« Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo.[1] »
Tolleranza è un termine relativo alla capacità di sopportare, senza esserne danneggiati, qualcosa che di per sé potrebbe essere spiacevole o dannosa[2].
In senso sociologico la tolleranza si manifesta in chi, teoricamente e praticamente, mostra rispetto nei confronti di coloro che pensano e agiscono credendo in diversi principi relativi alla religione, alla politica, all'etica, alla scienza, all'arte e alla letteratura.[3]
La tolleranza non può essere definita in senso positivo come una virtù poiché riguarda una negatività che viene sopportata per una serie di motivi che escludono un'accettazione piena e senza condizioni di ciò che viene tollerato:
« La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.[4] »
Tuttavia la tolleranza esprime una funzione positiva nel senso che fa apparire una diversità di opinioni che dal confronto dialettico possono procurare una più ampia verità.
Voltaire, l'autore del Trattato sulla tolleranza (1763)
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1 Origini del principio di tolleranza
2 La storia e la teorizzazione del principio di tolleranza
3 Il paradosso della tolleranza [15]
Origini del principio di tolleranza.
Nelle religioni politeistiche antiche non esisteva il principio di tolleranza poiché la moltitudine degli dei escludeva che vi fossero divinità vere e uniche ed era quindi naturale praticare la libertà religiosa ma, poiché la religione era intesa spesso come fattore di unificazione sociale, veniva condannata l'empietà intesa come attentato all'ordine sociale come accadde per Socrate accusato di non credere agli dei tradizionali della città e quindi condannato per "ateismo".[5]
La tolleranza venne affermata con forza dallo stoicismo che la fondò sul cosmopolitismo e su un "diritto naturale" appartenente a tutte le genti: Seneca riprese questi principi che, tramite una presunta sua corrispondenza con Paolo di Tarso, passarono al cristianesimo [6]
Nel Medioevo Tommaso d'Aquino sosteneva che si potevano tollerare le differenze di culto fra cristiani, ebrei e musulmani, rifacendosi alla dottrina di Agostino d'Ippona che dichiarava che la fede è opera della Grazia divina e non può quindi essere imposta dagli uomini.[7]. Il Medio Evo, del resto, tendeva a valorizzare le differenze, come si vede anche dalla lettera che Stefano d'Ungheria (santo per la Chiesa cattolica) scrive al figlio, in cui gli dice: "Un regno che abbia una sola lingua e una sola consuetudine di condotta è infermo e fragile"[8].
Nel XIII secolo, in Spagna risalta la figura del re Ferdinando III di Castiglia, detto il Santo, noto come il re delle tre religioni, per la convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani, durante il suo regno.
Dante Alighieri si dibatté sul problema della salvezza dei pagani tra l'affermazione che extra Ecclesia nulla salus e l'apologo, ripreso anche da Giovanni Boccaccio, della "fiaba delle tre anella",[9]. che si rifaceva a quel principio di tolleranza che sarà poi teorizzato dall'Illuminismo che prenderà a modello esemplare «...la figura storica e nello sviluppo leggendario di Yussuf ibn Ayyub Salah al-Din (Saladino), il principe curdo divenuto sultano di Siria e d'Egitto nell'ultimo quarto del 12° sec. e nella letteratura occidentale del Duecento passato, dall'iniziale ruolo di crudele «nemico della croce» (è a lui che si deve la cacciata dei crociati da Gerusalemme, nel 1187) a quello di specchio e modello delle virtù cavalleresche...[espresse nella "cortesia" occidentale]». Il Saladino viene mostrato infatti come l'«eroe della tolleranza nel dramma di G.E. Lessing "Nathan der Weise", scritto nel 1779, in cui si riprende appunto la narrazione delle "tre anella".»[10]
Si cominciò a dibattere sulla tolleranza nel XVI secolo in quegli Stati, come Francia, Inghilterra e Boemia, dove si verificarono cambiamenti religiosi dovuti anche all'indebolirsi di quel fattore unificatore che era stato il potere imperiale in difficoltà ora nel reprimere la diffusione di confessioni religiose, come ad esempio la Riforma, diverse dal cattolicesimo.
La tolleranza dunque nasce nell'ambito religioso come la posizione di coloro che sostengono sia meglio astenersi dal perseguitare le nuove idee religiose che, se represse, potrebbero generare problemi maggiori. È meglio scegliere di tollerare, considerato come il minore dei mali come già in passato aveva sostenuto Marsilio da Padova (1275-1343) che negava ogni validità a un'imposizione con la forza della fede religiosa poiché della legge divina unico giudice è Dio e riconosceva nel suo Defensor pacis che anche nelle diverse religioni possano sussistere principi validi moralmente.
