firmato nel 1992 - con l'attrazione che la cavia prova per il pitone - da Manuel Vázquez Montalbán, e pubblicato ora in Italia da Sellerio, con la finzione narrativa di un editore che commissiona a uno scrittore antifranchista una finta biografia del dittatore: scritta con il linguaggio maiuscolo del vincitore, ma con il controcanto di esistenze minime, individuali e familiari, di oppositori che rovesciano in tragedia la magniloquenza del regime, nella solitudine dei vinti costretti a una vita da "talpe", usando "la paura come strumento di sopravvivenza".
Il mix è sorprendente. Franco è se stesso, dalla campagna d'Africa al matrimonio con Doña Carmen a Oviedo, ai saloni del Pardo dove vuole che ogni mattina dal cortile lo svegli il suono di una Diana militare, per prepararsi all'incontro con Hitler a Hendaye nel '40, all'intesa con Mussolini a Bordighera un anno dopo. Poi l'isolamento del primo dopoguerra, la consacrazione internazionale dell'abbraccio di Eisenhower nel '59, la concessione da parte di Pio XII dell'Ordine Supremo di Cristo: per un dittatore che una petizione pretende sia nominato cardinale e che tiene vicino al letto il braccio incorrotto di Santa Teresa, mentre per ordine del Primate dal 1953 in tutte le messe spagnole, piane o cantate, va aggiunta alla preghiera la formula "Ducem Nostrum Francescum".
Ma è vera e disperata anche la controrealtà della Spagna che ha provato a resistere e porta addosso i segni fisici del franchismo e della disfatta. Basta la pagina, bellissima, in cui lo scrittore inventato da Montalbán viene portato dalla madre all'ultima udienza del processo politico al padre, nella speranza che i suoi 10 anni commuovano la Corte Marziale. E invece arriverà la condanna, ma soprattutto la vergogna del ragazzo per quell'uomo alla sbarra senza più forze, quasi servile davanti alle domande dall'accusatore con i baffi circonflessi del fascista, un padre lontano, battuto, perso, quasi rifiutato: "la sorte di mio padre ci insediava nella sconfitta, per tutta la vita".
Poi arriva un momento in cui anche la forza deve fare i conti con la debolezza, e la biologia prende il sopravvento sulla politica. L'uomo che in Spagna viene paragonato a Napoleone, Cesare, Agamennone, chiamato "spiga della pace", "vincitore del drago", "padre che ama e veglia", incomincia ad essere colto da sonnolenze improvvise da cui si sveglia di soprassalto, con imbarazzo e di malumore. Disattento, nelle feste natalizie del 1961 mentre va a caccia sui monti del Pardo mette due cartucce nella canna della doppietta e allo sparo il fucile scoppia spappolandogli la mano sinistra, segnale di un attentato per la voce del popolo, primo segnale di vecchiaia per la voce della Provvidenza.
Restava da regolare il dopo-Franco, nell'illusione di poter dominare il futuro. La Legge di Successione stabiliva che dopo il Caudillo avrebbe guidato lo Stato uno spagnolo di sangue reale, con più di 30 anni, cattolico. Il pretendente era don Juan di Borbone, figlio di quell'Alfonso XIII che nell'aprile del 1909 apparve per la prima volta al cadetto Francisco Franco durante un'esercitazione, a cavallo in una nuvola di polvere e di fumo. Il Caudillo riesce a ottenere da don Juan l'affidamento del figlio Juan Carlos per farlo studiare in Spagna unendo alla legittimità dinastica quella franchista. Nel '48 riceve in ostaggio, per il futuro della corona, un bambino di 10 anni che tra Accademia Militare, scuola navale, scuola dell'Aria, università e formazione religiosa vivrà nelle mani del regime per 27 anni.
