Se è ancora noiosa, allora otto. Poi sedici. Poi trentadue.
Alla fine scoprirai che non è noiosa per niente
John Cage
assolutamente d'accordo.
Provare per credere. Ogni musicista lo sa
Mi resi conto che non esiste una reale e oggettiva separazione tra suono e silenzio, ma soltanto tra l'intenzione di ascoltare e quella di non farlo.
John Milton Cage (1912 – 1992)
Ora non ho più bisogno di un pianoforte:
ho la 6th Avenue con tutti i suoi suoni.
John Milton Cage (1912 – 1992)
John Cage: il silenzio non esiste
Ripercorriamo uno dei concetti cardine dell’opera di John Cage:
l’uso del silenzio, importante quanto le note.
Ma a pensarci bene, veramente silenzio non è mai.
In qualsiasi situazione, persino dentro a una camera anecoica, si può udire qualcosa…
Scritto da Paolo Tarsi | domenica, 28 dicembre 2014
Il 18 maggio 1973, in Texas, dal palcoscenico di un liceo di Dallas, uno studente proclamò:
“Solo per iniziare a capire la musica di John Cage, è necessario esaminare alcune delle sue idee e filosofie più importanti, a prescindere dal fatto che le si condivida o no. Prima di tutto, c’è il suo uso del silenzio. Per Cage, il silenzio è una parte integrante di un brano musicale, che ha la stessa importanza delle note suonate. Fra l’altro, vorrei ricordarvi che il silenzio totale non esiste se non in un vuoto pneumatico: ovunque vi siano persone o qualsiasi forma di vita vi sarà qualche tipo di suono.
Nei suoi lavori, dunque, Cage non usa mai il silenzio assoluto, ma semmai le varietà di suono generate dalla natura o dal traffico, che normalmente passano inosservate e non vengono considerate musica…”
(da Il silenzio non esiste, di Kyle Gann).
Perché secondo John Cage i rumori “sono utili alla nuova musica quanto le cosiddette note musicali, per il semplice motivo che sono suoni”, come scrive in Silenzio, il suo libro cult pubblicato nel 1961. E ancora: “la musica è in primo luogo nel mondo che ci circonda, in una macchina per scrivere, o nel battito del cuore, e soprattutto nei silenzi. Dovunque ci troviamo, quello che sentiamo è sempre rumore. Quando lo vogliamo ignorare ci disturba, quando lo ascoltiamo ci rendiamo conto che ci affascina”.
Il più delle volte però, a differenza dello studente texano, i frequentatori abituali delle sale da concerto si ritrovarono letteralmente a gambe all’aria di fronte a novità di tale portata, alle quali assistevano del tutto inermi, così come i rappresentanti delle più assopite gerarchie musicali. Cambiamenti così significativi scompaginarono profondamente il mondo musicale contemporaneo, con trasformazioni tali da delineare un vero e proprio spartiacque nella storia della musica, stabilendo un prima e un dopo 4’33’’.
Come spiega il compositore e musicologo Kyle Gann – critico per vent’anni del Village Voice – nel suo libro Il silenzio non esiste (Isbn Edizioni):
“indirettamente, 4’33’’ guidò gli sviluppi che generarono un nuovo stile più semplice e accessibile, il minimalismo. Come locus di ermeneutica storica, 4’33’’ può essere considerato la conseguenza dell’esaurimento della tradizione classica ipertrofica che lo aveva preceduto, uno sgomberare il terreno che permise a una nuova era musicale di ripartire da zero”.
Tutto questo accadeva in un momento in cui, per i compositori americani, il percorso verso un’autenticità nazionale era tutt’altro che delineato, i modelli formali erano ancora quelli ereditati dall’Europa, e mancava una chiara traccia sonora americana da cui attingere.
