Alla fine dell’Ottocento l’ebraico era una lingua morta. Oggi ha 8 milioni di parlanti, un caso unico al mondo. Merito anche di un uomo che decise che suo figlio sarebbe cresciuto senza sentire neanche una parola in una lingua diversa:
L’uomo che creava le parole
Eliezer Ben Yehuda è «il padre dell’ebraico moderno»: dedicò la vita a una lingua per gli ebrei
Giovanni Zagni
Eliezer Ben Yehuda è chiamato il padre dell’ebraico moderno
Eliezer Ben Yehuda a Gerusalemme, 1912 circa.
Nel mondo si parlano oggi circa settemila lingue.
Il numero è in costante calo, dato che circa un quarto di esse è parlata da meno di centomila persone e rischia seriamente di scomparire nell’arco di poche generazioni. L’Unesco stima che circa duemilacinquecento lingue siano oggi a rischio di estinzione, un effetto particolare della globalizzazione che crea una sincera sofferenza nei linguisti.
C’è però un caso, unico al mondo, in cui una lingua che centocinquant’anni fa aveva un numero di parlanti prossimo allo zero e oggi ne ha circa otto milioni. Gode di ottima salute e ha percorso la strada inversa a quella di centinaia di altri idiomi.
Quasi tutte le città, in Israele, hanno una strada dedicata a Eliezer Ben Yehuda, chiamato «il padre dell’ebraico moderno». Ben Yehuda ha riscoperto, inventato o ricreato le parole che oggi si usano in ebraico per chiamare i giornali, la pistola, il gelato, i batteri, la frittata, la bambola, persino i mobili e i calzini o concetti più astratti come la cerimonia, l’identità o la migrazione. Per decenni la sua vita fu dedicata allo scopo di far tornare l’ebraico una lingua viva e parlata in Palestina, ben prima che nascesse lo stato di Israele con la sua storia tragica e travagliata.
La nascita di una lingua
La prima menzione del popolo ebraico è in una stele di granito nero del 1207 a.C., oggi al museo egizio del Cairo, che celebra le vittorie del faraone egiziano. Gli ebrei vi compaiono, senza molto rilievo, come uno dei tanti popoli che Merneptah ha sottomesso durante una spedizione nella terra di Canaan, l’antico nome del territorio che corrisponde più o meno a Israele e Palestina.
I faraoni, infatti, dominarono l’intera terra di Canaan per tutto il periodo in cui, secondo il racconto biblico, il popolo eletto si dedicò alle guerre di conquista che lo avrebbero portato a dominare su tutto il paese. I re israeliti elencati nei libri biblici erano vassalli dell’Egitto, un fatto supportato da una miriade di prove archeologiche, mentre non ce n’è alcuna dell’esodo di massa dalla terra dei faraoni e della successiva conquista, come raccontata dalla Bibbia.
Come per molti altri popoli, le prime fasi della storia del popolo ebraico – e quelle decisive per la narrazione delle proprie origini – sono avvolte nell’incertezza e oggetto di grandi discussioni.
A quel passato nebuloso risale anche la nascita della lingua ebraica, inizialmente un dialetto dell’antica lingua cananea, nella seconda metà del II millennio a.C. Dal punto di vista della classificazione, l’ebraico è una delle circa settanta lingue cosiddetti semitiche, un numero che comprende idiomi vivi tutt’oggi, come l’arabo e l’etiope, o morti, come il babilonese, l’assiro e il fenicio.
Si pensa che l’ebraico abbia smesso di essere una lingua viva a tutti gli effetti al tempo dei Maccabei, intorno al III secolo dopo Cristo, venendo sostituito dall’aramaico e dal greco. Ma il fatto che rimanesse la lingua dei testi sacri e della preghiera ne assicurò una tenace sopravvivenza, soprattutto per iscritto. Non morì del tutto, insomma; si limitò al culto, ai testi religiosi e a qualche sporadico utilizzo artistico, mentre gli ebrei della Diaspora presero a parlare la lingua della terra in cui si trasferirono.
