venerdì 3 giugno 2016

Mordechai Richler. La versione di Barney. "Lei è uno strizzacervelli?" "Sì." "Allora lasci che le dica una cosa. Non sono mai andato d'accordo con sciamani, stregoni o psichiatri. Della condizione umana hanno capito molto più Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi. Siete una banda di ciarlatani sopravvalutata, che si ferma alla grammatica dei problemi umani, mentre gli scrittori che le ho nominato badano all'essenza. E non mi piacciono le etichette vacue che appiccicate alla gente, nè le parcelle che chiedete per perizie di parte. E non mi piacete in tribunale, uno per la difesa, l'altro per l'accusa, due cosiddetti esperti, l'un contro l'altro armati, ma entrambi col portafogli gonfio. Voi giocate con la testa delle persone, e siete inutili, se non dannosi. Inoltre, stando a quanto ho letto di recente, avete abbandonato il lettino per i farmaci, come del resto anche il mio amico Morty. Paranoia? Prenda questo due volte al dì. Schizofrenia? Sciolga questo in bocca prima dei pasti. Io prendo un whisky al malto e un Montecristo per tutto, e le consiglio di fare altrettanto. Fanno duecento dollari, grazie!

La versione di Barney
Incipit
Tutta colpa di Terry. È lui il mio sassolino nella scarpa
E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l'altro mettendomi a scribacchiare un libro alla mia veneranda età violo un giuramento solenne, ma non posso non farlo. Non posso lasciare senza risposta le volgari insinuazioni che nella sua imminente autobiografia Terry McIver avanza su di me, le mie tre mogli (o come dice lui la troika di Barney Panofsky), la natura della mia amicizia con Boogie e, ovviamente, lo scandalo che mi porterò fin nella tomba. Il tempo, le febbri, questo il titolo della messa cantata di Terry, è in uscita per i tipi del Gruppo (chiedo scusa, il gruppo, si scrive così), una piccola casa editrice di Toronto che gode di lauti sussidi governativi e pubblica (su carta riciclata, potete scommetterci la testa) anche un mensile, «la buona terra».
Mordecai Richler, La versione di Barney



"Lei è uno strizzacervelli?" "Sì." "Allora lasci che le dica una cosa.  Non sono mai andato d'accordo con sciamani, stregoni o psichiatri.  Della condizione umana hanno capito molto più  Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi.  Siete una banda di ciarlatani sopravvalutata,  che si ferma alla grammatica dei problemi umani,  mentre gli scrittori che le ho nominato badano all'essenza.  E non mi piacciono le etichette vacue che appiccicate alla gente,  nè le parcelle che chiedete per perizie di parte.  E non mi piacete in tribunale, uno per la difesa, l'altro per l'accusa,  due cosiddetti esperti, l'un contro l'altro armati,  ma entrambi col portafogli gonfio.  Voi giocate con la testa delle persone, e siete inutili, se non dannosi.  Inoltre, stando a quanto ho letto di recente,  avete abbandonato il lettino per i farmaci,  come del resto anche il mio amico Morty.  Paranoia? Prenda questo due volte al dì.  Schizofrenia? Sciolga questo in bocca prima dei pasti.  Io prendo un whisky al malto e un Montecristo per tutto,  e le consiglio di fare altrettanto. Fanno duecento dollari, grazie!
Mordechai Richler. La versione di Barney.


Ho sessantotto anni, porca puttana, e non capisco dove possa essermeli beccati.
Mordecai Richler, La versione di Barney, p. 442


Ma guardami pensavo, alla mia età sono qui a rimorchiare mignotte, e tutto perché mi hai lasciato.
Mi sono portato a letto la Vita di Samuel Johnson, libro da cui non mi separo mai - più che altro perché, casomai spirassi nel sonno, è quello che vorrei mi trovassero sul comodino.
Mordecai Richler, La versione di Barney


Ma ho anch'io i miei princìpi.
Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.
Mordecai Richler, La versione di Barney


Miriam ordinò la zuppa di piselli e io, chissà perché, quella di aragosta, che mi fa schifo. E mentre la Prince Arthur Room cominciava a basculare, cercavo disperatamente una battuta fulminante, un aforisma letale, capace di stendere Miriam e far impallidire il ricordo di Oscar Wilde. Risultato, mi sentii pronunciare le seguenti parole: “Ti piace vivere a Toronto?”
Mordecai Richler, La versione di Barney


Nel mio caso, non c'era la lettera di papà 
che non si chiudesse con una frecciata delle sue: 
"Te lo ricordi Yankel Schneider, quello che balbettava? 
Ma tu pensa, adesso fa l'avvocato, e si è comprato una Buick".
Mordecai Richler, La versione di Barney


[...]Ma ho anch'io i miei principi. 
Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.
Mordecai Richler, La versione di Barney




La verità è che di tanto in tanto adoro ritirarmi nel cottage,
la scena del mio presunto assassinio,
e aggirarmi con un bicchiere in mano per le stanze vuote
dove un tempo risuonavano le risate di Miriam
e gli strilli gioiosi dei bambini.
Sfoglio i vecchi album di fotografie,
tirando su col naso come un vecchio rimbecillito.
Mordecai Richler, La versione di Barney


Mentre Tiziano mischiava rosa e celestino
la modella se ne stava appollaiata su un gradino.
La vostra, disse Tiziano, più che una posizione
è un chiaro invito alla fornicazione.
E così si arrampicò fino in cima
per darle una bella lezioncina.
Mordecai Richler, La versione di Barney



Poi ci descrisse il suo primo briefing, 
ripetendo parola per parola il discorso 
del comandante agli equipaggi: 
"Aprite le orecchie, signorine. 
Che non vi venga in mente di inventarvi un problemino meccanico 
che vi ha costretto a sganciare sul primo pascolo 
a cinquecento chilometri dall'obiettivo e a tornare dritti a casa. 
Col cazzo. Guardatevene bene. 
Tradireste la fiducia delle americane 
che lavorano in fabbrica al posto vostro, 
e soprattutto degli imboscati che fanno milioni al mercato nero 
e si fottono le vostre fidanzate. 
Non vi conviene neppure provarci, con me. 
Cagatevi pure addosso, ma non venite a raccontarmelo". 
E poi concluse: "Tanto, di qui a tre mesi due terzi di voi saranno morti. 
Qualche domanda idiota?".
Mordecai Richler, La versione di Barney



"Senti, Miriam è a Toronto, e tu sei qui. Divertiti un po'".
"Non capisci".
"No, sei tu che non capisci.
Alla mia età non rimpiangerai le marachelle
che hai fatto, ma quelle che non hai fatto".
Mordecai Richler, La versione di Barney


Non conoscendo ancora le gioie della paternità,
ero prodigo di consigli. "Se avessi dei figli li manterrei fino a ventun anni,
poi dovrebbero cavarsela da soli. Ci deve pur essere un limite."
"Certo che c'è. La tomba."


