“L’esistenza nella cittadina si faceva sempre più vivace, sembrava sempre più ricca e ordinata e assumeva un passo uniforme e un equilibrio fino ad allora sconosciuto, quell’equilibrio cui ovunque e da sempre tende ogni cosa ma che viene raggiunto solo raramente, parzialmente e per poco tempo”.
Ivo Andric, Il ponte sulla Drina
"Le strade erano vuote, i cortili e i giardini sembravano morti. Nelle case turche dominavano l'abbattimento e la perplessità, in quelle cristiane la circospezione e la diffidenza. Ma ovunque e da tutti c'era il timore. Gli austriaci che entravano temevano le imboscate. I turchi avevano paura degli austriaci, i serbi degli austriaci e dei turchi. Gli ebrei avevano paura di tutto e di tutti, poiché, specialmente in tempo di guerra, chiunque è più forte di loro."
Ivo Andric, Il ponte sulla Drina.
Ho letto qualche mese fa questo splendido romanzo di Andric che ha come unico e immutabile protagonista il Ponte in pietra sulla Drina situato nella città di Visegrad, che osserva fiero e solido le vicende umane e sopporta stoicamente le violente piene del fiume.
Davvero superba la prima parte dell'opera che narra le vicende legate alla costruzione del ponte, sia quelle vere e storicamente documentate sia quella trasfigurate dalle leggende popolari e dai miti dell'epopea nazionalistica.
Notevoli le figure dell'imam Ali-Hodza e dell'albergatrice ebrea Lotika, figure emblematiche della società multietnica della Bosnia ottomana prima e asburgica poi, società che però covava in seno il seme di quella tragedia spaventosa che fu la guerra nell'ex-Jugoslavia. Probabilmente questo romanzo ci aiuta comprendere, forse meglio di molti ponderosi saggi storici, le origini della guerra e dei massacri che a cavallo degli anni 80 e 90 del XXmo secolo hanno funestato quella parte della vecchia Europa.
Commenti
Libro bellissimo, che acquistai su consiglio di un'amica. Anche io leggendolo ho capito meglio le ragioni che hanno portato al conflitto che ha insanguinato quei luoghi.
Invito a leggere anche i racconti di Ivo Andric e I tempi di Anika,dove l'autore ha mostrato tutto la sua potenza nel narrare.
l'episodio dell'impalatura mi ha fatto venire la sudarella fredda
Ivo Andric. Il ponte sulla Drina.
Incipit.
Per la maggior parte del suo corso la Drina s'apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi cañon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sponde si allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambe le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate. Un ampliamento di questo genere si trova anche qui, presso Višegrad, nel punto in cui la Drina scaturisce con un'improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata dai Massi di Butko e dai monti di Uzavnica. La curva della Drina è oltremodo angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide e avvicinate che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come da una cupa muraglia. Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d'aria. In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d'acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d'armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio. Questo ponte somiglia a una base dalla quale si apre a ventaglio tutta una pianura ondulata, con la cittadina di Višegrad, i cui dintorni, e le borgate distese sulla fascia delle colline, una pianura coperta di campi, di pascolo, di piantagioni di prugni, intersecata da siepi e quasi spruzzata di boschi cedui e di rade macchie d'abeti. In tal modo, guardando dal fondo del panorama, sembra che dalle ampie arcate del candido ponte scorra e si spanda non soltanto la verde Drina, ma anche tutta questa estensione, solatia e coltivata, con tutto quello che vi si trova e il cielo meridionale sopra.
Ivo Andric. Il ponte sulla Drina.
E così, tra il cielo il fiume e le montagne, una generazione dopo l'altra imparava a non compiangere troppo ciò che la torbida acqua si portava via; ché la vita è un miracolo impenetrabile perché si fa e disfà incessantemente, eppure dura e sta salda, come il Ponte sulla Drina.
