mercoledì 14 giugno 2017

Non sarà la bellezza a salvare il mondo, ma l’uomo. La bellezza, infatti, non è a se stante, ma è uno dei sentimenti dell’uomo. E l’uomo si muove seguendo il suo libero arbitrio. Ecco perché il mondo lo può salvare solo l’uomo, muovendosi e comportandosi in un certo modo anziché in un altro

L'arte è il costante mutamento del linguaggio


La bellezza salverà il mondo?
«Sì, se saremo noi a volerlo»
È il pensiero di Davide Rampello, direttore artistico e docente universitario. 
Perché il bello può essere nell'arte, nel gesto, nella bontà ma non dimentichiamo che: 
«prima di tutto è un'emozione. Ecco perché il mondo può salvarlo solo l'uomo». 
Ed è per questo che noi italiani abbiamo la responsabilità di «non perdere la memoria». 
E dare impulso a un nuovo Rinascimento.


Se Renoir fosse nato ai giorni nostri, su Twitter avrebbe avuto milioni di follower. 
La sua granitica convinzione – “Il dolore passa, la bellezza resta” – oggi è diventato un hashtag, #labellezzaresta, che unisce tutti coloro che sognano di rendere la bellezza un messaggio virale, dai lavavetri dell’ospedale pediatrico di Memphis ai curatori del Teatro Binario 7 di Monza, che si sono messi in testa di mettere in scena un anno di spettacoli diffusi per “raccontare la bellezza come motore rigenerativo”.

Perché non c’è niente come la bellezza in grado di attraversare i secoli, smuovere le coscienze, parlare un linguaggio universale nel tempo e nello spazio. 

Il motivo è anche biologico: 
di fronte a qualcosa di bello il cervello umano attiva – a tutte le latitudini e a qualsiasi età – dei meccanismi di riconoscimento che le nuove scoperte in ambito neuroestetico hanno evidenziato con chiarezza. 

Pionieri come Semir Zeki, celebre neuroscienziato del University College of London, ci hanno spiegato, con TAC e risonanze magnetiche cerebrali, che la radice oggettiva della bellezza è riconosciuta da tutti e si può trovare ovunque. 

E se la bellezza è uno strumento comunicativo, un uomo che ne fa uso ogni giorno è Davide Rampello, già regista televisivo e direttore artistico di Canale 5, negli anni presidente della Triennale di Milano, direttore artistico della Biennale Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali, del Carnevale di Venezia, del Padiglione Zero di Expo Milano 2015.


Nonché inviato illustre di Striscia la Notizia con una rubrica dedicata alle eccellenze paesaggistiche e alimentari dell'Italia. È a lui che chiediamo di guidarci in una riflessione a tutto campo tra arte, bellezza e futuro.

Oggi si fa uso improprio della bellezza, che ha poco a che fare con l'estetica e l'estasi e molto con la banalità.

Un processo che cambia.
Ogni volta che parliamo di bellezza - spiega Davide Rampello - le diamo un’interpretazione diversa. Io la definisco come la sintesi di un processo vitale che rivela la forza e la creatività della vita e degli uomini. Ovviamente esiste anche la bellezza naturale, ma è sempre legata alla forza, al mistero, alla sacralità. Senza questi concetti svuotiamo la bellezza della sua essenza. 

Nella storia dell’uomo, una delle prime volte in cui si parla di bellezza è in un verso di Saffo indirizzato alla luna. Poi, nell’antichità classica, la bellezza diventa inscindibile dal concetto di bontà, che secondo i filosofi era la più alta forma di intelligenza. 

Oggi, invece, si fa un uso a volte superficiale e improprio della bellezza, che ha poco a che fare con l’estetica e l’estasi e molto con la banalità». 

Uscire dagli stereotipi e riscoprire il binomio bellezza-bontà è dunque un obiettivo dell’uomo moderno: «Bello e buono possono e devono essere ancora sinonimi. La bontà è già bellezza di per sé, perché implica una considerazione profondissima dell’altro, un gesto sacro. Sarebbe straordinariamente innovativo ricongiungerle, darebbe alla bellezza un significato molto più profondo. Le trasformazioni valoriali avvengono proprio a partire dall’evoluzione dei concetti e delle parole».


L'arte è il costante mutamento del linguaggio.

Alla ricerca di sè.
Spesso l’arte contemporanea è accusata di trascurare la bellezza a favore della provocazione e dell’ironia, ma secondo Rampello si tratta di una critica inappropriata. «L’arte è il costante mutamento del linguaggio – spiega - perché l’uomo attraverso l’arte va alla ricerca di se stesso e dell’interpretazione del mondo che ha attorno. Questo significa evoluzione: adeguare il senso di bellezza all’attualità». 

Ironia e provocazione, poi, ci sono sempre state. 
«Non si deve pensare che mancassero nei quadri di Goya o nella Cappella Sistina – prosegue l’esperto -. Anzi, Caravaggio se vogliamo è molto più provocatorio di Cattelan. L’arte contemporanea va valutata con la memoria, perché in realtà l’uomo è sempre simile a se stesso. 
Catone diceva: difficil cosa è far comprendere a coloro che verranno ciò che giustifica oggi la nostra vita».

La bellezza del gesto.
La bellezza non è solo nell’arte o in natura, ma anche nell’imprenditoria illuminata, nel saper fare artigiano che si tramanda da generazioni. E secondo Davide Rampello è importante sottolinearlo, «perché spesso dimentichiamo che la vera bellezza è nel gesto, e può essere in un paesaggio come in una forma di formaggio

Si tratta sempre di una relazione a due - chi guarda e chi o cosa è guardato – da cui nasce un’emozione che genera conoscenza. Ricordiamo che emozione deriva da emoveo, mi muovo: è andando verso qualcosa che scopriamo la bellezza». E il viaggio alla scoperta della bellezza non deve fermarsi mai. Non a caso Rampello e Andrea Illy, in qualità di presidente della fondazione Altagamma, hanno ideato per Expo Milano il progetto Panorama, un video immersivo dentro al meglio dell’Italia, con l’obiettivo di risvegliare l’amore per il Belpaese e la consapevolezza del valore della sua bellezza: «L’esito del progetto è stato formidabile – commenta Rampello -. È stata la mostra più visitata in assoluto a Milano, e adesso viene presentata a New York, alla Central Station, dal 27 giugno fino a fine luglio. L’idea è stata quella di far comprendere come tutto confluisca in un identico linguaggio: i templi e la tessitura, la scultura e le piazze, i teatri e le macchine, il paesaggio agrario e il vino o l’olio. Ogni territorio si esprime con il linguaggio del proprio genius loci: da qui è nata una straordinaria visione a 360 gradi del saper fare italiano».


10 Consigli per riconoscere la bellezza

Muoversi:
Viaggiare, incontrare persone, conoscere realtà nuove: 
la bellezza si nutre della dinamicità dell'uomo.

Rallentare:
La fretta è nemica della bellezza e sinonimo di superficialità. 
Chi è sempre di corsa non coglie la bellezza che gli sta accanto.


Un nuovo rinascimento.
Non andrebbe mai dimenticato che noi italiani nasciamo da millenni immersi nella bellezza e nella creatività: «Sicuramente abbiamo un senso estetico innato più sviluppato degli altri – conferma Davide Rampello -. Si capisce dal modo che abbiamo di fare le cose: ci viene facile ripetere gesti artigianali, entrare nell’abbandono della creatività. È come se avessimo un DNA della bellezza». Peccato che a volte ce ne dimentichiamo. «Bisogna che l’Italia riprenda in mano il suo formidabile patrimonio di memoria – prosegue -. Il Rinascimento altro non è stato che una reinterpretazione del mondo latino, da cui è nata la più grande rivoluzione culturale di tutti i tempi. 