E a proposito delle funzioni del silenzio durante un concerto pubblico, Giancarlo Cardini osserva come “se le sperimentiamo invece da soli, per esempio in casa ascoltando su disco, supponiamo 4’33’’ o un qualunque altro pezzo di Cage molto ‘silenzioso’ (per esempio Waiting), o di altri autori, la percezione che se ne ha appare diversa. L’esperienza domestica del silenzio ‘ascoltato’ in un disco si risolve, almeno per me, in grandissima noia, mentre quella vissuta nei luoghi deputati alla musica sprigiona una grande tensione” (da Oltre il Silenzio. La musica dopo John Cage, a cura di Michele Porzio, Auditorium Edizioni).
Mario Brunello nel suo Silenzio (Bologna, Il Mulino, 2014) fa notare invece come
“da una composizione musicale quale 4’33’’ e dalla sua esecuzione ci si aspetta una rappresentazione sonora di un pensiero e di una forma. Ci si trova invece davanti a un’azione che non si compie attraverso i consueti canoni, ma che mette in attesa, sospende un significato conosciuto, quello sonoro, per rivelare un silenzio sconosciuto. Un’assenza di suono-rumore quasi totale, che dapprima lascia spazio a uno smarrimento comune, a un silenzio immobile, per poi stemperarsi e lasciare che le reazioni più disperate prendano coraggio. Uno spazio in cui il silenzio, ovvero l’accettazione dei suoni esistenti, diventa musica e a cui solo l’orologio e il tempo prescritto dal compositore mettono fine”.
Il brano, di cui furono realizzate tre versioni piuttosto differenti, veniva presentato per la prima volta il 29 agosto 1952 a Woodstock, New York, ‘eseguito’ da David Tudor.
La partitura originale usata nel 1952 per la première del lavoro andò perduta, così il pianista la ricostruì per ben due volte intorno al 1989 in base ai suoi ricordi, producendone due versioni leggermente diverse.
Fu grazie agli esperimenti fatti all’interno della camera anecoica se Cage arrivò a proclamare che il silenzio non esiste: “dopo essere andato a Boston mi recai in una camera anecoica dell’università di Harvard. Tutti quelli che mi conoscono sanno questa storia. La ripeto continuamente.
Comunque, in quella stanza silenziosa udii due suoni, uno alto e uno basso.
Così domandai al tecnico di servizio perché, se la stanza era tanto a prova di suono, avevo udito due suoni.
‘Me li descriva’, disse. Io lo feci. Egli rispose: ‘Il suono alto era il suo sistema nervoso in funzione, quello basso il suo sangue in circolazione’”.
Cage così concluse: “Dunque, non esiste una cosa chiamata silenzio. Accade sempre qualcosa che produce suono”.
Paolo Tarsi
http://www.artribune.com/2014/12/john-cage-il-silenzio-non-esiste/
Funghi e Zen: casualità e complessità nella musica di John Cage
Di Paolo Grassi pubblicato il 24/10/2015 alle 09:01 [...]
Inquadrare il personaggio non è operazione scontata. Definirlo un compositore statunitense è senz’altro riduttivo. Il suo lavoro ebbe infatti importanti ripercussioni non solo in ambito musicale, ma anche nello sviluppo di altre forme artistiche, come la pittura, la danza e il teatro.
Sarà in seguito a un viaggio in Europa, compiuto da giovane con l’idea di diventare scrittore, che Cage inizierà a interessarsi alla pittura e alla musica contemporanea. Tornato poi in America ed entrato in contatto con Schönberg, ne diventerà suo allievo. Dedicherà la sua ricerca all’utilizzo di rumori e percussioni fino ad approdare a un metodo di composizione casuale e all’utilizzo innovativo del silenzio in musica.
Due le grandi passioni che, più o meno direttamente, lo influenzeranno nel suo lavoro:
i funghi e il Buddhismo Zen.
Cage fu micologo, tanto non solo da fondare con degli amici la New York Mycological Society, ma addirittura da partecipare nel 1959 a Lascia o Raddoppia? in veste di esperto sul tema.
Riguardo all’influenza dei funghi sulla sua vita, egli arriverà perfino a dire:
«I funghi mi hanno permesso di capire Suzuki [suo maestro Zen] […]
Più li si conosce e meno ci si sente sicuri sulla loro identità:
ciascuno è se stesso… i funghi danno scacco matto ai nostri tentativi di classificazione e di indagine».
