La Matematica
dell'infinito
L'inquietante
storia dell'infinito.
Da Aristotele, Gauss e la
rigida opposizione di Kronecker fino al paradiso di Cantor e
all'ospitale albergo di Hilbert. Poi venne Gödel. Con i suoi teoremi
di incompletezza, i matematici riescono a dimostrare l'esistenza sia
di Dio che del diavolo: Dio esiste perché la Matematica esiste, il
diavolo esiste perché non se ne riesce a provare la coerenza.
Introduzione
Accostare
Infinito e Matematica può sembrare collegamento azzardato.
L'Infinito, come pure il
suo corrispondente temporale, l'Eterno, è tema adeguato per
Religione, Filosofia o Letteratura, ma forse non per la scienza
positiva. Meno che mai per la più positiva delle scienze e cioè la
Matematica.
Del resto, l'Infinito
(in-definito, in-determinato) è, per sua stessa etimologia e natura,
ed anche per la comune opinione, ciò
che sfugge ad ogni possibile classificazione e misura, mentre la
Matematica tende a (e pretende di) classificare e misurare ogni
oggetto che esamina.
Dunque,
l'Infinito non è argomento da Matematica.
In effetti, secondo una
visione che risale ai tempi dell'antica Grecia e che si è mantenuta
radicata nei secoli fin quasi ai nostri giorni, la
Matematica è la scienza dei numeri naturali 0, 1, 2,
..., semmai allargata a quegli insiemi numerici - gli interi, i
razionali - che ai naturali sono direttamente collegati.
Pitagora
sosteneva che il numero (naturale) è la base di tutto.
Oltre due millenni dopo,
Kronecker (1832-1891) ribadiva che gli interi positivi sono i soli
numeri creati da Dio a voler significare che trattare altri contesti
non standard, come quello dei reali, era quasi sacrilego.
Dunque la Matematica va a
combaciare, in questa prospettiva, con l'Aritmetica dei numeri 0, 1,
2, ...: tutti rigorosamente finiti per natura e rappresentazione (a
differenza dei reali, che scomodano allineamenti decimali senza
limiti e confini). Si conferma così che non
c'è spazio comune per Matematica e Infinito.
Eppure, a smentire tutte
queste pur ragionevoli premesse, va detto che la Matematica è stata
capace nella sua storia più recente di intuire, accarezzare ed anche
misurare l'Infinito, fin quasi a sognare di dominarlo completamente.
Questo è il tema che vogliamo trattare.
Contare o confrontare?
Dobbiamo subito
parzialmente correggere quanto detto nell'introduzione.
In effetti, se
riflettiamo un attimo con maggiore profondità, dobbiamo
riconoscere che l'Infinito non è tema completamente e
costituzionalmente estraneo alla Matematica.
Gli
stessi numeri naturali 0, 1, 2, ... sono sì ciascuno singolarmente
finito, ma costituiscono complessivamente un insieme infinito.
La loro successione si snocciola senza limitazioni in una strada
senza fine.
Tuttavia, come già
Aristotele
osservava, bisogna esercitare un po' di finezza quando si parla di
infinito e distinguere
la sua forma potenziale da quella attuale: la prima
è umanamente accessibile, la seconda no. In altre parole, possiamo
certamente convenire che ci sono successioni senza termine di oggetti
matematici, quali i numeri naturali, ed abbracciarne con la nostra
percezione porzioni comunque grandi (l'infinito potenziale di cui
sopra); ma, quanto ad afferrarne la totalità ed ad identificarla
completamente come singolo ente (l'infinito attuale), ebbene, questo
è un altro discorso, inaccessibile
ai limiti della nostra mente umana.
Per dirla in latino e
dare così maggiore autorità alla citazione: infinitum
actu non datur.
Questo era il pensiero di
Aristotele e, come tutti sappiamo, si trattava di opinione
autorevole, non solo ai tempi dell'antica Grecia ma nei lunghi secoli
successivi.
