domenica 10 novembre 2013

Cristina Campo. Qualcuno avrà notato con quale ipnotica lentezza battano le ciglia di un bambino che ascolta un vecchio rievocare; come le labbra si schiudano febbrili, la saliva passi lenta attraverso la gola. Non è di ilarità la sua espressione, mentre tutto il corpo si stringe contro le antiche ginocchia. C'è in lui la tensione immobile degli animali in muda, degli insetti in metamorfosi; è forse simile agli usignoli in pieno canto che si dice hanno una forte temperatura e il fragile piumaggio tutto arruffato. Egli sta crescendo, in quegli attimi; sta bevendo con voluttà e tremore alla fontana della memoria; l'acqua fulgida e cupa da cui ha vita la percezione sottile.

«Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi».
Cristina Campo, nata a Bologna il 29 aprile 1923


«Eccessiva per natura, lei vive d’ardenti entusiasmi e di cupe disperazioni
Queste sono le parole con cui Guido Guerrini, famoso compositore italiano e padre di Vittoria Guerrini, parla di sua figlia, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Cristina Campo (1923 – 1977).

[...] Il difetto cardiaco che l’accompagnerà per tutta la vita
le impedisce di frequentare regolarmente la scuola
Fortuna immensa», commenterà Elémire Zolla)
e anche questo contribuisce a fare di lei una persona speciale.
Studia da autodidatta sotto la guida del padre e di insegnanti privati.
Impara le lingue leggendo Proust, Cervantes, Shakespeare...
[...] è ben attenta a fuggire qualsiasi commercio con l’attualità.

Evita gli autori che vanno per la maggiore (gli aborriti contemporanei i cui libri definisce “pezzi di carogna”) e inoltre non accetta né tagli né modifiche agli articoli, né compromessi di altro genere.

Rimane, pertanto, un’isolata e diventa un’imperdonabile sulla scia di poeti senza mezze misure quali Ezra Pound e Marianne Moore, quest’ultima definita «meticolosa, speciosa, inflessibile», tre aggettivi per scegliere i quali dev’essersi guardata allo specchio.

Nella Capitale conosce Elémire Zolla, studioso fra esoterismo e Tradizione, sposato con la poetessa Maria Luisa Spaziani e quindi con difficoltà a contraccambiare il sentimento appena nato. Ma i due finiscono col convivere e a coagulare un piccolo nucleo di eccentrici, il poeta italo­argentino Juan Rodolfo Wilcock, il dissidente polacco Gustaw Herling, i tre giovani anticonformisti Guido Ceronetti, Alfredo Cattabiani, Roberto Calasso (gli ultimi due saranno i suoi editori, rispettivamente in Rusconi e in Adelphi).

Nel ‘65, dopo la morte del padre, Cristina si ritira sull’Aventino.

Abita con Zolla a Villa Sant’Anselmo, un piccolo albergo sull’omonima piazza a pochi passi dall’omonima abbazia, dove spesso si rifugia a pregare. Sul colle famoso per la secessione plebea, Cristina attua la sua secessione aristocratica da un mondo che le piace ogni giorno di meno.

Il colpo definitivo lo riceve dal Concilio Vaticano II, che cancella la messa in latino e il canto gregoriano, suoi grandi conforti.
http://www.150anni.it/webi/stampa.php?wid=1944&stampa=1






Qualcuno avrà notato con quale ipnotica lentezza battano le ciglia di un bambino che ascolta un vecchio rievocare; come le labbra si schiudano febbrili, la saliva passi lenta attraverso la gola. Non è di ilarità la sua espressione, mentre tutto il corpo si stringe contro le antiche ginocchia. C'è in lui la tensione immobile degli animali in muda, degli insetti in metamorfosi; è forse simile agli usignoli in pieno canto che si dice hanno una forte temperatura e il fragile piumaggio tutto arruffato. Egli sta crescendo, in quegli attimi; sta bevendo con voluttà e tremore alla fontana della memoria; l'acqua fulgida e cupa da cui ha vita la percezione sottile.
Cristina Campo, Gli imperdonabili


Vivere, certo, mio caro amico. Non c’è nulla di più - nulla di meno - da fare. 
Quanto ad esser felici, questo è il terribilmente difficile, estenuante.
Come portare in bilico sulla testa una preziosa pagoda, tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli e di fragili fiamme accese; e continuare a compiere ora per ora i mille oscuri e pesanti movimenti della giornata senza che un lumicino si spenga, che un campanello dia una nota turbata.
Cristina Campo, stralcio di lettera contenuta in "Il mio pensiero non vi lascia"



UNA ROSA
«Come fu così agghindata, ella salì in carrozza; ma la madrina le raccomandò sopra ogni cosa di non passar mezzanotte, avvertendola che se restasse più lungamente al ballo la sua carrozza ridiverrebbe zucca, i suoi cavalli sorci, i lacchè lucertole, e che le sue belle vesti riprenderebbero l'antica forma».
Cenerentola.