Ivo Andric. Il ponte sulla Drina.
cap VI
Il mio defunto padre sentì una volta da šeh-Dedija e raccontò poi a me quand'ero bambino, da che cosa deriva il ponte e come venne eretto il primo ponte del mondo. Quando Allah il potente ebbe creato questo mondo, la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all'uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto più profondamente poté. Così, come narra la storia, nacquero profondi fiumi e abissi che separano una regione dall'altra. [...] Si dispiacque Allah quando vide che cosa aveva fatto quel maledetto; ma poiché non poteva tornare all'opera che il demonio con le sue mani aveva contaminato, inviò i suoi angeli affinché aiutassero e confortassero gli uomini. Quando gli angeli si accorsero che [...] al di sopra di quei punti spiegarono le loro ali e la gente cominciò a passare su di esse. Per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte.
Ivo Andric. Il ponte sulla Drina.
cap. XVI
Coloro che detengono il potere, infatti, dovendo opprimere per governare, sono condannati ad agire sensatamente; e se, trascinati dalla passione o costretti dagli avversari, oltrepassano i limiti della ragionevolezza, scendono su una strada lubrica, e con ciò stesso, da soli segnano l'inizio della loro rovina. Coloro che sono oppressi e sfruttati, invece, si servono facilmente sia del senno che della stoltezza, poiché questi sono soltanto due diversi tipi della loro arma nella perenne lotta contro l'oppressore, che a volte è subdola, a volte aperta.
Ivo Andric. Il ponte sulla Drina.
cap. V
Ivo Andric. Il ponte sulla Drina.
Capitolo 10.
L'ingresso solenne e ufficiale delle truppe austriache ebbe luogo appena il giorno dopo. Nessuno ricordava di aver mai sentito un tale silenzio sulla città. I negozi non furono neppure aperti. Le case avevano finestre e porte chiuse, sebbene fosse una giornata di fine agosto, assolata e calda.
Le strade erano vuote, i cortili e i giardini sembravano morti.
Nelle case turche dominavano l'abbattimento e la perplessità, in quelle cristiane la circospezione e la diffidenza.
Ma ovunque e da tutti c'era il timore. Gli austriaci che entravano temevano le imboscate.
I turchi avevano paura degli austriaci, i serbi degli austriaci e dei turchi. Gli ebrei avevano paura di tutto e di tutti, poiché‚ specialmente in tempo di guerra, chiunque è più forte di loro.
Tutti avevano nelle orecchie l'eco del cannoneggiamento del giorno precedente. E se la gente avesse ascoltato soltanto la voce del proprio spavento, nessun'anima viva avrebbe in quel giorno sporto la testa fuori dalla propria casa. Ma l'uomo ha anche altri signori.
Il reparto austriaco entrato nella cittadina il giorno prima aveva trovato il "mulazim" e i gendarmi.
L'ufficiale che comandava il reparto aveva lasciato al "mulazim" la sua spada ordinandogli di rimanere in servizio e di continuare a salvaguardare l'ordine in città.
Gli era stato detto che, all'indomani, un'ora prima di mezzogiorno, sarebbe arrivato il comandante, un colonnello, e che all'ingresso in città avrebbero dovuto aspettarlo le persone più ragguardevoli, rappresentanti tutte e tre le fedi.
Il canuto e rassegnato "mulazim" aveva subito mandato a chiamare Mula Ibrahim, Huseinaga, il "muderis", "pop" Nikola, e il rabbino David Levi, per comunicare loro che, "in quanto uomini di legge e maggiorenti", l'indomani, a mezzogiorno, avrebbero dovuto aspettare sulla "porta" l'arrivo del comandante austriaco, salutarlo a nome della popolazione ed accompagnarlo fino al mercato.
Molto prima del tempo stabilito i quattro "uomini di legge" si trovarono nella piazza deserta, e, a passi lenti, s'incamminarono verso la "porta".
Qui Salko Hedo, aiutante del "mulazim", insieme con un gendarme, aveva già disteso un lungo tappeto turco dai colori vivaci e aveva con esso ricoperto i gradini ed il centro del sedile di pietra sul quale si sarebbe assiso il comandante austriaco. Se ne stettero lì per un po' di tempo, austeri e taciturni, e poi, vedendo che lungo la bianca strada da Okolishte non c'era neppure la traccia del comandante, si dettero un'occhiata e, come per un accordo, si misero a sedere sulla parte scoperta del sedile di pietra. "Pop" Nikola tirò fuori una grande tabacchiera di pelle e offrì tabacco anche agli altri.
