domenica 25 agosto 2013

Marcuse. L'uomo a una dimensione. Ripeto: la follia del tutto giustifica le follie particolari e trasforma i delitti contro l'umanità in un'impresa razionale. Quando il popolo, stimolato ad arte dalle autorità pubbliche e private, si prepara a vivere in regime di mobilitazione generale, esso mostra d'esser ragionevole non soltanto a causa della presenza del nemico, ma pure a causa delle possibilità di investimento e d'occupazione offerte dall'industria e dalle attività di divertimento. Anche i calcoli più folli appaiono razionali: annientare cinque milioni di persone è preferibile che non annientarne dieci milioni, o venti, e così via. È futile obbiettare che una civiltà che giustifica la propria difesa con un calcolo del genere proclama la propria fine.


«Ripeto: la follia del tutto giustifica le follie particolari e trasforma i delitti contro l'umanità in un'impresa razionale. Quando il popolo, stimolato ad arte dalle autorità pubbliche e private, si prepara a vivere in regime di mobilitazione generale, esso mostra d'esser ragionevole non soltanto a causa della presenza del nemico, ma pure a causa delle possibilità di investimento e d'occupazione offerte dall'industria e dalle attività di divertimento. Anche i calcoli più folli appaiono razionali: annientare cinque milioni di persone è preferibile che non annientarne dieci milioni, o venti, e così via. È futile obbiettare che una civiltà che giustifica la propria difesa con un calcolo del genere proclama la propria fine.»
Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione (One dimensional man. Studies in the ideology of advanced industrial society), 1964.



Distruggete tutto ciò in cui avete creduto finora, buttate a mare tutto ciò che fino ad ieri rappresentava il basamento della vostra vita: vi sembrava granito e non era che pietra pomice, vi sembrava eterno ed è invece friabile e inutile.
Herbert Marcuse




Se c'e' un filosofo con il quale simpatizzo di una maniera speciale è Herbert Mancuse...perchè i suoi concetti mi affascinano...specialmente quelli in cui tratta del lavoro...che secondo Lui e secondo me... corrisponde all'alienazione della Società contemporanea...e dice esattamente che ci vuole una rivoluzione che vada contro il sistema capitalistico/consumista in quanto nel lavoro l'uomo è sottomesso alle regole e viene continuamente allontanato dal suo essere-se-stesso e deviato per altri verso un obbiettivo differente al proprio da questa negatività del lavoro nella Società contemporanea deriva appunto la necessità del compito che si deve porre l'uomo: quello di liberare il lavoro così come è inteso attraverso la Rivoluzione.



UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BARI
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

TESI DI LAUREA
IN STORIA DELLA FILOSOFIA

HERBERT MARCUSE:

DALLA RIVOLUZIONE ALL’UTOPIA
Relatore:
Chiar.mo Prof. COSTANTINO ESPOSITO
Correlatore:
Chiar.mo Prof. FRANCESCO M. FISTETTI

Laureando FABIO FINO
ANNO ACCADEMICO 1997 - 98

Ringrazio
Introduzione 
[pag. 1 of original thesis; web version prints on ca. 75 pages]

Capitolo I
1.1 Marcuse ed il suo tempo pag. 5
1.2 La scuola di Francoforte pag. 16
1.3 Heidegger ed il giovane Marcuse pag. 27
1.4 Da Friburgo all’esilio pag. 44

Capitolo II
2.1 a) La critica al nazismo 
pag. 69

2.1 b) La nuova interpretazione del pensiero hegeliano pag. 109
2.2 Freud e la tecnologia come strumento di condizionamento pag. 126
2.3 La critica alla società occidentale ed al marxismo sovietico pag. 137

Capitolo III
3.1 La liberazione dalla società opulenta pag. 149
3.2 Arte, rivoluzione pag. 166



Conclusioni  pag. 184

Bibliografia  pag. 187

Opera di Marcuse 

a) Sulla Scuola di Francoforte
b) Marcuse e sa sua opera
c) Altra letteratura critica

Notes
[456 total]



Ringrazio:

i miei per aver finanziato l’impresa;
l’Innominabile per non aver (nonostante tutto) portato, nel corso della stesura di questo lavoro, più sfiga del dovuto;
Luigi P. per i testi prestati;
Bonaria “Bonnie” B. per il carteggio Marcuse – Löwith;
Tonio B. per avermi permesso di saccheggiargli la libreria;
Cristina de V. per avermi tirato su il morale;
Claudio C. per le chiacchiere, la compagnia, i tarallucci e… tutto il resto;
Alberto G. per avermi introdotto all’uso del computer;
Stefania L. per il testo di Dostoevskij;
Ruben R. per i “salvataggi” informatici.
…ancora, Grazie!

Introduzione (back to top)

XI. I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo.
(K. Marx, Tesi su Feuerbach)


Il mio incontro con l’opera di Herbert Marcuse è stato assolutamente casuale, ma per la mia attività nell’Università era – evidentemente – un passo più o meno obbligato, che era nelle cose stesse che stavo facendo.
Il primo libro del Nostro che ho letto è stato L’uomo ad una dimensione, del quale mi ha colpito la totale mancanza di fiducia nel futuro. In realtà, lì, un filo di speranza Marcuse lo ha ancora, ed emerge attraverso le parole di Benjamin che cita alla fine del libro, ma mi è parso allora – e dello stesso parere sono ancora oggi – sia una speranza dettata dalla disperazione: Marcuse ha sempre ammesso (ed in questo vi ho visto una affinità) di non essere un ottimista, ma ha avuto il coraggio di credere – con la forza della disperazione – in un futuro ed in una società migliore che gli uomini stessi potrebbero costruire con le loro mani, se lo volessero.
Fabrizio De André ha in una intervista affermato che "Un uomo senza sogni, senza utopie, sarebbe un mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura": Marcuse ha avuto il coraggio di credere in una utopia, in un sogno che – per quanto bellissimo – per i più rimane una idea balzana. Questa è la ragione per la quale, dopo aver improvvisamente raggiunto la notorietà tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta in coincidenza con l’esplodere della contestazione studentesca e la moda della militanza politica a sinistra, è stato messo da parte e dimenticato come un vecchio residuato ideologico dell’età della guerra fredda.
Penso che per Marcuse questa utopia sia la meta cui tenda tutta la sua opera. La tesi di fondo di questo lavoro è che l’intera opera di Marcuse graviti attorno alla marxiana undecima Tesi su Feuerbach. Il suo lavoro prende le mosse dalla situazione tedesca della fine del primo conflitto mondiale, nella Germania percorsa da fermenti rivoluzionari. La sua prima produzione filosofica risente di questi fermenti rivoluzionari, esprime la volontà di trasformare immediatamente in senso rivoluzionario la società. L’avvento del nazifascismo induce Marcuse, che ha sempre mantenuto nel corso della sua vita l’impegno politico, a studiare sia le cause dell’affermarsi politico di quel regime sia le modalità con le quali esso domina la società.
Tali analisi costituiranno il modello, di cui si servirà il Nostro, per interpretare il mondo della guerra fredda. Un mondo nel quale l’equilibrio del terrore garantiva – quasi a rimarcare la correttezza del vecchio detto latino “si vis pace, para bellum” – la pace, perpetua o supposta tale.
Marcuse il pessimista aveva capito – subito dopo la fine della seconda guerra mondiale – che quell’equilibrio sarebbe durato a lungo, ma aveva mantenuta una flebile speranza di cambiamento, che via via pare (se non spegnersi) allontanarsi infinitamente.
Seguiremo l’emergere della problematica rivoluzionaria nell’opera dell’Autore a partire dagli anni venti, lo vedremo confrontarsi con Hegel e con il pensiero del suo maestro Heidegger – il quale influenzò notevolmente la prima interpretazione che il Nostro diede dell’opera di Hegel.
Vedremo poi – nel secondo capitolo – l’Autore confrontarsi criticamente con il nazismo prima e con la società occidentale e quella sovietica più tardi, intuire il potenziale rivoluzionario della tecnologia e doverne constatare l’uso repressivo ed infine approdare (nell’ultimo capitolo) all’utopia della liberazione dalla società opulenta.
Emerge la figura di un filosofo politico, che è stato capace di concepire l’intero mondo come sua polis, e che ha cercato di occuparsi di essa.