Del resto, ancora nel
1831 (di nuovo, due millenni dopo Aristotele), colui che è
comunemente riconosciuto il
più grande matematico, e cioè Gauss,
si esprimeva quasi negli stessi termini del suo illustre
predecessore. In una lettera al suo allievo Schumacher, scriveva: “IO
DEVO PROTESTARE VEEMENTEMENTE CONTRO L'USO DELL'INFINITO COME
QUALCOSA DI DEFINITO: QUESTO NON È PERMESSO IN MATEMATICA.
L'infinito è solo un modo di dire, ed intende un limite cui certi
rapporti possono approssimarsi vicino quanto vogliono”.
Del resto, nei secoli da
Aristotele a Gauss, vari spunti avevano introdotto in Matematica
l'esigenza di studiare e definire l'infinito
e, se è per questo, anche il suo inverso matematico (l'infinitesimo)
nelle loro forme potenziali.
Ad esempio, la necessità
di garantire adeguate basi teoriche allo studio delle grandezze
fisiche (come la velocità, la accelerazione e così via) aveva
indotto già nel secolo diciassettesimo (e forse anche prima) Newton,
Leibniz ed altri a fondare - con qualche imprecisione, qualche
vaghezza e molte polemiche - il
calcolo differenziale, il relativo studio
delle derivate e, appunto, l'uso
degli infinitesimi.
L'obiettivo era quello di
descrivere in termini matematici rigorosi il comportamento di una
funzione quando il suo argomento si avvicina indefinitamente ad un
punto, o supera ogni barriera verso l'infinito.
Proprio all'epoca di
Gauss, l'opera di Cauchy e Weierstrass aveva prodotto (neanche due
secoli dopo Newton) una adeguata risposta al problema e una rigorosa
introduzione teorica a questo argomento così delicato, tramite il
famigerato armamentario di epsilon e di delta che consente la
definizione del concetto di limite e che, sgombrata la mente dai
ricordi, dalla noia e dai terrori del primo anno di Analisi, si
rivela un approccio elegante e profondo all'infinito potenziale in
Matematica.
Ma che si può dire del
tabù degli infiniti attuali?
Negli stessi secoli,
menti autorevoli avevano tentato di avventurarsi in questa zona
proibita, avvertendone però le anomalie e concludendo che forse era
il caso di lasciar perdere:
è questo il caso di
Galileo
Galilei e di alcune sue riflessioni contenute
nell'opera [1] del 1638 e note con il nome di Paradosso
di Galileo.
Galileo considera i
numeri naturali 0, 1, 2, 3 ... ed osserva che l'insieme (infinito)
dei loro quadrati 0, 1, 4, 9, ... è certamente più piccolo e, pur
tuttavia, contiene tanti elementi quanti erano i numeri di partenza,
perché ad ogni numero corrisponde in modo biunivoco il suo quadrato.
Galileo conclude: “io
non veggo che ad altra decisione si possa venire che a dire infiniti
essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, ... né la moltitudine
de' quadrati essere minore di quella di tutti numeri, né questa
essere maggiore di quella, ed, in ultima conclusione, gli attributi
di eguale, maggiore e minore non aver luogo negl'infiniti ma solo
nelle quantità terminate”, ed aggiunge: “queste son di
quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col
nostro intelletto finito intorno all'infinito, dandogli quegli
attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso
che sia inconveniente”.
Al di là di questa
conclusione, le riflessioni di Galileo contengono, magari solo in
germe, suggerimenti stimolanti su come
potremmo pretendere di misurare l'infinito.
In
effetti, non possiamo contare né i numeri naturali, né i loro
quadrati (infiniti sono gli uni, infiniti sono gli altri); pur
tuttavia, possiamo confrontarli e stabilire rigorosamente che gli uni
sono tanti quanti gli altri, perché c'è una corrispondenza
biunivoca tra i loro insiemi.
