martedì 10 luglio 2018

Tacito. La corruzione di una repubblica nasce dal proliferare delle leggi

Purtroppo come disse Tacito 
“gli uomini sono più decisi a restituire un torto che non un favore, 
poiché la gratitudine è un fardello e la vendetta un piacere”


[Nerone] scacciò Ottavia, col pretesto della sterilità;  e, subito dopo, sposò Poppea. 
Costei, da tempo sua concubina e capace di tenere in pugno Nerone, come amante prima e come marito dopo, spinse uno dei servi di Ottavia a denunciarla per una tresca amorosa con uno schiavo. 
Si specificò che il colpevole era un tale di nome Eucero, nativo di Alessandria, un suonatore di flauto. Le ancelle vennero sottoposte a interrogatorio e alcune furono indotte, con la violenza della tortura, ad ammettere il falso; ma più furono quante persistettero nel difendere la castità della padrona, e una di esse, sotto le pressanti domande di Tigellino, gli rispose: 
«Il sesso di Ottavia è più casto della tua bocca.»
Tacito, Annales


Nel 96 d.C. finisce l’impero di Domiziano,
un imperatore dispotico ed autoritario, che male sopportava il dibattito.
In quell’occasione, al finire di un’era così buia per la libertà d’espressione, uno storiografo, Tacito, scriveva «nunc demum redit animus», tradotto «ora finalmente si torna a respirare»
Tacito, Agricola, III, n. d. r.


Tutto ciò che è ignoto si immagina pieno di meraviglie
Tacito, Agricola, 98 d.c.



Con la voce avremmo perso anche la memoria stessa,
se fosse stato nella nostra facoltà tanto dimenticare quanto tacere.
Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus,
si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere.
Tacito, Agricola I,2


Tiberio e Germanico lanciarono una campagna contro i Desiziati.
Dopo aspre battaglie, nel settembre del 9 d.C., solo pochi giorni prima della battaglia della foresta di Teutoburgo, Batone e i Desiziati si arresero a Tiberio. Quando Tiberio chiese a Batone e ai Desiziati perché si fossero ribellati, si dice che Batone abbia risposto: «Voi Romani, dovete essere incolpati per aver mandato, come guardiani delle vostre greggi, non cani o pastori, ma lupi»
http://it.wikipedia.org/wiki/Batone_I


Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium,atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.
Rubare,masscrare,rapinare,questo essi,con falso nome,chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto,dicono d'aver portato la pace.

To ravage, to slaughter, to usurp under false titles, they call empire; and where they make a desert, they call it peace
Tacito De Agricola



Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla vostra sete di totale devastazione andate a frugare anche il mare. Avidi se il nemico è ricco e arroganti se è povero
Gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare. 
Solo voi bramate possedere con pari smania ricchezza e miseria. 
Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero. 
Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano nuovo ordine.
Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace. 
Tacito dal De vita Iulii Agricolae, 30



Saccheggiare, trucidare e rapinare: questo, secondo taluni, significa governare un impero.
Di fatto, dove fanno un deserto dicono di aver portato la pace.
Tacito


Il crimine una volta scoperto
non ha altro rifugio
che nella sfrontatezza.
Publio Cornelio Tacito


I rapporti fondati sulla paura e sul terrore che si incute sono i meno saldi, 
infatti non appena paura e terrore vengono meno, chi smette di temere comincia a odiare
Tacito

Il valore non serve a nulla, la sorte domina su tutto,
e i più coraggiosi spesso cadono per mano dei codardi. 
Tacito

Irritarsi per una critica vuol dire riconoscere di averla meritata.
Tacito

Spesso anche le più gloriose virtù sono oggetto di odio,
perchè costituiscono una continua accusa per coloro che si macchiano dei vizi contrari
Tacito

Quelli che si lamentano di più sono quelli che soffrono meno. 
Tacito


La prosperità rende indolenti e vili
Tacito

La felicità rende l'uomo pigro.
Publio Cornelio Tacito

La prosperità mette a dura prova gli animi, 
perchè le disgrazie si possono sopportare ma la felicità corrompe
Tacito


La corruzione di una repubblica nasce dal proliferare delle leggi
Tacito

In uno Stato totalmente corrotto si fanno leggi a non finire
Publio Cornelio Tacito - Annales 3, 27, 16

Corruptissima Republica, plurimae leges.
Quando la Repubblica giunge all'estremo della corruzione,
si moltiplicano senza misura le leggi.
Tacito



Ma tu sei nato per vivere in tempi tali in cui è necessario fortificare l'anima con esempi di fermezza.
Tacito, Annali, cap. XVI


Caput imperare, non pedes
A comandare è la testa, non i piedi
Tacito


I successi dei malvagi e le sventure che colpiscono i buoni sono la prova dell' indifferenza degli Dei di fronte al bene e al male
Tacito


Obsequium amicos, veritas odium parit.
L'adulazione procura gli amici, la sincerità i nemici.
Tacito


