Vite democristiane.
Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse (BR) il 16 marzo 1978.
Non scriveremo del racconto di quella vicenda, né delle centinaia di ipotesi e ricostruzioni dietrologiche che la riguardano. Più che altro vogliamo porre l’attenzione su ciò che guidò gran parte del procedere di quell’accadimento e di come questo atteggiamento che definiremo “democristiano” sia spesso presente nelle nostre vite.
Quando fu rapito, Moro era un personaggio di spicco nel suo partito (la Democrazia Cristiana, DC), del quale – schematizzando – rappresentava la “sinistra”. Da qualche tempo – nel tentativo di evitare derive estremistiche di destra e sinistra – era impegnato in un tentativo di avvicinamento con gli avversari storici: i comunisti. Semplificando – come già scritto su questo giornale (clicca qui) – l’obiettivo era mettere insieme i “buoni” dei due schieramenti (una specie di embrione di Ulivo ante litteram), per isolare i “cattivi”. Tuttavia dialogare con i comunisti o addirittura consentirne l’accesso al governo non andava giù a molti, all’interno della DC e anche negli USA. Non diremo che Moro fu rapito per questo, ma certamente, anche e soprattutto per questo, fu lasciato morire.
Sin da quel 16 marzo, la posizione assunta dalla DC – che di fatto era il referente della trattativa con le BR – fu la “linea della fermezza”: nessuna trattativa, nessun tipo di deroga alle leggi dello Stato. Seppur teoricamente irreprensibile, questa posizione appare in pratica singolare in un paese e in un partito che ha fatto dell’arte del compromesso, della necessità dell’”aggiustamento” e dell’ansia di non scontentare nessuno, uno dei suoi tratti distintivi. Lo stesso Moro, in una delle lettere dalla prigionia (consigliatissimo il libro che le raccoglie), con una certa dose di tragica ironia, si domanda come sia possibile che proprio il suo partito e il suo paese si dimostrino così inflessibili in questa circostanza, quando in moltissime altre occasioni furono (e saranno) gli artefici di soluzioni frutto di strappi ai suddetti principi.
Eppure proprio Moro avrebbe dovuto riconoscere (e in qualche modo lo riconobbe, quando comprese in più circostanze che le vie d’uscita erano sbarrate) che, al di là delle apparenze, non c’era nulla di più democristiano della maniera con cui il suo partito stava affrontando la questione.
Cosa significa allora essere democristiani?
Innanzitutto lo stesso aggettivo è figlio di un compromesso, di “un accordo linguistico”, essendo l’unione di due aggettivi: “democratico” e “cristiano”. Il democristiano è innanzitutto un temporeggiatore, chi attende oltre ogni limite che qualcosa o qualcuno, come le onde del mare, gli portino sulla battigia una qualche soluzione o opportunità, oppure che l’interlocutore/avversario, sfinito, si arrenda. E’ democristiano chi è restio a dare colpi di timone alle vicende di cui è protagonista, ma piuttosto “fa succedere”, “fa pressione”, suggerisce, ammicca, invita, quasi sempre implicitamente. Si muove attento a non crearsi nemici (perché chiunque può tornare utile) e non vuole rinunciare a nulla (perché qualsiasi cosa potrà offrire un’opportunità); la sua linea-guida è la procrastinazione delle scelte, il “tutto s’aggiusta”, la storica certezza che se siamo arrivati fino qua, riusciremo a sopravvivere anche questa volta. E domani ci penseremo.
Apparentemente passivo ed estraneo a ciò che gli accade intorno, il democristiano sta invece studiando lo schieramento avversario per individuarne i punti deboli; come quei centravanti opportunisti che non toccano palla per 89 minuti e poi all’ultimo minuto sono lì, pronti, con un tocchettino a mettere in rete la corta respinta del portiere. Infine e soprattutto, il democristiano non prende mai decisioni quando e secondo i principi a cui si dice fedele, utilizzandoli invece per nascondersi o come scuse per giustificare le proprie azioni.
Proprio in questo modo, meschinamente democristiano, si comportò chi gestì l’affare-Moro determinandone – di fatto – l’esito. Chi voleva la fine (politica) di Moro non si mosse attivamente perché venisse rapito, ma quando ciò accadde, trincerandosi dietro inflessibili e inattaccabili principi di fedeltà allo stato di diritto, si comportò in maniera tale da causarne l’eliminazione. Che venne poi eseguita da altre mani. In altre parole, una perfetta manovra democristiana: sfruttare un avvenimento presentatosi sulla scena, “facendo accadere” qualcosa di conveniente, uscendone con le mani apparentemente pulite o addirittura rinforzati perché giustificati da nobili principi.
Quante volte nelle nostre vite siamo democristiani? Quante volte ci asteniamo dal prendere decisioni aspettando che succeda qualcosa che ci tolga dagli impicci? Quante volte, nonostante i principi a quali aderiamo ci consiglino chiaramente di dirigerci in una direzione, eternamente esitiamo di fronte al bivio, così che quella diviene la nostra condizione d’essere? Se da un lato è bene non fare scelte affrettate ed esplorare tutte le possibili soluzioni, il grosso rischio – soprattutto in questi tempi e in questi luoghi così “uterini” (ossia protettivi e limitanti) – è “farsi vivere”, “farsi gestire”, rinunciando alla propria libertà (che è sinonimo di responsabilità), andando dolcemente alla deriva invece di issare le vele in cerca della felicità.
Tante volte occorre rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro, tante volte – colpevolmente – confondiamo la auspicabile e calma valutazione delle circostanze, con una vigliacchetta e marcia inazione, perché comunque, democristianamente, sopravviveremo. Democristianamente ci nascondiamo e procrastiniamo, illudendoci che un giorno, chissà chi e chissà cosa, ci consegni sulla soglia di casa un”illuminazione o una soluzione a tutto; quando invece dovremmo guardare dentro piuttosto che fuori. E poi un mattino ci si ritrova a sessant’anni, ancora attendendo che il domani ci regali una qualche grande, improbabile, comoda svolta…
Di Gian Pietro "Jumpi" Miscione in marzo 2011
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