In Germania, durante il Medioevo, gli ebrei non facevano eccezione, ma scrivevano il tedesco del tempo con i caratteri ebraici. Quando molti di loro furono costretti a trasferirsi in Polonia e in Russia, si portarono con sé anche la lingua. Isolati nei ghetti cittadini e negli shtetl, la loro parlata non passò attraverso i cambiamenti che avrebbero dato vita al tedesco moderno, ma si mescolò via via con parole prese in prestito da altre lingue e dall’ebraico della Bibbia. La lingua prese il nome di yiddish, e fino alla metà del Novecento fu quella parlata dalla maggioranza degli ebrei europei.
L’illuminismo ebraico
I primi tentativi di far rinascere l’uso dell’ebraico come lingua viva appartengono al movimento illuminista ebraico, l’Haskalah. A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, alcuni intellettuali pensarono che la comunità ebraica europea dovesse tornare alla purezza dell’ebraico biblico per avere una lingua comune.
Il compito degli autori dell’Haskalah non era facile: spesso dovevano ricorrere a lunghe perifrasi per non deviare dal limitato lessico della Bibbia, mentre piegare agli usi moderni quella lingua costringeva a soluzioni creative sul piano della grammatica. Molti, invece delle perifrasi, non si facevano problemi a importare parole dalle lingue contemporanee, in particolare il tedesco. Ma tutti, dal romanziere Abraham Mapu all’autore e traduttore Mendele Mocher Seforim, si rendevano conto che il lessico biblico era insufficiente.
La questione linguistica si intrecciava con quella del cosiddetto sionismo: gli ebrei erano profondamente divisi tra chi pensava che anche il proprio popolo avesse diritto a una “nazione” e chi invece credeva che il proprio futuro stesse in una maggiore assimilazione con le società europee. Al di fuori dei circoli intellettuali, comunque, alla fine dell’Ottocento l’ebraico era utilizzato quasi esclusivamente come lingua della preghiera, non molto diversamente dal latino fino agli anni Sessanta. Poteva occasionalmente essere usata come lingua franca tra due persone che non ne avevano un’altra in comune, ma nessuno la utilizzava per la comunicazione quotidiana.
Fatti e parole
Sul dibattito arrivò improvvisamente un articolo pubblicato nel 1879 su un importante mensile viennese rivolto alla comunità ebraica e chiamato Hashahar (“l’alba”). Il titolo era “Una domanda importante” e l’autore, che si firmava con lo pseudonimo di Eliezer Ben Yehuda, era uno sconosciuto e povero studente di origini lituane. Aveva ventun anni ed era un uomo dai capelli chiari, gli occhi marroni e l’aria fragile del malato cronico. A Parigi, dove si era trasferito per studiare medicina, aveva scoperto di avere la tubercolosi.
Nel suo articolo, Ben Yehuda difendeva con grande forza la causa del sionismo e la necessità per gli ebrei di avere una sola terra e una sola lingua. Le sue idee ravvivarono il dibattito pro e contro la sua posizione radicale, fin quando lo studente non decise di abbandonare tutto e partire con pochi miseri risparmi alla volta della Palestina. Avrebbe fatto seguire l’esempio alle parole.
Ben Yehuda era nato Eliezer Perlman a Luzhki, allora parte dell’impero dello zar Alessandro II (oggi in Bielorussia). Notando la sua intelligenza e il suo amore per i libri, i suoi genitori volevano che diventasse un rabbino e per questo lo avviarono nel percorso educativo-religioso tipico degli ebrei dell’est Europa. Ma alla yeshiva, la scuola rabbinica, venne in contatto per la prima volta con le idee dell’Illuminismo ebraico e il pensiero, considerato da molti sovversivo, che la lingua della Bibbia potesse tornare ad essere una lingua viva.