Così sedettero sul sofà, come una volta, quando erano stati giovani e spensierati e, al pari degli altri giovani, avevano ingannato il tempo sulla "porta". Ma adesso erano tutti già in là con gli anni.
"Pop" Nikola e Mula Ibrahim erano uomini anziani, e il "muderis" e il rabbino maturi, vestiti a festa e preoccupati per se stessi, e ciascuno per i suoi. Si guardavano sotto il cocente sole estivo, a lungo e da vicino, e si trovavano l'un l'altro invecchiati per i loro anni, e troppo smunti. E ciascuno ricordava degli altri l'aspetto che avevano posseduto nella giovinezza o nell'infanzia, quando erano cresciuti vicino a quel ponte, ognuno con la sua generazione, l'albero verde di cui non si sa ancora cosa potrà divenire.
Fumavano, parlavano di una cosa e, col pensiero, ne rimuginavano un'altra, lanciando ogni istante occhiate verso Okolishte, donde doveva apparire il comandante dal quale adesso dipendeva ogni cosa e dal quale poteva venire anche per loro, per i loro fedeli e l'intera cittadina sia il bene che il male, sia la calma che nuovi pericoli.
"Pop" Nikola, tra tutti e quattro, era indubbiamente il più calmo e il più quieto, o almeno così sembrava.
Aveva oltrepassato la settantina, ma era ancora fresco e forte. Figlio del famoso "pop" Mihail, che i turchi avevano decapitato in quello stesso posto, "pop" Nikola aveva avuto una giovinezza agitata. Era fuggito più volte in Serbia, mettendosi al sicuro dall'odio e dalla vendetta di alcuni turchi. Con la sua natura sfrenata e col suo comportamento, aveva, in realtà, fornito anche i motivi per odi e vendette.
Ma trascorsi gli anni tempestosi, il figlio di "pop" Mihail s'era insediato nella parrocchia del padre, s'era sposato ed era divenuto calmo.
Quei tempi erano ormai lontani ed erano stati dimenticati. (“Da tempo ho acquistato un altro senno e i nostri turchi hanno abbassato la cresta”, diceva "pop" Nikola scherzando.)
Erano già cinquant'anni che "pop" Nikola amministrava la sua estesa, dispersa e difficile parrocchia di confine, con calma e saggezza, senza grosse scosse e senza angustie, eccetto quelle che porta la vita di per se stessa, con la dedizione del servitore e la dignità del sacerdote, sempre dritto e imparziale, coi turchi, col popolo e con le autorità.
Né prima né dopo di lui ci fu mai in alcun ceto né in alcuna fede un uomo che godesse di una considerazione così generale ed avesse un simile prestigio presso tutti gli abitanti della cittadina senza distinzione di confessione religiosa, di sesso e di età, come questo "pop" che tutti, da sempre, chiamavano "nonno".
Per l'intera città e per l'intero distretto egli era la personificazione della Chiesa serba e di tutto ciò che il popolo chiama e considera cristianesimo. Per di più, la gente ravvisava in lui il prototipo del religioso e dell'autorità in generale, quale la città se lo immaginava in una circostanza come questa.
Era un uomo di alta statura e di inconsueta forza fisica, non molto istruito, ma dotato di un grande cuore, dal senno retto e dallo spirito gioviale libero.
Il suo sorriso disarmava, tranquillizzava ed incoraggiava; era l'indescrivibile ed inestimabile sorriso di un uomo forte, nobile, che viveva in pace con se stesso e con tutto quel che aveva intorno; i suoi grossi occhi verdi si restringevano, in quelle circostanze, in una stretta riga scura dalla quale promanavano auree scintille. E tale egli era rimasto fino alla vecchiaia.
