sabato 25 marzo 2017

Sulla grammatica del latino H. Heine aveva delle idee assolutamente definitive. Quanto al latino scriveva "lei non ha la minima idea, signora, di quanto sia complicato. Ai Romani non sarebbe certo rimasto il tempo di conquistare il mondo se avessero dovuto imparare il latino. Beati loro, sapevano già nella culla quali nomi abbiano l'accusativo in -im. Io invece li ho dovuti imparare a memoria col sudore della fronte...



Un aneddoto citato in un articolo di altri tempi: 
"Sulla grammatica del latino H. Heine aveva delle idee assolutamente definitive. 
Quanto al latino scriveva "lei non ha la minima idea, signora, di quanto sia complicato. Ai Romani non sarebbe certo rimasto il tempo di conquistare il mondo se avessero dovuto imparare il latino. Beati loro, sapevano già nella culla quali nomi abbiano l'accusativo in -im. Io invece li ho dovuti imparare a memoria col sudore della fronte...." "

IL LATINO: UNA LINGUA O UN RIMORSO?
In Italia, il latino non è semplicemente una lingua antica che qualcuno legge o studia: è anche una lingua antica di cui si parla. E se ne parla volentieri. Magari per dire che sarebbe ora di sbarazzarsene e dedicarsi a cose, nondico più serie, ma certo più utili; oppure per dire che no, ma siamo pazzi, e come si farebbe senza il latino in un paese che su questa lingua ha costruito la sua secolare, millenaria cultura? Questa oscillazione ha la regolarità del pendolo. E quando sembra che i nemici del latino abbiano avuto la meglio, ecco per esempio saltar fuori l'on. Natta che terrorizza gli uffici stampa citando un verso di Virgilio dalle oscure implicazioni simboliche. Si ribatte: ma lui è stato normalista. 

D'accordo, però c' è il latino di Giulio Andreotti. 
Bella forza; si dice, lui è il presidente dell' Istituto di Studi Ciceroniani. 
Poi ci sono quelli che sbagliano, e sulle colonne di qualche quotidiano nazionale accordano il nominativo maschile col neutro: e giù reprimende dai colleghi. Anche se, da quando abbiamo scoperto un errore di concordanza addirittura in un'enciclica del Papa (in un'enciclica!), tanto esigenti sulla grammatica non si può più essere. I responsabili dell'apposito ufficio Vaticano si difesero, mi pare, dicendo che erano a corto di personale. 

Incredibile, come all'ufficio impianti della Sip, quando uno protesta perché a istallare il telefono ci impiegano un anno. Beniamo Placido ha scritto che il latino è un rimorso. E ha ragione. Ma com'è difficile parlare di un rimorso! Voglio dire, com'è difficile costruirci intorno un discorso semplice, che parli delle cose e non dei sentimenti che vi sono coinvolti. Per questo, io credo, del latino spesso si discute, alternando anatemi a luoghi comuni: da noi il latino non è una lingua, è un viscere

Eppure bisognerebbe provarci a riflettere con calma, possibilmente afferrando la bestia subito per le corna. E questa bestia, naturalmente, non può che essere la grammatica del latino. Sulla grammatica del latino H. Heine aveva delle idee assolutamente definitive. Quanto al latino scriveva lei non ha la minima idea, signora, di quanto sia complicato. Ai Romani non sarebbe certo rimasto il tempo di conquistare il mondo se avessero dovuto imparare il latino. Beati loro, sapevano già nella culla quali nomi abbiano l' accusativo in -im. Io invece li ho dovuti imparare a memoria col sudore della fronte.... E non bastava essere torturati da vis, buris, sitis, tussis, etc. 

C'erano, infatti, anche i verbi irregolari. 
E lo scolaretto Heine, passando ogni giorno sotto la grande immagine di un onirico crocifisso dagli occhi grigi e sanguinanti, se ne usciva in questa preghiera: Oh tu, povero Dio ugualmente torturato, vedi, se ti è possibile, che io tenga a mente i verbi irregolari!. E' difficile dare torto ad Heine, almeno per quel che riguarda i verbi irregolari: e il suo paradosso iniziale è molto divertente. Ma questo può davvero autorizzarci a credere che, per secoli, la formazione culturale dei fanciulli e degli adolescenti sia stata affidata a dei carnefici senza cervello che si concedevano il sadico piacere di crocifiggere le giovani menti, trapassandole con quisquilie aguzze come chiodi? La cosa è improbabile. Il fatto è che per molti secoli si è detto che si studiava la grammatica del latino, ovvero il latino: invece si studiava semplicemente linguistica. Il latino è stato la linguistica dei nostri nonni e antenati. 