Tutto ciò che è ignoto si immagina pieno di meraviglie...
Tacito


Tacito, De origine et situ Germanorum, II, IV, V]
Propendo nel ritenere i Germani una popolazione indigena, con mescolanze minime derivate da immigrazioni o contatti amichevoli, poiché una volta coloro che volevano cambiare paese arrivavano non via terra ma per mare, mentre l'Oceano, che si estende oltre senza fine e, per così dire, a noi contrapposto, è solcato raramente da navi provenienti dalle nostre zone. E poi, a parte i pericoli d'un mare tempestoso ed ignoto, chi abbandonerebbe l'Asia, l'Africa o l'Italia per andare in Germania, in mezzo a paesaggi desolati, in un clima rigido, in una terra triste da vedere e da abitarci se non per chi vi sia nato? [...] Personalmente sono d'accordo con le opinioni di coloro che ritengono che i popoli della Germania non si siano stati mescolati con persone di altre razze con dei matrimoni e che essi siano rimasti una razza a sé, incorrotta e con caratteristiche proprie. Per questo motivo anche l'aspetto fisico, nonostante il gran numero di persone, è il medesimo per tutti: occhi fieri e azzurri, chiome rossastre, corpi imponenti e adatti solo all'attacco; la resistenza alla fatica e al lavoro non è invece la stessa, sopportano pochissimo la sete e il caldo, mentre sono abituati al freddo e alla povertà per il clima e per il suolo. [...] La terra, sebbene sia alquanto diversa nell'aspetto, nel suo complesso tuttavia è piena di orride selve e di desolate paludi, più umida nelle regioni rivolte verso le Gallie, più ventosa in quelle rivolte verso il Norico e la Pannonia; abbastanza fertile, inadatta agli alberi da frutto, feconda di bestiame, ma la maggior parte di piccola taglia. Nemmeno i buoi possiedono la loro solennità e la gloria della fronte: si compiacciono del loro numero e quelle sono le uniche e ricercatissime ricchezze. Non so se gli dei hanno negato loro l'oro e l'argento per benevolenza o per ostilità. Né tuttavia ho affermato che in Germania non esiste alcun filone di argento o di oro: chi difatti ha esplorato questo paese? Né sono assolutamente indeboliti dal loro possesso e uso al contrario di noi Romani. [...] I popoli confinanti considerano di valore qualsiasi cosa in oro e argento per gli scambi commerciali, non conoscono e scelgono bene certe forme del nostro denaro: le tribù delle zone interne utilizzano il più semplice e più antico scambio delle merci.



Sine ira ac studio
Tacito, Annales (1,1,3)
Sine ira et studio (lett. «senza animosità e simpatia» o «senza ira né pregiudizi») è un'espressione latina con la quale Tacito negli Annales (1, 1, 3) dichiara la sua intenzione di esporre i fatti storici narrati con assoluta imparzialità e obiettività.
(wikipedia)


Al fine di rispettare tale intenzione programmatica, anticipata in altra forma dallo storico greco Tucidide, Tacito riporta molte interpretazioni dello stesso avvenimento (talora anche solo delle voci non verificate), senza prendere aperta posizione a favore di una di esse. Tacito non altera mai i fatti narrati, ma un simile modo di procedere nell'indagine storica lo porta inevitabilmente, secondo certi storici, a privilegiare alcuni aspetti a scapito di altri, spesso indirizzando il lettore ad una ben precisa interpretazione e venendo meno ai suoi stessi propositi.
Questa espressione ha avuto una grande fortuna ed è utilizzata ogniqualvolta ci si riprometta di giudicare in modo equo e imparziale qualcuno. Per questo motivo è diventata un motto che esorta i giudici a esercitare una "giustizia giusta".




La delocalizzazione è un vizio antico.
Da Tacito "at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est ", Annales XII, 43
"eppure, per Ercole, una volta l'Italia mandava vettovaglie per le legioni in province lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare l'Africa e l'Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della navigazione".


"L'inverno seguente fu impegnato nell'attuare i più salutari provvedimenti, infatti Agricola cominciò in colloqui particolari a dar buoni consigli a quegli uomini dispersi e rozzi e perciò facili alle guerre, perché si abituassero, per mezzo di occupazioni dilettevoli, alla tranquillità e alla pace; li aiutava, poi, in forma ufficiale a costruire templi, piazze, case, lodando i solerti, sferzando i pigri: così che la gara per la conquista della lode veniva a sostituire efficacemente la costrizione. Prese, inoltre, a istruire nelle arti liberali i figli dei capi, mostrando di tenere in maggior conto le doti naturali dei Britanni piuttosto che la cultura dei Galli, in modo che coloro, i quali prima disprezzavano la cultura dei Romani, aspirarono, poi, a possedere la loro arte oratoria. Di qui venne ai Britanni l'abitudine alla nostra foggia di vestire e l'uso frequente della toga; a poco a poco essi si abbandonarono anche alla seduzione dei vizi, alle raffinatezze dei portici, dei bagni, dei conviti: ignari, essi chiamavano civiltà tutto questo, che null'altro era se non un aspetto della loro servitù."
Agricola, 20



Ogni volta che penso alle cause della guerra e alla situazione in cui ci troviamo, nutro la grande speranza che questo giorno e la vostra unione siano per tutta la Britannia l'inizio della libertà. Perché per voi tutti che siete qui e che non sapete cosa significhi la servitù, non esiste altra terra oltre questa e neppure il mare è sicuro, da quando su di noi incombe la flotta romana. Per questa ragione, nel combattere, scelta gloriosa dei forti, troverà sicurezza anche il codardo. I nostri compagni che si sono battuti prima di adesso con diversa fortuna contro i romani avevano in noi l'ultima speranza di aiuto, perché noi, i più rinomati di tutta la Britannia - perciò vi abitiamo proprio nel cuore, senza neanche vedere le coste dove risiede chi ha accettato la servitù - avevamo persino gli occhi non contaminati dalla schiavitù. Noi, che siamo al limite estremo del mondo e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall'isolamento e dall'oscurità del nome. Ora, tuttavia, si aprono i confini ultimi della Britannia e l'ignoto è un fascino. Ma dopo di noi non ci sono più altre tribù, ma soltanto scogli e onde e un flagello ancora peggiore, i romani, contro la cui prepotenza non servono come difesa neppure la sottomissione e l'umiltà. Razziatori del mondo, adesso che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra, vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare. Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Fanno il deserto, e lo chiamano pace.



Tacito, Agricola XXX,4. Calcago, comandante britanno, presenta l'imperialismo romano come uno sfruttamento sistematico del patrimonio economico dei popoli sottomessi,come una distruzione dei loro vincoli sociali e delle loro risorse umane.