Quando salpò dal Cairo alla volta di Giaffa, insieme a sua moglie Deborah, aveva pubblicato da poco l’articolo che lo aveva reso conosciuto e deciso di cambiare il suo cognome in Ben Yehuda, che si era scelto per ricordare il padre – il cui nome yiddish, Leib, corrisponde a Yehuda in ebraico – ma anche la terra di Giuda. Arrivò a Gerusalemme nell’estate del 1881.
Nella piccola comunità ebraica di Gerusalemme, lontana anni luce da Parigi non solo geograficamente, la giovane coppia dovette abbracciare in fretta gli usi e i costumi dell’ortodossia religiosa ashkenazita. Gli ebrei in Palestina, allora una remota provincia dell’impero ottomano, erano poche decine di migliaia di persone, quasi tutte a Gerusalemme.
Erano una comunità assai povera, che si manteneva per lo più con le offerte che inviavano gli ebrei di tutto il mondo a chi era rimasto a pregare nella città santa, l’antica capitale del regno di Israele. E poi erano un gruppo diviso, lungo le linee tracciate dalle loro terre d’origine: Russia, Germania, Francia, Inghilterra. Tra le molte cose che li separavano, c’era sicuramente anche la mancanza di una lingua in comune.
Eliezer Ben Yehuda cominciò la sua nuova vita facendo il giornalista; poi l’Alliance Israélite Universelle aprì una scuola a Gerusalemme e gli chiese di fare l’insegnante. Lui disse che avrebbe accettato esclusivamente se avesse potuto insegnare solo in ebraico, permesso che gli venne accordato. Sui giornali e nelle aule, Ben Yehuda prese a lavorare per realizzare il suo sogno di resuscitare la lingua ebraica.
Ma l’idea non venne ben accolta da tutti. Secondo molti, utilizzare la lingua ebraica per la quotidianità e non per scopi religiosi era irrimediabilmente blasfemo, un giudizio che aveva molto seguito anche in Europa. Sulla strada per la scuola, a volte l’insegnante veniva preso a sassate.
La prima madre ebraica
Quando la moglie rimase incinta del loro primo figlio, Eliezer Ben Yehuda la convinse che il piccolo sarebbe cresciuto sentendo parlare unicamente ebraico per i suoi primi anni di vita. Nel 1882 nacque il bambino, a cui venne dato il nome Ben Zion, e Deborah diventò «la prima madre ebraica in duemila anni», secondo la formula impiegata spesso dal marito.
Una cura maniacale venne impiegata dalla coppia per impedire che il primogenito sentisse anche una sola frase in una lingua diversa dall’ebraico. Le storie, o le leggende, intorno a questo bambino sono tantissime: dal divieto alla moglie di canticchiare ninnananne in russo al permesso accordato a una donna del luogo di aiutare la moglie nei giorni successivi al parto, all’unica condizione però che non pronunciasse una sola parola, poiché non sapeva l’ebraico.
L’idea venne salutata con scetticismo anche dagli stessi amici e protettori di Ben Yehuda, alcuni dei quali pensarono che il bambino sarebbe cresciuto con qualche ritardo nello sviluppo. Ben Zion Ben Yehuda cominciò a parlare piuttosto tardi, dopo i due anni, ma quando lo fece parlava un perfetto ebraico – e solo ebraico, per la gioia dei suoi genitori.
Nel frattempo, la decisione di Ben Yehuda di trasferirsi in Palestina stava venendo emulata sempre più spesso. I pogrom dell’Europa orientale del 1881-1882 portarono migliaia di ebrei a emigrare. Alcuni di loro si imbarcarono verso la Palestina, mentre l’ideologia sionista convinceva alcuni giovani idealisti come Ben Yehuda a scegliere la stessa destinazione del porto di Giaffa.
Tra il 1881 e il 1903, circa 28 mila persone costituirono la prima migrazione consistente e concentrata nel tempo verso la Palestina, quella che la storia israeliana chiama “la prima aliyah”, dalla parola ebraica che significa ‘ascesa’. Altre quattro sarebbero seguite fino al 1939; tra il 1948 e il 1951, e dal 1968 a oggi, lo stato di Israele ha avuto un ministero specificamente dedicato all’aliyah.