Ah, davvero” dico, mettendo via l'ennesimo rancorino da covare in santa pace.
Secondo Miriam era quella la mia vera passione.
C'è chi colleziona francobolli, o scatole di fiammiferi” mi ha detto una volta. 
“Tu collezioni rancori".
Mordecai Richler, La versione di Barney



...ci vogliono settantadue muscoli per fare il broncio
ma solo dodici per sorridere.
Provaci per una volta.
Mordecai Richler, da Solomon Gursky è stato qui, Adelphi


Un ragazzo può essere due, tre, quattro persone potenziali,
ma un uomo una sola: quella che ha ucciso le altre.
Mordecai Richler, da L'apprendistato di Duddy Kravitz, Adelphi, Milano 2006



"Lei è uno strizzacervelli?"
"Sì."
"Allora lasci che le dica una cosa. 
Non sono mai andato d'accordo con sciamani, stregoni o psichiatri.
Della condizione umana hanno capito molto più 
Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi.
Siete una banda di ciarlatani sopravvalutata,
che si ferma alla grammatica dei problemi umani,
mentre gli scrittori che le ho nominato badano all'essenza.
E non mi piacciono le etichette vacue che appiccicate alla gente,
nè le parcelle che chiedete per perizie di parte.
E non mi piacete in tribunale, uno per la difesa, l'altro per l'accusa,
due cosiddetti esperti, l'un contro l'altro armati,
ma entrambi col portafogli gonfio.
Voi giocate con la testa delle persone, e siete inutili, se non dannosi.
Inoltre, stando a quanto ho letto di recente,
avete abbandonato il lettino per i farmaci,
come del resto anche il mio amico Morty.
Paranoia? Prenda questo due volte al dì.
Schizofrenia? Sciolga questo in bocca prima dei pasti.
Io prendo un whisky al malto e un Montecristo per tutto,
e le consiglio di fare altrettanto. Fanno duecento dollari, grazie!
Mordechai Richler, La versione di Barney



Diffidava degli estranei, e ancor più degli amici.
Era allergica ai frutti di mare, alle uova, al pelo di animale,
alla polvere, e a chiunque non fosse pazzo di lei.
Durante il ciclo soffriva di mal di testa, crampi, nausea,
ed era di un umore schifoso. (…)
Detestava i ragni, i serpenti, l'acqua, la gente.
E io, lettore, questa donna l'ho sposata.
All'epoca ero un ventitreenne arrapato,
ma certo non perché Clara
fosse una pantera del materasso.
Ciò che nutriva la nostra storia d'amore
(alla fine di questo si trattò)
non succedeva tra le lenzuola.
Mordecai Richler, La Versione di Barney



Il seguito Boogie se l'era inventato lì per lì,
ne sono sicuro.
Funzionava più o meno così:
due anni dopo il protagonista è in carrozza
con l'Arciduca d'Austria-Ungheria
Francesco Ferdinando e signora.
A un certo punto le ruote
sobbalzano e al nostro cade il binocolo da teatro.
L'Arciduca, noblesse oblige,
si china a raccoglierlo,
e così facendo scampa all'attentato di un fanatico serbo.
Ciò nonostante, un paio di mesi dopo
la Germania invade il Belgio.
Mordecai Richler, La Versione di Barney