I motivi per cui il latino si è man mano trasformato in un insieme di regole teoriche che corrispondono (più o meno bene) alla sua struttura, sono ovviamente molteplici. Indichiamo quello più elementare. Dato che, a un certo momento, si è smesso di parlare latino ma non si è smesso mai di studiarlo, nel corso dei secoli l' attenzione si è inevitabilmente rivolta alle sue regole di struttura e di composizione: per cui il latino è diventato una sorta di laboratorio di riflessione teorica sul linguaggio. Privo di una parte consistente della sua funzione linguistica, la sua funzione viva, il latino ha potenziato quella meta-linguistica: fino al punto che non si riesce più a separare queste due nature. Si dice spesso che il latino è una lingua logica, ma non è più logica d' altre lingue. Lo è invece la sua terribile grammatica, la quale può sì trasformarsi in un odioso strumento di pedanteria, ma è anche qualcosa che fa del latino un oggetto culturale di tipo unico. Il fatto che da lui, e attorno a lui, si sia sviluppata la riflessione linguistica, è infatti merito non minore dell' aver dato vita all'Eneide o al romanzo di Petronio. Onore, dunque, alla linguistica dei nostri avi. E onore anche alla linguistica contemporanea, naturalmente, la quale fa uso di strumenti e categorie certo molto diversi da quelli di un tempo. Solo che, quanta se ne studia, di linguistica, a scuola? Con che cosa abbiamo sostituito la riflessione sul linguaggio mediata dallo studio del latino? In quelle scuole in cui non si confrontano più due lingue, di cui una viva ed inconscia, l'altra morta ma grammaticalizzata fino alla raffinatezza, gli studenti hanno ben poche occasioni di pensare al linguaggio. Tutto ciò, fra l' altro, può contribuire a spiegare perché il rimorso del latino dura ancora. Perché si intuisce che lo studio di quella lingua, e della sua dannata grammatica, svolgeva un ruolo intellettuale che andava al di là dell' apprendimento dei verbi irregolari. C'è di più. Così come è stato ed è laboratorio di riflessione linguistica, infatti, il latino è stato ed è soprattutto laboratorio di riflessione antropologica. Confrontare due lingue per tradurre l'una e l'altra due lingue di cui una viva e presente, l'altra morta e remota significa immediatamente scoprire quante cose ci sono che non si possono tradurre: significa scoprire la diversità, misurata sull'arco del tempo e delle trasformazioni culturali. 

Vedi che c' è un tipo di denaro diverso da tutti gli altri, il denaro dello schiavo, che si chiama peculium: e questo come si traduce? Ovvero, che mondo è un mondo in cui ho una parola apposta per indicare il denaro dello schiavo? E come è stato, come è cominciato, un mondo in cui le parole per indicare il denaro (pecunia, peculium) sono quasi identiche a quelle che indicano le pecore o il gregge (pecu, pecus)? Questa è già riflessione antropologica, oltre che storica. 

E poi c' è quella cosa incredibile dei due consoli che comandano insieme, per non parlare della plebe e del patriziato, due gruppi che convivono nella stessa città, ma che è tanto difficile definire due classi nel senso moderno. 

Laboratorio di diversità, il latino, ma contemporaneamente laboratorio di identità. 
E questa è la seconda faccia del nostro rapporto con i suoi contenuti culturali. La nostra cultura ha uno spessore, un' altezza, e noi possiamo saggiarla. Il discorso sulle cosiddette radici è ormai così consueto (troppo consueto) che mi sarà concesso di saltarlo, per farne direttamente uno di monumenti e di paesaggio che forse risulterà un po' meno ovvio. Perché in Italia il latino fa addirittura parte del paesaggio. Non solo in senso metaforico. Spendiamo miliardi per conservare i monumenti di Roma e del passato, riusciamo persino ad inceppare la metropolitana della capitale per motivi di giacimenti culturali (o almeno, così si dice), e poi dovremmo abbandonarci all'infantile gioco di distruggere il contesto culturale che, lui solo, può dare un senso a tutto questo? Perché i monumenti, i ritrovamenti archeologici, dovranno pur avere un senso: o no? Ignoro che gusto ci si possa trovare a trasformare la colonna Traiana in un oscuro simbolo fallico, o i suoi rilievi in ammiccanti testimonianze di culture asteroidali, ma è appunto quello che può succedere se il feticismo per il monumento o la testimonianza archeologica prende il posto dell' interesse per una cultura. 

Intendiamo sostituire Peter Kolosimo ai libri di Salvatore Settis? 
Teniamoci in pace il rimorso del latino. Siamo noi, è la nostra cultura. Anzi, diamogli vita e respiro, a questo rimorso, coltiviamolo, inoculiamone dosi massicce nel Ministero della Pubblica Istruzione, e anche in quello dell' Università e della Ricerca. Magari si rendono conto che togliere il latino dalla facoltà di lettere, come si sta tentando di fare (o si è già fatto) per il corso di laurea in Lingue e per quello in Filosofia, è una enorme sciocchezza. 

Sto cercando di immaginare giovani sfortunati che si laureano su Racine senza sapere chi è Seneca o Tacito, incapaci di leggerne una sola riga. Cosa capiranno di Phaedra o di Britannicus? E comunque, non credo che andrà molto meglio quando toccherà a E. Pound o a T.S. Eliot: membri di quello stravagante club anglo-sassone che, pur possedendo la lingua che apre tutte le porte, decise a suo tempo di ostinarsi a studiare il latino. 

E meno male che gli studenti, generalmente, sono più saggi delle commissioni ministeriali e dei professori. Comunque, per restare ad argomenti nostrani, già abbiamo visto tesi su Pascoli in assenza, non dico di Virgilio, ma di rosa rosae, e tesi in storia dell' arte medioevale in assenza di ogni pur vaga possibilità di capire cosa sta scritto in quelle dannate pergamene che i santi reggono spesso fra le dita: che sono scritte in latino. Ma quando si decideranno a scriverle in inglese, epigrafi romane e pergamene medioevali? Il rimorso dal latino ci abbandonerà solo quel giorno.

di MAURIZIO BETTINI

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/07/22/il-latino-una-lingua-un-rimorso.html

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