[1] J. Cage, Per gli uccelli, conversazioni con Daniel Charles, Testo e Immagine, Torino 1999, pp. 204-205.
Cage, appunto, abbraccia i principi dello Zen e li applica alla propria ricerca artistica.
Come lo Zen porta all’accettazione della non organizzazione, così la musica per Cage deve portare all’accettazione dei suoni in quanto tali.
È necessario cioè lasciare che i suoni semplicemente “siano”, scaturiscano da sé.
Di John Cage, più che la micologia, è nota la passione per la musica "concreta", quella che dal passaggio di un treno o da un volo di campane trae una sinfonia. Per la rubrica Rumori Quotidiani John Cage ha messo su un complesso formato da un pianoforte, due radio, un frullatore, un innaffiatoio, un fischio, un gong, un bollitore
(dal Radiocorriere-Tv n°7, 15-21 febbraio 1959). Fonte: Johncage.it
L’estetica di Cage non corrisponde tuttavia a quella Zen, che si basa su un lavoro minuzioso dell’autore sulla sua opera d’arte. Cage, al contrario, ne ricava un’interpretazione personale.
La sua è musica-processo, gioco senza scopo composto da suoni casuali – come in natura – opposta a una musica-oggetto, in cui il materiale sonoro è sottomesso alla volontà dei compositori.
Imitando attraverso la musica l’operare della natura il mondo si apre all’individuo, che può a quel punto compenetrarlo. La musica assolve perciò a una funzione pedagogica, preoccupandosi del rapporto tra soggetto e suo contesto.
Per Cage la musica, al pari del ready-made del suo amico intimo Marcel Duchamp, è qualcosa a disposizione: è questione di riconoscerla e assemblarla. Ma come compiere quest’assemblaggio?
È così che Cage arriva all’elaborazione di un metodo di composizione attraverso la casualità, la composizione indeterminata, che sfocerà nell’opera Music of Changes (1951), inspirata dalla lettura del libro cinese I Ching, il libro dei mutamenti. Il metodo consiste nell’utilizzo dell’I Ching come una sorta di calcolatore, creando in tal modo una compenetrazione e una non-ostruzione di suoni.
Se la responsabilità dell’artista è imitare la natura nel suo modo di agire, la composizione indeterminata attua questo principio. L’arte non deve proporsi di trasformare il mondo, già di per sé in continuo cambiamento e divenire. Essa deve piuttosto tentare di evitare facili riduzionismi per avvicinarci al reale in quanto processo, per restituirci la sua complessità.
Come ben noto, il caso tornerà ripetutamente nell’opera di Cage, a livello non più solo di composizione, ma anche di interpretazione. Qui si inserisce la ricerca di Cage sul silenzio. Muovendo da un utilizzo espressivo del silenzio, Cage approda successivamente a una più radicale conclusione, ossia l’impossibilità dello stesso.
Fondamentale da questo punto di vista la sua esperienza all’interno di una camera anecoica.
È in quello spazio che Cage comprende come il silenzio sia sempre impossessato da qualcos’altro:
un colpo di tosse, uno scricchiolio, un rumore di sottofondo, un evento casuale.
Il silenzio è in sé suono e adoperarlo significa far ricorso al caso.
Il procedere del silenzio coincide con il ritrarsi del compositore-creatore:
«Lo scopo della musica è acquietare la mente, rendendola così suscettibile alle influenze divine»,
[2] J. Cage, An Autobiographical Statement, in “Southwest Review”, 1991.
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L’interprete diventa compositore, il pubblico interprete, il compositore un ascoltatore di suoni a lui preesistenti. Tutto ciò si concretizza in una delle opere più famose di Cage: 4’33’’ (1952), quattro minuti e trentatré secondi di assoluto silenzio, a questo punto solo erroneamente definibile come tale.
Tuttavia, per Cage dare importanza al caso non significa assolutizzarlo.
Come si è costretti ad agire su determinati aspetti della vita, così in musica ogni cosa non può essere abbandonata completamente alla casualità. Un metodo di composizione, seppur indeterminato, è ancora presente.