 "La figura diAgricola incarna la virtù della medietas, cardine dell’etica classica: è l’uomo politico che ha servito lo Stato con fedeltà, onestà e dedizione, pur vivendo in un’epoca di tirannide. È la via mediana da seguire tra gli estremi del servilismo abietto, da un lato, e la sterile opposizione – spesso sfociante nel suicidio stoico – dall’altra. Un esempio da consegnare alla Storia".
 (http://www.letteratu.it/2012/02/un-ritratto-leggendario-l-agricola-di-tacito/)




di Gian Domenico Mazzocato

L’agricola di Tacito l’individuo davanti al potere    


Clarorum uirorum facta moresque posteris tradere,
antiquitus usitatum,
ne nostris quidem temporibus quamquam incuriosa suorum aetas omisit,
quotiens magna aliqua ac nobilis uirtus uicit ac supergressa est
uitium paruis magnisque ciuitatibus commune,
ignorantiam recti et inuidiam.
Sed apud priores ut agere digna memoratu
pronum magisque in aperto erat,
ita celeberrimus quisque ingenio
ad prodendam uirtutis memoriam sine gratia aut ambitione
bonae tantum conscientiae pretio ducebatur.

(Tacito, Agricola 1, 1)



84 dopo Cristo, estate avanzata, propaggini meridionali dei monti della Caledonia. I Caledoni stanno per gettare nella battaglia decisiva le loro ultime forze, 30mila guerrieri fatti affluire da ogni landa della regione. Li guida Calgaco, “insigne tra tutti i comandanti per valore e nobiltà”[1].

È la settima (sarà anche l’ultima) campagna militare contro i fieri e duri abitanti di quei luoghi.

Il contingente romano è agli ordini di Gneo Giulio Agricola, un coloniale di nobile e antica famiglia, nato nella Gallia Narbonese 44 anni prima, a Forum Iulii, l’odierna Frejus. Possedeva, come dice Tacito, una connaturata prudenza e sapeva facilmente comportarsi anche tra magistrati civili[2]. Ha alle spalle una rapida carriera civile e militare. Console a 37 anni, alla fine del suo mandato si è visto affidare da Vespasiano il fronte più tormentato d’Europa, la Britannia.

Sarebbe ingiusto, dice Tacito, nei riguardi delle virtù di un simile uomo, lodare soltanto l’integrità e il disinteresse. La fama, poi, egli non se la procurò ostentando i suoi meriti o con intrighi (così fanno in molti, anche se sono uomini onesti): si tenne lontano dalla competizione con i colleghi e dalle beghe contro i procuratori, poiché giudicava inglorioso riuscire vincitore in simili contrapposizioni ma anche vergognoso uscirne sconfitto”[3].

È dunque un uomo riservato, di grande equilibrio, ma anche molto deciso quello che sta per rivolgere l’ultima esortazione ai suoi uomini. Tacito gli pone in bocca parole vibranti come un giavellotto ben bilanciato, taglienti come un gladio affilato:

Vinciamo e tutto ci sarà facile, perdiamo e avremo tutto contro. Abbiamo fatto tanta strada, superato foreste, guadato fiumi: bello e glorioso perché stavamo avanzando. Le stesse cose che oggi ci sono favorevoli, sarebbero di enorme pericolo per uomini in rotta. Noi non abbiamo la stessa conoscenza dei luoghi o ugual abbondanza di salmerie, ma solo il nostro braccio, le nostre armi, la consapevolezza che tutto risiede in loro. Dal canto mio, da molto tempo, so bene che mai reca salvezza ad un esercito o a un comandante girare le spalle al nemico. Dunque una morte onorevole è preferibile a una vita di vergogna; e salvezza e onore abitano nello stesso luogo. Del resto non c’è nulla di inglorioso cadere vicino all’estremo confine delle terre e della natura”[4]. E poi, avviandosi alla perorazione finale: “Basta con le campagne militari: chiudete con una grande giornata cinquant’anni di guerra. E provate alla repubblica che i ritardi della guerra e i motivi delle rivolte non sono mai stati colpa dell’esercito”[5].


Insomma Tacito costruisce il personaggio/demiurgo che si sente (ma fa anche sentire i suoi uomini) sullo spartiacque della storia. Un gigante, un titano che non solo vuole chiudere mezzo secolo di guerre e battaglie, non solo vuole pacificare per sempre un settore inquieto dello scacchiere politico e militare; ma vuole fare anche meglio e di più del divino Giulio Cesare. Tacito, tracciando un bilancio della ormai secolare contrapposizione tra Roma e la Britannia, annota: “Primo tra i Romani, il divo Giulio portò un esercito sul suolo britannico: pur terrorizzando gli indigeni in una fortunata battaglia e pur essendosi impadronito della zona costiera, si può dire che egli abbia indicato quella terra ai posteri, non che l’abbia trasmessa loro”[6]. Il demiurgo compie il progetto che Giulio Cesare era riuscito solo ad abbozzare.


Di ben diverso taglio sono le parole di Calgaco sul fronte opposto. Ha fatto appello all’identità, al senso di appartenenza, all’istinto di sopravvivenza. Vincere per essere liberi, o servire da sconfitti: meglio certo morire. Fa culminare il suo dire in queste parole: “Qui voi avete un capo, qui un esercito. Là vi aspettano tributi, lavori in miniera e ogni altra sofferenza da schiavi: sul terreno dovrete decidere se sopportare in eterno o vendicarvi di tutto in un sol colpo. State per andare a combattere: pensate ai vostri antenati e alla vostra discendenza”[7].