Adesso dovremmo avere il coraggio di fare altrettanto, cominciando a essere più profondi e meno superficiali. Il momento che stiamo vivendo si nutre di angosce, ma dimentichiamo che è sempre stato così: pensiamo al timore che aveva chi viveva alla fine dell’anno 1000. Superata la paura, bisogna ripartire dalla formazione e dalla scuola. I ragazzi trovano noioso studiare l’arte? 
Hanno ragione: dove non c’è amore e non c’è passione, ogni insegnamento andrà perduto».

Questione di scelte
La bellezza salverà il mondo? 
Se lo chiedeva Dostoevskij ne L’Idiota, e molti altri pensatori prima e dopo di lui. 
Ma ancora una volta Rampello ribalta la questione. 
«Non sarà la bellezza a salvare il mondo, ma l’uomo. La bellezza, infatti, non è a se stante, ma è uno dei sentimenti dell’uomo. E l’uomo si muove seguendo il suo libero arbitrio. Ecco perché il mondo lo può salvare solo l’uomo, muovendosi e comportandosi in un certo modo anziché in un altro».


http://www.corriere.it/native-adv/illy-longform01-la-bellezza-salvera-il-mondo.shtml


Ho riscontrato in molti miei pazienti una difficoltà a tollerare la bellezza, in particolare se associata alla bontà.

«Ho riscontrato in molti miei pazienti una difficoltà a tollerare la bellezza, in particolare se associata alla bontà
Barry D.Proner in “La psicoterapia Junghiana con i bambini”
- Magi Edizioni





Forse certi bambini fin da piccoli dovevano imparare che bello è sempre buono o viceversa; somatizzando a sue spese che il "bello o buono" si associa come definizione a ciò che gli veniva indicato, ma che più lui detestava. 




Forse un cristianesimo deteriore ci ha portato a considerare la bellezza come una vanità, un niente a confronto della bontà e altre virtù. Io considero la bellezza, anche quella umana, un dono, un'armonia da non sottovalutare. Il bello è bello e il bello ti congiunge al creato, te lo fa amare, capire e partecipare. Quando si sente che la bellezza umana non è importante penso che da ogni parte del mondo ci si muove per andare a vedere il partenone, il colosseo, Venezia e via discorendo, forse che le bellezze di pietra valgono di più di un bel volto specie si dal di dentro viene riflesso un buon carattere?


Parafrasando il romanzo di Dostoevskij, quale bellezza salverà il mondo? La prima risposta, quella più evidente, risiede nell’arte. c’è una seconda risposta, alla quale gli esseri umani possono attingere, per non farsi schiacciare dal peso del brutto e del male: la Natura.

La Bellezza salverà il mondo.
La Bellezza non è una mera questione di gusto, ma è una dimensione, anche morale, dalla quale l’essere umano, per essere veramente tale, non può prescindere. Ed ecco allora come, la frase profetica del principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij ha una fondamentale valenza estetica, enfatizzata nel secolo in cui al Bello si preferisce il brutto e con esso il male.
di Lorenzo Pennacchi - 19 maggio 2015      

La scorsa settimana ho terminato il mio articolo con questa frase: 
«Nella speranza che l’uomo possa ritrovare se stesso e riscoprire ciò che di bello vive sulla Terra».

Mentre scrivevo queste parole, già pensavo alla stesura di un nuovo pezzo che incentrasse l’attenzione sul termine “bello”. Spesso, infatti, si associa la Bellezza ad una dimensione puramente estetica, ad una questione di gusto o anche solamente fisica. La realtà è ben diversa. 

Già gli antichi greci parlavano di καλὸς καὶ ἀγαθός (“bello e buono”), considerando questa formula come l’ideale di perfezione umana a cui tendere, in cui il bello viene associato alla morale umana e viceversa. Fin dalle origini della società europea, allora, la Bellezza, lungi dall’essere un ornamento o una moda, ha a che fare direttamente con una dimensione est-etica, intrinsecamente legata a quella politica e culturale.

Data questa premessa, è possibile comprendere al meglio le parole di Elémire Zolla
«L’industriale è stato il primo uomo nella storia a preferire il brutto al bello. Dove ha steso la sua mano ha distrutto l’arte. Il suo occhio è non soltanto ottuso, ma anche malefico»

Se, infatti, il bello è strettamente connesso al buono, il suo contrario, il brutto, non può che essere connesso al male. E quale società, in tutta la storia europea, ha preferito in maniera netta la bruttezza alla bellezza? Sicuramente, quella moderna, industriale e materialista, che nel corso dei secoli ha persino accentuato questo processo, ereditando dall’american way of life, un vero e proprio “mito” del brutto quotidiano, dall’alimentazione (fast food) all’arte (da Jeff Koons al suo collega britannico Damien Hirst). 

Non è un caso che la bruttezza generalizzata abbia dato vita a grandi ingiustizie morali e politiche, nei confronti degli altri esseri umani e del Pianeta. Facendo riferimento agli esempi appena citati, i fast food sono i maggiori responsabili dell’inquinamento della Terra e dell’obesità tra gli uomini, mentre Hirst è riuscito a vendere il suo The Physical Impossibility of the Death in the Mind of Someone Living (ovvero uno squalo posto in formaldeide dentro una vetrina) a dodici milioni di dollari (!), mentre parte della popolazione umana non ha da mangiare e gli squali sono in via di estinzione. 

Insomma, al binomio brutto-cattivo, si lega conseguenzialmente anche un altro elemento caratteristico della post-modernità: la follia dilagante.

Per uscire da questo pozzo senza fondo, dove ogni giorno che passa assistiamo a scenari sempre più degradati e degradanti, si deve fare appello alla Bellezza, nel senso est-etico descritto in precedenza. Ma, parafrasando il romanzo di Dostoevskij, quale bellezza salverà il mondo? 

La prima risposta, quella più evidente, risiede nell’arte

Tuttavia, come sostiene Theodor Adorno nella sua Teoria Estetica, gli artisti moderni hanno rinunciato al bello per amore del bello: come è possibile, del resto, rappresentare la Bellezza nel secolo dell’orrore? 

Ribaltando la posizione di Lukács, Adorno crede che attraverso le opere d’arte sia possibile comprendere la realtà. In questo senso, non possiamo aspettarci di trovare conciliazione ed armonia nelle opere artistiche, nel secolo delle guerre mondiali, dei totalitarismi e dell’industria culturale nascente

Senza entrare troppo nel merito di questo meraviglioso tentativo di teoria oggettiva dell’arte, Adorno vede in Beckett il suo modello ideale di artista contemporaneo, poiché egli è in grado di dare testimonianza esemplarmente della discordia e del non senso che abitano il mondo, dopo che “gli dei lo hanno abbandonato”

I veri artisti moderni devono tendere alla Totalità, pur rimanendo coscienti che non potranno mai raggiungerla, almeno non oggi. Arriverà il giorno, però, in cui a questi “artisti del fallimento” (Beckett) la Bellezza si mostrerà nuovamente. In questa dimensione, definita “utopica” poiché non perseguibile volontariamente, tutta l’umanità ritroverà il Senso, sino a quel momento perduto.