L’estetica musicale di Cage avrà importanti ripercussioni anche sulla sua attività come insegnante.
Cage elabora e mette in pratica alcuni principi pedagogici basati sul caso.
L’insegnamento pone Cage di fronte a una grossa contraddizione:
come conciliare i principi Zen di rinuncia speculativa con un concetto di educazione occidentale basato, al contrario, sulla delineazione di scopi e obiettivi precisi?
Egli non risolve questo dilemma svuotando la sua educazione di qualsiasi contenuto e nemmeno mettendo in atto degli interventi totalmente caotici. Piuttosto fa propri alcuni principi pedagogici moderni, rielaborandoli personalmente, riuscendo così nel compito di avvicinare istanze apparentemente distanti.
Cage cerca innanzitutto di comprendere le potenzialità e le capacità di ogni suo singolo studente, ponendosi egli stesso all’interno di quel processo, come semplice allievo.
All’Università di California Cage tiene un corso che non tratta nessun particolare argomento. Costituisce gruppi di lavoro secondo operazioni casuali, favorendo la messa in circolo di informazioni. Tutto ciò si rispecchia altresì nella visione di Cage relativa alla struttura universitaria. Abbracciando le tesi dell’intellettuale Richard Buckminster Fuller, auspica la costituzione di atenei come spazi liberi, senza pareti, nei quali poter disporre delle più svariate attività. Lo studente dovrebbe essere dotato della massima libertà di scelta e avere la possibilità di non smettere mai di studiare. In un simile contesto il carattere di apertura e l’arte dell’ascolto diventano essenziali.
La ricerca di Cage influenzerà altri campi artistici, primi fra tutti il teatro.
Nel 1952 egli organizza uno “spettacolo” interdisciplinare con forti elementi d’improvvisazione presso il Black Mountain College nei pressi di Ashville, in Carolina del Nord. Musica, danza, teatro, cinema si mescolano in una performance innovativa e indeterminata.
Come ogni suono esprime un possibile centro del mondo, così all’interno di quel particolare evento ogni linguaggio e ogni soggetto devono poter essere a loro volta centro di ciò che sta loro intorno.
In fondo lo stesso compositore terrà a precisare che:
«La musica era già teatro. E il teatro non è che un’altra parola per designare la vita».
[3] J. Cage, Per gli uccelli, conversazioni con Daniel Charles, Testo e Immagine, Torino 1999 , pp. 177.
Seguendo il ragionamento che Marco De Marinis compie nel suo testo Il Nuovo teatro, si può notare come alcuni aspetti della sperimentazione condotta da Cage e i suoi collaboratori, ossia la coesistenza paritaria di diversi linguaggi, la presenza di elementi casuali, la diversa organizzazione dello spazio che vede abolire la classica separazione tra pubblico ed attori, torneranno in tutta la successiva ricerca teatrale del Novecento.
[4] M. De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Bompiani, Milano 1987.
Questa continuità è garantita inoltre dagli scambi diretti che vengono ad instaurarsi tra gli artisti coinvolti (tra gli altri: David Tudor, pianista; Merce Cunningham, coreografo e ballerino; Robert Rauschenberg, pittore) e molti di quelli che diventeranno i massimi esponenti dell’avanguardia teatrale sviluppatasi dopo gli anni Cinquanta: primi fra tutti i fondatori del Living Theatre Judith Malina, collaboratrice in più occasioni di Cage e Julian Beck, il quale inizierà la sua carriera artistica come pittore (influenzato da Pollock) e collaborerà in seguito proprio con Merce Cunningham. A sua volta Allan Kaprow, che per primo nel 1959 introduce ufficialmente il termine happening, fu allievo di Cage. Egli, più di ogni altro, svilupperà in diverse direzioni questo tipo di linguaggio.
John Cage è tutto questo, artista poliedrico che ha avuto il principale merito di avvicinare l’ascoltatore/spettatore alla complessità e alla mutevolezza del reale, focalizzando la propria attenzione sull’importanza che il caso riveste nella quotidianità.
http://www.lavoroculturale.org/musica-di-john-cage/
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