Il mistero del tempo e la legge del miracolo sono indicati in queste poche parole con leggerezza estrema e tuttavia con quale risolutezza. A che può condurre l'infrazione di un limite se non al regresso tragico nel tempo, al risveglio, sulle ceneri fredde? Cenerentola sfiora, nella terza e più gloriosa notte di ballo, quel precipizio: e per schivarlo, fuggendo all'impazzata, non si cura di perdere il suo scarpino di vaio, di rinunciare a un lembo del gratuito, estatico presente del quale una potenza l'ha rivestita. Ma ecco: sarà proprio quel filo, lo scarpino di vaio, a ricondurla al principe. La sua perdita volontaria diverrà il suo guadagno. [...]
fu Belinda a suscitare il suo Principe, di lontano e senza saperlo.
Fu quando chiese a suo padre che infilava la staffa, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, quel suo folle regalo:
«una rosa, solo una rosa», in pieno inverno.
Cristina Campo, Gli imperdonabili



Rebus di limiti illimitati, l'infanzia.
[...]Oggi un contadino qualsiasi,
per indicare una qualsiasi direzione,
parlerà come uno gnomo o una fata,
ti aprirà con un gesto la strada,
mille volte sfiorata senza sospettarla, [...]
Bastano pochi lembi di visione:
Un frantoio, cavato da una sola, grande rovere...

[...]... A otto anni mi regalarono un cavallino,
un baio bruciato balzano da tre.
Balzan da tre caval da re, disse il mozzo di scuderia.
A mia sorella invece due anatrelle mute...

[...] Di non svegliarti ancora ti chiediamo:
qui non c'è nulla al di fuori
di questa fratta in mezzo a un prato.
La brezza del mattino muove tra i pini.
Una fratta selvaggia, oscura e vuota.
Cristina Campo, Gli imperdonabili

Chi abbia avuto la ventura di nascere in campagna (o almeno in un giardino abbastanza vasto da non saperne troppo bene i confini) porterà per tutta la vita il sentimento di un arcano e pure preciso linguaggio, di uno svolgersi musicale di frasi che, mentre colma i sensi di sovrabbondante letizia, annuncia alla mente un ultimo disegno, sempre di nuovo promesso e differito. Come la soluzione di un rebus [...].

Rebus di limiti illimitati, l'infanzia.
Di confini malcerti, magnificati dalla piccola statura (proprio come le magiche parole, compitate a rilento nel libro delle fiabe).
Era il dosso, vellutato da una linea di sole e inaccessibile ai passetti minuti, oltre il quale doveva stendersi il prato incomparabile, la radura di Brocelianda.

Era il cancello sempre chiuso, il boschetto solo sfiorato, il viale senza termine. Era, durante la passeggiata al crepuscolo, la rovina di un castello vertiginoso e statico che girava tramutando con i tornanti della strada. Era la grotta, appunto, il muschio indovinato, l'acqua nascosta. Era la fin du pare. [...]

Non a caso la lettura delle fiabe, lingua segreta dei vecchi, è così spesso l'evento indelebile dell'infanzia. Per il bambino che le abbia lette in un paesaggio vivente, esse varranno già una prima iniziazione, se non al significato al potere dei simboli.

Uno scrittore dotato di arcano, Corrado Alvaro, assimilò la fiaba all'infanzia del mondo, quando i viaggi si compivano a piedi o sul dorso di animali.

[...] Abolita come a un tocco di verga la geometria di tempo e spazio, si cammina per ore senza uscire da un cerchio, o al contrario si tocca in pochi passi l'orlo dell'illimitato.

Cristina Campo, Gli imperdonabili



Accade in ogni fiaba che, partiti per avere una cosa, 
se ne ricava misteriosamente un’altra”.
Cristina Campo

“Di certe pesche si dice in italiano che hanno “l’anima spicca”, il nocciolo, cioè, ben distaccato dalla polpa. A spiccarsi del pari il cuore dalla carne o, se vogliamo, l’anima dal cuore, è chiamato l’eroe di fiaba, poiché con cuore legato non si entra nell’impossibile.
Questa provincia mediana della fiaba, tra prova e liberazione, è, se mai ve ne fu uno, mondo di specchi. Come in una antica danza di corte, bene e male vi si scambiano le maschere, e che la sorridente regina fosse una negromante, che nella stamberga del menestrello si celasse il magnanimo re Barba-di-Tordo
non si appaleserà se non in quel sopramondo delle scadenze imponderabili a cui la fiaba conduce: là dove le figure rovesciate si ricomporranno nel tessuto splendente, nell’atlante perfetto dei significati. E tuttavia l’eroe di fiaba è chiamato sin dal principio a leggere in qualche modo quel sopramondo in filigrana, ad assecondarne le leggi recondite nelle sue scelte, nei suoi dinieghi. Gli si chiede nulla di meno che appartenere, simultaneamente, sonnambolicamente a due mondi.”
Cristina Campo, Gli imperdonabili, 1987



Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade.
Si cammina davanti a sé, la linea è retta all'apparenza.
Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella - o addirittura un punto immobile dal quale l'anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente.

Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada; perché non si può sapere che cosa siano in realtà
l'Acqua Ballerina, la Mela Canterina, l'Uccello che indovina.

[...] Gli antichi navigatori, dopo avere perduto la rotta per traversie di mare, al momento di ritrovarla, spesso dal lato opposto, chiamavano la manovra avanzare di ritorno.
Cristina Campo, Gli imperdonabili

Non a caso la fiaba, questa figura del viaggio, si chiude per lo più come un anello allo stesso punto nel quale era cominciata. Il termine raggiunto, al di là dei sette monti e dei sette mari, è la casa paterna; il parco familiare o il giardino dove nel frattempo sono cresciute alte erbe. Là il re canuto attende di poter cedere la corona a suo figlio, il principe prodigo. [...]
Cristina Campo, Gli imperdonabili

«Val più un vecchio nel canto del fuoco
che un giovane nel campo»
Cristina Campo, Gli imperdonabili


13 novembre 2016 0:25
"è stato detto che solo per l'infanzia si accede al regno dei cieli"
Cristina Campo, Gli imperdonabili

"Si sa che la vecchiezza, spesso dimentica di tanta parte della vita trascorsa, ricorda con limpidità sempre maggiore l'infanzia.
E poiché è stato detto che solo per l'infanzia si accede al regno dei cieli, sembra giusto spogliarsi di ogni altro bene per quel solo possesso. Un possesso che forse si compirà con la morte.

Il vecchio più smarrito si riveste della segretezza di un augure se incominci a narrare della sua fanciullezza. La vita rallenterà il suo ritmo intorno a lui, strani silenzi lo circonderanno, né il bambino più smanioso potrà resistergli. Egli sembra dotato, in quegli attimi, di potere augurale.

Infatti sta indicando al fanciullo una meta: non già il proprio passato, ma il suo futuro, il futuro della sua memoria di adulto.
Né l'uno né l'altro lo sa, se non per la qualità numinosa delle parole che avvolge l'uno e l'altro nella stessa fascinazione.
Come semplici quelle parole. E tuttavia si sente spesso il bambino interrompere, volerne saper di più, insistere sulla forma di quella focaccia, la grandezza di quel giardino, il colore dell'abito della bisnonna durante quella passeggiata o quella festa". [...]

Qualcuno avrà notato con quale ipnotica lentezza battano le ciglia di un bambino che ascolta un vecchio rievocare; come le labbra si schiudano febbrili, la saliva passi lenta attraverso la gola. Non è di ilarità la sua espressione, mentre tutto il corpo si stringe contro le antiche ginocchia. C'è in lui la tensione immobile degli animali in muda, degli insetti in metamorfosi; è forse simile agli usignoli in pieno canto che si dice hanno una forte temperatura e il fragile piumaggio tutto arruffato. Egli sta crescendo, in quegli attimi; sta bevendo con voluttà e tremore alla fontana della memoria; l'acqua fulgida e cupa da cui ha vita la percezione sottile.
Cristina Campo, Gli imperdonabili


[...] la narrazione più semplice di un vecchio assume andatura di parabola, in parabole si esprimevano volentieri i vecchi di un tempo e sempre la raccontatrice di fiabe - questi evangeli che così leggermente si dicono moralità - fu la nonna:
la decana di casa, la donna di buon consiglio, dama che fosse o contadina. Allusivo suona il proverbio italiano:
«Val più un vecchio nel canto del fuoco
che un giovane nel campo»,

se pensiamo alla figura del raccontafiabe di cui mio padre potè ancora ascoltare la voce: l'uomo misterioso che si imitava alle veglie, nelle profonde notti veglie, nelle profonde notti dell'inverno, come un celebrante o un aruspice; il vecchio dalla pipa di coccio che viveva della sua parola e intorno al quale la sala o la cucina si spartiva da sé, come una cappella, in gineceo di filatrici, di ricamatrici da un lato, in androceo di fumatori dall'altro.
In Toscana la fiaba fu sempre chiamata «la novella», proprio come tra i popoli furono detti i Vangeli. Mentre al raccontafiabe era riserbata la casa, il fuoco al centro della casa -antico luogo d'incontro con i morti, con gli spiriti della stirpe - il cantastorie, storico di gesta laiche, era ascoltato in piazza. [...] il raccontafiabe, sdegnoso di strofette, di cartelloni patetici, passava misteriosamente di casa in casa come un portatore di tesori. I bambini se lo raffiguravano volentieri con un sacco pieno di parole, in tutto simile al sacco del Sonno dispensatore di sogni. Per secoli si crearono leggende sul raccontafiabe che non ha più (o non vuol più raccontare) fiabe: dono celeste, sempre revocabile. [...]
Cristina Campo, Gli imperdonabili