Il numero di adepti al credo linguistico di Ben Yehuda, nel frattempo, cresceva. L’uomo fondò insieme a un piccolo gruppo di intellettuali di Gerusalemme l’Esercito per la Difesa del Linguaggio, che si proponeva di utilizzare solo l’ebraico in ogni occasione pubblica e privata – e di riprendere, per strada o al mercato, chi avessero sentito parlare una lingua differente. Alcuni insegnanti presero a insegnare la lingua ebraica parlando ebraico, un altro passo decisivo per la diffusione della lingua.
Poco tempo dopo la nascita del primo figlio Ben Yehuda si convinse che mancava uno strumento fondamentale per la sua missione linguistica, uno strumento che deve esistere in tutte le lingue che si rispettino: un dizionario. Decise che avrebbe intrapreso il compito di crearne uno aggiornato per la lingua ebraica da solo, buttandosi in un’impresa colossale che lo avrebbe impegnato per cinquant’anni e letteralmente fino al suo ultimo respiro. La prima parola che creò fu millon, che significa, molto propriamente, “dizionario”, e che sostituiva sefir millim, calco dal tedesco W örterbuch (“libro di parole”).
Nel frattempo, continuò la sua attività di giornalista. Fino all’inizio della Prima guerra mondiale avrebbe pubblicato e diretto tre diversi giornali. Soprattutto nei primi anni, non si limitava alle rubriche linguistiche che accompagnavano la sua impresa principale, ma si lasciava andare a editoriali di fuoco che non risparmiarono diversi bersagli della comunità ebraica di Gerusalemme.
In difficoltà con l’affitto, si lanciò in un’invettiva contro i grandi proprietari immobiliari cittadini; altro bersaglio era l’establishment della comunità che gestiva le offerte dall’estero mantenendola arretrata, bigotta e dipendente dall’assistenza esterna.
Crescendo nella fama e nell’ossessione per la sua missione autoimposta, Ben Yehuda venne soprannominato nella comunità ebraica di Gerusalemme Ha-Apikoros, ovvero “l’eretico”: ironia della sorte, con una parola presa in prestito dal greco. E così si creò un altro aspetto fondamentale della sua leggenda: quello di essere in grado di farsi nemici con molta maggior facilità rispetto agli amici.
Il dizionario.
Nel campo più quieto della lessicografica, il modo di procedere di Ben Yehuda consisteva nell’individuare la parola di cui l’ebraico aveva ancora bisogno, scartare qualche termine in uso nel caso non fosse convincente o non sufficientemente “semita” – magari perché un prestito da qualche lingua europea – e riscoprire un candidato più convincente pescando da un enorme bacino formato dalla letteratura ebraica di tutte le epoche, dalla Bibbia agli antichi testi religiosi e alla produzione artistica successiva.
Prova dell’antichità e dell’appropriatezza del termine era spesso un confronto con l’arabo, a cui si ricorreva, adattandolo, anche per i casi in cui la letteratura non fornisse un equivalente convincente. Per i suffissi e la morfologia si ricorreva spesso all’aramaico, la lingua che probabilmente era parlata da Gesù. Le parole che nella Bibbia comparivano poco spesso venivano dotate di un preciso significato, in modo da poter entrare nell’uso.
Le scelte di Ben Yehuda si sono rivelate spesso fortunate. Per esempio, nell’ebraico moderno, il mobile si chiama rahit, ma più spesso è usato al plurale, rehitim. Fu introdotta da Ben Yehuda nel 1891, che la usò di passaggio in un articolo che parlava di cronaca locale. La frase suonava così: «nella grande sede della società russa hanno fatto grandi piani per accogliere l’importante visitatore e hanno speso 25 mila franchi sui rehitim di una sola stanza».