Comunque per me il destino non aveva in serbo fama, ma ricchezza
Una ricchezza, va detto, di umili origini. 
Il mio primo mentore fu infatti Yossel Pinsky, 
un sopravvissuto di Auschwitz 
che ci cambiava i dollari a mercato nero 
dietro la tendina di un fotografo di me des Rosiers. 
Una sera Yossel venne all'Old Navy, si sedette al mio tavolo, 
ordinò una tazza di café filtre in cui lasciò cadere sette zollette di zucchero, 
e disse: «Mi serve qualcuno con un passaporto canadese valido».
«Per fare?». «Soldi. Che altro ci resta da fare, scusa?» 
chiese tirando fuori un coltellino dell'esercito svizzero 
col quale cominciò a pulirsi le unghie superstiti. 
«Ma prima bisogna che tu e io ci conosciamo un po' meglio. 
Hai già mangiato?». «No». «Allora andiamo a cena. 
Guarda che non ti mordo mica. Su, piccolino, vieni».
Ed ecco come di lì a un anno, sotto la guida di Yossel, 
mi ritrovai a esportare formaggi francesi 
verso il sempre più benestante Canada del dopoguerra. 
Poi, appena rientrato in patria, 
Yossel mi procurò anche una licenza di esportazione per la Vespa, 
che allora da noi andava a ruba. 
E insomma negli anni, sempre in società con lui, 
ho trattato un po' di tutto: olio d'oliva, scampoli, rottami di ferro 
comprati e venduti senza averli nemmeno mai visti, DC-3 in disarmo 
(alcuni dei quali volano ancora a nord del Sessantesimo parallelo); 
e dopo che Yossel, bruciando di un soffio la Gendarmerie, 
si fu trasferito in Israele, persino reperti egizi trafugati dalle tombe minori della Valle dei Re. 
Ma ho anch'io i miei princìpi. 
Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.
E alla fine sono diventato un peccatore
Nell'ultimo scorcio degli anni Sessanta ho cominciato a produrre film canadesi che non hanno mai, dico mai, tenuto per più di un'imbarazzante settimana in nessun cinema del pianeta, ma che attraverso una scappatoia fiscale all'epoca praticabile hanno fruttato a me, e in qualche caso ai miei finanziatori, centinaia di migliaia di dollari. Subito dopo ho cominciato a sfornare serie televisive di ambientazione locale, sì, ma abbastanza fesse da poter essere vendute anche negli Stati Uniti - quando non in Gran Bretagna o persino altrove, come nel caso di Giubba Rossa Mclver: presente, che nonostante tutte quelle scenette incresciose tra canoe e igloo ha avuto un'audience inimmaginabile.
A richiesta, come qualsiasi canaglia con l'acqua alla gola, ero perfettamente in grado di suonare il piffero del patriottismo contemporaneo
Ogni volta che un ministro, o un paladino del libero mercato al soldo degli americani, minacciavano di affossare la legge a tutela (o meglio a sostegno, a sontuoso sostegno) del pattume autarchico con cui appestavamo l'etere, io mi calavo all'istante nei panni del filisteo, o di Capitan Canada se preferite, e mi presentavo in commissione. 
«Il nostro unico intento è far conoscere il Canada ai canadesi» spiegavo. «Siamo la memoria di questo paese, la sua anima, la sua essenza, l'estremo baluardo contro l'orrendo imperialismo culturale che preme alle nostre frontiere meridionali e minaccia di sopraffarci». 
Ma sto divagando.
Per tornare ai nostri giorni in terra straniera, noi provinciali d'assalto, pazzi di felicità per il solo fatto di essere a Parigi, storditi da tutta la bellezza intorno a noi, avevamo quasi paura di rientrare nelle nostre stanze ammobiliate sulla Rive Gauche. Già, perché nulla ci assicurava che non ci saremmo risvegliati a casa, con papà e mamma che ci rinfacciavano le ingenti somme dilapidate nella nostra istruzione e dichiaravano giunto anche per noi il momento di tirare la carretta. Nel mio caso, non c'era lettera di papà che non si chiudesse con una frecciata delle sue: 
«Te lo ricordi Yankel Schneider, quello che balbettava?  
Ma tu pensa, adesso fa l'avvocato, e si è comprato una Buick».
Del nostro gruppo di sciamannati facevano parte un paio di sedicenti pittori newyorkesi, oltre a quella sciroccata di Clara e a quell'intrigante di Leo Bishinsky, che preparava la sua ascesa artistica molto meglio di quanto Wellington avesse preparato la sua battaglia in quel paesucolo belga. Ma sì, quando per andare a combattere aveva piantato a metà un ballo. 
O una partita di bocce? No, quello era Drake.
Leo aveva lo studio in un garage di Montparnasse, dove lavorava ai suoi immani trittici mischiando i colori in grandi secchi, e poi applicandoli sulla tela con uno strofinaccio da cucina. A volte lo faceva mulinare sopra la testa, poi arretrava di qualche passo e lo lanciava. Un giorno che ero passato da lui a farmi una canna me lo porse. «Dai, prova tu».
«Dici sul serio?».
«Perché no?».
Avrei scommesso qualsiasi cosa che Leo si sarebbe presto tagliato barba e capelli 
e sarebbe diventato un pubblicitario di New York. Mi sbagliavo, e di grosso.
Però, chi l'avrebbe mai detto che quarantanni dopo 
gli obbrobri di Leo sarebbero stati esposti  alla Tate, al Guggenheim, al MOMA, 
alla National Gallery di Washington, e contesi all'asta da piazzisti di titoli ad alto rischio 
e speculatori vari - sempre che all'asta non partecipino i collezionisti giapponesi. 

E chi avrebbe mai detto che quello scassone di Renault, la Due Cavalli su cui Leo andava in giro, sarebbe un giorno stato sostituito nel garage di Amagansett da gingilli quali una Rolls Silver Cloud, una Morgan d'epoca, una Ferrari 250 e un'Alfa Romeo. O che oggi citarlo anche solo di sfuggita potrebbe valermi l'accusa di millanteria -almeno da quando Leo è apparso sulla copertina di «Vanity Fair» in tenuta mefistofelica, con tanto di corna, mantello foderato di rosso e coda, mentre dipinge simboli magici sul corpo nudo della sgallettata del mese.
Ai bei tempi capire chi Leo si stesse sbattendo era piuttosto semplice: 
bastava aspettare che una ragazza del Nebraska in twin-set di cachemire e filo di perle, a Parigi per il piano Marshall, si sedesse tout court al nostro tavolo della Coupole cacciandosi le dita nel naso con estrema disinvoltura. Oggi invece le modelle famose si accalcano davanti alla villa di Leo a Long Island contendendosi il privilegio di offrirgli quei peli pubici che poi, insieme a vetrini raccolti sulla spiaggia, lische di pesce, bucce di salame e unghie tagliate, andranno a finire nei suoi quadri.

Ma nel 1951 la mia banda di dilettanti allo sbaraglio ostentava il proprio affrancamento da quello che allora veniva sempre e solo chiamato, de haut en bas, il mercato delle vacche. Nel quale peraltro chiunque di loro, con la fulgida eccezione di Bernard «Boogie» Moscovitch, avrebbe venduto la madre pur di entrare. Era tutto un farsi le scarpe a vicenda, come nell'Uomo dell'organizzazione o nell'Uomo dal vestito grigio, sempre che qualcuno di voi sia abbastanza vecchio da ricordare quegli effimeri best seller, tipo Colin Wilson o l'hula-hoop. Erano tutti assatanati, come un morto di fame di St. Urbain Street che si è giocato anche la camicia su una nuova linea di abbigliamento doposcì. Solo che loro andavano in giro a vendere romanzi. Innovativi, come aveva prescritto Ezra Pound prima che lo sbattessero in manicomio. Ma attenzione, a loro mica toccava fare il giro dei grandi magazzini con la valigetta di campioni, affidandosi, per citare Clifford Odets, «a un sorriso e a un paio di scarpe lucidate». No, loro la mercanzia - comprensiva di busta affrancata per la restituzione - la sbolognavano a redattori di riviste e di case editrici. 
Tutti a parte Boogie, l'unto di Barney Panofsky.
Alfred Kazin ha scritto che anche da giovane, quando non se lo filava nessuno, 
Saul Bellovv aveva l'aria di uno destinato a grandi cose. 
Ecco, io pensavo lo stesso di Boogie. 
Per questo era così magnanimo verso gli altri giovani scrittori: perché comunque il migliore era lui.