Indossando una lunga pelliccia di volpe, con la grande barba rossiccia che, col trascorrere degli anni, aveva cominciato a farsi brizzolata e gli copriva tutto il petto, con l'enorme calbacco sui rigogliosi capelli, che sul didietro gli si avviluppavano in una compatta treccia e si rivoltavano sotto il copricapo, egli passava per il mercato, come se fosse il sacerdote della cittadina vicino al ponte e di tutta quanta quella regione montana, e non soltanto da cinquant'anni in qua‚ solo per la sua chiesa, ma dall'inizio, dagli antichi tempi in cui il mondo non esisteva ancora e non era ancora diviso nelle fedi e nelle chiese attuali.
Dai negozi, su entrambi i lati della strada, lo salutavano i negozianti, a qualunque religione appartenessero. Le donne si scostavano e, con la testa bassa, aspettavano che il "nonno" passasse.
I ragazzi (perfino quelli ebrei) smettevano di giocare e di gridare, ed i più grandicelli si avvicinavano con aria seria e timorosa alla enorme e pesante mano del "nonno", per sentir riversarsi al di sopra delle loro teste rapate e dei loro volti arrossati dal giuoco la sua voce possente ed allegra, al pari di una buona e gradevole rugiada: “Evviva! Evviva! Evviva, figlio mio!”
Questo atto di riguardo verso il "nonno" faceva parte dell'antico cerimoniale, universalmente accettato, col quale si erano succedute le generazioni nella cittadina.
Anche nella vita di "pop" Nikola c'era un'ombra. Il suo matrimonio non era stato allietato da figli. Era stata una cosa indubbiamente grave, ma nessuno ricordava di aver sentito da lui o da sua moglie una parola di compianto o soltanto di aver sorpreso uno sguardo addolorato. In casa avevano sempre tenuto almeno un paio di bambini adottati presso i parenti di lui o di lei in campagna.
Allevavano questi ragazzi fino a che si sposavano, e poi ne prendevano altri.
Presso "pop" Nikola stava seduto Mula Ibrahim.
Alto, magro e compassato, dalla barba rada e dai baffi pendenti, Mula Ibrahim non era molto più giovane di "pop" Nikola, aveva una grossa famiglia e una bella proprietà ereditata dal padre, ma era così sciatto, meschino e pavido, con occhi azzurri e svegli come quelli di un bambino, che rassomigliava ad un eremita e ad un viandante il quale vive d'elemosina piuttosto che all'imano di Vishegrad e a uno che potesse vantare un antico casato. Mula Ibrahim aveva un difetto: tartagliava, in modo grave e a lungo (“Bisogna non aver niente da fare per conversare con Mula Ibrahim”, dicevano scherzando gli abitanti della cittadina).
Ma Mula Ibrahim era conosciuto per una vasta zona a causa della sua bontà e della sua coscienziosità.
Da quell'uomo sprizzava dolcezza e serenità, e fin dalla prima volta che si avevano contatti con lui si dimenticavano il suo aspetto esteriore e la sua balbuzie. Egli attraeva verso di sè‚ tutti coloro che soffrivano di un dolore, della miseria o di qualsiasi altra pena.
Fin dai villaggi più remoti la gente veniva a chiedere consiglio a Mula Ibrahim.
Davanti alla sua casa c'era sempre qualche persona ad aspettarlo. Uomini o donne incerca di consiglio o di aiuto lo fermavano spesso per la strada. Egli non respingeva mai nessuno, né distribuiva costosi talismani o amuleti, come facevano gli altri imani.
S'incamminava subito verso laprima zona ombreggiata o la prima pietra, un po' in disparte; l'uomo che lo aveva avvicinato gli esponeva a bassa voce la sua pena, MulaIbrahim lo ascoltava attentamente e commiserandolo, poi gli diceva qualche buona parola, trovando sempre le migliori soluzioni possibili, oppure affondava la scarna mano nella profonda tasca del suo giubbotto, e, badando che nessuno lo vedesse, gli metteva in mano qualche soldo. Per lui niente era difficile o ripugnante o impossibile, quando si trattava di aiutare qualche musulmano. Per questo aveva sempre tempo e trovava denaro.