CAPITOLO PRIMO

§ 1.1 Marcuse ed il suo tempo (back to top)

Nato nel quartiere signorile di Charlottenburg, a Berlino, il 18 luglio 1898 da una famiglia di ebrei assimilati[1], Herbert Marcuse era il figlio primogenito di Carl Marcuse – un industriale tessile – e di Gertrud Kreslawsky[2]. L’educazione gli fu impartita seguendo una caratteristica comune alla cultura borghese del tempo: i concetti civili, umanistici e religiosi delle culture prussiana ed ebraica gli furono presentati nella loro forma “ufficiale”, purificati dai loro contenuti sovversivi o trascendentali, che sarebbero tornati con forza alla luce solo più in avanti, nel corso della sua vita[3]. Dopo aver frequentato il liceo – periodo nel quale venne attratto dai
"writers of the French avant-garde (expecially Gide), the esoteric works of Stefan George and his circle, and the early novels and stories of Thomas Mann and especially Heinrich Mann"[4]
- conseguita la maturità fu chiamato a prestare servizio militare e distaccato presso Potsdam, lontano dal fronte, per disturbi alla vista.
Lo scoppio della prima guerra mondiale segnò la fine e dell’impero degli Hohenzollern e della seconda Internazionale. Di fatto, il periodo compreso fra il 1889 ed il 1914 (periodo nel quale nasce, si sviluppa e “muore” la seconda Internazionale), coincide perfettamente proprio con l’età dell’espansionismo coloniale tedesco: la crisi che determina la rottura all’interno del congresso di Stoccarda del 1907 fra i socialimperialisti (i cui rappresentanti erano Bebel e von Vollmar, “ispirati” da Bernstein)[5] ed gruppo il capeggiato da Lenin, da Hervé e dalla Luxemburg riflette pienamente i problemi che l’espansionismo colonialista poneva da tempo al movimento socialista, che da tempo aveva adottato le linee strategiche “attendiste” (Kautsky) ed in genere “riformiste” (Bernstein)[6] pienamente subalterne alle politiche di potenza degli stati colonialisti; ma fu soltanto con lo scoppio della guerra che questa rottura interna venne drammaticamente alla luce: contravvenendo alla mozione (presentata al congresso di Basilea del 1912) che imponeva ai partiti aderenti all’Internazionale di adoperarsi in favore della pace, il partito socialdemocratico tedesco si assunse “l’onore” di rompere l’unità dell’Internazionale, votando a favore dei crediti di guerra. L’esempio fu seguito a ruota dagli altri partiti socialisti europei: era la fine dell’Internazionale, nella quale sino all’ultimo si era riconosciuta e si era criticata la guerra per quello che era in realtà (un conflitto fra potenze imperialiste per una nuova spartizione del dominio sul mondo)[7] ma nella quale era stato impossibile superare le divisioni fra gli stati nazionali, praticare l’internazionalismo[8].
Allo scoppio della guerra Marcuse era ancora studente ma per le esigenze belliche venne arruolato nel 1916; conseguita la maturità venne inviato nelle retrovie e vi rimase per disturbi alla vista[9]. Fu soltanto fra il 1917 ed il 1918 che Marcuse si impegnò politicamente: entrò a far parte (nel 1917) – come membro passivo – dell’SPD (il Partito Socialdemocratico Tedesco) che, dopo aver votato, all’unanimità, nel 1914 a favore dei crediti di guerra (Karl Liebknecht ammise poi di aver sbagliato)[10], subì una scissione – ma continuò a votare con il governo a favore dei crediti di guerra fino quasi alla fine del conflitto, tanto da votare nel gennaio del 1917 a favore della guerra con i sommergibili, salvo poi pronunciarsi, nel luglio dello stesso anno, a favore degli accordi di pace.
Così come nei primi mesi dallo scoppio della guerra e nell’aprile del ’17, subito dopo la presa del potere dei bolscevichi in Russia, in Germania vi fu una ondata di scioperi che
"dimostrarono in modo sempre più univoco che, malgrado l’energico sostegno fornito alla guerra dai dirigenti dell’MSP e dai sindacati, gli operai erano ormai contrari alla sua prosecuzione"[11].
Gli eventi si susseguirono con rapidità: dalla campagna pacifista avviata dai leaders spartachisti (molti dei quali per questo vennero incarcerati) e dagli scioperi che nel 1918 videro insieme operai, soldati, marinai, nacquero – seguendo l’esempio della rivoluzione russa – i “consigli di operai e soldati”; a causa dell’insurrezione dei marinai della base di Kiel (28 ottobre 1918), dovuta alla sconfitta militare, il Kaiser abdicò (9 novembre) e nello stesso giorno fu proclamata la Repubblica[12].
Marcuse, ancora sottoposto alla ferma militare, fu eletto nel consiglio dei soldati di Berlino - Reinichendorf. Durò poco: egli ne uscì "poco dopo, quando si cominciò ad includervi indiscriminatamente gli ex ufficiali"[13]. L’ingresso di ufficiali legati all’impero guglielmino nei consigli rivoluzionari era il diretto frutto della politica condotta dall’SPD di Friedrich Ebert e Gustav Noske; Ebert (che venne nominato cancelliere del regno direttamente da Guglielmo II Hohenzollern a poche ore dalla sua abdicazione[14]) si era alleato con la vecchia borghesia e con l’esercito "attraverso accordi presi con il generale Groener, rappresentante dello stato maggiore"[15].
Nei primi mesi del 1919 in seguito alla rivolta berlinese degli spartachisti, che avevano assunto la testa del movimento rivoluzionario nell’intera Germania, i “corpi franchi” – corpi di volontari composti in maggioranza da ufficiali guglielmini controrivoluzionari – su mandato del ministro socialdemocratico Noske repressero nel sangue ogni sollevazione rivoluzionaria di soldati ed operai, assassinando sia Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (che erano a capo degli spartachisti, ma che avevano condannato l’azione rivoluzionaria in quanto prematura), che Kurt Eisner – presidente del consiglio della Repubblica Socialista Bavarese, la cui politica Marcuse ammirava[16] – infine, nel marzo dello stesso anno
"when the final, disperate rising of the opposition left 1,200 dead in the streets of Berlin, he had already quit the Party in disgust"[17].
Nel 1971, commentando gli avvenimenti di allora, disse di aver "assistito a Berlino alla repressione della rivoluzione: in parte fu repressione, in parte tradimento"[18].
Mentre prestava servizio militare a Potsdam, aveva avuto l’autorizzazione a frequentare le lezioni all’Università di Berlino, cui si iscrisse dopo essere stato congedato, nel 1918. Lì seguì i corsi di germanistica e di letteratura moderna tedesca – come fondamentali –, di filosofia ed economia politica – come discipline ausiliarie[19].
Da Berlino si trasferì poi a Friburgo, dove si laureò nel 1922 con una tesi sul “romanzo dell’artista nella letteratura tedesca”, lavoro che risentiva degli influssi di Lukàcs ed Hegel.
Sposatosi e tornato a Berlino, ebbe dal padre "un appartamento ed una quota di partecipazione in una impresa di libri e di antiquariato"[20]. Pur vivendo in maniera precaria (la sua rivista espressionista “Der Dreideck” era praticamente diffusa solo negli ambienti della sinistra militante), studiava privatamente Marx, Freud, la fenomenologia e la Gestalt[21].
La lettura di Essere e Tempo di Heidegger lo entusiasmò a tal punto da indurlo a trasferirsi – nel 1928 – con moglie e figlio a Friburgo per studiare e lavorare con Heidegger, che aveva preso il posto di Husserl (presso il quale Marcuse aveva studiato alcuni anni prima).