Nelle giornate storte Boogie era bravissimo a eludere le domande sul proprio lavoro con qualche buffonata. «Prendete me,» disse una volta «ho tutti i difetti di Tolstoj, Dostoevskij e Hemingway messi insieme. Fotterei qualsiasi contadinotta mi capitasse a tiro. Ho il vizio del gioco. Bevo. Ali, e sono antisemita almeno quanto Freddy Roosevelt, anche se nel mio caso forse non conta, essendo al contempo ebreo. Insomma non mi manca niente. Sì, giusto una Jasnaja Poljana tutta per me, il riconoscimento del mio prodigioso talento, e i soldi per andare a cena stasera. 
A meno che qualcuno non mi imiti, vero Barney?».
Boogie, cinque anni più vecchio di me, aveva partecipato allo sbarco di Omaha Beach ed era sopravvissuto alla battaglia delle Ardenne. A Parigi si arrabattava grazie al sussidio dei reduci, un centinaio di dollari al mese, e al piccolo assegno che gli mandavano da casa - e che peraltro investiva quasi sempre, con alterne fortune, a un tavolo di chemin de fer dell'Aviation Club.

Bene, potete anche scordarvi la perfida calunnia che mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni, e che di recente quel bugiardo di Terry McIver ha rimesso in circolazione. La verità è che Boogie è stato il mio migliore amico. L'ho adorato. Dopo qualche canna, o anche solo una bottiglia di vin ordinaire, riuscivo sempre a estorcergli almeno una storia di famiglia. Come quella di suo nonno Moishe Lev Moscovitch, nato a Bialystok ma partito da Amburgo in terza classe alla volta degli Stati Uniti, dove aveva cominciato come pollivendolo ambulante e poi, lavorando venti ore al giorno e togliendosi il pane di bocca, era diventato proprietario di una macelleria kosher nel Lower East Side. Il suo primogenito, Mendel, aveva trasformato la macelleria nella Peerless Gourmet Packers, che durante la seconda guerra mondiale forniva razioni K all'esercito americano. In seguito la Peerless era entrata nella grande distribuzione, vendendo ai grandi magazzini dello Stato di New York e del New England confezioni di prosciutto Virginia Plantation, salsicce Olde English, costolette Mandarin, e le Granny's Gobblers (che erano porzioni di tacchino precotto e surgelato). Nel frattempo Mendel, dopo aver assunto il nome assai più presentabile di Matthew Morrow, si era comprato un appartamento di quattordici stanze in Park Avenue, e aveva assunto una domestica, un cuoco, un maggiordomo facente funzioni di autista, e una governante inglese di Old Kent Road nelle cui mani aveva messo il suo primogenito, Boogie - che in seguito sarebbe dovuto andare a scuola di dizione per togliersi l'accento cockney

Invece che a lezione di violino o dal tipico melamed ebraico, Boogie, sul quale la famiglia contava per infiltrarsi nella roccaforte dei WASP, fu spedito in un campo militare estivo nel Maine. 
«Secondo loro avrei imparato a cavalcare, sparare, andare in vela, giocare a tennis e porgere l'altra guancia». Al momento di riempire il modulo d'iscrizione Boogie aveva seguito alla lettera le istruzioni materne, specie per quanto riguardava la casella «confessione religiosa». Ma guardandolo in faccia il comandante del campo gli aveva fatto l'occhiolino, dopodiché aveva cancellato con un frego il «nessuna» di Boogie sostituendolo di suo pugno con «ebraica». Comunque Boogie aveva superato la prova, anche se poi aveva mollato Harvard durante l'anno propedeutico (che era il 1941) per arruolarsi come soldato semplice: e col suo vero nome, Moscovitch.
Una volta, rispondendo al martellante interrogatorio di un Terry Mclver più molesto del solito, Boogie si lasciò sfuggire che nel capitolo d'apertura del suo tonitruante romanzo in fieri, ambientato nel 1912, il protagonista sbarcava dal Titanic, approdato senza incidenti al molo di New York dopo una traversata inaugurale. E qui veniva abbordato da una cronista, che voleva sapere come era stato il viaggio.
Risposta: «Noiosissimo».
Il seguito Boogie se l'era inventato lì per lì, ne sono sicuro. 
Funzionava più o meno così: due anni dopo il protagonista è in carrozza con più o meno così: due anni dopo il protagonista è in carrozza con l'Arciduca d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e signora. A un certo punto le ruote sobbalzano e al nostro cade il binocolo da teatro. L'Arciduca, noblesse oblige, si china a raccoglierlo, e così facendo scampa all'attentato di un fanatico serbo. 
Ciò nonostante, un paio di mesi dopo la Gemania invade il Belgio. Passa un po' di tempo, siamo nel 1917. Il nostro eroe (o meglio, l'eroe di Boogie) chiacchiera in un caffè di Zurigo con Lenin, dal quale cerca di farsi spiegare la teoria del plusvalore. Lenin si accalora un po' troppo nella discussione, indugia sul mille-feuille e il café au lait, e finisce per perdere il treno. 
Morale, il vagone piombato arriva alla Stazione Finlandia senza di lui.
«Che altro ti aspettavi da quel derelitto di Uljanov?» 
chiede il responsabile del comitato di accoglienza in attesa al binario. «E adesso cosa facciamo?».
«Potremmo chiedere a Trockij di dire qualche parola».
«Qualche parola? A Trockij? Se quello attacca il disco facciamo notte».
Insomma Boogie, come spiegò a Terry, stava assolvendo alla funzione primaria di ogni artista, e cioè ricreare un ordine dal caos.
«Lo sapevo che non avrei dovuto falli una domanda seria» disse Terry alzandosi dal tavolo.

Nel silenzio che seguì Boogie mi confidò di aver ereditato da Heine le droit de moribondage. 
Come se questo spiegasse tutto.

Boogie faceva spesso così, pescava da chissà quale recesso della mente una battuta che ammazzava la conversazione; il che non gli impediva di trascinarti subito dopo in biblioteca, dove riprendeva a occuparsi della tua formazione.

Gli volevo davvero bene, e mi manca da morire. 
Darei tutto quello che posseggo (be', non ci allarghiamo, metà) per vedere quell'enigma vivente, quello spaventapasseri di un metro e ottanta, il Romeo y Julieta fra i denti, entrare dalla porta col suo solito sorriso ambiguo e chiedermi: 
«Hai letto Thomas Bernhard?», oppure «Ma tu Chomsky lo capisci?».