Tuttavia, lasciando da parte il novecento e la Teoria Estetica, c’è una seconda risposta, alla quale gli esseri umani possono attingere, per non farsi schiacciare dal peso del brutto e del male: 
la Natura

Se è vero che, come sostengono sia Adorno sia Lukács seppur in maniera diversa, l’arte è intrinsecamente legata alla realtà sociale, questo non vale affatto per la nostra Madre Terra: essa, infatti, è preesistente al nostro mondo e per questo è in grado di indicarci costantemente il cammino, indipendentemente dagli scenari umani. Basta ascoltarla. La Natura ci mostra un percorso armonioso ed organico, all’interno di una dimensione est-etica con forti ripercussioni sociali, dove il bello e il buono si relazionano in maniera indissolubile, proprio come il modello della società greca classica. 

Così si è espresso James Hillman nella sua Politica della bellezza
«Le accanite lotte politiche e le argomentazioni tecniche sulla «natura», sull’inquinamento, sull’energia e simili, hanno ragioni che non sono solamente ecologiche, che non sono basate soltanto su considerazioni legate alla biosfera, ma anche su ragioni estetiche profonde, dovute alla necessità che ha l’anima di bellezza». 

Nella Natura, la Bellezza rigenera quella dimensione attiva e vitale che le è propria. 
Di fatto, il bello, anche per il suo legame con il buono, agisce con forti ripercussioni sulla realtà, rivelando l’esistenza di una vera e propria est-etica dell’azione. 

Per usare le parole di Yukio Mishima: 
«L’azione equivale ad una forza che si avventa su un obiettivo formando un luogo geometrico, e può essere bella come la corsa di un cervo, che è assolutamente ignaro della propria grazia». 
Buona, naturale e attiva: è questa la Bellezza che salverà il mondo!


di LORENZO PENNACCHI

http://www.lintellettualedissidente.it/societa/la-bellezza-salvera-il-mondo/

Impero cinese. La dinastia Han.

Durante la dominazione Han, il confucianesimo divenne la filosofia ufficiale di stato, l'agricoltura e il commercio prosperarono, tanto che la popolazione raggiunse i 50 milioni di abitanti, di cui tre milioni abitavano la capitale Chang'an长安, di fatto la più grande metropoli del suo tempo. [...]

Fu perfezionata la scoperta della carta tanto da poterla utilizzare quale supporto per la scrittura e soppiantare così il precedente sistema su seta o su piccole liste di bambù.
Durante questa dinastia visse il più famoso storico cinese, Sima Qian司马迁 (145 a.C. -87? a.C.), il cui Shiji史记 o Memorie Storiche fornisce tavole genealogiche, biografie e cronache dai tempi dei sovrani leggendari fino ai tempi dell'imperatore Wudi 汉武帝(141 a.C.- 87 a.C.). [...]

La forza militare della dinastia Han permise all'impero di espandersi a occidente nella pianura desertica del Tarim, dove erano situate le città-stato e i principati dei Tocari, Saci e Sogdiani nella provincia del Sinkiang-Uigur attualmente di etnia prevalentemente uigura. 

In questo modo la via della seta veniva resa sicura fino al Pamir, ai confini con la Battriana nell'odierno Afghanistan.

Anche il Vietnam settentrionale e la Corea furono invasi dagli eserciti Han. In questo periodo si sviluppa il sistema di tributi in base al quale stati periferici indipendenti o semi-indipendenti pagano una sorta di omaggio formale di sottomissione alla Cina, inviano doni e stabiliscono sistemi di commercio regolato, in cambio della pace e del riconoscimento alla legittimità al governo locale. 

Anche l'invio di principesse cinesi servì a mantenere l'equilibrio diplomatico con i vicini, soprattutto con le tribù e le confederazioni nomadi del nord, in particolare con i Xiongnu e i Wusun. [...]


Alla morte di Liu Bang, chiamato da allora Gao Zu, l'Imperatrice vedova Lü Zhi sterminò tutte le altre mogli e concubine, oltre che alla quasi totalità dei suoi figli avuti con altre donne e mantenne il dominio a corte durante il regno dei due Han Shaodi e di Han Huidi. [...] Solo dopo la morte dell'imperatrice vedova, tutti i suoi parenti furono sterminati o sollevati dalle cariche e fu posto sul trono Han Wendi 


Wudi
Il regno di Wudi segnò una svolta nell'impero Han: 
un regno segnato da un forte espansionismo e con imponenti masse di cinesi inviate a popolare la regione dell'Ordos.  [...]

Fu intrapresa in aree estese ed aride una grande attività di scavo di canalizzazioni e di irrigazione. Nel 129 a.C. fu completato un canale di più di cento chilometri che dal fiume Wei, su cui sorgeva la capitale, conduceva allo Huang He, il fiume Giallo. Gli stati interni all'impero furono svuotati di potere: i funzionari non furono più scelti dai sovrani locali ma imposti dalla corte imperiale, un nuovo sistema di successione obbligò gli stati a frazionarsi in unità sempre più piccole, mentre molti furono semplicemente sciolti con l'accusa di scarsa lealtà.

Per indebolire la classe dei mercanti, in rapida ascesa, oltre che per incamerare nelle casse imperiali le somme necessarie per l'espansione, Han Wudi trasformò i commerci principali (alcol, sale, ferro e il conio delle monete) in monopoli di Stato. Contemporaneamente vietò la compravendita terriera ai mercanti, senza però riuscire ad impedire l'instaurarsi di una classe di proprietari latifondisti.

Il modello statale e imperiale di Han Wudi divenne la base politica e ideologica fondante di quasi tutta la successiva tradizione cinese, l'impero ora poteva guardare sé stesso non più come a uno stato tra barbari ma come una fonte di ordine e regolamentazione di tutte le terre conosciute e come origine della legittimità di tutti i sovrani cui veniva in contatto.

Fu con Han Wudi che il confucianesimo ottenne la sua definitiva vittoria sulle altre filosofie sociali cinesi e si impose a corte e nel paese.

L'apparato amministrativo.
Dall'imperatore dipendevano i Tre duchi: 
il Gran Maresciallo, da cui dipendeva l'esercito
il Gran Consigliere, da cui dipendeva l'amministrazione civile e i nove dignitari, 
e il Gran Censore, da cui dipendevano gli ispettori e il sistema di controllo dell'amministrazione stessa.

Con Han Wudi la Segreteria, organo di palazzo formato da eunuchi, assunse un ruolo sempre più importante nella formulazione delle linee politiche dell'impero. Nessun funzionario a nessun livello poteva operare nella regione di cui era nativo. Han Wudi introdusse l'ulteriore norma per cui nessun funzionario avrebbe mai potuto prestare servizio nella zona d'origine dell'ispettore regionale (dipendente dal censorato) a lui preposto.

I membri dell'amministrazione venivano scelti tra quanti frequentavano l'università imperiale, taixue太学, o per segnalazione o per essere membri influenti di importanti famiglie.

La tassazione era basata su due principali imposte: 
quella sulla terra, che prevedeva il versamento di un quindicesimo del raccolto, e del testatico, successivamente portato da Han Wudi ad un trentesimo. 
I funzionari e gli aristocratici erano esentati dalle tasse.