Il suo entusiasmo per Heidegger non durò a lungo: "i rapporti fra i due si fecero tesi; senza dubbio alla base di ciò c’erano le divergenze politiche"[22] fra maestro ed allievo. Sin dall’inizio, infatti, Marcuse aveva cercato di coniugare la fenomenologia – ed in particolare il pensiero heideggeriano – con il marxismo, precorrendo quindi chi (come Sartre e Merleau-Ponty) tenterà lo stesso tipo di operazione venti anni dopo.
A freddare definitivamente gli entusiasmi di Marcuse per Heidegger era stata la pubblicazione, avvenuta nel 1932, dei Manoscritti economico-filosofici di Marx. Del resto, del suo maestro aveva sempre criticato la poca concretezza, la scarsa attenzione che questi riservava alla vita ed ai problemi del singolo, reale, concreto individuo storico; ma l’allontanamento da Heidegger era iniziato tempo addietro, con la scoperta di Hegel e Dilthey.
La pubblicazione (nel 1932) de L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della fenomenicità, lavoro con il quale Marcuse aveva pensato di conseguire la libera docenza con Heidegger – e che risulta essere fortemente influenzato dal suo maestro – segnò il distacco fra i due. Non avendo più prospettive a Friburgo, Marcuse lasciò la città. Fu Husserl ad aiutare Marcuse, raccomandandolo a Kurt Riezler, economo dell’Università di Francoforte ed amico sia di Max Horkheimer che di Heidegger[23] - il quale "never read the Habilitationschrift on Hegels Ontologie"[24]. Ma se il suo lavoro non fu (mai) letto dal suo maestro, esso lo fu altrove.
Theodor Wiesengrund Adorno, nel recensirlo sul secondo numero della Zeitschrift für Sozialforschung (la rivista dell’Istituto di Francoforte), rilevò come Marcuse si fosse allontanato da Heidegger, pur rimanendone fortemente influenzato.
Leo Löwenthal venne allora incaricato da Max Horkheimer di incontrare Marcuse, a Francoforte, dopo che, 
"nel 1931, Horkheimer aveva mostrato scarsa propensione ad accogliere all’Istituto “un allievo di Heidegger raccomandato da Riezler”"[25].
Marcuse venne accolto nell’Istituto nel 1933 e subito inviato alla sua filiale di Ginevra, aperta da poco.
§ 1.2 La scuola di Francoforte (back to top)
L’idea di fondare un Istituto che si occupasse di studiare problematiche sociali ed avente un forte taglio marxista venne a Felix Weil. Egli, figlio di un mercante di grano ebreo tedesco-meridionale che aveva fatto fortuna in Argentina, aveva avuto questa idea nel 1922[26]. La sua tesi di laurea, inerente i problemi del socialismo, venne pubblicata da Karl Korsch in una collana curata dallo stesso Korsch.
Fu proprio assieme a questi che Weil organizzò una “settimana di studi marxisti” ad Ilmenau[27] cui parteciparono (fra gli altri) Lukàcs, Wittfogel, Gumperz e Pollock; non fu in seguito organizzata una iniziativa analoga perché Weil – proprio nel corso di quell’iniziativa – progettò la fondazione di un Istituto che avrebbe dovuto fornire contributi teorici al marxismo. Hermann Weil, padre di Felix, fu convinto a compiere "una donazione che rendeva 120000 marchi l’anno"[28] a favore dell’appena costituito Istituto, che avviò subito contatti con l’Università di Francoforte per avere un immediato riconoscimento istituzionale ufficiale.
L’idea di chiamarlo “Istituto per il marxismo” venne immediatamente scartata perché, sebbene fosse perfettamente rispondente alle intenzioni originali ed alla ideologia cui si riferivano i suoi fondatori[29], parve loro essere eccessivamente provocatoria – si ricorse pertanto alla definizione “Istituto per la ricerca sociale”, il cui primo direttore fu Kurt Albert Gerlach che sfortunatamente si spense a soli trentasei anni nel 1922. A succedergli fu chiamato un docente universitario viennese, Carl Grünberg, che dal 1910 era editore dell’Archivio di storia del socialismo e del movimento operaio.
L’Istituto – che sebbene fosse stato ufficialmente aperto il 3 febbraio 1923[30] venne ufficialmente inaugurato il 22 giugno 1924 – era stato creato avendo per modello l’Istituto Marx-Engels di Mosca[31]. La speranza di Felix Weil riguardo questa sua creatura era di poterlo "donare un giorno ad un vittorioso Stato tedesco dei Consigli"[32].
Grünberg nel 1929 venne collocato a riposo ma avrebbe dovuto mantenere la carica di direttore dell’Istituto fino al 1932: per gli accordi presi con l’Università di Francoforte e con il ministero, il direttore dell’Istituto doveva essere un docente ordinario. Weil, però, non aveva intenzione di far assumere la carica ad un docente “esterno” (come era accaduto con Gerlach e Grünberg) ma direttamente ad uno dei suoi fondatori[33]. Occupandosi Pollock da qualche tempo del settore economico dell’Istituto ed avendo Weil rinunciato alla cattedra per non essere accusato di essersela comprata, solo Horkheimer avrebbe potuto assumere la carica di direttore. Ed infatti questi venne nominato, nel 1930, docente ordinario di filosofia sociale e nel gennaio del 1931 assunse ufficialmente la direzione dell’Istituto – dopo averla mantenuta come reggente per quasi un anno, a causa delle pessime condizioni di salute dello stesso Grünberg.
Il cambiamento, rispetto all’impostazione che era stata data dal suo predecessore fu subito evidente nel discorso che tenne nel corso della cerimonia in cui assunse la carica: l’Istituto smetteva di presentarsi all’esterno come luogo esclusivamente teso alla formazione di qualificatissimi interpreti del pensiero marxiano – non è affatto casuale che la gran parte dei membri della prima generazione dell’Istituto francofortese avesse militato, avuto legami assai stretti o simpatie più o meno dichiarate per la sinistra radicale – ma cercasse ora di studiare e di calarsi all’interno della realtà in cui si trovava, tenendo così fede al suo proprio nome di “Istituto per la ricerca sociale”.
Implicitamente, lo sviluppo del programma di ricerca interdisciplinare proposto ed avviato da Horkheimer significava l’abbandono delle posizioni precedentemente assunte dall’Istituto e prefigurava tutta una serie di separazioni con i vari membri dell’Istituto francofortese: probabilmente Horkheimer aveva intuito che la situazione politica tedesca non consentiva più di pensare (e puntare) alla possibilità di realizzare la rivoluzione, in Germania così come nel resto d’Europa, perché erano venute a mancarne le condizioni. Ad un osservatore attento non poteva sfuggire il fatto che la repubblica di Weimar stava vivendo i suoi ultimi (ma splendidi) giorni. All’interno dell’Istituto continuarono ad essere accolti studenti e docenti di ispirazione marxista – in questo Horkheimer non si differenziò dai suoi predecessori – ma nessuno dei membri dell’Istituto, a partire dalla fine degli anni venti svolse più attività politica; l’Istituto stesso fece di tutto per non  essere identificato con una scuola di partito o con un particolare soggetto politico[34]. Weil fu il primo, nell’Istituto, a disimpegnarsi[35] dal nuovo indirizzo inaugurato da Horkheimer, il quale – nel corso della cerimonia nella quale gli venne conferita la carica di direttore dell’Istituto – annunciò che in seguito sarebbe stato avviato uno studio interdisciplinare degli atteggiamenti di operai ed impiegati, studio da realizzare anche con l’ausilio di statistiche[36]. Sempre nella stessa occasione, Horkheimer annunciò l’apertura di una sede dell’Istituto, distaccata a Ginevra.