In casi di questo genere non gli dava fastidio neppure la balbuzie, poiché‚ quando parlava sottovoce col suo credente afflitto da una pena, egli stesso dimenticava che balbettava.
Ognuno si allontanava da lui, se non completamente consolato, almeno momentaneamente tranquillizzato, avendo visto che qualcuno aveva sentito la sua pena come una pena propria.
Circondato costantemente da ogni genere di preoccupazioni e di necessità, non pensando mai a se stesso, egli trascorse, o almeno così gli parve, tutta la vita sano, felice e facoltoso.
Il "muderis" di Vishegrad, Husein "efendija", era piuttosto basso e pienotto, ancora giovane, ben vestito e ben curato. Aveva una barbetta nera, spuntata con ogni cura, che incorniciava l'ovale regolare del bianco e roseo viso dai tondi occhi neri. Era letterato, sapeva molte cose, ed egli stesso pensava di sapere ancora di più. Gli piaceva parlare e farsi ascoltare. Era convinto di parlar bene e ciò lo induceva a parlare molto. Si esprimeva con ricercatezza, impiegando parole velate, con movimenti misurati, tenendo un po' sollevate, tutte e due alla stessa altezza, le mani bianche, delicate, dalle unghie rosee, ombreggiate da fitti peluzzi neri. Parlando, si comportava come dinanzi a uno specchio. Possedeva la più grande biblioteca della città, una cassa di libri ferrata e ben chiusa, lasciatagli in eredità, in punto di morte, dal suo maestro, l'illustre Arapùhodgia; questi libri non solo li difendeva con ogni cura dalla polvere e dalle tarme, ma li leggeva anche, di rado e parcamente. E il fatto stesso di possedere un tale numero di volumi così preziosi gli conferiva prestigio presso gli uomini che non sapevano che cosa fosse un libro e accresceva il suo valore anche dinanzi ai propri occhi.
Si sapeva che egli scriveva una cronaca sugli avvenimenti più importanti della città. Anche ciò aveva contribuito a creargli tra i concittadini la fama di uomo istruito ed eccezionale, poichè‚ si riteneva che, proprio per questo, in un certo qual modo egli avesse nelle sue mani il buon nome della cittadina e dei singoli individui. In realtà quella cronaca non era né vasta né pericolosa.
Da cinque o sei anni, da quando il "muderis" l'aveva cominciata, aveva riempito in tutto quattro pagine di unfascicoletto. La maggior parte degli avvenimenti della città, infatti, non era ritenuta dal "muderis" abbastanza importante e degna di entrare nella sua cronaca, la quale era pertanto rimasta sterile, secca e scarna come una orgogliosa zitella.
Il quarto degli "uomini di legge" era David Levi, rabbino di Visegrad, nipote del noto antico rabbino Hadgi Liatcho, che gli aveva lasciato in eredità il proprio nome, la dignità e gli averi, ma niente del suo spirito e della sua serenità. Era ancor giovane, piccolo e pallido, con gli occhi scuri vellutati e lo sguardo triste. Era indicibilmente pauroso e taciturno. Divenuto rabbino da poco, s'era sposato non molto tempo prima. Per apparire più importante e più grosso, portava un ampio e ricco vestito di panno pesante e aveva il volto coperto di barba e baffi, ma sotto quel vestito si intuiva un corpo debole, freddoloso, e attraverso la rada barba nera si scorgeva il cagionevole e infantile ovale del volto. Penava terribilmente ogni volta che era costretto ad andare in mezzo alla gente e partecipare a colloqui e a decisioni, poiché‚ sempre sisentiva piccolo, debole e impari ai compiti che doveva affrontare.
