Qual è oggi, possiamo domandarci, la funzione della religione, nel momento in cui vediamo che il suo ruolo non è più di configurare la vita sociale dandole una legge fondata su un principio trascendente? Se prendiamo quel che dice Lacan nella conferenza stampa tenuta a Roma nel 1974 e pubblicata con il titolo Il trionfo della religione, dobbiamo dire che la religione è una terapia.
Per Freud era il contrario, era una nevrosi: Freud considerava che la religione avesse la struttura della nevrosi ideale, della nevrosi ossessiva. Per Lacan la religione è una terapia giacché, con la sua capacità di secernere senso, di dare senso a tutto, e in particolare alla vita umana, essa è in grado di "acquietare i cuori", particolarmente quando questi vengono turbati dal reale messo in circolazione dalla scienza.
Naturalmente quando Lacan parla di terapia in questo senso si riferisce a un rimedio per l'insanabile, si riferisce all'incurabile della vita. Quest'idea della religione come terapia ha sedotto gli ideologi dello scientismo, che l'hanno ripresa a modo loro, un modo piuttosto monocorde, bisogna dire, ma che riesce sempre a stupirci e a volte anche a divertirci. L'Herald Tribune del 1 aprile scorso riferisce di uno studio, condotto in una clinica del Minnesota, intorno al potere di guarigione esercitato dalla preghiera su pazienti che avevano subito un intervento cardiochirurgico di una certa importanza. L'esperimento su cui si basa lo studio, questo è l'aspetto interessante, non ha preso ad oggetto la preghiera meditativa, e quindi quello stato di benessere fisico e spirituale che può derivare dalla concentrazione e dal raccoglimento in se stessi, ma la preghiera intercessoria, cioè una domanda, rivolta a Dio, perché eserciti il proprio intervento sul corso delle cose terrene. Dopo che Kant ha reso impercorribile l'argomento ontologico di S. Anselmo, lo scientismo contemporaneo aggira l'ostacolo passando a un sondaggio diretto dell'esistenza di Dio con il metodo del doppio cieco.
I pazienti studiati sono stati divisi in tre gruppi:
per un gruppo non si pregava, per gli altri due sì; uno dei due gruppi per cui si pregava ne veniva informato, l'altro veniva lasciato in situazione dubitativa: ai partecipanti veniva detto che per loro si poteva pregare oppure no. Le preghiere erano affidate a tre diverse congregazioni dove gli oranti erano istruiti a utilizzare il nome e l'iniziale del cognome della persona per cui pregavano - per proteggere la privacy suppongo, tanto Dio dall'iniziale può già capire di chi si tratta - e di includere la frase: "Per il successo dell'intervento chirurgico e per una rapida guarigione senza complicanze".
La ricerca su cui si basa lo studio è costata $ 2.400.000.
In questo tentativo di negoziare con il divino attraverso i più aggiornati strumenti scientifici potremmo ravvisare un residuo d'incantamento del mondo che resiste alle analisi di Weber, risalenti ormai ai primi decenni del secolo scorso. Nella visione del disincantamento di Weber tuttavia, il razionalismo moderno non coincide con la cancellazione di Dio: semplicemente l'uomo disincantato, grazie alla potenza della tecnica, è portato a costruire attivamente il proprio mondo perché non pensa più di poter condizionare la divinità.
Weber scrive prima della Shoa, prima dell'orrore smisurato che ha piegato la potenza della tecnica alla distruzione dell'uomo. La Shoa, oltre a sollevare mille interrogativi nella riflessione etica, ha rilanciato anche i temi classici della teodicea, con il suo tipico vizio assolutorio di fondo. Una delle voci che ha avuto maggiore risonanza in questo senso è stata quella di Hans Jonas, stimato allievo di Heidegger, che non ha potuto risolvere il dilemma del male assoluto se non pensando a un Dio impotente.