Mentre Pollock fu inviato a Ginevra ad organizzare la nuova sede, la Società per la ricerca sociale – che si occupava di gestire le finanze dell’Istituto – trasferì parte dei fondi in Olanda: l’apertura di sedi estere dell’Istituto francofortese avrebbe garantito ai suoi membri di poter rifugiarsi all’estero, dato che le tendenze razziste dei nazisti stava facendo proseliti e che il loro peso politico era in continua crescita.
Già dal 1920, a pochi anni dalla sua proclamazione, la repubblica di Weimar aveva mostrato i segni iniziali della propria decadenza.
Le spinte rivoluzionarie del KPD (il Partito comunista tedesco) avevano giustificato le spietate repressioni e gli omicidi politici commessi in quegli anni dai “corpi franchi” e dagli estremisti di destra con la complicità, la connivenza ed il tacito assenso dei socialdemocratici, che degli oligarchi del periodo guglielmino erano alleati[37]. L’esercito stesso – i cui ufficiali erano controrivoluzionari, più fedeli al Kaiser che alla Repubblica – era inaffidabile. Fra il 13 ed il 16 marzo 1920, infatti, Wolfgang Kapp si diresse alla testa dei suoi “corpi franchi” su Berlino, mentre Hans von Seeckt – il comandante militare della città – si rifiutò di fermarlo. A farlo furono i funzionari dell’amministrazione civile e gli operai, entrati in sciopero[38]. Il governo di Weimar anziché punire i golpisti inviò l’esercito a reprimere gli operai insorti in difesa della Repubblica. Ciò non fece altro che legittimare quegli estremisti di destra che assassinavano, certi della propria impunibilità, esponenti politici dei partiti democratici, cattolici e socialisti – in breve divenne chiaro che i socialdemocratici, a furia di parlare della rivoluzione non solo avevano smesso di crederci ma erano diventati soprattutto i più efficaci cani da guardia degli interessi dei padroni[39].
Ancora, fu sempre nel 1920 che venne fondato l’NSDAP (partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) – anch’esso, come le altre forze politiche di destra, sosteneva che la responsabilità della sconfitta nella “grande guerra” era da attribuirsi alla sinistra, agli ebrei ed ai pacifisti: l’esercito, pertanto, era ritenuto esente da colpe[40].
Nelle elezioni per il rinnovo del Reichstag del 1920 la sinistra, complessivamente considerata, ebbe una notevole flessione[41], determinata anche dall’atteggiamento antioperaio assunto dai socialdemocratici: fu il primo governo con l’SPD all’opposizione, "il primo governo totalmente borghese della repubblica"[42]. L’evidente incapacità di certa parte della sinistra tedesca di elaborare programmi e di fare politica in modo proprio, non subalterno a quello della destra, condusse nel 1925 alla elezione del monarchico maresciallo von Hindenburg alla presidenza della Repubblica: tanto l’SPD quanto il KPD furono incapaci di presentare dei candidati validi da opporgli (l’SPD alla seconda tornata ritirò addirittura il proprio candidato, a favore dell’ex cancelliere e leader della destra cattolica – il cui cognome, ironia della sorte, era Marx)[43], neppure riuscirono ad individuare un candidato comune.
Soltanto la grande partecipazione al referendum (boicottato dalle destre) per l’esproprio dei beni delle ex case regnanti riuscì a ridare fiato alla sinistra, che riuscì a vincere le successive elezioni del 1928.
Fra il 1928 ed il 1933 vi furono ben cinque consultazioni elettorali nelle quali l’NSDAP vide progressivamente crescere la propria rappresentanza parlamentare.
Nel 1930 cadde la coalizione guidata dai socialdemocratici. Hindenburg, consigliato dai militari, affidò il governo ad Heinrich Brüning, leader del partito del Zentrum. Il suo programma accontentava soltanto i conservatori: attaccato tanto dai socialdemocratici e dai comunisti da un lato quanto dai nazisti dall’altro, governò a lungo attraverso la legislazione di emergenza e costretto, infine, ad elezioni anticipate le perse – crebbero NSDAP e KPD – ma alleatosi all’SPD rimase al governo[44].
Nella primavera del 1932 vi fu il rinnovo della carica di Presidente della Repubblica; candidati di maggior spicco erano Hitler per la destra – il quale l’11 ottobre del 1931 presso Harzburg, nel corso di un raduno della destra parlamentare e non, venne riconosciuto come proprio punto di riferimento dalla media ed alta borghesia[45] - ed Hindenburg, il quale – nonostante la sua nota e conclamata “simpatia” per la destra – divenne il candidato del centro e dei socialdemocratici, che cercavano in tal modo di contrastare la progressiva influenza dei nazisti sugli industriali[46]. Hindenburg fu rieletto, ma il prezzo da pagare fu la fine della democrazia: nel giro di pochi mesi vennero sciolte e poi ricostituite (rispettivamente il 13 aprile ed il 16 giugno) per decreto presidenziale le SA e le SS – l’estate del ’32 venne insanguinata dagli scontri dei nazisti contro i comunisti ed i socialisti[47] - e dimissionati prima Brüning[48], poi il barone von Papen[49], protetto del generale Schleicher, il quale gli subentrò, il quale gli subentrò come cancelliere ma – avendo presentato una lista di ministri pressoché identica al gabinetto precedente – non ebbe la fiducia da alcun partito. Von Papen aveva pensato di utilizzare Hitler per poter tornare al potere e lo stesso calcolo venne fatto da Schleicher: la “resistibile ascesa” del paranoico capo del partito nazista venne resa irresistibile dai suoi stessi avversari politici.
Il 30 gennaio 1933, due giorni dopo il dimissionamento di Schleicher[50], Hitler divenne cancelliere[51].
Lo stesso giorno, l’abitazione di Horkheimer e Pollock venne occupata dalle “camicie brune” (le S.A.) ed utilizzata come posto di guardia[52]. Quasi tutti i membri dell’Istituto per la ricerca sociale, in quanto ebrei, si rifugiarono in Svizzera; il 13 marzo i locali dell’Istituto vennero perquisiti e lo stesso chiuso dalla polizia. Quattro mesi dopo – in luglio – la Gestapo sequestrò e confiscò l’Istituto per avere "il suddetto istituto promosso attività antistatali"[53].
Un viaggio di Horkheimer negli Stati Uniti permise all’Istituto – che nel frattempo aveva aperto una sede a Parigi – di trovare collocazione presso la Columbia University, a New York. Nel 1934, quasi tutti i membri dell’Istituto erano negli U.S.A.; Herbert e Sophie Marcuse ed il loro figlio Peter giunsero negli U.S.A. il 4 luglio 1934 ed egli immediatamente assunse la cittadinanza americana.
§ 1.3 Heidegger ed il giovane Marcuse (back to top)
L’incontro con il pensiero di Martin Heidegger attraverso Essere e Tempo incise profondamente sull’opera di Herbert Marcuse, che si appropriò dei termini filosofici del suo maestro e li rielaborò in maniera assolutamente personale ed originale[54] - echi heideggeriani ed husserliani si ritrovano in tutta la sua opera, così come di tutti quegli altri autori (da Marx a Freud, da Hegel a Weber) che aveva letto e studiato.