Coll'estendersi delle grandi proprietà fondiarie, spesso di funzionari e aristocratici o di mercanti che con essi si erano imparentati o che in qualche misura riuscivano ad eludere le tasse, il carico fiscale ai danni dei piccoli contadini andò però aggravandosi sempre più. Ciò provocò un aumento del potere reale da parte delle grandi famiglie latifondiste, che sempre più, per mezzo di matrimoni, erano in grado di controllare funzionari e fazioni a corte, talora appoggiando o lottando contro altre fazioni di eunuchi.

La via della seta
I traffici lungo la via della seta rappresentarono l'interscambio commerciale tra l'Impero romano e la Cina. I beni scambiati erano seta e pietre preziose dalla Cina e vetro, avorio, argento e incenso dall'Impero romano. Era nota anche una via marittima che portava dal Nilo alla costa africana e, di lì sfruttando gli alisei, in India. Dall'India, circumnavigando la penisola malese, si poteva arrivare alla foce del Zhu Jiang珠江, o Fiume delle Perle. In quell'area sono state trovate monete romane. Nel Hou Hanshu (Storia degli Han Occidentali) è registrato l'arrivo di un'ambasciata da Da Qin (come era nota Roma a quel tempo in Cina) da parte del sovrano romano An Dun (Antonius? il candidato più probabile è Marc'Aurelio che si fece chiamare anche col nome del suo predecessore Antonino Pio, in forma di rispetto).
L'ambasciata raggiunse Luoyang nel 166 e fu ricevuta alla corte dell'imperatore Han Huandi, ma la sua provenienza fu messa in dubbio a causa dei modesti doni offerti, per lo più di origine indiana e africana. Ovviamente la missione potrebbe essere stata realmente proveniente dall'impero romano, del tutto ignaro dell'uso del sistema di tributo in uso presso la corte cinese.
Sporadici contatti, ancora dubbi, sono segnalati in Afghanistan tra truppe cinesi e truppe romane mercenarie al soldo di signori locali, forse sbandati dopo la sconfitta di Marco Licinio Crasso.
Ulteriori tentativi cinesi di mettersi in contatto con l'impero romano, con ambasciatori che giunsero fino alle sponde del Mar Nero o del Mar Caspio, furono fatti fallire dai Parti che avevano tutto da perdere, dato il loro vantaggioso ruolo di intermediatori nel commercio intercontinentale.
I primi monaci buddhisti raggiunsero la Cina attraverso la via della seta durante questa dinastia, ma il loro impatto fu pressoché nullo. Solo dopo la definitiva caduta dinastica il Buddhismo si sarebbe diffuso compiutamente.


https://it.wikipedia.org/wiki/Dinastia_Han




L’imperatore Wu di Han - Il più grande imperatore della dinastia Han
L’Imperatore Wu della dinastia Han, conosciuto anche col nome di Han Wu il Grande o Wu Ti, ha regnato dal 141 all’87 a.C. come un condottiero saggio ed energico e si è guadagnato il più alto rispetto tra i personaggi della dinastia Han.

Egli introdusse l’uso dell’anno di incoronazione di un imperatore con un titolo benedetto come riferimento per gli archivi storici cinesi. Ad esempio, si legge “il primo anno del periodo del regno di Jian Yuan”, quando egli aveva diciassette anni. Dopo la sua ascesa al trono, l’imperatore Wu mantenne la politica di evitare al suo popolo leggi oppressive ma varò anche una serie di misure volte a rafforzare il Governo centrale.

Sin dall’inizio del regno della dinastia Han, molti parenti degli imperatori precedenti ottennero incarichi su aree molto vaste e presto divennero un potenziale pericolo per l’imperatore e per il Governo centrale. L’imperatore Wu riuscì a diluire il loro potere promulgando una legge che consentiva ai re e ai duchi di lasciare le loro terre a tutti i loro figli e non più solo al maschio primogenito. Perciò le vaste aree iniziarono ad essere divise in molte proprietà più piccole. Allora, passo dopo passo, il Governo centrale fu in grado di integrarle in una provincia controllata dal Governo centrale. Tale approccio spianò la via alla conversione del vecchio concetto di Stato o reame in quello di provincia, sotto l’imperatore.

Al fine di selezionare le élite sociali al servizio dell’Impero, l’imperatore Wu introdusse il sistema della raccomandazione, consentendo ai funzionari di tutti i livelli di raccomandare persone straordinarie da essere ulteriormente istruiti con l’apprendistato o le borse di studio, in modo da inserirli al servizio del Governo. Tale approccio consentì a talenti che provenivano da strati meno privilegiati di entrare nel sistema amministrativo.

Inoltre, l’imperatore Wu proclamò il Confucianesimo ortodossia di Stato e creò nella capitale un “Collegio Imperiale”, il primo collegio nazionale nella storia della Cina. Le principali lezioni che si tenevano in questo collegio erano incentrate sul Confucianesimo e i diplomati che superavano i difficili esami passavano direttamente al servizio nella pubblica amministrazione. Dopo il successo di questo primo collegio, altri collegi e scuole di Confucianesimo furono aperti in tutto l’Impero.

La combinazione delle raccomandazioni e degli esami nella struttura di reclutamento della pubblica amministrazione divenne una parte importante dell’eredità dell’imperatore. Fu sotto il suo regno che persone degli strati più bassi e più poveri, come schiavi e prigionieri di guerra, divennero funzionari importanti e generali. 

Rendere la filosofia Confuciana l’ortodossia dello Stato ebbe un profondo impatto sulla politica, sulla società, sulla cultura della Cina e su quella dell’Asia orientale.

L’imperatore Wu introdusse anche misure di riforma fiscale per incrementare le entrate. 
Impose una tassa sulle proprietà commerciali e introdusse aspre sanzioni contro i mercanti disonesti. Le industrie dell’acciaio, del sale e dell’alcool furono nazionalizzate e divennero monopoli di Stato.

Riconosciuto come un grande condottiero, l’imperatore Wu condusse la Cina del periodo Han verso la più grande espansione in ogni direzione dopo aver abbandonato le precedenti politiche difensive. 

L’Impero riprese il controllo della Corea a oriente e possedeva truppe in marcia verso la Cina meridionale e il Vietnam centrale. Soprattutto, l’imperatore fu determinato a sconfiggere gli Xiongnu (o Hsiung nu), nome generico attribuito alle numerose tribù barbare nomadi che mettevano in pericolo la frontiera settentrionale. Furono lanciati una serie di attacchi vigorosi e anni di guerra misero in ginocchio la maggior parte dei regni degli Xiongnu o videro la testa mozzata del loro capo su un vassoio. Le truppe di Han misero in fuga il loro nemico e poi si diressero più a occidente verso il Kyrgyzstan e l’Uzbekistan.

Nel frattempo, l’imperatore aveva spedito il suo inviato Zhang Qian nelle lontane regioni occidentali alla ricerca di alleanze durature e di scambi culturali, ciò contribuì a rafforzare i collegamenti di Han con le regioni occidentali e con l’Asia centrale. 

Più tardi la spedizione consentì di trasportare seta e altri prodotti Cinesi da Chang’An, la capitale Cinese dell’epoca, all’attuale Iran e poi anche più a occidente, dando origine alla via storicamente nota come “Via della Seta”. La Cina si fece un nome nel mondo orientale e il popolo cinese era chiamato cinese Han.