Dio sa se non aveva anche lui il suo lato oscuro, e i suoi vezzi, come quello di sparire nel nulla per settimane intere: c'era chi diceva in una yeshivah di Meali Shearim, chi giurava in un monastero in Toscana, ma in realtà nessuno ne sapeva niente. Poi un bel giorno ricompariva - per essere più precisi, si materializzava - senza uno straccio di spiegazione in uno dei caffè che frequentavamo, accompagnato da una magnifica duchessa spagnola o da una contessa italiana.
Se bussavo alla sua camera d'albergo nel giorno sbagliato Boogie non mi rispondeva neanche, o tutt'al più ringhiava: «Sparisci. Lasciami in pace». E io sapevo che se ne stava a letto, fatto come una meringa, oppure alla scrivania, a compilare le liste dei suoi compagni di battaglia morti o dispersi.
È stato Boogie a farmi conoscere Goncarov, Huysmans, Celine e Nathanael West. 
Prendeva lezioni da un russo bianco, un orologiaio del quale era diventato amico. 
«Come si fa a vivere senza aver letto Dostoevskij, Tolstoj e Cechov in originale?» 
mi chiedeva sempre. Parlava correntemente tedesco ed ebraico, e una volta alla settimana andava da un rabbino della sinagoga di me Notre-Dame-de-Lorette (indirizzo che lo mandava in sollucchero) a studiare lo Zohar, il libro sacro della Kabbalah.
Anni fa avevo riunito gli otto racconti a chiave usciti a suo tempo su «Merlin», «Zero» e sulla «Paris Review» per farne un'edizione a tiratura limitata: copie numerate, veste tipografica curatissima, eccetera eccetera. Non intendevo badare a spese. Per ovvie ragioni il pezzo che mi aveva colpito di più, e che continuavo a rileggere, era Margolis, brillante (al solito) variazione su un tema tutt'altro che originale. Boogie racconta infatti di un tale che esce di casa per comprare le sigarette e non torna più dalla moglie e dal figlio, assumendo una nuova identità da tutt'altra parte.
Scrissi anche al figlio di Boogie, che viveva a Santa Fe, offrendogli un anticipo di diecimila dollari, più un centinaio di copie omaggio e tutti gli eventuali utili. Boogie Jr. mi mandò una raccomandata in cui si chiedeva come avessi anche solo potuto pensare una cosa del genere, proprio io, e mi avvisava che se fossi davvero arrivato a tanto mi avrebbe immediatamente fatto causa. 
A quel punto decisi di lasciar perdere.

Adesso telefono. Non ci posso credere. Non riesco a ricordarmi chi ha scritto L'uomo dal vestito grigio. O era L'uomo in gessato blu? No, quello è della bugiarda matricolata, Lillian vattelapesca. Lillian, Lillian? E su, lo sai benissimo. Come la maionese. Lillian Kraft? No. Ali, ecco, Hellman. Lillian Hellman. Come si chiama l'autore dell'Uomo dal vestito grigio non importa. Non me ne frega niente. Però ormai mi sono fissato, e se non mi viene in mente non riuscirò a chiudere occhio. 
Detesto questi vuoti di memoria. Ormai mi capita sempre più spesso. C'è da diventare matti.
Ieri notte, quando finalmente stavo per prendere sonno, mi sono reso conto di non ricordarmi come si chiama il coso per tirare su la minestra. Ma tu pensa. L'avrò usato un milione di volte. 
Lo vedevo come se ce l'avessi davanti agli occhi. Ma quel cazzo di nome, niente. Non avevo nessuna voglia di alzarmi dal letto e mettermi a scartabellare fra i libri di cucina che Miriam ha lasciato qui, anche perché mi avrebbe ricordato qualcos'altro, e cioè che se se ne è andata la colpa è solo mia. Senza contare che mi sarei dovuto comunque alzare più tardi, verso le tre, per la pisciatina di metà notte, e allora tanto valeva aspettare. Pisciatina, ho detto: non l'impetuoso getto schiumante dei giorni della Rive Gauche, cari miei, proprio no. Adesso è uno stillicidio, plic plic plic, e hai voglia a scrollare, l'ultimo goccetto ritardatario cola immancabilmente sulla gamba del pigiama.

Disteso al buio, imprecando, ho recitato a voce alta il numero da chiamare in caso di infarto.
«Siete in linea con il Montreal General Hospital. Se disponete di un apparecchio con toni in multifrequenza, e conoscete il numero dell'interno che vi interessa, digitatelo adesso. Altrimenti digitate 17 per il servizio nella lingua dei maudits anglais, o 12 per il servizio en francais, il meraviglioso idioma della nostra comunità oppressa».
Per il servizio ambulanze, digitare 21.
«Servizio ambulanze. Vi preghiamo di rimanere in linea. 
L'operatore risponderà appena finita la mano di strip-poker. 
Vi auguriamo una buona giornata».
Musica di cortesia, il Requiem di Mozart.

Ho tastato il comodino per assicurarmi che le pillole di digitale, gli occhiali da lettura e la dentiera fossero a portata di mano. Quindi ho acceso un attimo la lampada per dare una controllatina ai boxer. Volevo sincerarmi che non ci fossero strisciate sospette, perché nel caso muoia durante la notte non voglio passare per uno zozzone agli occhi di perfetti sconosciuti. Poi ho usato un trucco che di solito funziona: pensa a qualcos'altro, mi sono detto, qualcosa di rilassante, e il nome di quell'aggeggio infernale ti verrà in mente senza che tu nemmeno te ne accorga. Così ho visualizzato Terry Mclver che sanguinava copiosamente in un mare infestato di squali, e mentre l'elicottero di soccorso cercava di trarlo in salvo sentiva l'ultimo strattone alla gamba maciullata. Alla fine i poveri resti - un torso sgocciolante, in pratica - del borioso mentitore cui dobbiamo II tempo, le febbri venivano sollevati dall'acqua, come un'esca viva su cui gli squali, nella schiuma ribollente, continuavano ad avventarsi.

Alla fine mi sono trasformato nello scarruffato quattordicenne che ero un tempo, ed eccomi lì a sganciare per la prima, elettrizzante volta il reggiseno di pizzo dell'insegnante che qui chiamerò Mrs Ogilvy - senza farmi distrarre neppure dalla radio in soggiorno, che trasmette la canzonetta più cretina del mondo:

Mairzy-doats, 
and dozy doats, 
and little lamb seativy, 
a kid'lleativy too, 
wouldn't you?