La pubblicazione di Essere e Tempo (1927) fu per Marcuse un evento decisivo: egli, assieme al suo più caro amico,
"studied it together line by line, and where other German students found a völklische Lebensphilosophie, they saw what they thought was the missing dimension of Marxism. Thus, he left Berlin again in 1928 to work with Heidegger"[55].
Ed è proprio a partire da allora che il nostro Autore incominciò a pubblicare su riviste[56] i propri lavori, in cui coniugava il pensiero di Heidegger con il marxismo.
Nel far ciò doveva necessariamente far cambiare di senso i termini filosofici elaborati dal suo maestro: questa rielaborazione è evidente sin dal suo primo articolo pubblicato, i Contributi a una fenomenologia del materialismo storico (1928), nel quale dava una torsione immediatamente pratica del pensiero heideggeriano. Alla fine degli anni venti, Marcuse è ancora convinto che ci sia la possibilità di radicalizzare il quadro politico tedesco in senso rivoluzionario e la sua adesione al marxismo pare essere condizionata proprio da questo fattore, tanto da indurlo a scrivere (definendolo in maniera assai ortodossa) che il
"marxismo (…) appare non come teoria scientifica, (…) ma come teoria dell’agire sociale, del fatto storico. Il marxismo è la teoria della rivoluzione proletaria e la critica rivoluzionaria della società borghese; è scienza in quanto l’agire rivoluzionario, che esso vuole liberare e consolidare, abbisogna della capacità di vedere addentro nella sua necessità storica, cioè nella verità del suo essere. Esso vive nella indefettibile unità di teoria e prassi, scienza ed azione, e ogni ricerca marxistica deve osservare questa unità come supremo filo conduttore"[57].
E’ evidente che questa affermazione implichi, per Marcuse, una presa di coscienza (rivoluzionaria) tanto nel singolo individuo quanto nelle masse, di cui è parte[58]: per il Nostro, infatti, un mutamento dello stato di cose esistenti è dato solo in una dimensione collettiva, sociale, non assolutamente ed assurdamente individualistica. Si comprende sin da qui come il nostro Autore (s)travolga Heidegger[59]: se questi indica l’uomo con “l’Esser-ci”, usando un termine neutro (non solo linguisticamente), il Nostro impone allo stesso termine una immediata e chiara connotazione politica:
"C’è un esserci la cui deiezione è proprio il superamento della sua deiezione. L’azione storica è oggi possibile soltanto come azione del proletariato, perché esso è quell’unico esserci, coll’esistenza del quale è data necessariamente l’azione"[60].
In questo modo viene avviato il confronto, sul terreno della teoria della storia, fra Marx (del quale, proprio in quegli anni venivano pubblicati i primi volumi nella K. Marx – F. Engels Getamsausgabe) ed Heidegger.
Il mutamento di senso dei termini heideggeriani operata da Marcuse risulta evidente non appena si inizi a considerare cosa significhi “deiezione”[61] per Heidegger, per il quale questo
"termine, che non importa alcuna valutazione negativa, sta a significare che l’Esserci è innanzi tutto e per lo più presso il “mondo” di cui si prende cura"[62].
Essa rappresenta dunque il modo con cui l’Esserci è nel “mondo” – questa per Heidegger è una relazione inautentica[63], in quanto l’Esserci nel “mondo” è caratterizzato dalla chiacchiera, dalla curiosità, dall’equivoco: in una parola, dal “Si”.
Ma se Heidegger in maniera così chiara definiva l’essenza della esistenza inautentica, non altrettanto esplicito e chiaro era, a parere di Marcuse, nello spiegare cosa fosse l’esistenza autentica e la sua concreta possibilità[64]: la ragione di questa incapacità heideggeriana sta tutta nell’aver confinata l’azione storica e la vita dell’individuo all’interno della dimensione dell’inautenticità – paradossalmente, è la dimensione nella quale si svolgono le relazioni sociali degli individui e nella quale viene vissuta la vita intera, reale, concreta di ogni reale e concreto essere vivente.
Per il nostro Autore, evidentemente, la “deiezione” finisce con l’essere connotata, diversamente dal filosofo di Messkirch, in maniera molto più attiva – cioè più partecipe e più impegnata nel proprio essere-nel-mondo e nel proprio essere-con-gli-altri.
Attraverso l’identificazione dell’autenticità con l’alienazione, Marcuse è in grado di individuare nel proletariato la classe portatrice del movimento storico ed il soggetto protagonista della Storia[65]. E’ evidente che questa non costituisce l’unica forzatura del pensiero del suo maestro. L’aver concretizzato il pensiero heideggeriano portò il Nostro a modificare il concetto di “storicità” di Heidegger, nel quale questo termine è strettamente connesso alla “temporalità”: per il filosofo di Messkirch, infatti, "la storicità deve essere chiarita a partire dalla temporalità"[66]: l’Esserci – spiega –
"non è “temporale” perché “sta nella storia”, ma (…), al contrario, esiste e può essere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere"[67]
e la storia "è lo specifico storicizzarsi nel tempo dell’esserci esistente"[68]. Inoltre, l’Esserci "si regola secondo il tempo"[69], la "temporalità esprime il senso originario dell’essere dell’Esserci"[70] ed è attraverso di essa che è possibile la Cura – ma offrendo queste soluzioni Heidegger non solo ontologizza il tempo, ma addirittura riduce la storia a storicità[71].
La nozione stessa di “Cura”[72], per il filosofo di Messkirch strettamente connessa alla temporalità ed alla storicità, viene modificata dal Nostro. Egli infatti la identifica progressivamente "come “preoccupazione”, “preoccupazione” come “bisogno”, e “totalità dei bisogni” come “economia”"[73]: in pratica, il Nostro trasforma in ontologico ciò che per Heidegger è propriamente ontico. Ma l’ontologizzazione della sfera dei bisogni implica – chiaramente – la necessità della sua soddisfazione hic et nunc. Ed ancora, proprio in virtù della torsione che imponeva al pensiero del suo maestro, trasformava l’astratto tempo heideggeriano in tempo concreto, reale, tempo che viene vissuto istante per istante da quell’Esserci da lui identificato con il  proletariato, soggetto motore della storia. Così mutano, contestualmente, i concetti di storia e di storicità, dato che ad agire nella quotidianità – quella che poi diviene storia – non è un Esserci neutro ed impersonale, bensì un Esserci che ha dei connotati molto chiari, cui Marcuse – seguendo Lukàcs – demanda un compito molto impegnativo: trasformare, rivoluzionandolo, l’assetto sociale esistente[74]. Ciò si evince con maggiore evidenza in Sulla filosofia concreta (1929), laddove scrive che "soggetto dell’accadere non è “il singolo”. In quanto esistenza storica, l’Esserci umano è essenzialmente essere-con-altri"[75], evidenziando così che è solo in una dimensione collettiva che può aversi un mutamento dello stato di cose presenti.