La battaglia è lunga, difficile. Agricola trionfa e le cifre a consuntivo hanno perfino qualcosa di beffardo, di irridente: “Caddero circa 10mila nemici; noi perdemmo 360 dei nostri, tra i quali Aulo Attico, prefetto di coorte, trascinato in mezzo ai nemici dalla sua baldanza giovanile e dalla foga del cavallo”[8]. Nulla contro tutto, l’ufficiale più alto in grado tra quelli perduti è appena un prefetto di coorte. E anche lui, se solo fosse stato un po’ più attento…


Tutto sembra finalizzato a costruire la figura del capo demiurgo, colui che trasforma la storia e la plasma. In quegli anni di campagna militare, tanto per fare un solo esempio, ha stravolto ogni tattica consolidata, inventando il modo di integrare tra loro le forze di terra e di mare: uno spettacolo terribile a vedersi per i barbari che comprendono di avere di fronte un nemico disperatamente invincibile: “Con Agricola la flotta divenne… parte operativa dell’esercito… la guerra avanzava insieme per mare e per terra; e spesso, nei medesimi accampamenti, fanti, cavalieri e marinai mettevano in comune provviste e allegria, vantando le loro imprese e le loro avventure. E dalle spacconerie dei soldati usciva un singolare confronto. Di qua le profonde foreste e le montagne altissime, di là le tempeste e le onde ostili: da una parte la terra e i nemici, dall’altra l’Oceano sconfitto. …lo spettacolo della flotta stordiva i Britanni, poiché ormai sembrava svelato il segreto del loro mare e preclusa ai vinti anche l’ultima possibilità di scampo”[9].