Sulle posizioni di Marsilio sembra essere Martin Lutero (1483-1546) che si oppone a che gli eretici siano condannati al rogo poiché la violenza non può essere strumento di fede. Una concezione questa però negata dallo stesso riformatore che in occasione della guerra dei contadini (1525), scatenata dal predicatore Thomas Müntzer, auspica per i rivoltosi la pena di morte per mano del potere politico concepito come espressione della volontà di Dio nella repressione del male:
« Essi hanno provocato ribellione, hanno rapinato e saccheggiato con grande scelleratezza conventi e castelli che non appartenevano loro, meritandosi così senza alcun dubbio la morte del corpo e dell'anima, perché banditi di strada e assassini.[11] »
Miguel Serveto
Calvino (1509-1564) cadrà nella stessa contraddizione quando si scaglierà contro le posizioni intransigenti della Chiesa cattolica ma poi egli stesso nel 1553 condannò e fece bruciare Michele Serveto, medico spagnolo sostenitore dell'antitrinitarismo che si era rifugiato a Ginevra per scampare all'Inquisizione cattolica.
A Calvino che giustificava la sua intransigenza nel suo testo Defensio orthodoxae fidei affermando che non si poteva essere tolleranti nei confronti di chi bestemmiava Dio, il savoiardo Sébastien Castellion (1515-1563) dopo aver difeso la libertà e la tolleranza religiosa nell'opera "De hereticis an sint persequendi" (Se gli eretici debbano essere perseguitati), scriveva nell'opuscolo Contro il libello di Calvino a proposito della condanna al rogo di Serveto:
« Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo. Non spetta al magistrato difendere una dottrina. Che ha in comune la spada con la dottrina? Se Serveto avesse voluto uccidere Calvino, il magistrato avrebbe fatto bene a difendere Calvino. Ma poiché Serveto aveva combattuto con scritti e con ragioni, con ragioni e con scritti bisognava refutarlo. Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo, ma facendosi bruciare per essa[12] »
La storia e la teorizzazione del principio di tolleranza.
« Si sbaglierebbe se si cercasse di definire l'idea di tolleranza alla luce esclusiva della ragione: anzi, essa è [...] sostanziata di elementi desunti dall'esperienza, secondo un connotato tipico del pensiero scientifico occidentale moderno che non si appaga di definizioni teoriche ma ne esige la verifica di «laboratorio». E il «laboratorio» nel quale andò maturando [...] fu [quello] dei campi di battaglia e delle stragi, della barbarie, della desolazione del «secolo di ferro» aperto con la Riforma luterana e conclusosi con le paci del 1648-59, alla fine della guerra dei Trent'anni. Fu non tanto dalla comoda e serena prospettiva delle biblioteche in cui lavoravano e discutevano i dotti, ma dalla carne e dal sangue di un'Europa dilaniata ed esausta che scaturì con prepotenza l'ideale della tolleranza[10] »
Le devastazioni delle guerre di religione fecero maturare la mutua inter christianos tolerantia[13] attraverso una serie di tregue che non portarono alla reciproca tolleranza ma che facevano sperare in una definitiva pace religiosa.
La Pace di Augusta (1555) trasferiva dall'imperatore ai principi il diritto di riconoscere la confessione religiosa dei loro sudditi; ai dissidenti rimaneva solo la possibilità di emigrare là dove la loro religione era tollerata.
L'Editto di Nantes del 1598 garantiva ai nobili calvinisti il rispetto delle loro libertà ma l'esigenza dell'unità religiosa farà abbattere da Richelieu ogni presidio militare a garanzia della tolleranza pur mantenendo i diritti religiosi e civili degli ugonotti. L'editto sarà poi definitivamente abrogato da Luigi XIV di Francia (1685) in nome del principio monarchico-assolutistico.
Nel principato di Transilvania la Dieta di Turda (1568) assicurò ampia tolleranza alle diverse confessioni religiose e altrettanto avvenne in Polonia con la dieta di Varsavia (1573).
Sul finire del secolo mentre i gesuiti diventavano protagonisti di una restaurazione religiosa nell'Europa centro-orientale[14] Jean Bodin (1530-1596) avanzava la tesi che sosteneva che era dovere dello Stato rimanere estraneo ai conflitti religiosi e proponeva la tolleranza verso i riformati in cambio dell'obbedienza civile.