Per spiegarci con un
esempio più semplice, facciamo
il caso di un impresario che vuole verificare il successo del suo
spettacolo misurandone il pubblico. Può svolgere l'indagine
facendosi riferire la capienza del teatro, poi contando il numero dei
biglietti venduti e, accertatosi che sono uguali, dichiarare
compiaciuto il tutto esaurito. Più rapidamente, può invece
sbirciare la sala da dietro il sipario e controllare che ogni
spettatore ha la sua poltrona e ogni poltrona il suo spettatore, che
non ci sono né posti vuoti né spettatori in piedi e di nuovo
rallegrarsene. Per dirla in termini matematici, c'è
una biiezione tra l'insieme delle poltrone e quello degli spettatori.
Nei teatri del mondo, che sono tutti finiti, l'una e l'altra delle
due strategie sono possibili. Se però passiamo ad un contesto
infinito, non possiamo pretendere di contare posti e (forse)
spettatori né, per riferirci all'esempio di Galileo, numeri e
quadrati.
Possiamo tuttavia ancora
confrontare
i due insiemi coinvolti, stabilire ove possibile
una corrispondenza biunivoca tra di loro e dedurre in tal caso che
hanno lo "stesso numero" di elementi. È esattamente quel
che Galileo fa nella trattazione del suo paradosso.
Dunque,
all'infinito possiamo, se non contare, confrontare e decidere se due
insiemi sono o no ugualmente numerosi. L'idea è
brillante e sottile ed induce alla tentazione di approfondire. Pur
tuttavia, c'è una obiezione che sorge abbastanza spontaneamente: ne
vale realmente la pena? In effetti, si potrebbe sostenere che gli
insiemi infiniti sono tutti, appunto, infiniti, e come tali hanno
forzatamente lo stesso numero (infinito) di elementi. È dunque
inutile soffermarsi in questo genere di confronti, l'infinito
appiattisce tutto. L'esempio dei numeri e dei quadrati (i secondi
apparentemente molto minori dei primi) sembra confermarlo.
C'è un altro famoso
argomento che corrobora questa impressione e va sotto il nome di
Albergo di
Hilbert. Si tratta, infatti, di un
esempio che David Hilbert (1862-1943) adoperava per divulgare presso
i non addetti ai lavori le sottigliezze di questa analisi
dell'infinito. Lo ricordiamo brevemente.
Gli
alberghi di questo mondo sono tutti finiti (come del resto i teatri).
Supponiamo allora di avere un albergo completo, in cui ogni stanza N
ha già il suo ospite N. Se ad un'ora della notte arriva un nuovo
cliente in cerca di sistemazione, il portiere dovrà dichiarargli con
rammarico di non poterlo ospitare ed indirizzarlo ad altro ricovero.
Ma ammettiamo per un attimo di volare nell'albergo del Paradiso
(magari non a titolo definitivo, ma solo per prenderci un caffè):
l'albergo è ovviamente infinito, come si addice a tutto quel che è
trascendente. Gli ospiti che lo popolano sono anch'essi infiniti
(come San Giovanni stesso assicura con la sua autorità
nell'Apocalisse, Capitolo 7, versetto 9) e lo riempiono
completamente. Abbiamo dunque il problema di trovare un posto. "Non
preoccupatevi" ci direbbe San Pietro "sistemiamo: l'ospite
0 nella camera 1, l'ospite 1 nella camera 2, ... l'ospite N nella
camera N+1, ... e vi liberiamo la camera 0". Il tutto è lecito
perché l'albergo è infinito. Di più, tra i requisiti della santità
c'è anche quello della pazienza e i vari trasferimenti di camera
dovrebbero essere accettati con serenità e senza polemiche. Dunque,
ogni nuovo ospite trova il suo posto.
Per uscir dalla metafora
ed usare termini matematici, quanto l'argomento di Hilbert sottolinea
è che un insieme infinito, come quello dei naturali, possa avere
tanti elementi quanti un suo sottoinsieme proprio, come quello che se
ne ottiene dimenticando 0. La funzione successore, quella che
trasforma ogni naturale N in N+1 è una corrispondenza biunivoca tra
i naturali e i naturali maggiori di 0; togliere l'elemento 0 non
diminuisce il numero complessivo dei punti rimanenti.