Del resto Agricola aveva mutato subito le regole non scritte di quella guerra: prima di lui si combatteva d’estate e si stava tranquilli d’inverno. Col risultato che al nemico erano concessi lunghi mesi di recupero. No, lui prende a combattere nei mesi freddi; e però gestisce bene le conquiste e la pace imposta. Perché Agricola sa “che a ben poco servono le armi se a esse tiene dietro l’ingiustizia. Dunque decise di troncare i motivi di conflittualità. Cominciò da se stesso e dai suoi, tenendo a freno il seguito… Non affidava alcun affare pubblico a liberti o a schiavi; non assumeva centurioni o soldati per spirito di parte, per raccomandazioni o suppliche, ma solo sulla base della loro bravura e della loro affidabilità”[10]. Mette ordine nel sistema di riscossione dei tributi. I Britanni non solo erano costretti a versare parte dei raccolti, ma per farlo dovevano anche subire lo scherno di attendere l’orario di apertura dei granai quando, dopo averlo versato, dovevano, nei momenti più duri della stagione, acquistare il loro stesso frumento. E magari dovevano aggiungere una mancia al funzionario incaricato. “Agricola represse questi abusi subito, già dal primo anno; restituì credito alla pace che, a causa della negligenza e dell’arroganza dei suoi predecessori, era temuta non meno della guerra”[11]. Duro, ma giusto. Spietato, ma intelligente.
Insomma il politico perfetto, il demiurgo, il protagonista della storia. Non è certo questa l’unica possibile chiave di lettura della straordinaria operetta tacitiana, ma è forte la suggestione. E forte è la spinta a pensare questa prima parte in funzione della seconda, quando Tacito metterà a confronto la virtù di Agricola con l’infingardaggine altrui.
È arrivato il momento di fare un passo indietro, per spiegare come Giulio Agricola è entrato nella vita di Tacito.
Nel 77 d. C. Tacito si fidanza con la figlia di Giulio Agricola; l’avrebbe sposata l’anno seguente, lei quattordicenne, lui poco più che ventenne. Tacito si imparentava così con un personaggio in vista che usciva allora dal consolato e si apprestava a partire come legato in Britannia. In quegli stessi anni (imperatore è Vespasiano), Tacito inizia la sua carriera politica: nell’88 (con Domiziano) è pretore, e, una volta uscito dalla pretura, si allontana, con la moglie, da Roma forse come propretore nella Gallia Belgica, forse come legato in Germania.
In quel decennio si sono bruciate prematuramente le avventure esistenziali di Vespasiano (che muore nel 79) e di Tito (che guida il principato appena per un biennio, tra il 79 e l’81). Succede loro Domiziano che, nel giudizio di Tacito, fa vivere all’impero un quindicennio devastante, in cui fu perfino difficile sopravvivere a se stessi.[12]
Il 23 agosto del 93, Agricola muore: ha 53 anni ed è, dunque, nel fiore della vita. Su quell’uomo che ancora tanto avrebbe potuto dare alla res publica, si è abbattuta la gelosia di Domiziano, invidioso dei successi ottenuti in Britannia? Tacito non dice che fu il veleno del principe a uccidere il suocero: con l’abilità che poi frutterà pagine memorabili nelle due opere maggiori, costruisce un clima di sospetto in cui singoli microeventi (come il bacio frettoloso di cui dirò tra poco), o amare riflessioni sulla natura umana costruiscono un quadro di indimenticabile tensione emotiva.
Ma Tacito è assente. Non può saziarsi di sguardi e abbracci nel momento dell’addio, non può manifestare subito il suo dolore: “Io e tua figlia non fummo provati solo dal dolore per il padre strappatoci; aumenta la nostra mestizia non averlo assistito durante la malattia, non averlo confortato durante l’agonia, non esserci saziati della sua vista e del suo amplesso. Almeno avremmo ricevuto le sue disposizioni e le sue parole, che avremmo confitto nel nostro animo. Ecco il nostro dolore, ecco la nostra ferita: averlo perduto quattro anni prima per la nostra lunga assenza. O migliore tra i padri, a onorarti e ad assisterti ha certo provveduto la tua innamoratissima moglie. Però, con troppo poche lacrime sei stato composto nel tuo sepolcro e, certo, qualcosa è mancato ai tuoi occhi, nell’ultimo barlume di luce”[13].
Certo, proprio in questa assenza struggente, matura la decisione di trasformare Agricola in mito, cioè in paradigma compiuto e rigoroso della realtà. Con una rarefazione assoluta di linguaggio, con una scarnificazione della parola e una fiducia nella scrittura (più resistente del marmo e del bronzo allo scorrere del tempo) che commuovono ed emozionano ancora oggi.
Dice nel finale, rivolgendosi allo stesso Agricola: “Io non credo che si debbano proibire le raffigurazioni in marmo e in bronzo, ma i simulacri sono fragili e caduchi, esattamente come le fattezze umane. Soltanto la figura dell’animo è eterna: per conservarla e raffigurarla non servono materia e arte, ma i tuoi stessi costumi”[14].
Ed è, in questo contesto, così alta la consapevolezza del mito da celebrare che Tacito riesce, con vertiginoso capovolgimento, a ribaltare i ruoli. Sarà lui a proporre la grandezza di Agricola anche a chi ha potuto stargli vicino più a lungo di lui: “Io vorrei anche insegnare, a tua moglie e a tua figlia, a venerare, con la memoria, il marito e il padre, ripensando ad ogni cosa che tu hai fatto e detto e abbracciando la bellezza e la nobiltà del tuo animo più ancora che del tuo corpo”[15].
È in questa temperie spirituale di grande commozione e nessuna enfasi che nasce, un quinquennio dopo la morte del proconsole, questo De uita Iulii Agricolae liber, un’opera che appartiene solo parzialmente al genere della laudatio funebris e si amplia alla biografia, alla monografia storica, all’indagine etnografica.
Lo ricapitolo per grandi linee per arrivare ai giorni in cui Agricola, consolidato (anche se non totalmente pacificato, come vorrebbe Tacito) il fronte britannico, fa il suo ritorno a Roma.
Dopo un esordio di forte taglio moralistico (il clima politico di servitù rende ingrato il lavoro di chi deve parlare della virtù e rende insopportabile l’esempio della virtù stessa, è la tesi generale), Tacito percorre brevemente la carriera politica di Agricola prima della legazione in Britannia. Seguono una descrizione della Britannia stessa e un excursus sulla politica estera romana verso quella regione prima dell’arrivo di Agricola. Poi il nucleo centrale, dal capitolo 14 al 38: è il lavoro di pacificazione (noi moderni diremmo, con parola solo apparentemente positiva, normalizzazione) dell’isola. Alla fine il ritorno, le manovre di Domiziano, la morte.
È la culminazione dell’opera, tra il capitolo 39 e il capitolo 43. Il panorama morale è dettato dalla gelosia di Domiziano, dai suoi dubbi, dai rovelli, da suoi timori. E, deve essere chiaro, Tacito non ne parla per descrivere una situazione emozionale, ma per fermare un dato politico: “Soprattutto gli era fonte di timore che il nome di un privato superasse quello dell’imperatore: invano, dunque, aveva ridotto al silenzio le attività forensi e l’onore dell’attività politica, se un altro si impossessava della gloria militare. Tutto si poteva, certo, dissimulare, ma il titolo di buon comandante era prerogativa imperiale”[16].
Per capire bene, bisogna ricordare che Domiziano aveva un singolare scheletro nel suo armadio: nell’83 aveva combattuto contro i Catti e riportato un trionfo sulla Germania. Per celebrarlo aveva travestito con parrucche e vestiti barbarici alcuni schiavi facendoli passare per prigionieri. L’episodio era forse una invenzione delle malelingue e magari un topos letterario, visto che Suetonio racconta la stessa cosa di Caligola[17]: ma la diceria era certamente sulla bocca di tutti e non contribuiva sicuramente alla buona fama di Domiziano.
Agricola è, nel cuore livoroso di Domiziano, il nemico da abbattere, ma ufficialmente è un salvatore della patria. Bisogna accoglierlo bene perché, oltre a tutto, ha in mano gli eserciti del Nord, temprati dalla guerra, e dunque una forza contrattuale enorme. Domiziano si muove con consumata abilità anche, diremmo noi oggi, sul piano mediatico: fa decretare per Agricola tutti gli ornamenti e le onorificenze del trionfo, senza che ci sia un trionfo vero e proprio con conseguente contatto con le folle. Fa poi circolare la voce che Agricola è atteso da un importante incarico, la prestigiosa provincia di Siria.
Tacito a questo punto fa apparire come una scelta personale di Agricola, come un suo atto di discrezione, quella che fu invece probabilmente una strategia preordinata dall’imperatore. Agricola arriva a Roma di notte, senza clamore. L’imperatore lo accoglie breui osculo[18], con un bacio frettoloso. Poi si mescola, anonimo, alla folla delle persone che circondano l’imperatore. Dal canto suo Agricola ha una particolare misura della riservatezza e dell’equilibrio in una Roma in cui l’apparire era il dato più rilevante: “Il suo tenore di vita era modesto, era affabile nel parlare, si faceva accompagnare da uno o due amici soltanto, al punto che tutti coloro che erano abituati a misurare la grandezza degli uomini dal loro sfarzo, guardando ed osservando Agricola si interrogavano su come si era procurata tanta fama. Ed erano ben pochi quelli comprendevano”[19].
L’invidia di Domiziano cova sotto le ceneri, anche perché quelli non sono momenti facili e gli eserciti romani subiscono rovesci in tutto il mondo: “I disastri si accumulavano sui disastri e ogni anno era segnato da lutti e da rovesci: il popolo chiedeva Agricola come comandante perché ognuno confrontava la sua energia, la sua fermezza, la sua esperienza militare con l’inerzia e la paura degli altri. È noto che queste opinioni colpirono anche le orecchie di Domiziano perché i liberti pungolavano l’animo del principe già incline al peggio: i liberti onesti lo facevano per affetto e fedeltà, i peggiori per maligna gelosia. Così Agricola era trascinato alla gloria, come in un precipizio, dal suo valore ma anche dai demeriti altrui”[20].
In ipsam gloriam praeceps: i meriti personali come abisso in cui si precipita. Il quadro non potrebbe essere più intenso. Quando arriva il momento di decidere gli incarichi proconsolari, Agricola viene avvicinato da tutta una serie di persone che, nascostamente stimolate da Domiziano, lo incitano a rifiutare, offrendosi anche di sostenerlo nel suo rifiuto, di aiutarlo a trovare scuse. Così davanti a Domiziano si consuma il rito dell’ipocrisia: il principe gli offre l’incarico, Agricola rifiuta, l’imperatore assente e Agricola lo ringrazia di aver accettato il suo rifiuto senza recriminare. E a questo punto la perfidia di Domiziano arriva al massimo. I proconsolari che rifiutavano l’incarico avevano diritto ad un indennizzo. Che ad Agricola non viene nemmeno offerto, una mortificazione grave e gratuita.
E, improvvisa, arriva la morte. Attorno alla quale un Tacito magistrale crea il clima di sospetto, pesante, abrasivo come e più di una certezza. Quello che si sussurra ha il suo culmine in una straordinaria rassegna di comparse in controluce: i liberti, i medici imperiali, le staffette che recano notizie aggiornate di minuto in minuto. E poi le cose che possono avere un significato e magari ne hanno un altro, inconfessabile.
Il compianto cresceva quanto più girava la voce che egli fosse stato vittima di un veneficio: io non posso riferire nulla di accertato. [21] Del resto durante tutta la sua malattia lo andarono a trovare sia i liberti più influenti sia i medici imperiali con maggior frequenza di quanto siano soliti gli imperatori che sono usi far visita attraverso intermediari: forse era attenzione nei suoi riguardi, forse un modo per spiarne la fine. Si venne comunque a sapere che, nel giorno della morte, gli ultimi istanti di Agricola agonizzante furono annunziati da staffette a Domiziano, mentre nessuno credeva che in tal modo il principe affrettasse notizie che avrebbe ascoltato con tristezza. Tuttavia ostentò dolore nel portamento e nel volto: si era ormai liberato della persona che odiava ed era più abile a nascondere la gioia che il dolore. Si seppe che, letto il testamento nel quale Agricola nominava Domiziano coerede della buonissima moglie e della figlia affezionatissima, il principe se ne rallegrò come se si trattasse di un omaggio e di un segno di stima. Tanto era accecata la sua mente e tanto corrotta dall’adulazione continua, da non sapere che un padre designa coerede un principe solo quando costui è malvagio”[22].
Questa centralità di Agricola ci regala pagine memorabili e sembra funzionale a spezzare il mondo in modo manicheo: da una parte Domiziano il turpe, l’imbelle, l’invidioso; dall’altra Agricola morigerato, abile, intelligente. Tacito non va troppo per il sottile nel costruire la contrapposizione: denigra senza mezze misure Domiziano ed esalta in blocco l’azione di Agricola. Tacito mira insomma a costruire la coppia dialettica tiranno/vittima come avverrà nelle opere maggiori (Tiberio/Germanico, Nerone/Corbulone ecc).
Sarà forse possibile allora vedere in Agricola anche la proiezione delle frustrazioni di Tacito che, è vero, scrive nell’epoca piena di speranze del trapasso del principato da Nerva a Traiano, ma che ha portato avanti la sua carriera politica soprattutto sotto Domiziano. L’Agricola/demiurgo è forse un alibi morale? Vuole essere la dimostrazione incarnata che anche sotto un cattivo principe è possibile agire bene, realizzare il vantaggio della res publica, fornire un esempio da consegnare alla posterità?
L’analisi resta difficile, perché alla fine rimane comunque chiaro che Agricola ha pagato con la vita (e con gli anni più fertili) il suo ben fare. E il sospetto che si insinua nel lettore è che la colpa non sia nel cattivo principe, ma nel fatto che esista un principe, tout court. Si fa strada nello storico che sta progettando le Historiae, l’amara riflessione che a voler trovare esempi di virtù bisogna indagare nel privato, e che la virtù è sempre dei singoli, mai della res publica: “Tuttavia quest’epoca non fu tanto povera di valore da non proporre anche esempi di nobiltà: madri che accompagnano figli profughi; mogli che seguono i mariti esuli; congiunti fedelissimi; generi di grande fermezza; schiavi leali anche se sottoposti a tortura; uomini di prestigio capaci di sopportare le più dure costrizioni e perfino la morte (al punto che è possibile il paragone con le più celebrate morti dell’antichità)”[23].
Così resta memorabile la lezione con cui Tacito inizia a raccontare Agricola: “Ben poco interessano alla nostra epoca i suoi grandi uomini. Tuttavia neppure essa ha trascurato l’usanza (un tempo molto più praticata) di tramandare ai posteri le azioni e i costumi degli uomini illustri, tutte le volte che una grande e nobile virtù è riuscita a sconfiggere e a calpestare il vizio che accomuna grandi e piccole nazioni: l’ignoranza e l’odio verso la giustizia. Ma ai tempi dei nostri antenati non solo era più facile e agevole compiere atti degni di essere ricordati, ma anche i maggiori ingegni erano indotti a celebrare la virtù. E non erano spinti da spirito di parte o ambizioni personali: piuttosto si sentivano compensati dalla consapevolezza della propria onestà”[24].