In Marcuse il concetto heideggeriano di storicità muta sensibilmente: l’esserci, proprio in quanto essere determinato temporalmente, viene dal Nostro invitato ad agire all’interno dell’unico piano a lui possibile: quello della storia. Per questo, Marcuse introduce il concetto di “azione radicale”, con il quale cerca di caratterizzare meglio i concetti heideggeriani di “esistere autentico” e di “decisione anticipatrice”. Come si è visto in precedenza, per rivoluzionare completamente il modo di produzione e l’assetto sociale esistente, l’Esserci deve aver coscienza dei compiti che lo attendono sia come singolo soggetto rivoluzionario che come parte delle masse rivoluzionarie. L’azione radicale deve modificare contestualmente e l’Esserci determinato che la compie quanto le circostanze nelle quali è data e che la determinano[76]: infatti, la
"disumanità sociale implica l’umanità dell’atto radicale, rovesciamento inevitabile sotto il profilo storico, ma anche sotto quello etico. Il divario creato fra l’uomo come possibilità e il mondo come attualità aspira alla ricomposizione. Ed è solo assumendosi tale compito che una classe, il  proletariato, assurge a soggetto storico"[77].
La prima produzione filosofica del nostro Autore è caratterizzata, come si può riscontrare sin da questi primi lavori, dal tentativo di opporre ad una filosofia borghese (al cui interno l’opera di Heidegger, secondo Marcuse, rappresenta il punto più alto[78] una filosofia del proletariato. Alla base di questo tentativo l’uso di concetti marxiani ed heideggeriani. Ma è un tentativo che non va in porto: nel momento stesso in cui il nostro Autore tenta la fondazione teorica di una filosofia del proletariato non solo non nega un altro tipo di pensiero, ma ne legittima implicitamente la validità riconoscendolo come polo dialettico a sé alternativo. Marcuse, insomma, non riesce a venir fuori dalla dialettica servo-padrone: l’intera riflessione critica marcusiana rimane rinchiusa all’interno delle categorie di pensiero elaborate dalla classe avversaria, arricchendone il patrimonio. Gli avversari di classe avrebbero facile gioco a ridurre tutto ad Ideologia ed ad utilizzare le critiche loro rivolte per perpetuare il dominio: il “pensiero critico”, la Teoria Critica, non escono dall’alveo del pensiero ad una dimensione – non escono dal pensiero dominante[79].
Ciò che differenzia notevolmente Marcuse da Heidegger, è il diverso rapporto che per i due assume la natura. In Essere e Tempo essa viene vista come momento arazionale, dato che viene ad essere "ciò che ci assale, ciò che ci emoziona nel paesaggio"[80]. L’Esserci non è in essa come soggetto con essa conciliato[81] ma come individuo che vive in maniera antagonistica il rapporto con essa, basato sullo sfruttamento (utilizzabilità è il neutro termine coniato da Heidegger[82]). Infatti, l’Esserci pur essendo ente fra gli altri enti è posto rispetto a questi su di un piano differente (questo, già di per sé, non fa altro che sancire il dominio dell’uomo sulla natura). Gli enti, poi, si dànno nella mondità come semplice-presenza (Vorhandenheit) all’esserci, che li trasforma in nome della loro utilizzabilità (Zuhandenheit[83]), per il loro essere – letteralmente – “a portata di mano”.
Marcuse osserva invece, seguendo Freud e riprendendo in tal modo i contenuti – che esamineremo in seguito – di Eros e civiltà, che l’istinto di morte è connaturato all’avanzamento industrial-tecnologico (non è possibile scindere, da questo punto di vista, il modello evolutivo capitalistico da quello collettivistico: ambedue i sistemi hanno per base l’ideologia del lavoro – del lavoro alienato) o meglio,
"il concetto di distruzione è reso oscuro e mimetizzato dal fatto che la distruzione stessa è profondamente intrinseca alla produzione ed alla produttività. Quest’ultima – anche quando consuma e distrugge le risorse umane e naturali – fa crescere le possibilità di un appagamento materiale e culturale per la maggioranza della gente"[84]
che ha ampiamente introiettato il principio di realtà che le viene ampiamente inculcato dalla società. Ad opporsi a questo stato di cose sono soltanto quei soggetti che hanno una "struttura radicale del carattere", ossia soggetti nei quali è netto il prevalere "degli istinti vitali rispetto agli istinti di morte, come prevalere dell’energia erotica sugli istinti distruttivi"[85]. Nelle lotte che conducono questi soggetti aventi "una coscienza non conformista, una struttura radicale del carattere"[86], essi cercano di far emergere il bisogno di emancipazione nelle masse – e non solo: perché è chiaro che difendere l’ambiente dai danni che l’uomo stesso provoca significa salvare l’uomo stesso dall’autodistruzione.
La reale cesura con Heidegger avvenne con la pubblicazione de L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, scritto con cui Marcuse intendeva ottenere l’abilitazione con il filosofo di Messkirch. Il volume apparve, stampato dall’editore Klostermann, nel 1932 – troppo tardi per poter pensare di insegnare nelle università tedesche: non solo perché il progressivo consolidamento elettorale che i nazisti ottenevano non faceva presagire alcunché di buono per un ebreo e marxista, ma anche per via del fatto che
" - come risulta da uno scritto di Husserl a Riezler, sulla base del quale in seguito, nel contesto dei risarcimenti della Repubblica Federale, Marcuse fu riconosciuto come uno che normalmente avrebbe preso la libera docenza e sarebbe diventato professore – fu Heidegger a bloccare la libera docenza a Marcuse"[87].
Il testo trova una importante chiarificazione del tema che affronta in un articolo del filosofo berlinese pubblicato nello stesso anno: Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico – una delle prime recensioni ai Manoscritti economico-filosofici (del 1844) di Marx – in cui, sin dalle prime righe, evidenzia la possibilità di "impostare il problema dei rapporti oggettivi fra Marx ed Hegel in modo più fecondo e ricco di prospettive"[88]. Non è per caso che Marcuse affermi ciò: una citazione di Marx spiega tutto ampiamente:
"“Si deve cominciare con la Fenomenologia di Hegel, che costituisce il vero luogo di nascita e il segreto della filosofia hegeliana.” Marx – chiosa il nostro Autore – affronta la filosofia di Hegel in primo luogo là dove le sue origini non sono state ancora occultate: nella Fenomenologia"[89].
E’ quindi tutt’altro che casuale che Marcuse riservi, nella sua Habilitationsschrift, grande attenzione ad essa. Eppure, in questo lavoro egli più che delineare il rapporto fra Hegel e Marx, tenta una mediazione fra Hegel e Dilthey a partire dall’analisi dei "caratteri fondamentali della storicità", a proposito dei quali "gli studi di Dilthey segnano il punto più avanzato"[90]; ad Heidegger è riservato – nell’ultima pagina della breve introduzione – un laconico ringraziamento, nonostante che l’opera presenti chiaramente l’influsso del suo maestro.
Il 3 novembre 1933 Heidegger firmò con un "Heil Hitler! Martin Heidegger, Rettore"[91] un appello pubblicato su di una rivista studentesca di Friburgo.