Ora sedevano al sole e sudavano tutti e quattro, con indosso gli abiti da festa, emozionati e preoccupati più di quanto non desiderassero far vedere. Avanti, fumiamo ancora una volta; abbiamo tempo, accidenti a lui, non è certo un uccello che possa volare sul ponte disse "pop" Nikola, che ormai da anni aveva appreso a nascondere sotto gli scherzi la preoccupazione e il vero pensiero, proprio ed altrui. Tutti guardarono verso Okolishte, poi si rimisero fumare. La conversazione si svolgeva lenta e cauta e verteva sempre intorno al problema dell'attesa del comandante. Tutti erano d'opinione che "pop" Nikola avrebbe dovuto porgere il saluto e il benvenuto al colonnello. Con le palpebre socchiuse e le sopracciglia unite, sì che gli occhi gli formavano quella scura linea dalla quale promanavano auree scintille simili ad un sorriso, "pop" Nikola li guardò tutti e tre a lungo, in silenzio e attentamente.
Il giovane rabbino moriva di paura. Non aveva forza per soffiare lontano da sè‚ il fumo che gli fluttuava a lungo tra i baffi e labarba. Il "muderis" non era meno spaventato. Tutta la sua loquacità e la sua dignità di uomo istruito, quel mattino, lo avevano abbandonato all'improvviso. Egli non si rendeva conto neppure approssimativamente di quanto sembrasse stravolto e di quanto fosse atterrito, perché‚ l'alta considerazione che aveva di se stesso, non gli consentiva di credere qualcosa del genere.
Aveva tentato di tenere uno dei suoi forbiti discorsi, con gesti acconci per spiegare ogni cosa, ma le sue belle mani gli erano cadute da sole in grembo e la parola gli si era imbrogliata e spezzata. Si meravigliava, non riuscendo a capire dove fosse andata a finire la sua consueta dignità, e invano si tormentava per ritrovarla, cercandola come cosa cui da molto tempo era abituato e che ora, quando ne aveva più che mai bisogno, s'era sperduta chi sa dove. Mula Ibrahim era un po' più pallido del solito, ma per il resto tranquillo e sicuro di sè. Lui e "pop" Nikola si guardavano di tanto in tanto, come se si intendessero con gli occhi.
Fin dalla giovinezza erano buoni conoscenti e amici, per quanto, in quei tempi, si potesse parlare di amicizia tra turchi e serbi. Quando, in gioventù, "pop" Nikola aveva avuto quei suoi "contrasti" con i turchi di Vishegrad ed aveva dovuto nascondersi e scappare, lo aveva aiutato Mula Ibrahim, il cui padre era molto potente nella cittadina. Più tardi, quando erano sopraggiunti tempi più calmi, i rapporti tra le due fedi erano divenuti più tollerabili e loro due erano entrati nella maturità; allora erano divenuti amici e si chiamavano scherzosamente l'un l'altro "vicino", dato che le loro case erano ai due estremi opposti della città. Durante le siccità, le inondazioni, le epidemie e le altre sventure di volta in volta sopraggiunte, s'erano trovati a svolgere il medesimo lavoro, ciascuno in mezzo al proprio popolo.
E, in generale, ogni volta che si incontravano a Mejdan o ad Okolishte, si salutavano e chiedevano l'uno dell'altro notizie come in nessun posto fanno un "pop" ed un imano.
In quelle occasioni "pop" Nikola indicava spesso con la pipetta la città giù accanto al fiume e diceva quasi scherzando: “Tutto quello che respira e striscia e parla con voce umana laggiù ce l'abbiamo sull'anima io e te”. “È così, perdinci, "vicino" rispondeva Mula Ibrahim tartagliando “davvero ce lo abbiamo.”
(E gli abitanti della cittadina, che sapevano trovare frasi per ridere di tutto e di tutti, dicevano, a proposito di persone legate da amicizia: “Si amano come il "pop" e l'imano”. E questo, ormai, era diventato per loro un modo di dire).
Ora, dunque, quei due si comprendevano bene, pur non dicendo neppure una parola.
"Pop" Nikola sapeva che il momento era grave per Mula Ibrahim, e questi sapeva che neppure il "pop" era privo di preoccupazioni.
E si guardavano come avevano fatto tante volte nella vita e in tante circostanze diverse: come due uomini che avevano sulla coscienza tutti coloro che camminavano su due zampe nella cittadina, il primo quelli che si segnavano, il secondo quelli che si inchinavano.
