Atene, mito a due velocità
Democrazia realizzata in età classica, idealizzata dal 700 ad oggi. Fu governo di popolo e dominio di signori. Ma resta il fatto che l’élite raffinata accettò di sottoporsi al controllo dei cittadini
Il «mito» di Atene è racchiuso in alcune frasi dell'epitafio di Pericle parafrasato, e almeno in parte ricreato, da Tucidide. Sono sentenze con pretesa di eternità e che legittimamente hanno sfidato il tempo; ma anche formule non capite fino in fondo dai moderni e forse perciò apparse e risultate ancor più efficaci, e volentieri brandite con trasognata sicumera. E ciò, mentre altre parti dell'epitafio vengono ignorate, forse perché disturbano il quadro che i moderni, ritagliando le parti prelibate dell'originale, rendono ancora più monumentale. Basti come esempio l'esaltazione della violenza imperiale esercitata dagli Ateniesi dovunque sulla terra. Memorabile e fortunata fra tutte, invece, la serie di valutazioni riguardante il rapporto di Atene, considerata nel suo insieme, col fenomeno della straordinaria fioritura culturale: «In sintesi affermo che la nostra città nel suo insieme costituisce la scuola della Grecia»; «da noi ogni singolo cittadino può sviluppare autonomamente la sua persona nei più diversi campi con garbo e spigliatezza»; «amiamo il bello ma non lo sfarzo; e la filosofia senza immoralità».
Se poi si passa a considerare il celebre capitolo che descrive il sistema politico ateniese, la contraddizione tra la realtà e le parole dell'oratore è evidente. Basti considerare che Tucidide, il quale senza melliflue o edulcoranti circonlocuzioni definisce il lungo governo di Pericle «democrazia solo a parole, ma di fatto una forma di principato», proprio in questo epitafio fa parlare Pericle in modo tale da suscitare l'impressione (ad una lettura superficiale) che lo statista, nella sua veste di oratore ufficiale, stia descrivendo un sistema politico democratico e ne stia tessendo l'elogio. Né gli basta: gli fa elogiare il lavoro dei tribunali ateniesi dove «nelle controversie private le leggi garantiscono a tutti uguale trattamento». Per non parlare della visione totalmente idealizzante del funzionamento dell'assemblea popolare come luogo dove parla chiunque abbia qualcosa di utile da dire per la città e si è apprezzati unicamente in base al valore, mentre la povertà non è un impedimento.
Busto d’epoca romana raffigurante Tucidide (al Museo Puškin di Mosca)
Che Tucidide sia ben consapevole di star imitando un discorso d'occasione - con tutte le falsità patriottiche inerenti a quel genere di oratoria - non dovrebbe essere mai dimenticato dagli interpreti. Che Tucidide abbia intenzionalmente posto a raffronto, a breve distanza, l'Atene immaginaria dell'oratoria periclea «d'apparato» con la vera Atene periclea è presupposto altrettanto necessario per leggere senza stordimento il celebre epitafio.
La forza di quel mito sta nella duplicità di piani su cui è possibile ed è giusto leggere l'epitafio pericleo. È evidente, infatti, che svincolata dalla situazione concreta (l'epitafio discorso falso per eccellenza) e dalla concreta vicenda dei protagonisti (Pericle princeps in primo luogo), quella immagine di Atene è, comunque, fondata, e perciò ha retto e alla fine ha vinto. Ma il paradosso è che quella grandezza che il Pericle tucidideo delinea - e che era vera già allora - era l'opera essenzialmente di quei ceti alti e dominanti che il «popolo di Atene» tiene sotto tiro e, quando possibile, abbatte e perseguita. E il Pericle «vero» questo lo sapeva benissimo e lo aveva vissuto e patito in prima persona. La grandezza di quel ceto consistette nel fatto di aver accettato la sfida della democrazia, cioè la convivenza conflittuale con il controllo ossessivo occhiuto e non di rado oscurantista del «potere popolare»: di averlo accettato pur detestandolo, com'è chiaro dalle parole dette da Alcibiade, da poco esule a Sparta, quando definisce la democrazia «una follia universalmente riconosciuta come tale».