«La nostalgia mi ruba i colori della vita»
Cristina Campo, le lettere agli amici del periodo fiorentino

Tra le creature viventi, amava soprattutto i gatti e gli amici.
I gatti erano quattro: nella poltrona vicino al suo letto,
si stendeva un grosso, giovane gatto innocente;
e nella stanzetta sopra la cucina, abbracciate,
«tre piccole fate dai più delicati toni di grigio».

Gli amici erano innumerevoli; e ancora oggi appaiono alla luce lettere, frammenti di lettere, tenerezze, ricordi di tenerezze,
amicizie che dopo quaranta o cinquanta anni non si possono sradicare.

Cercava nei suoi amici fedeltà, freschezza, meraviglia, sorpresa: una cerchia strettissima di complicità, che ricordasse un poco ai suoi occhi le cerchia degli antichi amici dello Stilnovo.

Voleva sapere tutto di loro - che mobili c'erano nella STANZA, che alberi si riflettevano nei vetri.

Nel 1999, Margherita Pieracci Harwell pubblicò le Lettere a Mita (Adelphi): un capolavoro della letteratura italiana del secolo scorso.
In questi giorni, la stessa Pieracci raccoglie e commenta

Il mio pensiero non vi lascia.
Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino (Adelphi, pp. 278, 24).

Pietro Citati
5 gennaio 2012 (modifica il 9 gennaio 2012)

Il libro di Cristina Campo (Bologna, 1923 - Roma, 1977; nella foto), «Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino», edito da Adelphi (pp. 278, e 24),

http://www.corriere.it/cultura/libri/12_gennaio_05/campo-il-mio-pensiero-non-vi-lascia_a2471dc4-3788-11e1-8a56-e1065941ff6d.shtml




Cristina Campo.
Dopo la morte del padre e della madre - strazio per lei indicibile - 
andò ad abitare a piazza Sant'Anselmo, sull'Aventino. 
Dapprima nella STANZA di un piccolo albergo, 
dove tutto sapeva di Emily Dickinson; 
e poi in un incantevole appartamento in fondo alla piazza, sempre sotto la protezione dell'immensa abbazia, «L'abbazia - scriveva nell'agosto 1965 a Maria Zambrano - è quasi disabitata: 
non c'è Musica né Liturgia: solo pochi conversi e i sacerdoti rimangono. Ma la Messa del mattino, col suo sepolcrale silenzio, la Compieta al tramonto, il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte - questa esistenza, infine, quasi di oblati in ritiro - è puro olio soave sull'anima e il corpo».

Nell'ultimo periodo della vita, Cristina Campo ebbe l'impressione che Dio l'avesse completamente abbandonata. Dio si occupava di altri: chissà di chi - ma mai di lei. Temeva di non essere degna. Temeva di smarrire quell'olio soave che l'aveva incantata. Le chiavi del cielo continuavano ad aprire porte inattese - ma dietro la porta non c'era niente o nessuno che le parlasse. «Ormai è tardi», scriveva.

La mattina dell'11 gennaio 1977, alle cinque, mi telefonò Elémire Zolla. 
«Vittoria è morta dieci minuti fa», mi disse. Era ancora buio. Mia moglie ed io corremmo in macchina all'Aventino. Vittoria era distesa sul letto: il viso era trasformato, deformato, stravolto; non avevo mai visto un essere umano così violentemente e ferocemente aggredito dalla morte, che l'aveva colpita dove era più indifesa: nel cuore. Tutto era stato inutile: la fede, la grazia, l'attenzione, l'amore, la discrezione, la vocazione, la tenacia, l'ardore, la dolcezza, persino la crudeltà - tutto quello che aveva fatto di lei una creatura incomparabile, era stato spazzato via con un gesto. Per un momento non riuscii a pensare ad altro. Poi nella memoria risorse il lieve splendore della voce di Vittoria, la grazia della scrittura di Cristina, e il verso incessante di Dylan Thomas: «E la morte non avrà più dominio».

Pietro Citati
5 gennaio 2012 (modifica il 9 gennaio 2012)


Il libro di Cristina Campo (Bologna, 1923 - Roma, 1977; nella foto), «Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino», edito da Adelphi (pp. 278, e 24),

http://www.corriere.it/cultura/libri/12_gennaio_05/campo-il-mio-pensiero-non-vi-lascia_a2471dc4-3788-11e1-8a56-e1065941ff6d.shtml






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