Dimmi come cammini ti dirò chi sei
«In montagna o in città, noi siamo la storia dei nostri passi»
Il filosofo Duccio Demetrio spiega cosa c’è nell’idea
del camminare
di Giacomo Giossi *
«Se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino» scriveva Henry David Thoreau.
«Se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino» scriveva Henry David Thoreau.
L'intervista al filosofo Duccio Demetrio che pubblichiamo qui sotto si può vedere in versione video sul sito www.doppiozero.com, rivista on line e casa editrice non profit. Apre Camminare serie estiva della Stampa e progetto di Doppiozero che si svilupperà con l'apporto di scrittori, filosofi, artisti. Questi racconteranno il loro camminare e la memoria dell’andare a piedi, in montagna, in collina o anche solo in città.
"Il camminare è la nostra educazione, la nostra esperienza". Così scrive il filosofo Duccio Demetrio in Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea (Cortina), a oggi uno dei testi più acuti sul significato del camminare come meditazione e relazione tra noi stessi e il mondo.
Incontriamo il professor Duccio Demetrio all’università di Milano Bicocca presso cui insegna Filosofia dell’educazione. [...]
Un camminare per alcuni frenetico e rapido, per altri strascicato e stanco che rivela esperienze e storie diverse, piccoli passi che a volte valgono un gigantesco balzo per l’umanità, come sa bene Neil Armstrong.
Che rapporto c’è tra il camminare e il pensiero?
«Il camminare è una metafora dell’inquietudine umana, e il nostro vagare assomiglia profondamente al modo di procedere della ricerca filosofica e scientifica. Un camminare per tentativi che esplora: quindi disequilibrio più che armonia. Per me camminare è un’esperienza di inquietudine e di sorpresa quotidiana».
Che rapporto esiste tra il camminatore e il paesaggio che attraversa?
«Ritengo che ciascuno dovrebbe trovare il proprio profilo di camminatore in rapporto ai paesaggi che gli consentono di esprimere maggiormente se stesso. Io ad esempio non sono un camminatore di montagna, la montagna non evoca per me tutti i simboli che evoca ad altri, ma sono un camminatore delle pianure o delle colline. Mi piace muovermi all’insegna di una ricerca progressiva di paesaggi che si dilatano inseguendo un infinito, e l’infinito è l’irraggiungibile».
Cosa ci perdiamo camminando frettolosamente?
«Una camminata veloce è l’antitesi della camminata perché se noi camminiamo in funzione del nostro utile, allora possiamo usare anche altri mezzi. Il problema è di riuscire nelle nostre quotidianità a ritagliare degli spazi e dei momenti in ore forse ingrate per alcuni, all’alba oppure nella notte, dove la nostra camminata, anche nei luoghi soliti e quotidiani, possa invitarci a una relazione tra il pensiero, il linguaggio interiore e il nostro andare a piedi».
È possibile una forma di spaesamento anche camminando in città?
«Lo spaesamento è possibile nella città se non cerchiamo in modo stereotipato delle manifestazioni di bellezza, ma piuttosto ciò che non conosciamo dell’umanità e della gente, delle loro parole e delle loro storie. Camminare vuol dire non soltanto camminare per sé, ma incontro agli altri e all’imprevisto».
Camminare è un modo di manifestare la libertà?
«Se camminando possiamo spingerci verso i luoghi che noi desideriamo o semplicemente possiamo permetterci di trasgredire i confini più costrittivi della nostra esistenza, ecco che il camminare è un’espressione di grande respiro liberatorio. Da sempre l’umanità per conquistare i propri ideali o per inseguire le proprie utopie ha camminato, non solo nelle singolarità, nelle soggettività, ma da un punto di vista simbolico, come masse, come popoli. E c’è un camminare liberatorio, non dobbiamo dimenticarlo, anche nella tradizione religiosa e ascetica. Abbiamo bisogno, finché ci è dato, di guardare oltre, di guardare avanti, ma anche di guardarci alle spalle».