Trovandosi poi con un impero molto più grande, l’imperatore Wu nominò 13 ispettori regionali per supervisionare il lavoro dei governatori provinciali e per migliorare il sistema amministrativo dell’Impero. Questi ispettori dovevano riferire all’ispettore capo, il quale rispondeva direttamente all’imperatore, circa il comportamento dei governatori locali, i casi di abuso di potere e di corruzione, la posizione dei nobili locali e il consenso del popolo.

L’imperatore Wu rimase al potere per 54 anni e morì all’età di 70. Sotto il suo regno, la Cina di Han vide una grande espansione che superò le dimensioni dell’Impero Romano nello stesso periodo, ma fu anche causa di logoramento e di povertà. Benché verso la fine del suo regno abbia emanato un Editto di Pentimento, per scusarsi con i suoi sudditi per i passati errori nella politica militare, i successi militari dell’imperatore gli meritarono il titolo postumo di Wu, che significa “marziale”.

Agg.V

David Wu, staff di Epoch Times
2011-12-12

http://it.clearharmony.net/articles/a13994-L%E2%80%99imperatore-Wu-di-Han-Il-piu-grande-imperatore-della-dinastia-Han.html#.WUE8tWjyjIU

L’imperatore Wudi.
L’ascesa al trono nel 140 a.C. dell’imperatore Wu-Ti segnò un punto di svolta in questa politica. 
Nel corso del suo regnò, durato oltre cinquant’anni, il governo imperiale riprese l’iniziativa sia sul fronte interno che su quello esterno, in nome di una concezione del potere imperiale che per molti versi ricordava quella grandiosa di Shi Huangdi. In merito al primo, l’imperatore risolse l’eterno conflitto con i re locali emanando un decreto che imponeva, alla morte di ogni re, di dividere il suo governatorato fra tutti i suoi eredi maschi. I governatorati iniziarono quindi a frammentarsi in tante piccole entità sempre più scevre di potere, mentre la carica di re diventava un titolo meramente onorifico. La struttura dell’Impero tornò in poco tempo ad essere accentrata
Sul piano esterno il primo obiettivo di Wu-Ti fu di risolvere definitivamente il problema degli Xiongnu. Nel 129 a.C. fu lanciata una massiccia offensiva militare che avrebbe portato due anni dopo alla riconquista dell’Ordos (zona della Mongolia Interna) e all’istituzione nella provincia di due governatorati, con il trasferimento di centomila coloni per popolarli

L’esercito imperiale proseguì quindi la sua campagna verso Ovest, conquistando la regione strategica del Gansu (dove furono istituiti altri governatorati) e costringendo così i Xiongnu a fuggire verso Nord. L’importanza strategica e commerciale dei territori occidentali (pressappoco l’odierno Xinjiang) divenne sempre più chiara al governo imperiale. 

Mentre si stabilivano strette relazioni diplomatiche con i principati del Bacino del Tarim, un grande corpo di spedizione si spingeva fino alla valle del Ferghana, nell’odierno Uzbekistan per imporre un contratto commerciale. 

Il dominio Han in Xinjiang non si tradusse comunque in annessioni territoriali dirette: 
i signori locali mantennero la loro indipendenza, ma dovettero riconoscere l’alta autorità dell’imperatore cinese, inviandogli doni e recandosi periodicamente a rendergli omaggio. Una serie di guarnigioni, sostenute da colonie militari e insediate in punti strategici (per lo Xinjiang passava la via della seta), vigilavano affinché la pace non venisse turbata (101 a.C.). 

Sempre l’intenzione di chiudere i conti con gli Xiongnu determinò la campagna militare in Manciuria. Dal 109 al 106 a.C. l’esercito imperiale conquistò Manciuria meridionale e Corea settentrionale, dove furono istituiti altri quattro governatorati. Dalla corea la cultura cinese si sarebbe diffusa nell’arcipelago giapponese
L’espansione verso Sud fu invece con tutta probabilità dettata da ambizioni commerciali; si riteneva infatti che esistesse un passaggio diretto fra le province cinesi di Sud-Ovest (Sichuan e Yunnan) con i territori dell’India; tuttavia in pochi anni la campagna si trasformò in un grande processo di conquista in cui furono annesse all’Impero tutte le attuali province meridionali cinesi (Yunnan, Guangxi, Guangdong, Fujian) oltre al Vietnam settentrionale (piana di Hanoi). Nel 111 a.C. le armate di Wu-Ti sconfissero il regno di Nanyue (“Viet Nam” in lingua vietnamita), sorto nel 207 a.C. al tempo delle operazioni militari di Shi Huangdi ed esteso nei territori della piana di Hanoi, e delle attuali Guangxi e Guangdong. Nel 110 a.C. fu la volta del regno degli Yue di Ming, situato nello Fujian; e nel 109 toccò al regno di Dian, nello Yunnan. L’intera Cina meridionale era ora inglobata nell’Impero, diventato ormai una vera e propria potenza egemone.
Wu-Ti non commise gli errori di Shi Huangdi ed evitò che i grandi costi delle guerre ricadessero sui contadini. Le campagne militari furono finanziate da un lato, riducendo l’autonomia fiscale delle autorità locali accentrando il potere, e dall’altro -e in questo Wudi fu un vero innovatore- tassando i mercanti e coinvolgendo direttamente lo stato nelle attività commerciali più redditizie. I mercanti avevano negli ultimi decenni accumulato enormi fortune speculando sulla coniazione della moneta, sul sale, sul ferro, sui cereali e sulle bevande alcoliche; molti di loro si erano dati all’usura ed ora acquistavano anche i terreni dei contadini indebitati. 

Wu-Ti istaurò il monopolio statale sulla moneta, sul ferro, sul sale e sull’alcol, con il duplice obiettivo di rinvigorire le casse dello stato e limitare il potere di una categoria sociale sempre più potente e destabilizzante. Questa impostazione dialogava con la politica estera, che divenne sempre più mirata al controllo e allo sfruttamento (da parte dello stato) delle vie commerciali più importanti
Se Shi Huangdi (Ying Zheng) fondò l’Impero, si può affermare che Wu-Ti lo rese universale, portando i suoi confini ai limiti del mondo conosciuto e dotandolo di un’ideologia -il confucianesimo, adattato e integrato anche da altre dottrine- che ne ricollegava le origini all’antichità remota. Con Wu-Ti la civiltà cinese uscì definitivamente dal bacino dello Huang He (Fiume Giallo) per imporsi come modello a tutti i popoli confinati. Nonostante tutta l’evoluzione dei secoli successivi, queste idee-forza avrebbero fortemente condizionato il futuro sviluppo dell’Impero. 

Il resto della dinastia Han.
L’imperatore Wudi morì nell’87 a.C. e al trono salì suo figlio di appena otto anni. 
Il governo fu quindi retto dalle alte cariche dello stato che proseguirono sulla strada tracciata da Wu-Ti.  In questi anni era molto acceso il dibattito fra sostenitori della linea realista e della ragion di stato, che appoggiavano la politica economica inaugurata da Wu-Ti (difesa delle frontiere, intervento dello stato nei settori commerciali più redditizi e tassazione dei mercanti) con quella dei confuciani, che invece erano sostenitrici di un approccio fisiocratico e di una politica estera di basso profilo. 