Baruch Spinoza nel suo Tractatus teologico-politicus nel 1670 faceva discendere il principio di tolleranza dalla libertà di pensiero e il potere dello Stato, che non poteva reprimere la coscienza interiore degli uomini, andava limitato alle cose e azioni esterne.
Nel 1689 John Locke, nella Epistola sulla tolleranza affermava che le credenze religiose non erano dipendenti dalla volontà degli individui e quindi non potevano essere imposte dalla legge civile che non può intervenire nei confronti di quelle società private che sono le singole Chiese nelle quali liberamente si entra e si esce a seconda della propria volontà. Le Chiese, prive di ogni potere politico divenivano quindi strumento di concordia civile tranne il cattolicesimo, che andava vietato poiché obbediva a un'autorità, quella papale, esterna a quella dello Stato.
Nel '700 illuminista il principio di tolleranza troverà una conclusiva definizione nel Traité sur la tolérance (1763) di Voltaire e la sua pratica attuazione nella Costituzione degli Stati Uniti d'America (1791) a cui seguiranno la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino il 26 agosto (1789), il Protocollo finale del Congresso di Vienna (1815); con il primo riferimento anche alla difesa delle minoranze etniche), il Trattato di Berlino del 1878, i Quattordici punti di Thomas Woodrow Wilson (1918), il Patto della Società delle Nazioni (1920), lo Statuto delle Nazioni Unite (1945), Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo (1981), Carta di Algeri: Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (1976) ed altre solenni dichiarazioni.
Il paradosso della tolleranza.
Si può ancora sostenere la tolleranza quando degli atti terroristici causano centinaia di morti? Possiamo concedere la libertà a persone che non sono disposte a condividere i nostri valori fondamentali? Tollerare vuol dire anche porre dei limiti.
I numerosi attentati terroristici di matrice islamica che hanno colpito mezza Europa (Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino, ecc.) hanno creato un clima di paura, insicurezza, diffidenza in tutta la popolazione. Questo è comprensibile. Gli assassini di domani vivono in mezzo a noi. Gli assassini di oggi prima di passare all’azione hanno vissuto per anni nelle nostre città senza farsi notare. Noi non sappiamo se il prossimo attentato non viene programmato proprio da un nostro vicino, o se il prossimo massacro non coinvolgerà pure noi. Gli attentatori colpiscono la nostra società nel suo punto più debole; la loro violenza è rivolta contro quello che per l’occidente è di centrale importanza: la libertà, la democrazia, l’uguaglianza dei diritti, la tolleranza. Il trionfo dei terroristi sarebbe riuscire a screditare questi valori. La loro vittoria ci sarebbe quando noi, per combattere loro, tradissimo proprio questi valori fondamentali. In effetti noi dobbiamo difendere il nostro ordine sociale ma non dobbiamo rinunciare alle conquiste che hanno portato alla nostra società liberale. Questo dilemma ci porta inevitabilmente al concetto di tolleranza.
La tolleranza attualmente è sotto pressione. Le istanze per una “fine della sopportazione” diventano sempre più insistenti; e non sono del tutto infondate. Ma si può essere tolleranti verso persone che non sono disposte a fare un passo indietro relativamente a questioni che la loro cultura e convinzioni religiose considerano colpevoli? Si può chiedere tolleranza quando delle persone in nome di Allah si dichiarano apertamente nemiche della democrazia e nel contempo rivendicano diritto a libertà che esse stesse poi negano ad altri? Naturalmente non ognuno che abbia un concetto diverso dei valori che regolano la società può essere considerato un nemico. Gli attentati subiti in Europa non potrebbero forse anche essere la conseguenza di un atteggiamento troppo morbido nei confronti di persone che usano in modo indebito le aperture della nostra società? Cosa può tollerare una società che si considera “aperta”?