Benedetto XVI, teologo senz'altro più sottile, nella sua visita ad Auschwitz del maggio scorso, interrogandosi sul silenzio di Dio di fronte allo sterminio degli ebrei, non solo non ha avuto bisogno dell'ipotesi depotenziante di Jonas, ma si è anche spinto più in là di Weber, e ha visto nella potenza della tecnica messa al servizio del genocidio la prefigurazione di un mondo dove l'uomo si sostituisce a Dio, ha visto l'incubo di un mondo senza Dio. Qui l'onnipotenza divina è salvata, anche se si paga il prezzo semplificativo di ridurre il nazismo al colpo di mano di una banda di criminali sui quali le colpe ricadono in modo esclusivo.
L'immagine di un mondo senza Dio appare, nelle parole di Joseph Ratzinger, quando ancora non porta al dito l'anello pontificale, in un intervento del 2001 al Sinodo dei Vescovi, dove richiamandosi alle epistole paoline, afferma: "Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza, e una cultura senza Dio porta nel suo nucleo la disperazione, diventa inevitabilmente cultura della morte".
La speranza, virtù teologale, è un tramite che consente alle facoltà dell'uomo di partecipare alla natura divina, e nella fattispecie è la mediazione che porta a desiderare il regno dei cieli, la salvezza. Senza speranza non c'è salvezza. Auschwitz ci dà un'immagine completamente terrena di un luogo senza salvezza, dove tra i sommersi e i salvati anche i salvati sono perduti. Il problema è stato ben inquadrato da Giorgio Agamben, che fa del Lager il paradigma di uno spazio in cui lo stato d'eccezione diventa la regola. Abitualmente lo stato d'eccezione riguarda una situazione d'emergenza, quando viene sospeso l'ordine giuridico e il governo viene rimesso al decreto, alla forza o, al limite, all'arbitrio. Commettere atrocità, in questo caso, non è più correlato al diritto, ma piuttosto al senso di misura, o alla moralità di chi provvisoriamente esercita azione di polizia in modo sovrano. Il campo come luogo in cui lo stato d'eccezione diventa la regola è allora anche il luogo dove tutto è possibile, dove non c'è la protezione del diritto, dove si è in balìa del capriccio di chi governa senza nessun altro controllo sulla situazione.
Se facessimo funzionare in modo automatico le nostre formule diremmo che un luogo dove tutto è possibile è un luogo irreale, come un racconto di Hoffmann che tocca le corde delle nostre inquietudini più segrete. E' facile vedere tuttavia che in questo caso è vero il contrario: l'inferno sulla terra, il mondo senza Dio, è un luogo dove sono saltati i fondamenti della legge, e dove il reale impazza senza argine.
Senza andare agli estremi del Lager, questa dimensione della contemporaneità, dove il reale non sta più nelle briglie, è stata ben dipinta da Alejandra Eidelberg in uno dei Papers preparatori al nostro incontro, dove ha mostrato, come correlato di un declino dell'amore, la gabbia di ferro dei nuovi sintomi e il loro rovescio: i corpi di ferro per i quali impossible is nothing.
Dio nella tradizione era il fondamento della legge: se questo fondamento salta e la legge è sospesa, il mondo diventa un luogo dove lo stato d'eccezione si trasforma in regola e dove, con la miccia accesa dell'emergenza dovuta al terrorismo, i fondamentalismi si scontrano. Nello spazio globalizzato del mercato, Dio ridiventa tribale, si moltiplica per legittimare contrapposte rivendicazioni identitarie. Il lato drammatico, nel cedimento dell'universale, è l'esplosione delle identità. Dio è a brandelli, come suonava il titolo di un articolo nel dossier di una rivista francese - Dieu en lambeaux - e ognuno ne agita un lacerto per farsene insegna.
Il NdP, nei primi seminari di Lacan, era definito come il fondamento della legge. Poi, man mano che il suo insegnamento ha fatto posto alla logica e alla matematica, man mano che ha dato spazio alle tematiche della crisi dei fondamenti e dei suoi paradossi, il NdP non ha più potuto essere il fondamento. Si è logicizzato a sua volta, è diventato funzione, si è moltiplicato, si è pluralizzato. Pluralizzazione però non vuol dire andare a pezzi, non significa essere a brandelli: piuttosto suppone l'effetto implicato dalle conseguenze dello squarcio apertosi nell'universale. Questa falla fa naufragare la possibilità di pensare il NdP come fondamento.