A rehitim si accompagnava una nota a pié di pagina che spiegava dove avesse scovato il termine, che nella Bibbia compare in un singolo versetto del primo capitolo del Cantico dei cantici: «di cedro sono le travi della nostra casa, di cipresso il nostro soffitto». In arabo c’era un termine simile, un pò desueto, che poteva essere usato anche per i mobili, rahat, e questo confortava Ben Yehuda sull’antichità della parola. E così l’ebraico ebbe il suo termine per chiamare i mobili.
Non tutte le parole che si usano oggi in Israele per indicare oggetti moderni sono state introdotte da Ben Yehuda, naturalmente. Le ondate di immigrati dall’Europa portarono con loro i propri prestiti e neologismi dalla tenace resistenza, mentre nella stessa Palestina le discussioni linguistiche portavano a discussioni e a soluzioni diverse. Nel nord del paese, ad esempio, si diffuse fino al 1920 un sistema di pronuncia alternativo, promosso da I. Epstein e altri insegnanti di lingua.
Se alcune proposte di Ben Yehuda non ebbero fortuna, molte altre sì – esistono brevi dizionari che le elencano, ad esempio questo – mentre altri si aggiungevano in quegli anni nel compito di trovare il lessico della lingua rinascente.
La parola ebraica per “velluto”, ad esempio – ketifa – fu scelta da un altro dei primi insegnanti di ebraico in Israele, David Yudelevich. Quando si trovò a tradurre nella “nuova” lingua il Don Chisciotte di Cervantes, nel 1894, molte parole mancavano all’appello, e una di queste era l’equivalente di “velluto”. Yudelevich si rivolse all’arabo, credendo di aver trovato il sinonimo esatto per la stoffa appunto in ketifa.
Ma katifat in arabo non significa “velluto”, bensì la pianta dell’amaranto, e viene usata a volte anche per indicare un vestito di buona qualità. Yudelevich non si accorse della sottigliezza e la sua proposta, usata per la prima volta per le gesta del cavaliere della Mancia, passò nel dizionario di Ben Yehuda, e di lì all’uso corrente.
Nel 1922, l’amministrazione britannica della Palestina riconobbe l’ebraico tra le lingue ufficiali.
Negli anni della sua impresa linguistica, Ben Yehuda dovette affrontare anche l’opposizione delle autorità ottomane, che chiusero e censurarono più volte le sue pubblicazioni. Il primo volume del suo dizionario vide la luce solo nel 1908, a Berlino, dopo diversi tentativi falliti. Nel frattempo, Ben Yehuda fondò e promosse una miriade di associazioni dedicate alla causa sionista e naturalmente alla diffusione della lingua ebraica.
La Prima guerra mondiale interruppe le pubblicazioni con il quinto volume, l’ultimo che Ben Yehuda avrebbe visto da vivo. La tubercolosi, di cui Ben Yehuda aveva sofferto per gran parte della sua vita, lo uccise il 16 dicembre 1922, anni prima della nascita dello stato di Israele.
Quello stesso anno, l’amministrazione britannica della Palestina riconobbe l’ebraico come una delle lingue ufficiali del paese. Il processo di diffusione era ancora in corso e così anche la stessa “creazione” della lingua e le animate discussioni intorno ad essa (che non sono concluse neppure oggi): la prima grammatica dell’ebraico di Israele è del 1934.
Ma nel frattempo il dizionario di Ben Yehuda venne continuato nei decenni successivi dai professori dell’università di Gerusalemme M.H. Segal e N.H. Tur-Sinai, fino al diciassettesimo e ultimo volume, pubblicato nel 1959. La sua lunga eredità nella storia e nella cultura ebraica è testimoniata da molte celebrazioni e riconoscimenti ufficiali in Israele, ma prima ancora nelle parole pronunciate ogni giorno da milioni di persone.
http://www.linkiesta.it/eliezer-ben-yehuda-padre-ebraico-moderno
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