Quale la differenza tra la contemplazione data dal camminare e quella che rifiuta ogni movimento?
«Chi rifiuta nella contemplazione il movimento si muove comunque al proprio interno, ma nella tradizione orientale soprattutto, persegue il vuoto della mente. È certamente una possibilità di natura spirituale di grande importanza. Io non perseguo questo tipo di forma di contemplazione e di meditazione perché credo che possa esistere una meditazione in cammino che ha lo scopo soprattutto di arricchire la nostra mente e di stimolare la nostra intelligenza, e temo tutti coloro che perseguono il vuoto. Credo che sia importante che il nostro pensiero si nutra sempre di più di ciò che vede e di ciò che ascolta, da qui la mia proposta di una meditazione mediterranea che non cerca il silenzio assoluto e totale ma che ama immergersi tanto nella natura quanto nella vita umana».
Esiste erotismo nel camminare?
«L’eros è implicito nell’arte del camminare. È necessario, credo, educarsi ed educare al camminare all’insegna della costruzione di un amore di sé che non sia egocentrico, ma di proiezione verso l’altro. Se noi camminiamo dentro noi stessi non facciamo altro che reincontrare gli altri. Per questo il camminare è una metafora straordinaria che non a caso appartiene soprattutto alle tradizioni religiose».
Camminare è una forma di autobiografia?
«Camminare è anzitutto autobiografico, perché noi potremmo scrivere pagine della nostra biografia evocando i primi ricordi del nostro camminare, i primi ricordi legati alle esperienze che abbiamo vissuto in solitudine da bambini, oppure da adolescenti come esperienze di fuga, oppure anche da adulti come esperienze di trasgressione. C’è sempre, in ciascuno di noi, una storia dei nostri passi. Ma esiste un’equivalenza anche tra il camminare e la narrazione autobiografica, perché quando scriviamo la nostra vita nella sua complessità la riattraversiamo camminando a ritroso nei luoghi che abbiamo vissuto, reincontriamo le persone che ci hanno accompagnato, che ci hanno tratto dei tranelli od ostacolato. Se io dico, per evocare la bellissima favola di Pinocchio, ho fatto un tratto di strada con il gatto e la volpe, esprimo immediatamente momenti che ho vissuto riferiti ad altre figure e ad altre persone. E non dobbiamo dimenticare, già l'aveva messo in luce molto bene Nietzsche, che il nostro scrivere assomiglia al camminare. Noi ci muoviamo sulla pagina bianca come se le nostre parole fossero altrettanti passi veloci oppure lenti, meditativi e in sosta».
Che rapporto c’è tra il camminare e il pensiero?
«Il camminare è una metafora dell’inquietudine umana, e il nostro vagare assomiglia profondamente al modo di procedere della ricerca filosofica e scientifica. Un camminare per tentativi che esplora: quindi disequilibrio più che armonia. Per me camminare è un’esperienza di inquietudine e di sorpresa quotidiana».
Che rapporto esiste tra il camminatore e il paesaggio che attraversa?
«Ritengo che ciascuno dovrebbe trovare il proprio profilo di camminatore in rapporto ai paesaggi che gli consentono di esprimere maggiormente se stesso. Io ad esempio non sono un camminatore di montagna, la montagna non evoca per me tutti i simboli che evoca ad altri, ma sono un camminatore delle pianure o delle colline. Mi piace muovermi all’insegna di una ricerca progressiva di paesaggi che si dilatano inseguendo un infinito, e l’infinito è l’irraggiungibile».
Cosa ci perdiamo camminando frettolosamente?
«Una camminata veloce è l’antitesi della camminata perché se noi camminiamo in funzione del nostro utile, allora possiamo usare anche altri mezzi. Il problema è di riuscire nelle nostre quotidianità a ritagliare degli spazi e dei momenti in ore forse ingrate per alcuni, all’alba oppure nella notte, dove la nostra camminata, anche nei luoghi soliti e quotidiani, possa invitarci a una relazione tra il pensiero, il linguaggio interiore e il nostro andare a piedi».
