La città dei gatti e la città degli uomini stanno l'una dentro l'altra, ma non sono la medesima città. Pochi gatti ricordano il tempo in cui non c'era differenza: le strade e le piazze degli uomini erano anche strade e piazze dei gatti, e i prati, e i cortili, e i balconi, e le fontane: si viveva in uno spazio largo e vario. Ma già ormai da più generazioni i felini domestici sono prigionieri di una città inabitabile: le vie ininterrottamente sono corse dal traffico mortale delle macchine schiacciagatti; in ogni metro quadrato di terreno dove s'apriva un giardino o un'area sgombra o i ruderi d'una vecchia demolizione ora torreggiano condomini, caseggiati popolari, grattacieli nuovi fiammanti; ogni andito è stipato dalle auto in parcheggio; i cortili a uno a uno vengono ricoperti d'una soletta e trasformati in garages o in cinema o in depositi–merci o in officine. E dove s'estendeva un altopiano ondeggiante di tetti bassi, cimase, altane, serbatoi d'acqua, balconi, lucernari, tettoie di lamiera, ora s'innalza il sopraelevamento generale d'ogni vano sopraelevabile: spariscono i dislivelli intermedi tra l'infimo suolo stradale e l'eccelso ciclo dei super-attici; il gatto delle nuove nidiate cerca invano l'itinerario dei padri, l'appiglio per il soffice salto dalla balaustra al cornicione alla grondaia, per la scattante arrampicata sulle tegole.
Ma in questa città verticale, in questa città compressa dove tutti i vuoti tendono a riempirsi e ogni blocco di cemento a compenetrarsi con altri blocchi di cemento, si apre una specie di controcittà, di città negativa, che consiste di fette vuote tra muro e muro, di distanze minime prescritte dal regolamento edilizio tra due costruzioni, tra retro e retro di due costruzioni; è una città di intercapedini, pozzi di luce, canali d'aerazione, passaggi carrabili, piazzole interne, accessi agli scantinati, come una rete di canali secchi su un pianeta d'intonaco e catrame, ed è attraverso questa rete che rasente i muri corre ancora l'antico popolo dei gatti....
Il freddo ha mille forme e mille modi di muoversi nel mondo: sul mare corre come una mandria di cavalli, sulle campagne si getta come uno sciame di locuste, nelle città come lama di coltello taglia le vie e infile le fessure delle case non riscaldate.
Italo Calvino, Marcovaldo. Il bosco sull'autostrada.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città:
cartelli,semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece , una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggiva mai: non c'era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e che non fosse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Italo Calvino, Marcovaldo.Ma i due non tubavano mica: litigavano.
E tra due innamorati un litigio non si può dire mai a che ora andrà a finire.
Lui diceva: - Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di farmi dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere?
Marcovaldo capì che sarebbe andata per le lunghe.
- No, non l'ammetto, - rispose lei, e Marcovaldo se l'aspettava.
- Perché non l'ammetti?
- Non l'ammetterò mai.
[…]
- Allora ammetti?
- No, no, non lo ammetto affatto!
- Ma ammettendo che tu ammettessi?
- Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu!
[…]
Tornò a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi, non era più lei a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che diceva a lui: - Allora, ammetti? - e lui a dire di no. Così passò mezz'ora. Alla fine lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano.
Italo Calvino, Marcovaldo.
Intanto, gli altoparlanti diffondevano musichette allegre: i consumatori ne seguivano il ritmo e, al momento giusto, allungavano il braccio, prendevano un prodotto e lo posavano nel loro cestino.
Italo Calvino, Marcovaldo.
[...] È l’episodio in cui Marcovaldo si reca al supermercato con la su famiglia ma, in quanto poveri in canna, si limitano a osservare gli altri fare spesa. Ad un certo punto però, presi da questa frenesia consumistica del carrello pieno, si mettono a riempire il loro: il problema è che, quando il negozio sta per chiudere, non hanno tempo di rimettere le cose al loro posto ma nemmeno possono permettersi di pagare la merce. Alla fine, in trappola, spingono carrello e contenuto giú da una gru all’esterno dal centro commerciale.
[...] La vita di Marcovaldo, comunque, mi era già chiaro allora che non fosse facile: un lavoro ripetitivo non ben identificato, che mi ha sempre ricordato quello del papà di Charlie ne La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl -altra lettura del mio periodo alle medie- che avvitava i tappi dei tubetti di dentifricio.
Ma il protagonista di Italo Calvino, oltre a fare un lavoro in ditta sicuramente poco realizzante, è anche povero: fa fatica a portare avanti la sua famiglia con moglie e due figli a carico. Inoltre, è incatenato nella città in cui vive (in cui molti hanno voluto rivedere Torino): Marcovaldo sogna il verde, i prati, il mare, la fuga. Tutto sarebbe meglio che vivere nel grigio della città.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto.
È anche un tipo non esattamente fortunato, su cui la sorte spesso si accanisce e, anche quando ottiene qualche vittoria, è fugace. [...]
Sicuramente, ai tempi, i maestri scelsero questo testo perché, alla base, ha una struttura fiabesca: sono piccole storie, a volte più simpatiche di altre, che raccontano le sventure di un poveruomo spesso bistrattato anche dalla sua stessa famiglia. [...]
Riletto e riguardato anni dopo, mi sono resa conto delle grandi metafore nascoste dietro a semplici racconti: l’uomo che cerca la natura, segregato nella città e nella fabbrica; una famiglia un po’ strana che non sembra rispettare pienamente il capofamiglia; l’uomo moderno alienato, alienazione che passa per il lavoro ripetitivo e la vita che si accanisce su di lui.
[...] Non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Marta Merigo per MIfacciodiCultura
Laureata in Filosofia e laureanda in Scienze Filosofiche
http://www.artspecialday.com/9art/2017/09/19/italo-calvino-marcovaldo-ognuno/
Nessun commento:
Posta un commento