La “Germania” di Tacito e la razza germanica
di Lamponi Roberto – Un saggio di dimensioni ridottissime e addirittura dimenticato per secoli, ma in grado di influenzare mentalità e ideologie di un intero popolo. Testimone del fatto che non è il contenuto di un libro ad esser nocivo per l’animo umano, ma lo è “come” l’animo umano ne interpreta il contenuto. Stiamo parlando della “Germania” scritta dallo storico e senatore romano Publio Cornelio Tacito probabilmente nel 98 d.C. Prendendo spunto da diverse fonti , in particolare dai perduti “Bella Germaniae” di Plinio il Vecchio, Tacito è autore dell’unica opera a carattere completamente etnografico pervenuta fino ai giorni nostri. Descrizioni di popolazioni che abitavano regioni al di fuori dell’Impero romano sono presenti in altre opere ma sottoforma di excursus, come ad esempio nel “De bello gallico” di Cesare.  In questo “libellus” l’autore descrive in maniera accurata e approfondita non solo l’organizzazione tribale dei cosiddetti “Germani” ma anche i loro usi, costumi, inclinazioni, comportamenti e caratteristiche fisiche. Abbiamo utilizzato volutamente le virgolette per il termine Germani perché i diversi popoli che abitavano le selve oltre il Reno e il limes romano, non erano assolutamente consapevoli di essere un grande popolo unico abitante della Germania. Infatti le tribù, che lo stesso Tacito ci elenca, sono molto numerose: Marsi, Svevi, Burgundi, Cimbri,Teutoni, Ingevoni,Erminoni,Cherusci,Gambrivi,Vandili,Tungri ecc… Alcuni sostengono che la denominazione di Germani sia stata affidata loro da Cesare che venne a contatto con diverse popolazioni e condottieri germani come Ariovisto. Tacito però ci fornisce una spiegazione ben più dettagliata: i Tungri, popolazione stanziata nella Gallia Belgica e che veniva identificata col nome di Germani, si spostò prepotentemente nelle regioni germaniche mantenendo la loro denominazione che fu poi allargata a tutte le tribù confinanti. Dopo queste coordinate generali, in questo articolo non si tratterà del contenuto riguardante la “Germania” bensì della sua storia travagliata e della sua influenza così potente tanto da divenire uno dei punti cardine della storiografia e filosofia tedesca del ‘700/’800 ma anche dell’ideologia nazista del ‘900.