Ma ecco che nel '68 il principe compie trent'anni, l'età richiesta per la successione, ecco che gli nasce l'erede maschio, Felipe. La calamita del potere si sposta lentamente ma inesorabilmente, complice un Parkinson che il dittatore non riesce più a nascondere, come racconta il colonnello Sanmartin dopo una visita a metà del 1970: "mi guardava con un'acutezza impressionante, sbatteva le palpebre, capiva tutto ma parlava appena". Tremolio, rigore facciale, sbalzi di umore, il viso che sembra sempre più di cera: e quella sonnolenza durante le riunioni, proprio lui che controllava se stesso, tanto che non si era mai alzato nemmeno una volta nel Consiglio dei ministri per andare in bagno.
Il matrimonio di sua nipote Carmen con don Alfonso di Borbone, il "principe blu", portava nel '72 i Franco nella famiglia reale, ma portava anche il Caudillo nei saloni del Pardo a trascinare i piedi con la bocca aperta senza riconoscere i parenti, in mezzo a frac e gioielli, con l'ordine che nessuno potesse avvicinarlo mentre tutti lo vedevano.
Semplicemente, il Generalissimo non riusciva a morire, e il pugno di ferro continuava a serrare la Spagna, "ma i ratti cercavano tutti di uscire dal sacro ordine", come lui capì prima della fine. Il separatismo basco all'attacco, la Chiesa di base che ora chiedeva addirittura perdono dal pulpito per le complicità del '36 col fascismo, persino l'editoriale del Diario de Madrid che arrivava a suggerire le dimissioni del Caudillo, fino all'attentato che uccide il Capo del governo Carrero Blanco quando va a messa dai gesuiti. E i ministri in processione dal principe alla Zarzuela, mentre lui vede ormai il Presidente del Consiglio solo una volta alla settimana, qualche militare nell'udienza residua del martedì e al funerale di Carrero piange senza riuscire a frenarsi, come se piangesse per il futuro che non c'è più ma anche per tutto il suo passato.
Con la tromboflebite, arriva la cessione dei poteri al principe, e il Generalissimo sente che il regime lo sorregge ormai per puntellare se stesso. Quando chiede di andare in aereo a riposarsi nella tenuta del Pazo, introducono di notte una scaletta dell'Iberia nel giardino del Pardo e lo allenano a scendere da solo i gradini finché non è pronto per le telecamere. Nella finzione che tutto sia immobile c'è bisogno di mostrare la violenza del franchismo, come un sigillo. Così il 2 marzo del '74 l'anarchico Salvador Puig Antich è l'ultimo garrotato, prelevato dalla cella 443 e strangolato dalla macchina del regime nella sala spedizioni del Carcel Modelo di Barcellona, nonostante la supplica di grazia inviata a Franco da Paolo VI.
E il vecchio dittatore vuole ancora comparire alla finestra della Plaza de Oriente il 1°ottobre 1975 per salutare i falangisti radunati a sostegno del regime dopo le proteste da tutto il mondo per l'esecuzione di cinque terroristi dell'Eta, decisa con la sua firma. Parla tre minuti, con gli occhiali scuri e tutte le medaglie al petto in una selva di braccia alzate nel saluto fascista, concludendo con quel'"arriba España" che siglerà anche il suo testamento dove invita tutti a vegliare, "perché i nemici della Spagna e della civiltà cristiana sono in stato d'allerta".
Fa freddo, è autunno, il Caudillo non sta bene, sa che il governo litiga al suo interno, quella notte pretende di dormire con la sua mitragliatrice belga sotto il letto. I bollettini medici ammettono infine l'insufficienza cardiaca, l'edema polmonare, l'emorragia gastrica, tutte insieme. Lo operano prima in una sala improvvisata al Pardo, per nasconderlo, poi alla Ciudad Sanitaria de la Paz dove l'agonia del dittatore occupa 13 giorni e un intero piano d'ospedale.
La notte del 19 novembre Franco decide infine di morire, circondato da borse di ghiaccio che volevano abbassargli la temperatura. L'Arcivescovo di Saragozza, la città dove tutto era cominciato ottant'anni fa, aveva appena steso sul suo letto il sacro manto della Madonna del Pilar. Poi, cominciarono i saldi politici di fine stagione.
http://www.repubblica.it/cultura/2016/08/01/news/franco_il_piccolo_borghese_che_si_fece_caudillo-145162092/
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