Busto d’epoca romana raffigurante Socrate (entrambi ai Musei Vaticani)
La fuga di Anassagora incalzato dall'accusa di ateismo o il pianto in pubblico, umiliazione estrema, di Pericle davanti ad un giurì di migliaia di Ateniesi (nell'encomiabile sforzo di salvare Aspasia) non sono bastati a spostare questa straordinaria élite aperta dalla sua scelta di accettare la democrazia per governarla. Una élite «miscredente» che ha scelto di porsi alla testa di una massa popolare «bigotta» ma bene intenzionata a contare politicamente attraverso il meccanismo delicato e imprevedibile dell'«assemblea». I due soggetti posti di fronte si sono, nel concreto del conflitto, reciprocamente modificati. Lo stile di vita dell'«Ateniese medio» si ricava in modo veridico dalla commedia di Aristofane: la quale, per il fatto stesso di aver preso quella forma e aver ottenuto non effimero successo, dimostra di per sé che quel popolo bigotto era ormai anche capace di ridere di se stesso e della propria caricatura. Lo stile di vita dell'élite dominante è quello messo in scena da Platone nell'ambientazione dei suoi dialoghi, pullulanti tra l'altro anche di politici impegnatisi contro la democrazia (Clitofonte, Carmide, Crizia, Menone etc.): dialoghi non necessariamente e sempre movimentati come il Simposio, ma sempre animati da quella curiosità intellettuale scevra da condizionamenti, da quella passione per il dubbio, per il divertimento dell'intelligenza e la libertà dei costumi che si avverte quasi dovunque nei testi platonici.
Il «miracolo» che quella straordinaria élite ha saputo compiere, governando sotto la pressione non certo piacevole della «massa popolare», è stato di aver fatto funzionare e prosperare la comunità politica più rilevante del mondo delle città greche, e, ciò facendo, aver modificato almeno in parte, nel vivo del conflitto, se stessa e l'antagonista. Questo lo si capisce bene studiando l'oratoria attica, ove si può osservare come la parola dei «signori» si impregni di valori politici che sono di base nella mentalità combattiva e rivendicativa della «massa popolare»: innanzi tutto to ison, ciò che è uguale e, quindi, giusto. Lo si è visto ripercorrendo i motivi cardine dell'epitafio pericleo. Del quale si coglie solo in parte il senso se ci si limita a constatare quanto esso sia limitrofo della parola demagogica.
Busto d’epoca romana raffigurante Pericle (entrambi ai Musei Vaticani)
Il Pericle tucidideo descrive con straordinaria efficacia lo «stile di vita» ateniese (sia pure riverberando sul demo caratteri che sono invece propri dell' élite ), ma è sommamente efficace nel descrivere - in antitesi - il fallimento del modello Sparta. Non sta semplicemente ridimensionando, o demolendo, l'immagine del nemico: nel fare a pezzi quel modello, il Pericle tucidideo liquida come impraticabile il modello che la parte dei ceti alti non è disposta ad accettare (come Pericle e i suoi antenati Alcmeonidi) la sfida della democrazia idoleggiava, e che con furore ideologico tentava di trapiantare e instaurare in Atene quando possibile. (Il che, profittando della benefica, per loro, sconfitta del 404, tentarono effettivamente, naufragando). Tucidide è, in questo, come Zeus che vede dall'alto e contemporaneamente entrambi gli schieramenti: egli è capace, contemporaneamente, di vedere e far risaltare (per chi abbia occhi per vedere) il carattere deformante e purtuttavia sostanzialmente vero dell'esaltazione di Atene profferita nell'epitafio. Ma il gioco - inerente al fine e alla struttura del genere epitafio - consiste appunto nel far dire, a chi parla, che quella grandezza di opere e di realizzazioni «è opera vostra». È lì il gioco sottile del vero e del falso che si incontrano e in certo senso coincidono. Perciò, analogamente, l'impero è, per Tucidide, al tempo stesso necessario, non negoziabile, ma intrinsecamente colpevole e sopraffattorio e dunque, si potrebbe dire, destinato a soccombere.
Da questa duplicità di piani discendono i due tempi della storia di Atene: da un lato il tempo storico e contingente, che è quello di una esperienza politica che, così com'era nella sua contingente storicità, si è autodistrutta, e dall'altro il tempo lunghissimo, che è quello della persistenza nei millenni delle realizzazioni di quell'età frenetica.
18 novembre 2011 (modifica il 21 novembre 2011)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il libro: Sotto il velo della retorica
Pubblichiamo alcuni brani tratti dall’introduzione del libro di Luciano Canfora Il mondo di Atene (Laterza, pagine 518, e 22), nel quale l’autore ripercorre le vicende della città ellenica nel periodo tra le riforme di Clistene (508 a. C.) e la morte di Socrate (399 a. C.), gettando anche uno sguardo sul secolo successivo. L’obiettivo del saggio è sfrondare l’immagine di Atene dai successivi miti retorici e idealizzanti per restituirci la realtà del suo sistema politico come emerge dalle fonti storiche dell’epoca.
Nessun commento:
Posta un commento