È possibile una forma di spaesamento anche camminando in città?
«Lo spaesamento è possibile nella città se non cerchiamo in modo stereotipato delle manifestazioni di bellezza, ma piuttosto ciò che non conosciamo dell’umanità e della gente, delle loro parole e delle loro storie. Camminare vuol dire non soltanto camminare per sé, ma incontro agli altri e all’imprevisto».
Camminare è un modo di manifestare la libertà?
«Se camminando possiamo spingerci verso i luoghi che noi desideriamo o semplicemente possiamo permetterci di trasgredire i confini più costrittivi della nostra esistenza, ecco che il camminare è un’espressione di grande respiro liberatorio. Da sempre l’umanità per conquistare i propri ideali o per inseguire le proprie utopie ha camminato, non solo nelle singolarità, nelle soggettività, ma da un punto di vista simbolico, come masse, come popoli. E c’è un camminare liberatorio, non dobbiamo dimenticarlo, anche nella tradizione religiosa e ascetica. Abbiamo bisogno, finché ci è dato, di guardare oltre, di guardare avanti, ma anche di guardarci alle spalle».
Quale la differenza tra la contemplazione data dal camminare e quella che rifiuta ogni movimento?
«Chi rifiuta nella contemplazione il movimento si muove comunque al proprio interno, ma nella tradizione orientale soprattutto, persegue il vuoto della mente. È certamente una possibilità di natura spirituale di grande importanza. Io non perseguo questo tipo di forma di contemplazione e di meditazione perché credo che possa esistere una meditazione in cammino che ha lo scopo soprattutto di arricchire la nostra mente e di stimolare la nostra intelligenza, e temo tutti coloro che perseguono il vuoto. Credo che sia importante che il nostro pensiero si nutra sempre di più di ciò che vede e di ciò che ascolta, da qui la mia proposta di una meditazione mediterranea che non cerca il silenzio assoluto e totale ma che ama immergersi tanto nella natura quanto nella vita umana».
Esiste erotismo nel camminare?
«L’eros è implicito nell’arte del camminare. È necessario, credo, educarsi ed educare al camminare all’insegna della costruzione di un amore di sé che non sia egocentrico, ma di proiezione verso l’altro. Se noi camminiamo dentro noi stessi non facciamo altro che reincontrare gli altri. Per questo il camminare è una metafora straordinaria che non a caso appartiene soprattutto alle tradizioni religiose».
Camminare è una forma di autobiografia?
«Camminare è anzitutto autobiografico, perché noi potremmo scrivere pagine della nostra biografia evocando i primi ricordi del nostro camminare, i primi ricordi legati alle esperienze che abbiamo vissuto in solitudine da bambini, oppure da adolescenti come esperienze di fuga, oppure anche da adulti come esperienze di trasgressione. C’è sempre, in ciascuno di noi, una storia dei nostri passi. Ma esiste un’equivalenza anche tra il camminare e la narrazione autobiografica, perché quando scriviamo la nostra vita nella sua complessità la riattraversiamo camminando a ritroso nei luoghi che abbiamo vissuto, reincontriamo le persone che ci hanno accompagnato, che ci hanno tratto dei tranelli od ostacolato. Se io dico, per evocare la bellissima favola di Pinocchio, ho fatto un tratto di strada con il gatto e la volpe, esprimo immediatamente momenti che ho vissuto riferiti ad altre figure e ad altre persone. E non dobbiamo dimenticare, già l'aveva messo in luce molto bene Nietzsche, che il nostro scrivere assomiglia al camminare. Noi ci muoviamo sulla pagina bianca come se le nostre parole fossero altrettanti passi veloci oppure lenti, meditativi e in sosta».
*www.lastampa.it
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