"Il cambiamento esige una pratica del riconoscimento progressivo della pluridimensionalità della nostra identità e la scoperta di nuove immagini di noi stessi, pratica e scoperta che ci aiutano ad affrancarci dalle nostre 'finzioni', le quali sovente ci offrono soltanto una pseudo-sicurezza o, ancor peggio, una presunta superiorità che ci blocca dentro rigidi schemi cognitivi e comportamentali che non danno scampo. Solo chi ha complessi di inferiorità o di superiorità non riesce a giocare la molteplicità delle proprie maschere e, rifiutandosi di cambiare, continua ad additare se stesso o il mondo come qualcosa di negativo e di esecrabile.
«Per tutta la vita» scriveva W. W. Dyer «ho desiderato essere qualcuno. Ma ora che sono finalmente qualcuno non sono più io».
L'Io è spesso un'idea falsa di noi stessi, un'idea di come vorremmo essere, un un tentativo maldestro d'identificarci in aspetti parziali di noi perdendo di vista chi siamo realmente.
Un soggetto 'sente la sofferenza' e dice 'Io soffro', fa qualcosa d'importante e dice: 'Io sono importante', cade nell'errore e dice: 'Io sono sbagliato', dimenticando che, in questo suo parcellizzarsi nell'attimo della percezione, egli non è né il suo soffrire, né il suo sentirsi importante, né i suoi errori, e che la sua vera immagine oltrepassa ognuna di queste dimensioni.
L'Io 'frammentato', come 'specchio parziale' di ciò che vorremmo essere per sentirci sicuri, amati, stimati, accettati, è una dimensione del 'falso sé'.
Soggiogati dall'Io, spesso, come si accennava, trasformiamo l'identità del ruolo, ci identifichiamo solo nella 'maschera' che recitiamo, ci collochiamo in quella falsa identità che si costituisce solo attraverso lo sguardo dell'altro su di noi. In questi casi l'Io si trasforma in una 'gabbia', in quella falsa identità che impedisce ad ognuno di accedere alla propria vera essenza. [...]
L'Io costruito attraverso il bisogno di riconoscimento dell'altro è un muro che m'impedisce di vedere chi sono, che mi indica un posto che debbo occupare, ma che mi priva di ogni libertà.
Così succube della mia falsa identità mi affanno ad avere sempre più successo, più potere, più stima, più amore, diventando sempre più lo specchio delle attese degli altri e sempre meno me stesso.
La mia falsa identità mi pone sempre in balia del giudizio altrui.
Nella falsa identità non percepisco più il mio valore in funzione della mia unicità, ma in funzione di ciò che gli altri pensano di me, e così mi adopero ogni giorno per accaparrarmi la loro stima e più mi affanno in questa direzione più perdo irrimediabilmente me stesso.
Diventare migliori, cercando di trovarci superiori, è un modo per alimentare il nostro senso d'inferiorità.
La falsa identità, infatti, ci pone nella condizione di sentirci sempre in ansia, sempre inadeguati, e per questo di dovere avere sempre bisogno di qualcosa che ci manca, di dovere possedere sempre tutto e di più, di dovere controllare ogni cosa diventando refrattari al rischio di incontrare il senso delle cose che ci accadono."
Franco Nanetti, Counseling ad orientamento umanistico-esistenziale, Ed. Pendragon, Bologna, 2009, pp. 24-25
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