A un tratto si sentì un rumore di trotto. Venne a gran carriera un gendarme su un piccolo ronzino. Ansante e impaurito, gridò già da lontano come un banditore: ”Ecco il signore, eccolo su un bianco cavallo!” Poi apparve anche il "mulazim", sempre tranquillo, sempre egualmente gentile e silenzioso. Dalla parte di Okolishte si alzava una nuvola di polvere. Quegli uomini, nati e cresciuti in quella remota regione della Turchia, e per di più della decrepita Turchia del diciannovesimo secolo, naturalmente non avevano mai avuto occasione di conoscere un vero esercito, forte e ben organizzato, di una grande potenza.
Tutto ciò che, fino a quel momento, avevano potuto vedere, erano state le difettose unità dell'esercito del sultano, mal nutrite, miseramente vestite e non pagate regolarmente, o, ancora peggio, gli irregolari bosniaci, reclutati per forza, privi di disciplina e di entusiasmo.
Avevano ora dinanzi, per la prima volta, la rivelazione della vera forza di un impero, un reparto vittorioso, abbagliante e sicuro di sè. Truppe siffatte dovevano abbacinare loro gli occhi e fermare le parole nella gola. Fin dal primo sguardo, dai finimenti dei cavalli e da ogni bottone delle divise dei soldati, si poterono intuire, dietro a quegli ussari e a quei cacciatori disposti in parata, vaste e solide retrovie, la forza, l'ordine e il benessere di un altro mondo.
La sorpresa fu grande e l'impressione profonda. Avanti a tutti cavalcavano due trombettieri su due muscolosi cavalli pomellati, seguiva un reparto di ussari montati su morelli. I cavallierano strigliati e avanzavano come fanciulle, a passetti contegnosi.
Gli ussari, coi loro berretti piatti senza visiera e i cordoni gialli sul petto, tutti giovani rosei e abbronzati dai baffetti ritorti, sembravano freschi e riposati come venissero allora dalla caserma.
Dietro di loro cavalcava un gruppo di sei ufficiali, con in testa il colonnello. Su di lui si appuntarono tutti gli sguardi.
Il suo cavallo era più alto degli altri, un balzano dal collo straordinariamente lungo ed eretto.
Ad una certa distanza dagli ufficiali c'era una compagnia di fanti, cacciatori, con le uniformi verdi, le penne sui berretti di pelle e le cinghie bianche sul petto; chiudevano la scena e sembravano una foresta in movimento. I trombettieri e gli ussari cavalcarono davanti agli ecclesiastici e al "mulazim", si fermarono sulla piazza e si disposero ai lati. Le persone che erano alla "porta", pallide ed emozionate, si misero in mezzo al ponte, volgendo il viso agli ufficiali che sopraggiungevano. Uno degli ufficiali più giovani avvicinò il proprio cavallo al colonnello e gli disse qualcosa. Tutti rallentarono l'andatura.
A qualche passo di distanza dagli "uomini di legge", il colonnello si fermò all'improvviso e scese, imitato dagli ufficiali che lo seguivano, come a un segnale convenuto. Accorsero i soldati che presero i cavalli e li portarono qualche passo indietro. Non appena ebbe toccato terra coi piedi, il colonnello apparve trasformato. Era piccolo, insignificante, stanchissimo, sgradevole e minaccioso. Come se, solo fra tutti e al posto di tutti, egli avesse fatto la guerra.
Soltanto adesso si vide che, a differenza dei suoi ufficiali, dal volto chiaro e dai vestiti attillati, egli era dimesso nell'abito trasandato e trascurato. Aveva l'espressione dell'uomo che si prodiga senza riguardi, che si strugge da sè. Aveva il volto abbronzato, ispido, occhi torbidi ed irrequieti, e l'alto berretto un po' di sbieco. L'uniforme era sgualcita e troppo ampia per il suo magro corpo. Alle gambe calzava stivali dai gambali bassi e flosci, non lucidati. Avanzando a passi ineguali con il frustino in pugno, s'avvicinò.