I problemi si incontrano e si misurano nella vita di tutti i giorni. Dobbiamo vietare il velo integrale? Possiamo permettere la creazione di società religiose parallele? Deve intervenire lo Stato nei confronti di un disegnatore quando questi pubblica caricature anti-islamiche? Come dobbiamo comportarci nei confronti di genitori che vietano alle loro figlie di stringere la mano all’insegnante o di partecipare a corsi di nuoto o di ginnastica? “Non possiamo vietare tutto quello che noi rifiutiamo” ha affermato il ministro degli interni tedesco De Maizière; ed ha perfettamente ragione. Come cittadini di una società aperta dobbiamo accettare che altre persone facciano o dicano cose che ci disturbano. E che qualcosa corrisponda alle nostre convinzioni o alle aspettative della maggioranza della popolazione, questo non può né deve essere determinante perché essa venga tollerata o meno. Dobbiamo anche accettare il fatto che qualche volta i nostri sentimenti vengano feriti, e che lo Stato non intervenga per difenderli (per esempio nella satira di critica religiosa). Questa è la conseguenza di una cultura che garantisce la libertà di opinione e di parola, anche lì dove essa può far male. Ma dove passa la linea di demarcazione? Del tutto netta essa non è, eccetto quando vengono violate delle leggi.
Determinante è che la tolleranza funziona solo lì dove essa è reciproca. Però essa non consiste semplicemente nel lasciar fare. La società difende le libertà di ogni cittadino, ma pretende anche che ciascuno di essi le riconosca in egual modo agli altri. E questo indipendentemente dal fatto se gli vada a genio o meno quello che fa il suo vicino. Io posso tollerare solo quello che rifiuto ma che sono disposto a sopportare. Tolleranza non vuol dire che io abbia un atteggiamento positivo o anche indifferente verso un fenomeno o una persona: io posso anche combattere quello che tollero. Ma nonostante questo posso protestare quando questo venisse vietato.
Tollerare significa sopportare, e precisamente qualcosa che va contro le proprie convinzioni. Questo è possibile solo in una società che ammette il confronto fra diverse posizioni ed opinioni. La tolleranza necessita di un contrasto, di un dibattito fecondo. Chi non è disposto a tollerare che le sue convinzioni vengano messe in discussione non ha diritto a rivendicare alcuna tolleranza. A questo ha fatto riferimento Karl Popper quando, dopo l’esperienza del fascismo, rammentò l’inevitabile paradosso della tolleranza nella società: che non appena vengono tollerate persone intolleranti, o presto o tardi i tolleranti finiscono. Tolleranza senza limiti porta alla scomparsa della tolleranza. Perché l’intolleranza, per sua natura, tende a sopraffare la tolleranza e ad eliminarla.
La tolleranza non è una ricetta sicura per la pace sociale. Essa è altra cosa che il rispetto. Goethe nelle sue “Massime e riflessioni” scrisse che “La tolleranza, in vero, dovrebbe essere soltanto un modo transitorio. Essa deve portare all’accettazione. Sopportare vuol dire offendere”. Non è neppure un guanciale su cui poter riposare, ma richiede continua vigilanza, da entrambe le parti. La vera tolleranza non scaturisce da una società esitante e insicura, né dalla speranza in un mondo sano, ma da una obiettiva valutazione della realtà. Essa può portare al riconoscimento o al divieto di un gruppo politico o religioso. Chi auspica la fine della tolleranza è in errore. Con i tempi che corrono dobbiamo usare maggiormente la tolleranza che la sopportazione. Essa ci richiede che garantiamo e ci impegniamo per le nostre convinzioni e imponiamo le regole della convivenza. Una tolleranza male intesa è quella che crede che dobbiamo accettare tutto semplicemente perché è altro e straniero. Possiamo essere tolleranti solo fin dove siamo disposti a difendere le nostre posizioni. E sopportare vuol dire anche porre dei limiti.
Note
1^ Questa frase, spesso attribuita a Voltaire, in realtà è opera di Evelyn Beatrice Hall autrice britannica, sotto lo pseudonimo di "S. G. Tallentyre", di una biografia del filosofo intitolata The Friends of Voltaire.
2^ Dizionario Treccani alla voce corrispondente
3^ Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute nella voce hanno come fonte Nunzio Angiolilli, Dall'intolleranza religiosa alla tolleranza
4^ Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, a cura di Dario Antiseri, traduzione di Renato Pavetto, Armando Editore, Roma, 1974
5^ A. Pincherle, "Intolleranza", Enciclopedia Italiana Treccani (1933)
6^ Franco Cardini, Intolleranza/tolleranza, Dizionario di storia Treccani (2011)
7^ Margherita Zizi, Tolleranza, Enciclopedia Italiana Treccani (2006)
8^ Stefano d'Ungheria, Esortazioni al figlio. Leggi e decreti, Città Nuova, Roma 2001, pag. 61.
https://it.wikipedia.org/wiki/Tolleranza
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