Nel 1425 venne ritrovato un codice risalente al IX secolo nel monastero di Hersfeld, ovvero uno dei centri di studi monastici attivo già dall’VIII secolo. Il codice conteneva non solo la Germania di Tacito ma anche due altre sue opere minori come l’Agricola e il Dialogus de oratoribus. La notizia del ritrovamento cominciò a spargersi in Europa tant’è che umanisti come Poggio Bracciolini e Niccolò Niccoli si misero subito all’opera per cercare di ottenere il codice. Lo stesso papa Niccolò V e il cardinale Enea Silvio Piccolomini (futuro Pio II) si interessarono al manoscritto, il quale molto probabilmente venne condotto a Roma dove fu tradotto da Poggio Bracciolini per iniziativa di Niccolò V. E’ proprio da questo periodo che inizia a formarsi una sorta di esaltazione e coscienza nazionale “germanica”. Paradossalmente la scintilla che fece divampare il fuoco destinato ad accrescersi fino al Nazismo, pervenne da chi non era assolutamente né “tedesco” né “germanico” ovvero il sopra citato Enea Silvio Piccolomini. Un anno prima della sua elezione al soglio pontificio, quindi nel 1457, scrisse la sua “Germania” in cui descrisse la situazione geopolitica del Sacro Romano Impero sul modello della Germania di Tacito, estremamente dettagliata grazie ai viaggi diplomatici compiuti nei territori imperiali. Persona di fiducia dell’imperatore Federico III, tenne anche un discorso alla Dieta di Francoforte per sollecitare una crociata contro gli Ottomani, in cui si esaltavano le qualità germaniche e si cercava di identificare gli antenati Germani con i tedeschi contemporanei e in cui naturalmente un ruolo principale era occupato dalla Chiesa di Roma. Il Cinquecento poi rappresentò un secolo di svolta non solo a livello etnico e filosofico ma anche religioso. Si fa sempre più strada l’idea che gli antichi Germani fossero stati un popolo unico ma con rami diversi. Il teologo e umanista tedesco Jakob Wimpfeling scrisse diverse opere di stampo patriottico e nazionalistico come la Germania dove vuole dimostrare la “teutonicità” dell’Alsazia, e “L’Epitome rerum Germanicarum”. Gunzburg traduce in volgare la “Germania” di Tacito e viene sempre di più esaltata e glorificata la figura di Hermann cioè Arminio, capo dei Cherusci e principale autore della disfatta romana di Teutoburgo.  La “vittoria germanica” di Teutoburgo e lo stesso Arminio cominciano a essere quasi oggetto di venerazione, simbolo dello spirito tedesco ribelle a Roma, alla sua Chiesa e alle sue leggi. Teorie ed esaltazioni molto ben messe in mostra dalla dottrina riformista e da Martin Lutero. Tacito parla inoltre di come nei  loro antichi poemi essi esaltino un certo Tuysco, un dio nato dalla terra, padre di Manno cioè il progenitore della razza germanica. In questo periodo e,soprattutto nel ‘600, si compie la completa trasposizione di Tuysco a Teuto, il Dio della razza endogena e teutonica. Il manoscritto passò quindi nelle mani dell’umanista Stefano Guarnieri di Osimo, il quale operò delle integrazioni e sistemazioni. E’ il 1700 però il secolo in cui viene a delinearsi un vero e proprio spirito e carattere della nazione tedesca e, clamorosamente, un’ulteriore spinta giunse dall’estero: Montesquieu nel suo “Spirito delle Leggi” del 1748 elabora il concetto di determinismo climatico ed esalta la Germania come prototipo di società libera. La corrente determinista incontrò un largo consenso, diversi autori cominciarono o continuarono a sviluppare teorie riguardanti il rapporto tra clima e uomo, giungendo a una netta contrapposizione tra popoli germanici e popoli latini. Lo svizzero De Bonstetten  nella sua “La Scandinavie et les Alpes” mette in contrapposizione l’uomo del nord con l’uomo del sud, oltre che a esaltare il mondo mitologico, sognante e nostalgico dell’Europa settentrionale.  Di assoluta importanza è la formazione a livello spirituale ed ideologico di un Volk che ha saputo recuperare la purezza linguistica e culturale degli antenati germanici; concetto che troverà poi la sua apoteosi nella Germania hitleriana. Il secolo successivo, il 1800, possiamo definirlo senza ombra di dubbio il secolo della pratica e dell’azione: Fichte dal 1807 tiene circa quaranta “Discorsi alla nazione germanica”, al Volk viene affidato un Reich con Bismarck nel 1871, Blumenbach studia approfonditamente la razza bianca caucasica definendo le espressioni di brachicefalo (cranio largo) e dolicocefalo (cranio allungato) e prolifera il movimento Volkisch che aveva come punti principali l’esaltazione di un “carattere popolare” puro e il Volkstum ovvero l’insieme di tutte le espressioni e tradizioni folkloristiche di un Volk o di una minoranza etnica. Un ulteriore impulso venne dato anche dal francese Gobineau con il suo “Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane”.