Il Nostro, allora a Parigi in esilio, rispose con un articolo di fuoco sulla Zeitschrift für Sozialforschung[92].  Fu solo nel 1947 – Marcuse era all’epoca al seguito delle truppe alleate per un programma di denazificazione da avviare nelle zone occupate – dopo oltre dieci anni, che i due si ritrovarono (per la prima ed ultima volta dopo tanto tempo), l’uno di fronte all’altro, a Todtnauberg. Questa visita ad Heidegger costituì la base per un breve carteggio fra i due[93]. Nelle sue lettere, Marcuse rinfacciava al maestro d’un tempo il fatto di essersi "fortemente identificato col regime, al punto da apparire (…) come uno dei più assoluti sostenitori spirituali del regime" e di non aver mai pubblicamente ritrattato le sue opinioni, neanche subito dopo la conclusione del conflitto. Il filosofo berlinese soprattutto criticava del suo vecchio maestro il fatto che non stesse facendo – e non avesse fatto – nulla per allontanare da sé l’ombra del sospetto e consentire così ai suoi allievi di poterlo difendere. A ragione, Marcuse scriveva ad Heidegger che un filosofo
"può ingannarsi in campo politico, allora egli esporrà pubblicamente il suo errore. Ma questi non può ingannarsi su un regime che ha assassinato milioni di Ebrei, semplicemente per il fatto di essere Ebrei, che ha fatto del terrore lo stato di normalità e che ha capovolto nel suo sanguinario contrario, tutto ciò che era realmente connesso al concetto di Spirito, libertà e verità. (…) Il comune intelletto umano (…), si rifiuta di vedere in Lei un filosofo, perché ritiene che siano inconciliabili filosofia e nazismo"[94].
La risposta che gli diede il suo maestro dovette tanto sconcertarlo quanto deluderlo profondamente. Heidegger affermava di aspettarsi
"dal nazionalsocialismo un rinnovamento spirituale di tutta la vita, una riconciliazione dei contrasti sociali e una salvezza dell’Esserci occidentale dai pericoli del comunismo",
ma che non aveva mai pubblicamente ammesso il suo errore – che aveva riconosciuto nel 1934[95] – non solo perché, se lo avesse fatto, avrebbe consegnato se stesso e la sua famiglia al boia, quanto perché, con la caduta del regime nazista
"coloro che avevano aderito al nazismo lo vennero a sconfessare con un disgustosissimo voltafaccia; ma io non avevo alcunché da spartire con loro"[96].
Marcuse obiettò al filosofo di Messkirch che
"non è spiegabile il fatto che Lei, che come nessun altro riuscì a comprendere la filosofia occidentale, potesse vedere nel nazismo “un rinnovamento spirituale di tutta la vita” ed una “salvezza dell’Esserci (Dasein) occidentale dai pericoli del comunismo” (che è esso stesso proprio una parte costitutiva ed essenziale di questo Esserci!). Questo non è un problema politico, bensì intellettuale (…). Lei, il filosofo, ha scambiato la liquidazione dell’Esserci occidentale con il suo rinnovamento? Non era già evidente questa liquidazione in ogni parola dei “capi”, in ogni gesto ed azione delle SA molto prima del 1933?"[97]
e critica la osservazione di Heidegger, secondo la quale coloro che alla fine della guerra esprimevano giudizi molto critici sul nazismo[98], lo facevano a partire dal suo crollo – quindi a posteriori[99] – ma in modo particolare contro ciò che il suo vecchio maestro affermato a proposito della Shoà, e cioè che "mentre il terrore sanguinario dei nazisti è stato effettivamente celato al popolo tedesco", "tutto ciò che è accaduto a partire dal 1945, è noto all’opinione pubblica internazionale" - intendendo così Heidegger porre sullo stesso piano i crimini (di guerra e non solo) commessi dai tedeschi, dai russi, dagli americani ed evidenziando come con lo spostamento delle frontiere ad Ovest e le forzate emigrazioni imposte alle popolazioni locali, i Tedeschi orientali avrebbero potuto benissimo essere equiparati agli Ebrei (e pertanto, nel ragionamento di Heidegger, gli alleati erano criminali tanto quanto i nazisti).
Il 13 maggio 1948, Marcuse scrisse la seconda e ultima lettera al suo maestro, cui ribadiva tutte le critiche. I rapporti fra i due si interruppero del tutto.
§ 1.4 Da Friburgo all’esilio (back to top)
Con la pubblicazione de L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, Marcuse non si sposta dal piano a lui consueto di analisi, cioè dal piano della teoria della storia. Non si tratta qui di mediare la fenomenologia heideggeriana con il marxismo, bensì di studiare e verificare il modo in cui Hegel si occupi dell’esistenza umana: in questo senso quest’opera si situa perfettamente nel solco dei lavori precedenti (anch’essi del periodo del “marxismo heideggeriano”), ma se ne differenzia perché non ci sono  riferimenti diretti all’opera ed al pensiero di Marx – solo indirettamente, attraverso il rilievo che il Nostro dà nel suo Habilitassionschrift al concetto di lavoro in Hegel, si può risalire all’influsso che l’opera del filosofo di Treviri ha su quella di Marcuse.
E’ proprio Marx, comunque, a condurci all’interno dello scritto marcusiano: il cuore dell’analisi che il filosofo berlinese conduce sull’opera di Hegel riguarda la Fenomenologia dello Spirito, opera che il filosofo di Treviri aveva ampiamente analizzato nei Manoscritti del 1844.
Ruolo centrale, nell’opera di Marcuse, ricopre – nelle sue molteplici determinazioni – il "concetto ontologico della “vita” come centro della problematica"[100] all’interno del sistema filosofico hegeliano, nel quale "la vita è la “prima”, “immediata”, forma della “idea”"[101]. Il filosofo berlinese individua e delinea[102] all’interno dello sviluppo del sistema filosofico hegeliano una interna discordanza riguardante proprio il concetto di “vita” (ed il ruolo che essa ricopriva) fra gli scritti giovanili e la Fenomenologia da una parte e fra la Fenomenologia e la Logica dall’altro. E’ pertanto per questo motivo che Marcuse muove la sua analisi proprio a partire dagli scritti giovanili, tentando così di
"mostrare come la fondazione ontologica sia stata guidata dal concetto dell’essere della vita, il quale aveva accolto in sé la presa di posizione nei confronti della storicità considerata come carattere ontologico della vita"[103],
salvo poi lo stesso Hegel mutare impostazione. Ciò spinge Marcuse a “correggere” Hegel con Dilthey, le cui opere il Nostro riteneva determinanti al fine "di aprire una via di accesso ai caratteri fondamentali della storicità"[104] - come si riprometteva.
L’opera si apre con una analisi degli scritti giovanili hegeliani in cui il nostro Autore pone in luce come già qui faccia la sua comparsa il concetto di “assoluto” ancorché non ancora ben determinato come lo sarà in futuro. Appaiono anche le prime determinazioni di tale concetto:
"i primi caratteri in cui l’ ”assoluto” diventa visibile (…) sono l’unità e la totalità; e in quanto unità e totalità, esso è origine: “divenire e produrre”, accadere, mobilità"[105].
Tali determinazioni richiamano da vicino (in modo particolare la seconda) il rapporto esistenza/storicità – richiamano da vicino, cioè la vita nel suo carattere ontologico di storicità che Marcuse aveva, sin dall’apertura dell’opera, subito evidenziato. Ma è con l’incontro con il pensiero kantiano che Hegel inizia a definire ed a delineare con precisione via via crescente il suo concetto di assoluto[106]. Chiarendo ciò, venivano conseguentemente chiariti anche i concetti di accadere, mobilità ed ente – che dall’assoluto trae "origine ed essenza"[107]. Tuttavia, il
"compito di fondazione ontologica viene assolto – su terreni diversi e con diversi intenti – dalla Fenomenologia dello Spirito, da un lato, e dalla Logica dall’altro"[108];