Anche il regno successivo, quello dell’imperatore Xuandi (73-49 a.C.) fu caratterizzato da questo grande dibattito. Xuandi optò per una politica mista, anche perché durante il suo regnò il problema degli Xiongnu divenne meno stringente: la loro confederazione si era infatti spaccata nel corso di una violenta lotta tribale, dalla quale erano emersi gli Xiongnu meridionali, che si sottomisero agli Han nel 53 a.C., e  gli Xiongnu settentrionali, che furono presto respinti oltre i confini settentrionali della Mongolia. 
Anche i successori di Xuandi adottarono politiche miste, ma durante i loro regni si assistette al progressivo indebolimento delle istituzioni imperiali. I confuciani conquistarono molte delle postazioni chiave, mentre il potere reale stava passando nelle mani degli eunuchi e dei parenti delle imperatrici. La moglie del successore di Xuandi in particolare, riuscì ad impadronirsi del potere effettivo per quasi sessantanni; nel corso di questo periodo suo nipote, Wang Mang, consumò la sua scalata al potere e, dopo la morte degli ultimi eredi di Xuandi nel 5 d.C., riuscì a farsi proclamare reggente e fondare una nuova dinastia nel 9 d.C.. 
di Lorenzo Possamai

 https://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=9&id=468




La dinastia Xin
Una serie di catastrofi naturali segnarono l'ultima parte della dinastia degli Han Occidentali.
Questo faceva ritenere che il Mandato del Cielo tian ming potesse essere stato ritirato, e che una nuova dinastia fosse imminente.

Una spaccatura in seno al confucianesimo fu dovuta a un ritrovamento, dietro un muro della casa di Confucio, di suoi testi scritti in grafia antica, guwen, cioè nello stile del piccolo sigillo, precedente alla grafia di epoca Qin. Questi testi differivano lievemente dagli stessi riscritti a memoria dopo il rogo dei libri decretato da Qin Shi Huang.

Liu Xin (32 a.C.-23 d.C.), confuciano e bibliotecario imperiale, sponsorizzò la lettura razionalista dei testi in grafia antica, mentre altri filosofi mantennero la tradizione della grafia nuova e la lettura esoterica.

Liu Xin appoggiò Wang Mang il quale riuscì a prendere il potere e a proclamare nel 9 d.C. una nuova dinastia, la dinastia Xin (9 d.C.-24 d.C.), che sarebbe stata sconfessata da tutta la storiografia ufficiale successiva che avrebbe visto in Wang Mang il prototipo dell'avido usurpatore.

Le riforme intraprese da Wang Mang furono radicali:
la schiavitù fu abolita, così come il latifondo, le terre statalizzate e distribuite in piccoli appezzamenti secondo il sistema jintian dei Campi a pozzo, la moneta antica fu svalutata, l'oro reso di proprietà statale e distribuite monete di nuovo conio (a imitazione di quelle degli Stati Combattenti) a valore del cambio sopravvalutato. I monopoli di stato furono estesi a includere i prodotti delle montagne e dei fiumi e il controllo dei granai di cereali per la calmierazione dei prezzi.

La riforma fu un totale insuccesso:
i funzionari che avrebbero dovuto realizzarla erano gli stessi che ne avrebbero patito le maggiori conseguenze. Con il proseguire delle catastrofi naturali, compresa l'esondazione dello Huang He che si divise in due rami a est dello Shandong andando a sfociare parte nel Golfo di Bohai e parte nel Mar Giallo, si svilupparono anche movimenti di rivolta.

Nello Shandong si formò l'esercito dei Sopraccigli Rossi, Chimei (dal colore con cui si tingevano le sopracciglia per incutere terrore e distinguersi dai soldati di Wang Mang ), mentre nel Hubei e nel Henan si organizzò l'"Esercito del Bosco Verde", Lülinjun, comandato da membri del clan imperiale Liu.

Nel 23 l'Esercito del Bosco Verde sconfiggeva un'enorme armata di Wang Mang, che fu ucciso, mentre marciava su Chang'an. Liu Xuan fu proclamato imperatore ripristinando la dinastia degli Han Occidentali e scegliendo come nome di era storica Gengshi, ossia Rinascita.


https://it.wikipedia.org/wiki/Dinastia_Han




La Via della Seta.

La campagna cinese per respingere i barbari che aprì la Via della Seta.
Più di duemila anni fa la dinastia Han aveva unificato la Cina e cercava di espandersi verso nord e occidente per motivi commerciali e per difendere i confini: i popoli nomadi, infatti, operavano spesso saccheggi per il territorio imperiale. 

L’imperatore Wu Di, che regnò dal 141 A.C. all’87 A.C., era famoso per le sue vaste campagne militari allo scopo di pacificare queste terre pericolose e inesplorate, con l'intenzione di stabilire un contatto con le tribù che ci vivevano.

Gli uomini che partivano in queste spedizioni e campagne non solo dovevano affrontare mille pericoli ma anche molte difficoltà. I loro racconti narrano di viaggi epici attraverso quello che era letteralmente un mondo nuovo per i Cinesi, che avevano conosciuto la propria patria come ‘tutto quello che esiste sotto il Cielo’.

Qui sono presentate le storie di due uomini: 
uno il cui viaggio ha collegato la Cina con i popoli dell’Asia centrale, l’altro la cui fedeltà al compito affidatogli dall’imperatore si è conservata dopo due decenni di prigionia durante la guerra fin quando la pace con il popolo Xiongnu (noto ai cinesi come le popolazioni nomadi) non fu raggiunta.

ZHANG QIAN E LA RICERCA DEI ‘DESTRIERI CELESTI’
Nel 138 a.C. l’imperatore Wu Di inviò un centinaio di cavalieri fuori dalle porte di Chang’an, la capitale imperiale. Comandati da Zhang Qian, la loro missione era di cercare popoli che potevano servire da alleati con la Cina nella lotta contro le tribù Xiongnu, antenati dei Mongoli odierni, che spesso invadevano la Cina a sud della Grande Muraglia.

L’obiettivo principale di Zhang Qian e dei suoi uomini era di mettersi in contatto con il ricco e pacifico popolo Yuezhi, che viveva vicino all’attuale confine tra Cina e Kazakistan. Erano anche alla ricerca di una razza semi-mistica di cavalli, più forte e veloce di quella disponibile nel Regno di Mezzo. Soprannominata la ‘razza celeste’, si pensava che queste preziose bestie avrebbero aiutato i Cinesi a fronteggiare la rinomata cavalleria degli Xiongnu.

Fin dall’inizio, il viaggio, la cui cronaca è stata scritta dallo studioso Sima Qian nelle Memorie di uno storico, è stato tempestato di difficoltà. Attraversando il sistema montuoso del Tien Shan, la missione cinese fu subito intercettata e Zhang Qian fu portato al cospetto del Gran Khan degli Xiongnu. Zhang Qian e i suoi uomini furono tenuti prigionieri per dieci anni prima di riuscire a scappare e continuare il loro viaggio verso la terra degli Yuezhi.

Gli Yuenzhi ricevettero la missione cinese ma dissero chiaramente di non essere interessati in alcuna azione militare contro gli Xiongnu. A missione conclusa, Zhang Qian tornò indietro e si diresse a Chang’an attraverso il deserto. Sulla via del ritorno furono nuovamente catturati dagli Xiongnu e furono imprigionati per un anno prima di ritornare in Cina nel 125 a.C.

Nonostante il fallimento nel reclutare gli Yuezhi come alleati militari e nello scoprire la tanto celebrata ‘razza celeste’ immaginata dai cinesi, la spedizione evidenziò l’importanza del commercio e della diplomazia con i popoli dell’Asia centrale agli occhi della corte imperiale Han, la maggior parte dei membri della quale, come gli Yuezhi, erano pacifici e dimostravano un alto livello di cultura.