Discorso a parte merita il XX secolo.
Il manoscritto del Guarnieri venne ritrovato nel 1902 a Jesi (Codex Aesinus) nella biblioteca del conte Guglielmi Balleani dal prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, Marco Vattasso che a suo volta lo affidò allo studioso Cesare Annibaldi per esaminarlo. In Germania intanto, oltre alle teorie pangermaniste, viene fondato il NSDAP o Partito Nazista e Hitler pubblica una sorta di programma politico del partito e del nuovo ordine che intende dare alla Germania: il Mein Kampf. Le sue idee incontrano sempre più un largo consenso, soprattutto a fine anni ’20- inizi ’30, quando riesce ad arrivare al potere. E’ in questo periodo e con l’ideologia nazista che la “Germania” di Tacito e la stessa opinione dell’autore latino riguardo i Germani vengono completamente stravolte. Tacito non esaltò affatto le popolazioni oltre il Reno, in qualche punto è possibile ritrovare una certa ammirazione (molto più lampante per i Britanni nell’Agricola) per alcuni valori di quelle tribù rispetto alla corruzione che dilagava a Roma. Sebbene nell’Agricola è possibile ritrovare una critica all’imperialismo romano, qui Tacito non esclude assolutamente una futura conquista della Germania e auspica che l’insieme di queste tribù non si unisca ma che rimangano divise così come sono. Inoltre le qualità positive sono subito affiancate da alcune altrettanto negative ma che vennero puntualmente ignorate. Possiamo fare degli esempi:

“Personalmente inclino verso l’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da incroci con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sè, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benchè così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d’intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all’assalto. Non altrettanta è la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo”.
(Tacito, Germania,4)

Come possiamo notare è vero che Tacito giudica le popolazioni germaniche (e non popolo germanico) come una razza indipendente e non contaminata dall’incontro con altre genti ma li dipinge anche come insofferenti e non inclini al lavoro. In altri passi li descrive sì come “valorosi guerrieri” ma la loro “virtus” guerriera è fine a sé stessa: cercano sempre lo scontro perché non hanno altra occupazione, non tentennano affatto a combattersi a vicenda e la maggior parte del loro tempo lo passano a bere birra. Non conoscono l’uso del mattone e vivono in rudimentali capanne. Tacito si sofferma anche sui loro usi e costumi come, ad esempio, l’usanza di denudare una donna adultera, strapparle i capelli e allontanarla dalla società: usanze e costumi che saranno interpretati invece come migliori delle leggi dei corrotti e lascivi Romani. Insomma, una vera e propria cancellazione delle qualità negative ed esaltazione di quelle positive, una magistrale opera di propaganda affinata nei secoli e che ebbe l’apice nel Nazismo e soprattutto in Himmler. I suoi due progetti più importanti sembrano infatti strettamente collegati a tutto ciò. Il Lebensborn venne appunto creato per mettere in pratica le teorie eugenetiche della razza ariana: case di maternità con donne scelte e uomini delle SS quindi con caratteri somatici ben definiti (alti, occhi azzurri, biondi ecc..) come quelli descritti da Tacito. L’altro, l’Anherbe, si trattava di una società dai tratti misterici ed occulti votata alla ricerca della storia antropologica e culturale della razza ariana. Vennero compiuti diversi viaggi esplorativi in diverse regioni della Scandinavia e in India visto che il gruppo etnico degli Arii era originario del subcontinente indiano e il termine stesso “ariano” deriva dal sanscrito “ariyà” con il significato di “signore”.

Il manoscritto godeva di tale importanza che lo stesso Himmler cercò di ottenerlo dal conte Balleani senza riuscirvi. Lo chiese quindi anche a Benito Mussolini, il quale era intenzionato ad accontentarlo, ma il ministro dell’Educazione nazionale Bottai vietò fermamente il trasferimento. Soltanto nel 1944 e quindi con l’occupazione nazista dell’Italia, alcune SS riuscirono ad irrompere nelle tenute del conte a Jesi, Ancona e Osimo e a perquisirle, senza però trovare nulla. In seguito venne danneggiato dall’alluvione di Firenze nel 1966 ma poi restaurato fu affidato dalla famiglia Balleani allo Stato Italiano e si trova attualmente nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
http://riflessistorici.com/2016/01/03/la-germania-di-tacito-e-la-razza-germanica/








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