Uno degli ufficiali gli si mise di fronte, presentando gli uomini schierati dinanzi a lui. Il colonnello lanciò loro una breve e dura occhiata, con lo sguardo adirato, fosco, di chi si trovi sempre a dover affrontare penose faccende e gravi pericoli. E subito si potè osservare che egli non sapeva guardare altrimenti. Fu allora che prese la parola "pop" Nikola, con la sua voce tranquilla e profonda.
Il colonnello sollevò la testa e fissò lo sguardo sul visodi quell'uomo robusto coperto dalla tonaca nera. L'ampia, placida maschera da patriarca biblico trattenne per un momento la sua attenzione. Si poteva non capire o fraintendere ciò che diceva il vecchio, ma la sua faccia non poteva non colpire. E "pop" Nikola parlava fluidamente e con naturalezza, rivolgendosi piuttosto al giovane ufficiale incaricato di tradurre le sue parole che non alcolonnello stesso.
A nome degli ecclesiastici presenti, rappresentanti di tutte le confessioni, egli assicurava il colonnello che essi, insieme con la popolazione, erano disposti a sottomettersi alle nuove autorità e che avrebbero fatto tutto il possibile al fine di tutelare la pace e l'ordine che il nuovo governo chiedeva.
Dal canto loro, pregavano che le truppe difendessero loro stessi e le loro famiglie e che rendessero loro possibile una vita tranquilla e un onesto lavoro. "Pop" Nikola parlò brevemente e concluse all'improvviso. Lo sbrigativo colonnello non riuscì a perdere la pazienza. Tuttavia non aspettò la traduzione del giovane ufficiale fino alla fine. Brandendo il frustino, lo interruppe con voce tagliente e diseguale: ”Bene, bene! Avranno protezione tutti coloro che si comporteranno bene. E debbono mantenere la pace e l'ordine dovunque. Altrimenti non possono pretendere niente.” E fatto un cenno con la testa, proseguì in avanti, senza salutare esenza guardare nessuno.
Gli ecclesiastici si tirarono da parte. In mezzo a loro passò il colonnello, seguito dagli ufficiali e dai palafrenieri coi cavalli. Nessuno dette un'occhiata agli "uomini di legge", che rimasero soli alla "porta". Tutti erano delusi. Durante la mattinata e nel corso della notte precedente, nella quale nessuno di loro aveva dormito molto, essi si erano infatti chiesti centinaia di volte come sarebbe stato il momento in cui avrebbero ricevuto alla "porta" il comandante delle truppe imperiali.
Se l'erano immaginato in tutti i modi possibili, ciascuno secondo il proprio senno e la propria natura, ed erano preparati al peggio. Qualcuno di loro s'era già visto condotto in esilio, nella lontana Germania, destinato a non vedere mai più la sua casa e la sua città. Qualcuno aveva rammentato le storie di Hajrudin, che, un tempo, aveva tagliato teste proprio su quella "porta". In tutti i possibili modi s'erano immaginati la cosa, tranne che nella maniera in cui s'era effettivamente svolta, con quel piccolo, ma acido e cattivo ufficiale, per il quale la guerra era divenuta la vera vita, e che, non pensando a se stesso e non tenendo conto degli altri, vedeva tutti gli uomini e tutte le terre intorno a sè‚ alla stregua di oggetti o mezzi di guerra e di lotta, e si comportava come se guerreggiasse per conto proprio e a titolo personale.
Così rimasero fermi, guardandosi dubbiosi. Gli sguardi di ciascuno di loro, indifferentemente, chiedevano muti: "Siamo rimasti vivi e il peggio è veramente passato?... Cosa ci attende ancora, e che fare?". Il "mulazim" e "pop" Nikola si riebbero per primi. Pervennero alla conclusione che gli "uomini di legge" avevano compiuto il loro dovere e che ora non restava altro che andarsene a casa e raccomandare alla popolazione di non spaventarsi e di non fuggire, ma di stare bene attenta a quello che faceva. Gli altri, con le facce esangui e le teste vuote, accettarono questa conclusione come ne avrebbero accettato una qualsiasi altra, poiché‚ personalmente non erano in grado di concludere nulla.
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