Altri esempi storici
sostengono il nostro assunto sulla apparente piattezza dell'infinito.
Ad esempio, nella sua
opera postuma Paradossi
dell'infinito, Bolzano (1781-1848) osservava come
il segmento chiuso [0, 5] della retta reale ha tanti punti quanto
l'evidentemente più grande intervallo [0, 12], la corrispondenza
biunivoca tra i due essendo stabilita dalla funzione che trasforma
ogni x nei suoi dodici quinti.
Ma chi diede la svolta
fondamentale e decisiva all'intera questione fu Georg
Cantor (1845-1918).
Lo spunto che lo condusse
ad approfondire il tema fu lo
sviluppo in serie di Fourier delle funzioni e l'unicità dei relativi
coefficienti. La sua analisi lo portò ad
individuare e classificare alcuni insiemi di reali che non
soddisfacevano questo risultato di unicità e, conseguentemente, a
valutare quanto "piccoli" e trascurabili fossero questi
controesempi a confronto dell'intera collezione dei reali.
Prendendo spunto da
questa problematica, Cantor considerò varie coppie di sottoinsiemi
infiniti della retta reale R (e non solo) cercando possibili
biiezioni. Ad esempio, osservò che ci sono tanti punti nell'intera
retta quanti nel segmento aperto ]0, 1[ (che pure è per altri
aspetti enormemente più piccolo). La precedente osservazione di
Bolzano ed un minimo di trigonometria ci aiutano infatti a definire
una biiezione: ]0, 1[ è in corrispondenza biunivoca con l'intervallo
aperto ]-π/2, π/2[ tramite la funzione che trasforma ogni reale x
tra 0 e 1 in πx-π/2 e dunque prima allarga, al modo di Bolzano, ]0,
1[ a ]0, π [, e poi trasla quest'ultimo segmento di - π/2
portandolo come richiesto su ]- π/2, π/2[. A questo punto, ci
ricordiamo che la funzione tangente, ristretta all'intervallo ]- π/2,
π/2[, ne determina una biiezione con l'intero R. Opportune
manipolazioni provano poi che il segmento aperto ]0, 1[ è in
corrispondenza con il segmento chiuso [0, 1], o anche con [0, 1[, ]0,
1] e, in definitiva, con ogni intervallo chiuso, aperto o semiaperto
dell'intera retta. Altrettanto vale per l'intero insieme R.
Altri casi furono
esplorati da Cantor.
Ne elenchiamo alcuni
particolarmente significativi.
L'insieme N dei naturali
0, 1, 2, ... si potrebbe valutare ad occhio come la metà
dell'insieme Z di tutti gli interi ...-2, -1, 0, 1, 2, ...; ma sono
infiniti entrambi, ed in effetti è possibile determinare una
corrispondenza biunivoca f che li collega. Basta osservare che i
naturali, a loro volta, si suddividono a metà tra pari 0, 2, 4, ...
e dispari 1, 3, 5, ... e dunque trasformare gli interi non negativi
nei primi e quelli negativi nei secondi: in termini rigorosi, porre
per ogni x naturale: f(x) = 2x se x ≠ 0, f(x) = -2x -1 altrimenti.
Lo stesso può dirsi di
naturali N e razionali Q: tra i due insiemi c'è una corrispondenza
biunivoca. La cosa può sembrare a prima vista strana e sorprendente;
si potrebbe osservare che l'usuale ordine dei naturali ha un primo
elemento 0 ed è discreto (ogni elemento ha un suo immediato
successore, ogni elemento escluso 0 ammette un immediato
predecessore) mentre quello dei razionali non ha estremi ed è denso
(tra due elementi a
http://matematica-old.unibocconi.it/infinito/lettera48.pdf
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