Mentre la dinastia Han iniziava a commerciare con queste tribù, i molti scambi commerciali portarono infine alla costruzione di strade che raggiunsero l’Impero romano. Fu in questo periodo che la Via della seta come la conosciamo, un ponte tra Cina e Occidente, venne veramente in essere. Avrebbe svolto questo ruolo per oltre mille anni quando l’epoca delle esplorazioni europee aprì rotte marittime equivalenti.


IL SACRIFICIO VENTENNALE DI SU WU E LA PACE CON GLI XIONGNU
Nel 100 A.C., una generazione successiva al viaggio di Zhang Qian, l’imperatore Wu Di inviò il comandante della sua guardia imperiale, Su Wu, come emissario presso gli Xiongnu. I suoi viaggi sono descritti nel Zizhi Tongjian, un documento storico cinese dell’undicesimo secolo.

Come nella missione di Zhang Qian una generazione precedente, la missione diplomatica di Su Wu consisteva di cento uomini. Portarono doni per il capo degli Xiongnu, che si era appena elevato a tale posizione, e con cui gli Han speravano di negoziare.

Ma quando Su Wu giunse nel nordovest, nelle terre degli Xiongnu, trovò poca disponibilità nel trattare. Il capo degli Xiongnu era sospettoso e sgarbato, facendo arrabbiare Zhang Sheng, vice di Su Wu.

Senza informare Su Wu, Zhang Sheng complottò con due ufficiali locali per assassinare un importante consigliere e usurpare il trono.

Il complotto fallì e il ruolo di Zhang Sheng fu rivelato dopo un interrogatorio. Sotto pressione, Zhang Sheng rivelò ulteriormente la sua complicità e quella del resto della missione imperiale prima di essere giustiziato. Anche se Su Wu non aveva avuto niente a che fare con il complotto, il già sospettoso capo degli Xiongnu si convinse che i cinesi volessero la sua caduta.

L’importante consigliere conosceva l’abilità di Su Wu e sperava di reclutarlo per farlo lavorare agli ordini degli Xiongnu. Lo stesso capo fu impressionato dal carattere formidabile di Su Wu e gli risparmiò la vita nella speranza di farlo passare dalla sua parte.

I due decenni successivi furono una battaglia di ingegni tra Su Wu e i suoi carcerieri, che lo esiliarono in una regione desolata vicino al ‘lago del nord’, il lago Baikal nell’attuale Russia siberiana. Lì, Su Wu affrontò spesso la fame e si ridusse a mangiare radici selvatiche e a cacciare roditori, ma rimase sempre fedele al suo incarico e rifiutò tutte le offerte di diventare uno degli ufficiali degli Xiongnu.

Come se le condizioni fisiche del prigioniero Su Wu non fossero state abbastanza difficili, le notizie che provenivano da casa erano ancora meno confortanti. Per due volte durante il suo esilio in Siberia gli Xiongnu inviarono un ufficiale per informarlo delle disgrazie in suolo cinese. Il grande imperatore Wu Di era morto, suo fratello era stato accusato di alcuni crimini e si era suicidato, sua madre era morta e sua moglie si era risposata.

Nell’81 A.C., dopo ripetuti tentativi, i Cinesi stipularono la pace con gli Xiongnu. Dopo qualche altra difficoltà il capo degli Xiongnu accettò di mandare a casa Su Wu. Ancora aggrappato al suo incarico, e con i capelli bianchi, Su Wu ritornò al palazzo imperiale a Chang’an e fu ricevuto dal nuovo imperatore Han.

Attraverso i secoli, le relazioni tra i popoli nomadi e la cultura cinese si sono alternate tra guerra e pace, amicizia e odio.

La volontà di ferro di Su Wu, che aveva superato quasi venti anni di devastante esilio nelle terre desolate settentrionali, fu celebrata come testimonianza della grande resistenza di tutto il popolo cinese che, nonostante infinite calamità e avversità, è fermamente legato a principi elevati che lo guida attraverso le generazioni.

http://epochtimes.it/n2/news/come-la-campagna-cinese-per-respingere-i-barbari-apri-la-via-della-seta-1960.html


martedì 13 giugno 2017

Costantino. L'Editto di Milano - 13 giugno 313 d.C. non si dovrà [più] negare questa libertà assolutamente a nessuno che abbia aderito in coscienza alla religione dei Cristiani, o a quella che abbia ritenuto la più adatta a sé; così la suprema divinità, al culto della quale ci inchiniamo [pure noi] con animo libero, potrà accordarci in tutte le circostanze il suo continuo favore e la sua benevolenza. Pertanto, conviene che la Vostra Eccellenza sappia che abbiamo deciso di annullare senza eccezione tutte le restrizioni già notificate per iscritto a codesto ufficio e aventi per oggetto il nome dei Cristiani, e di abrogare altresì le disposizioni che possano apparire contrarie ed estranee alla Nostra Clemenza, permettendo [da] ora [in avanti] – a chiunque voglia osservare la religione dei Cristiani – di farlo senz’altro con assoluta libertà, senza essere disturbato e molestato. Abbiamo creduto di dover comunicare per esteso alla tua sollecitudine queste decisioni, perché tu sappia che noi abbiamo concesso ai suddetti Cristiani la facoltà libera e incondizionata di praticare la loro religione.