Un mondo in cui Dio non è più il fondamento della legge deve allora per forza essere pensato come la globalizzazione del Lager, come incubo senza risveglio, come deserto senza speranza dove, secondo il detto di Feuerbach, l'uomo è ciò che mangia? C'è in questo detto l'oscillazione tra l'autoerotismo orale e la chiusura tautologica che la formulazione in tedesco permette di far risuonare - der Mensch ist, was er ist - riducendo la biografia di ogni uomo al cerchio insensato: nacque, mangiò, morì.
Credo tuttavia sia possibile vedere un'altra prospettiva, che non si dibatte tra la nostalgia del fondamento e la disperazione riduzionista di un materialismo senza prassi.
Abbiamo bisogno di una terapia che ci colmi di senso solo se abbiamo, come correlato, una civiltà la cui secolarizzazione si basa sulla programmazione totale, sulla prevedibilità, sul controllo come unico mezzo per contrastare l'angoscia. Il mondo moderno, che ha distolto lo sguardo dal passato, dal fondamento della tradizione dove si alimentava una vita immutabile, guarda avanti, verso il nuovo che gli viene incontro, e al tempo stesso, angosciato da quel che non conosce, cerca di sterilizzarne la sorpresa. La scienza ci nutre di novità che servono a placare le nostre apprensioni, e contemporanemente fa crescere la nostra angoscia del futuro, del corpo che invecchia, di una morte che la medicina cancella come esito naturale della vita e che tuttavia ci ghermirà. Abbiamo tutti gli agi, ma il piacere della vita è corroso dal futuro che la inghiotte. Sembra che la sola risposta sia illuminare di senso il buco nero delle nostre inquietudini, suturare la fenditura nativa del godimento. Se si vive la vita come un prodotto fallato, che contiene il vizio redibitorio della morte, non resta che rivolgere lo sguardo al produttore, meglio detto Creatore, al Dio da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna, il Dio del fondamento, per restituirla avendo in cambio la salvezza.
Lacan menziona spesso Dio negli ultimi anni del suo insegnamento e nei modi più svariati. Difficile trarne una dottrina. Una divertente rassegna in chiave di dialogo immaginario è presentata dal testo di Antonio Di Ciaccia nel CD del Congresso. Se non si può fare una sintesi si può però tirare qualche filo. Uno è in RSI, dove Lacan definisce Dio come la rimozione in persona o, meglio, come la persona supposta alla rimozione. Lacan parla qui di rimozione originaria, Ûrverdrangung, che è l'inconscio irriducibile, quello a cui non è possibile dare nessun senso. Prendiamo la via lineare di dire che la rimozione è una difesa, la barriera che ci permette di non essere in preda al reale. La rimozione originaria non dà un senso al reale, lo contiene, diciamo così, nei limiti del ragionevole, quel tanto da potercisi abituare.
A questo punto si tratta solo di porre le questioni giuste: per avere il senso della vita occorre interpellare il Dio del fondamento, perché il senso della vita trascende la vita. Per il godimento della vita invece la faccenda è diversa, perché il godimento è immanente alla vita, e il fatto che sia fessurato non richiede terapia, piuttosto: accortezza.
Destreggiarsi, se debrouiller, è una delle ultime parole di Lacan. Occorre destreggiarsi nell'inestricabile vita. Il sogno dedalico del colpo d'ala che fa uscire dal labirinto è lo stesso che ci imprigiona nell'incubo di un'esistenza senza speranza. La verità è che non c'è uscita dal labirinto perché il mondo stesso è un labirinto in cui cercare un filo, un filo all'altro capo del quale c'è una donna, una donna con la quale non c'è rapporto sessuale, una donna che non è La donna, che non è Dio, e che non si può amare di amore perfetto, ma della quale si può fare il proprio partner-sintomo, e con la quale, nei momenti migliori, si può anche fare l'amore.
Marco Focchi, L'incubo di un mondo senza Dio, Roma, 13 luglio 2006
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