Con mio grande stupore non incontro resistenza, tutt'altro. 
Oddio, Mrs Ogilvy si sta togliendo le scarpe e si sfila la gonna scozzese. 
«Non so cosa mi prende» dice la stessa insegnante che mi ha dato il massimo dei voti per un saggio sul Racconto di due città preso pari pari, giusto cambiando qualche frase, da un libro di Granville Hicks. «Questo è ratto di minore». Poi però, anche se non può saperlo, rovina tutto con una sola, severa, professorale domanda: 
«Ma non dovremmo prima versare il minestrone nei piatti, così si raffredda?».
«Certo. Come no. Ci vorrebbe quell'affare, come diavolo si chiama...».
«A me il minestrone piace freddo».
Deciso a concederle una seconda opportunità, con l'auspicio di un esito dìù confortante, 
ho ricominciato a sgranare i miei ricordi e sono tornato sul divano insieme a lei. 
Sotto sotto, speravo che un blando principio di erezione sarebbe giunto a rallegrare il mio squallido presente.
«Ma come siamo impazienti» fa lei. «Aspetta. En francais, s'il vous plait».
«Eh?».
«Oh, tesoro, cerca di essere un po' più educato. 
Sbaglio o non ti ho sentito dire "Prego"? 
E a proposito, come si dice "Non ancora" in francese?».
«Pas ancore».
«Bravissimo» fa lei, aprendo un cassetto. 
«Ora, non vorrei sembrarti una rompiscatole, 
ma dovresti proprio fare il bravo bambino e infilare questo affarino sul tuo bel pirillino».
«Sì, Mrs Ogilvy».
«Dammi la mano. Ma dico io, si sono mai viste unghie più luride? 
Ecco. Cooosì. Piano. Oh, sì, ti prego. Aspetta!». «Che ho fatto di male?».
«Mi è venuta in mente una cosa che forse può interessarti. 
L'uomo in gessato blu non l'ha scritto Lillian Hellman, ma Mary McCarthy».
Cazzo, cazzo e cazzo. Sono saltato giù dal letto, 
mi sono buttato addosso quello straccio di vestaglia da cui non riesco a liberarmi perché è un regalo di Miriam e ho ciabattato fino in cucina. Frugando nei cassetti ho tirato fuori gli utensili chiamandoli uno per uno col loro nome: cavatappi, frullino, schiaccianoci, pelapatate, colino, misurino, apriscatole, spatola... e, appeso a un gancio alla parete, eccolo lì, l'accidente per versare la minestra, come cavolo si chiama?
Sono sopravvissuto alla scarlattina, agli orecchioni, a due rapine a mano armata, alle piattole, all'estrazione di tutti i denti, a un'operazione all'anca, a un processo per omicidio e a tre mogli. 
La prima è morta, mentre la Seconda Signora Panofsky, nonostante sia passata un'eternità, al solo sentire la mia voce strillerebbe: «Assassino, cosa ne hai fatto del cadavere?», per poi sbattermi la cornetta in faccia. Miriam no, Miriam mi parlerebbe. Chissà, forse riderebbe dei miei tormenti. Magari queste stanze tornassero a riempirsi delle sue risate. Del suo profumo. Del suo amore. 
Il problema è che molto probabilmente risponderebbe Blair, e l'ultima volta quel bastardo spocchioso mi ha mandato tutto di traverso. «Vorrei parlare con mia moglie» gli ho detto.
«Non è più tua moglie, Barney. E tu in compenso sei ebbro».
«Ebbro». Certo, cos'altro può dire uno come lui. «Intendi sbronzo? 
Ovvio che sono sbronzo. Sono le quattro del mattino».
«E Miriam dorme».
«Ma guarda che è con te che volevo parlare. Vedi, Blair, stavo facendo pulizia nei cassetti, e mi sono venute per le mani certe magnifiche foto di nudo che avevo fatto a Miriam quando stavamo insieme. Mi chiedevo se non sarebbe più giusto che le tenessi tu. Così, tanto per sapere com'era da giovane».
«Sei uno schifoso». E su questo ha riattaccato.
Non del tutto falso. Comunque, schifoso o no, mi sono fatto un tip tap in giro per la stanza, con un bicchiere di Cardini in mano.
C'è gente che lo stima. Pensano che sia uno studioso di primordine. 
Persino i miei figli lo difendono. Ti capiamo, dicono, ma guarda che è una persona intelligente e premurosa, e vuole moltissimo bene a Miriam. Stronzate. Blair è un grigio burocrate e basta. 
È arrivato in Canada negli anni Sessanta, da Boston, per sottrarsi alla leva, come Dan Quayle e Bill Clinton. Questo agli occhi dei suoi studenti ne fa una specie di eroe, anche se personalmente la sola idea che si possa preferire Toronto a Saigon mi lascia basito. Ad ogni buon conto sono riuscito a procurarmi il numero del suo istituto, e ispirandomi a Boogie, che certamente si sarebbe sbizzarrito, ogni tanto gli sparo un bel fax.

Alt: Herr Doktor Blair Hopper nato Hauptman
Da: Sexorama
Note: Achtung, riservato

Herr Doktor,
in risposta alla sua del 26 gennaio ci pregiamo comunicarle che riteniamo la proposta da lei avanzata - quella di estendere al Victoria College l'usanza da tempo in auge nella Ivy League, dove ad alcune studentesse selezionate con cura si chiede di posare nude per foto artistiche di fronte, di profilo e di schiena - estremamente significativa. Troviamo altresì molto convincente il suo suggerimento circa l'introduzione di giarrettiere e altri accessori. Come lei stesso sottolineava, il progetto ha notevoli potenzialità commerciali. Tuttavia, prima di avviare la produzione di una nuova serie di carte da gioco, gradiremmo esaminare le foto in oggetto.
Con osservanza Dwayne Connors Sexorama

P.S. Abbiamo ricevuto la copia del calendario Giovani adoni 1995 che ha voluto restituirci. 
Pur comprendendo le sue esigenze, siamo tuttavia spiacenti di non poter procedere al rimborso: 
le pagine dei mesi di agosto e settembre risultano appiccicate.