L'Editto di Milano - 13 giugno 313 d.C.
«Io, Costantino Augusto, come pure io, Licinio Augusto, ci siamo riuniti felicemente in Milano per trattare di tutte le questioni che riguardano il bene e la sicurezza pubblici. E fra tutti gli altri provvedimenti da varare a vantaggio della maggioranza delle persone abbiamo ritenuto doveroso regolare prima di tutto quelli relativi al rispetto della divinità, concedendo sia ai Cristiani sia a tutti la libera possibilità di seguire la religione che ognuno si è scelta; in questo modo tutto quello che c’è di divino nella sfera celeste potrà riconciliarsi e cooperare con noi e con tutti quelli che dipendono dalla nostra autorità. Perciò abbiamo creduto, con spirito salutare e rettissimo, di dover prendere questa decisione: non si dovrà [più] negare questa libertà assolutamente a nessuno che abbia aderito in coscienza alla religione dei Cristiani, o a quella che abbia ritenuto la più adatta a sé; così la suprema divinità, al culto della quale ci inchiniamo [pure noi] con animo libero, potrà accordarci in tutte le circostanze il suo continuo favore e la sua benevolenza. Pertanto, conviene che la Vostra Eccellenza sappia che abbiamo deciso di annullare senza eccezione tutte le restrizioni già notificate per iscritto a codesto ufficio e aventi per oggetto il nome dei Cristiani, e di abrogare altresì le disposizioni che possano apparire contrarie ed estranee alla Nostra Clemenza, permettendo [da] ora [in avanti] – a chiunque voglia osservare la religione dei Cristiani – di farlo senz’altro con assoluta libertà, senza essere disturbato e molestato. Abbiamo creduto di dover comunicare per esteso alla tua sollecitudine queste decisioni, perché tu sappia che noi abbiamo concesso ai suddetti Cristiani la facoltà libera e incondizionata di praticare la loro religione. Vedendo quello che abbiamo concesso ai [Cristiani] stessi, la Tua Eccellenza comprende che una possibilità ugualmente libera e incondizionata di professare la propria religione è stata riconosciuta pure agli altri, come esige la nostra era di pace, sicché ognuno abbia il pieno diritto di prestare il culto che si è scelto. E questo lo abbiamo deciso perché deve risultare chiaro che da parte nostra non si è voluta arrecare la minima violazione a nessun culto e a nessuna religione. Inoltre, per quanto riguarda i Cristiani, abbiamo ritenuto di dover fissare anche un’altra disposizione. I luoghi dove essi avevano in precedenza l’abitudine di riunirsi, e che nelle lettere inviate in passato alla tua amministrazione erano descritti in modo dettagliato, dovranno essere restituiti senza pagamento e senza nessuna richiesta d’indennizzo, evitando ogni frode e ogni equivoco, da parte di quelli che risultano averli acquistati in epoca precedente dal patrimonio statale o da chiunque altro. Anche quelli che abbiano ricevuto in dono [tali proprietà] devono restituirle al più presto ai Cristiani; e se gli acquirenti o chi ha ricevuto donazioni richiederanno qualcosa alla Nostra Benevolenza si rivolgano al vicario, perché dia loro soddisfazione in nome della Nostra Clemenza. È tuo compito inderogabile che tutti questi beni vengano restituiti senza esitazione alla comunità dei Cristiani. E poiché gli stessi Cristiani si sa che possedevano non solo i luoghi per le loro abituali riunioni ma anche altri, appartenenti di diritto alla loro comunità, cioè alle chiese e non a singole persone, ordinerai di restituirli tutti ai Cristiani, ossia alla loro comunità e alle loro chiese, secondo la procedura sopraesposta, senza nessun equivoco o contestazione. Vale solo la riserva enunciata prima: chi restituirà questi beni gratuitamente, come abbiamo detto, potrà contare su un risarcimento dalla Nostra Benevolenza. In tutti questi adempimenti sarà tuo dovere assicurare alla suddetta comunità dei Cristiani il tuo sostegno più fattivo, in modo che il Nostro Ordine venga eseguito al più presto, e in questa faccenda grazie alla Nostra Clemenza sia tutelata la tranquillità pubblica. Solo a queste condizioni si ripeterà quel che si è visto prima: cioè il favore divino da noi sperimentato in circostanze così importanti continuerà a propiziare in ogni occasione i nostri successi, per la prosperità di tutti. Ma per fare in modo che tutti possano essere informati del contenuto di questa nostra generosa ordinanza conviene che tu promulghi le suddette disposizioni con un tuo editto, affiggendolo ovunque e facendolo conoscere a tutti: così queste nostre decisioni, suggerite dalla Nostra Benevolenza, non potranno rimanere ignorate».

(L. Cecilio Firmiano Lattanzio, De mortibus persecutorum, 48, 2-12)


«Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac propitium possit existere. Itaque hoc consilium salubri ac recticissima ratione ineundum esse credidimus, ut nulli omnino facultatem abnegendam putaremus, qui vel observationi Christianorum vel ei religioni mentem suam dederet quam ipse sibi aptissimam esse sentiret, ut possit nobis summa divinitas, cuius religioni liberis mentibus obsequimur, in omnibus solitum favorem suum benivolentiamque praestare. Quare scire dicationem tuam convenit placuisse nobis, ut amotis omnibus omnino condicionibus quae prius scriptis ad officium tuum datis super Christianorum nomine <continebantur, et quae prorsus sinistra et a nostra clementia aliena esse> videbantur, <ea removeantur. Et> nunc libere ac simpliciter unus quisque eorum, qui eandem observandae religionis Christianorum gerunt voluntatem citram ullam inquietudinem ac molestiam sui id ipsum observare contendant. Quae sollicitudini tuae plenissime significanda esse credidimus, quo scires nos liberam atque absolutam colendae religionis suae facultatem isdem Christianis dedisse. Quod cum isdem a nobis indultum esse pervideas, intellegit dicatio tua etiam aliis religionis suae vel observantiae potestatem similiter apertam et liberam pro quiete temporis nostri <esse> concessam, ut in colendo quod quisque delegerit, habeat liberam facultatem. <Quod a nobis factum est ut neque cuiquam> honori neque cuiquam religioni <detractum> aliquid a nobis <videatur>. Atque hoc insuper in persona Christianorum statuendum esse censuimus, quod, si eadem loca, ad quae antea convenire consuerant, de quibus etiam datis ad officium tuum litteris certa antehac forma fuerat comprehensa, priore tempore aliqui vel a fisco nostro vel ab alio quocumque videntur esse mercati, eadem Christianis sine pecunia et sine ulla pretii petitione, postposita omni frustratione atque ambiguitate restituant; qui etiam dono fuerunt consecuti, eadem similiter isdem Christianis quantocius reddant; etiam vel hi qui emerunt vel qui dono fuerunt consecuti, si petiverint de nostra benivolentia aliquid, vicarium postulent, quo et ipsis per nostram clementiam consulatur. Quae omnia corpori Christianorum protinus per intercessionem tuam ac sine mora tradi oportebit. Et quoniam idem Christiani non [in] ea loca tantum ad quae convenire consuerunt, sed alia etiam habuisse noscuntur ad ius corporis eorum id est ecclesiarum, non hominum singulorum, pertinentia, ea omnia lege quam superius comprehendimus, citra ullam prorsus ambiguitatem vel controversiam isdem Christianis id est corpori et conventiculis eorum reddi iubebis, supra dicta scilicet ratione servata, ut ii qui eadem sine pretio sicut diximus restituant, indemnitatem de nostra benivolentia sperent. In quibus omnibus supra dicto corpori Christianorum intercessionem tuam efficacissimam exhibere debebis, ut praeceptum nostrum quantocius compleatur, quo etiam in hoc per clementiam nostram quieti publicae consulatur. Hactenus fiet, ut, sicut superius comprehensum est, divinus iuxta nos favor, quem in tantis sumus rebus experti, per omne tempus prospere successibus nostris cum beatitudine publica perseveret. Ut autem huius sanctionis <et> benivolentiae nostrae forma ad omnium possit pervenire notitiam, prolata programmate tuo haec scripta et ubique proponere et ad omnium scientiam te perferre conveniet, ut huius nostrae benivolentiae [nostrae] sanctio latere non possit».

(L. Cecilio Firmiano Lattanzio, De mortibus persecutorum, 48, 2-12)


Due Augusti. 
Bassorilievo, porfido, inizi IV sec. d.C. 
Roma, Musei Vaticani.

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso. Quivi, come i begli occhi prima torse, d'un cavalier la giovane s'accorse; d'un cavalier, ch'all'ombra d'un boschetto, nel margin verde e bianco e rosso e giallo sedea pensoso, tacito e soletto sopra quel chiaro e liquido cristallo. Lo scudo non lontan pende e l'elmetto dal faggio, ove legato era il cavallo; ed avea gli occhi molli e 'l viso basso, e si mostrava addolorato e lasso.

"Quivi, come i begli occhi prima torse, d'un cavalier la giovane s'accorse; d'un cavalier, ch'all'ombra d'un boschetto, nel margin verde e bianco e rosso e giallo sedea pensoso, tacito e soletto sopra quel chiaro e liquido cristallo. Lo scudo non lontan pende e l'elmetto dal faggio, ove legato era il cavallo; ed avea gli occhi molli e 'l viso basso, e si mostrava addolorato e lasso."
Ludovico Ariosto, Orlando Furioso (Canto 2, 34-35)(1516)

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