L'una meno un quarto. Ho in mano - nella mia mano coperta di macchie brune, rugosa come un dorso di lucertola - il coso per la minestra, cui ancora non riesco a dare un nome. Lo scaravento da una parte, mi verso due dita di Macallan, sollevo la cornetta e chiamo il mio primogenito a Londra. «Ciao, Mike. Servizio sveglia. Sono le sei. È l'ora di farsi una bella sgambatina».
«A essere pignoli qui sono le sei meno un quarto, papà».
Scommetto che a colazione il mio meticoloso figlioletto biascicherà un po' di yoghurt ai quattro cereali, aiutandosi con un bel bicchiere d'acqua aromatizzata al limone. I giovani d'oggi.
«Ti senti bene?» mi chiede con una sollecitudine che trovo a dir poco commovente.
«Uno splendore. Ma ho un problemino. Come si chiama quell'arnese per versare la minestra?». 
«Sei ubriaco?». «Assolutamente no».
«Il dottor Herscovitch non ti aveva detto che se ricominciavi potevi lasciarci la pelle?».
«Non tocco un goccio da settimane, te lo giuro sulla testa dei miei nipoti. 
Non prendo neppure più il coqau vin al ristorante. 
E adesso per favore ti spiacerebbe rispondere alla mia domanda?».
«Aspetta, rimani lì. Mi sposto in salotto, così possiamo parlare».
E non svegliamo la Nazisalutista, ho pensato.
«Eccomi. Intendi il mestolo?».
«Certo, intendo proprio il mestolo. Ce l'avevo sulla punta della lingua. Anzi stavo per dirlo». 
«Le prendi le pillole?».
«Ma certo che le prendo. Notizie di tua madre?». 
Mi è scappato. Avevo giurato di non fare mai più una domanda del genere.
«È venuta con Blair il 4 ottobre. Si sono fermati tre giorni. Andavano a una conferenza a Glasgow».
«Non me ne importa più un accidente di lei. Sapessi il sollievo di non sentirmi cazziare per la miliardesima volta perché non alzo l'asse del cesso. Ma così, da spettatore neutrale, trovo che meritasse di meglio».
«Cioè te?».
«Dovresti dire a Caroline» ho tagliato corto «che non so più dove ho letto che la lattuga quando la tagli sanguina, e che per le carote essere strappate alla terra costituisce un grave trauma».
«Papà, non mi piace pensarti tutto solo in quella grande casa vuota».
«Be', se devo proprio dirti la verità, stanotte ho qui una - come si chiamano adesso? 
Ah sì, "accompagnatrici", oppure "operatrici del sesso". 
Insomma, come dicevamo noi cialtroni, una mignotta. 
Riferisci pure a tua madre, non mi fa né caldo né freddo».
«Perché non prendi un aereo e vieni ad appestarci un po' la casa?».
«Perché se non ricordo male a Londra anche nei ristoranti strafichi ti danno di primo una broda marrone, o un pompelmo con ciliegina sopra a mo' di capezzolo, senza contare che quasi tutti quelli con cui avevo qualcosa da dire sono morti, ed era anche ora. Harrods è diventato il tempio del ciarpame europeo, e a Knights-bridge ogni tre metri vai a sbattere in giapponesi pieni di soldi che si filmano a vicenda. Il White Elephant è belle che andato, l'Isow's idem, e l'Étoile non è più quello di un tempo. Inoltre non smanio per sapere chi si sbatte Lady Di, né se Carlo si sia o meno reincarnato in un tampax. I pub sono intollerabili, tutti un casino di jungle e slot machine. E anche i nostri sono cambiati. Se appena hanno studiato a Oxford o a Cambridge, o guadagnano più di centomila sterline l'anno, non sono più ebrei, ma "di origini ebraiche". Che non è la stessa cosa».

Non che ci abbia mai piantato le tende, a Londra. Ci ho passato giusto tre mesi negli anni Cinquanta, oltre ai due nel 1961 che mi sono costati i play-off della Stanley Cup. Vorrei far notare che il '61 era l'anno in cui i favoritissimi Canadiens furono eliminati in semifinale, alla sesta partita, dai Chicago Black Hawks. Mi sarebbe piaciuto vedere almeno la seconda, vinta 2-1 dagli Hawks al cinquantaduesimo minuto dei tempi supplementari, quando quel bandito intrigante dell'arbitro Dalton McArthur espulse Dickie Moore per ostruzione, consentendo di fatto a Murray Balfour di segnare il gol della vittoria. Al che Toe Blake, il nostro allenatore, si precipitò inferocito sul ghiaccio per dare il fatto suo a McArthur, beccandosi 2000 dollari di multa. Io ero a Londra per lavorare con Hymie Mintzbaum a quella coproduzione che ci portò a litigare a sangue, e a non rivolgerci la parola per anni. Hymie, nato e cresciuto nel Bronx, è un anglofilo. Non posso dire altrettanto di me.

Il fatto è che gli inglesi ingannano. 
Gli americani (e in questo senso anche i canadesi) sono come li vedi. 
Ma immaginate di sedervi su un 747 in partenza da Heathrow e di avere vicino il tipico vecchio trombone anglico, magari un pezzo grosso della City con triplo mento, balbettio ereditario, e parole crociate del «Times» sulle ginocchia. Che non vi passi nemmeno per la testa di prendervi una confidenza. Probabilmente Mr Tèallecinque è cintura nera di judo, ma non solo, nel 1943 è stato paracadutato in Dordogna, dove ha fatto saltare un paio di ponti, ed è sopravvissuto alle galere della Gestapo concentrandosi su quella che sarebbe un giorno diventata la traduzione ufficiale inglese dell'Epopea di Gilgames; e adesso, col sacco da viaggio di cellofan pieno di vestiti da sera «vedo-e-non-vedo» e di lingerie di sua moglie, sta andando alla convention di travestiti che si tiene ogni anno a Saskatoon.

Mike mi ha ripetuto per l'ennesima volta che avrei il pianoterra tutto per me. 
Dà sul giardino, ingresso indipendente. E per i bambini, che sono pazzi di Venerdì 13, sarebbe fantastico passare un po' di tempo col nonno. Peccato che io detesti essere nonno. Lo trovo indecente. Dentro di me continuo a avere venticinque anni, massimo trentatré, to'. Certo non sessantasette, con quel che ne segue - la puzza di stantio e di sogni infranti, l'alito cattivo, le gambe che avrebbero un disperato bisogno di una bella lubrificata. E ora che mi è toccato farmi mettere un'anca in vera plastica, non sono neppure più biodegradabile. Gli ambientalisti mi negheranno il diritto alla sepoltura.
In una delle ultime visite annuali a Mike e Caroline mi sono presentato stracarico di regali per i nipoti e per quella che Saul, il mio secondogenito, chiama Vostra Grazia. Ma il pezzo forte, una scatola di Cohiba che mi ero fatto portare da Cuba, l'avevo riservato per Mike. Me ne privavo a malincuore, ma speravo che gli avrebbero fatto piacere; con lui ho un rapporto piuttosto difficile. E in effetti era contentissimo, o almeno credevo. Solo che il mese dopo Tony Haines, uno dei soci di Mike che guarda caso è anche cugino di Caroline, viene a Montreal per affari. Mi telefona e mi dice che ha del salmone affumicato per me, da parte di Mike. Ovviamente lo invito a bere qualcosa da Dink's, dove lui tira fuori la sua scatola di Cohiba e me ne offre uno. «Oh, splendido» gli faccio. «Grazie».
«Non deve ringraziare me. Sono un regalo di Mike e Caroline».
«Ali, davvero» dico, mettendo via l'ennesimo rancorino da covare in santa pace. 
Secondo Miriam era quella la mia vera passione. 
«C'è chi colleziona francobolli, o scatole di fiammiferi» mi ha detto una volta. 
«Tu collezioni rancori».

La volta dei sigari Mike e Caroline mi avevano sistemato in una delle camere al piano di sopra. 
Non potevo lamentarmi, sembrava uscita da un negozio di arredamento. Sul comodino c'erano un mazzo di fresie e una bottiglia di Perrier, ma niente portacenere. Aprendo il cassetto alla ricerca di qualcosa che potesse farne le veci ho trovato un collant smagliato. L'ho annusato, riconoscendo il profumo all'istante: Miriam.
Lei e Blair avevano dormito in quel letto, che quindi era da ritenersi contaminato. 
Strappando via le lenzuola, ho perlustrato il materasso alla ricerca di macchie inequivocabili. Niente. Uah, uah, uah. Il Professor Cazzomoscio non aveva pucciato il biscottino. Probabilmente Herr Doktor Hopper, nato Hauptman, aveva limitato i danni a un po' di lettura a voce alta. Che so, qualche sua profonda osservazione decostruzionista sul razzismo di Mark Twain, o sullomofobia di Hemingway. Nel dubbio ho recuperato in bagno una bomboletta di deodorante al pino col quale ho disinfestato il materasso, dopodiché ho rifatto il letto alla belle meglio e mi ci sono buttato sopra. Adesso però le lenzuola mi si attorcigliavano addosso. E la stanza puzzava di pino. Ho spalancato una finestra, ma si crepava di freddo. Evidentemente nel mio destino di marito abbandonato era scritto che morissi di polmonite in un letto una volta lambito dal calore di Miriam. Dalla sua bellezza. Dal suo tradimento. Be', le donne della sua età, tra una caldana e l'altra, fanno spesso cose strane. Alcune, senza una ragione al mondo, diventano cleptomani. Se l'avessero arrestata non avrei certo deposto in suo favore; al contrario, ero pronto a dichiarare sotto giuramento che con le mani era sempre stata piuttosto brava. E che marcisse pure in galera. Miriam, mia adorata Miriam.

Mike, Dio lo benedica, è ricco da far schifo. Tenta di espiare portando ancora il codino, e appena può si mette in jeans (Ralph Lauren, naturalmente), anche se per fortuna ci risparmia orecchini, camicie coreane (un'abiura recente) e cappellini maoisti. È una specie di ras degli immobili. Possiede alcune stupende case sparse fra Highgate, Hampstead, Swiss Cottage, Islington e Chelsea. 

Le ha comprate tutte prima che l'inflazione schizzasse alle stelle, e le ha divise in miniappartamenti. Ha anche non so quali giri di soldi estero su estero, e gioca coi futures. Lui e Caroline vivono a Fulham, che adesso è un posto modaiolo, ma io lo ricordo bene prima dell'invasione yuppie. 
Hanno anche una dacia circondata da qualche ettaro di vigneto sulle Alpi Marittime, non lontano da Vence. In tre generazioni, dallo shtetl a produttori di Chàteau Panofsky. Che dire?

Mike è socio di The Table, un ristorante esclusivo a Pimlico con uno chef forse anche bravo, ma sicuramente villano - del resto così si usa adesso, no? Mike è troppo giovane per ricordarsi di Pearl Harbor, o di quello che successe ai canadesi presi prigionieri a... a... ma sì, insomma, quella rocca inespugnabile in Estremo Oriente. Non quella dove il sole sorge di colpo, no, l'altra, quella miracolata dagli inglesi. Singapore? Zz.

[...] Il mio superaggiornato, informatissimo figlio è una vera enciclopedia vivente per tutto quanto riguarda il gangsta rap, le autostrade (non ho detto le biblioteche, ho detto le autostrade) informatiche, il rave, la psicomotricità, Internet, «figate» varie ed eventuali, e tutti, dico tutti gli stereotipi linguistici della sua generazione. Non ha mai aperto l'Iìiade, né Gibbon, Stendhal, Swift, il dottor Johnson, George Eliot, o qualsiasi altro screditato fanatico eurocentrico, ma in compenso non c'è romanziere o poeta della pompatissima «minoranza risibile» di cui non si sia fatto mandare le opere da Hatchards. Scommetto che non ha mai passato un "ora davanti al ritratto della famiglia reale di Velàzquez, avete capito quale, quello del Prado, ma invitatelo a una vernice che promette un crocifisso affogato nel piscio o un culo sanguinolento di signora trafitto da un arpione e arriverà di corsa, sventolando il libretto di assegni. 

«A proposito,» ho detto decisissimo a proseguire l'intercontinentale «non per rompere, ma spero almeno che tu abbia sentito tua sorella».
«Guarda che cominci a somigliare alla mamma. Facci caso».
«Non mi hai risposto».
«Telefonare a Kate è inutile. Sta sempre per andare a una festa, oppure

Mordecai Richler, La versione di Barney





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