Marcuse inizia la sua trattazione con l’analisi di alcune proposizioni tratte dalla Logica – che essendo temporalmente successiva alla Fenomenologia, "rappresenta l’elaborazione definitiva dell’ontologia hegeliana"[109]. Attraverso l’analisi dell’essere, che
"si incontra non soltanto come essere determinato bensì come ente determinato, non come esistenza, ma come esistente"[110],
l’Autore – seguendo Hegel – afferma che "il singolo ente è il finito"[111] e poiché ciò che è finito non è solo suscettibile di cambiamento, ma "trascorre"[112], Marcuse (anticipando le conclusioni) può identificare un particolare modo di essere dell’ente finito con l’uomo:
"L’ente finito non ha storia, ma è storia. E la storia dell’uomo è solo un modo dell’universale accadere in generale, ed è da intendersi solo nell’ambito di questo"[113].
Ed è
"sempre e soltanto in singoli individui viventi, i quali presuppongono l’idea della vita come l’universale che li costituisce"
che la vita esiste[114]: in tal modo, il concetto di vita viene a situarsi al centro dell’ontologia hegeliana. Inizia qui la parte che interessa evidenziare, proprio perché situata sul piano della teoria della storia – campo nel quale Marcuse si muove.
Ad agire è l’individuo vivente, che
"“formandosi in se stesso”, “si tende contro il suo originario presupporre”, contro il suo mondo, viene mandato via in esso ed è costretto a realizzare l’unità del suo sé operando nel mondo e ponendosi contro di esso. E’ questo processo, attuatesi ora non più soltanto nell’ambito dell’individualità bensì nella contrapposizione della individualità al mondo, che Hegel indica come “processo della vita” nel vero senso della parola. Dice Hegel: “questo processo comincia con il bisogno” e precisa il carattere di questo bisogno come “dolore”"[115].
Ciò sta a significare che il mondo contemporaneamente costituisce la base (il presupposto) ontologica nella quale si dà la vita, ma anche e soprattutto il luogo dove questa vita deve perdersi, negarsi[116]. Non si può qui non richiamare il commento marcusiano alle pagine marxiane dei Manoscritti economico-filosofici, che proprio dalla Fenomenologia dello Spirito traggono alimento: fanno la loro comparsa – in queste righe hegeliane – i concetti di alienazione, lavoro, oggettificazione, reificazione: è all’interno della società capitalistica che l’operaio deve negare se stesso, degradarsi
"“spiritualmente e fisicamente al livello della macchina, e trasformato da uomo in una attività astratta ed in un ventre” -, il lavoratore deve addirittura “vendere se stesso e la sua umanità”, diventare esso stesso una merce, per poter esistere come soggetto fisico"[117],
mentre l’oggetto (estraniato) del lavoro gli si contrappone. In queste righe hegeliane al momento della tesi: lo stare-presso-se-stesso (il formarsi in se stesso, in armonia con il suo originario presupporre) segue il momento dell’antitesi: il “tendersi contro il suo originario presupporre” (l’operare nel mondo ed in contrasto con esso) ed a quello – più alto – della sintesi: il ritorno-presso-di-sé (il mondo deve essere superato, ci si deve riappropriare del mondo). Tale ultimo momento comporta la soppressione della proprietà privata e la negazione del modo di produzione capitalistico che su di essa si basa:
"la soppressione economica e giuridica della proprietà privata non rappresenta la fine, ma soltanto l’inizio della rivoluzione comunista (…). In questa la reificazione inumana è spezzata anche là dove aveva gettato radici più profonde e pericolose: nel concetto di proprietà"[118].
Le determinazioni dell’essere della vita (il “presupposto creatore”, il “processo vitale” ecc.) vengono in Hegel – a detta di Marcuse – ad essere riferite alla vita come “mondo”, sono categorie storiche. Hegel compie il tentativo di risolvere la storicità della vita – la cui problematica era emersa nella Logica – all’interno della storia assoluta[119]. Questo tentativo pone in luce delle discrepanze fra la "posizione sistematica della vita nella Logica e le categorie della vita ivi date"[120]: per tale motivo il nostro Autore “recupera” gli scritti teologici giovanili, tentando così di far vedere come il concetto ontologico della rivestisse un ruolo centrale nel pensiero hegeliano.
Qui il concetto di vita sta ad indicare il modo di essere del “mondo”: cioè la relazione che hanno tutti gli enti fra loro: pur se singolarmente separati (Hegel pensa alla divisione) essi sono intimamente connessi. Ed è proprio in base alla divisione originaria che la vita stessa si distingue fra vita “biologica” e vita “pensata”; sebbene anche in tale divisione i due aspetti siano intimamente connessi: la prima è come essa è immediatamente, la seconda viene colta come luce, come intimamente connessa alla verità[121]. Tale tipo di divisione richiama quella che Hegel compie più in là, fra vita umana (finita) e vita divina (pura) ed aventi possibilità di unificazione per tramite dello spirito ("condizione della completa unità della vita"[122]). Nel concetto di vita hegeliano rientrava quindi tanto l’aspetto umano quanto quello sovraumano dell’esistenza. Il che è anche preludio alla conciliazione fra spirito e natura, proprio all’interno della categoria della vita, intesa  dinamicamente; come movimento:
"nella sua storia reale lo spirito è la totalità attuantesi dell’ente medesimo; in tal modo viene ancora accentuato il carattere di realtà dello spirito: esso non solo è realtà, ma è ogni realtà. Ogni realtà è il “ciclo dello spirito”; le regioni dell’ente sono i “momenti” di questo ciclo, il quale è definito dalla caduta dello spirito nell’altro di se stesso (la “natura”) e dal ritorno in se stesso (il mondo spirituale)"[123].
"Se ora alla “vita formale” della natura viene contrapposta la vera vita come spirito, bisogna anzitutto fare attenzione ad una ambiguità: “in sé” la natura è già essa stessa spirito, anzi essa è un momento della totalità dello spirito che si attua, e precisamente il momento del suo reale esser-altro. La contrapposizione di natura e spirito non è quindi opposizione di due sostanze; entrambi sono modi della vita e la “vita come spirito” è soltanto il completamento e la perfetta realizzazione della vita, verso cui la natura stessa è indirizzata"[124].
Marcuse si sofferma quindi ad evidenziare la differente maniera di concepire il concetto di vita attraverso la lente d’ingrandimento dello Jenenser System: a partire dal frammento di sistema senese essa viene ad essere del tutto definita dal punto di vista dello spirito, mentre negli scritti a questo anteriori lo spirito era invece "un modo di essere della vita"[125]. Ancora nella Fenomenologia, dove tratta della “vita come spirito”, Hegel tenta di mantenere uniti questi due percorsi.
E’ proprio nelle pagine della Fenomenologia che al centro della speculazione filosofica viene posta l’analisi della vita umana introdotta come autocoscienza; solo con la descrizione della vita come oggetto dell’autocoscienza si raggiunge "il vero concetto ontologico della vita"[126]. Hegel – seguito da Marcuse – si  riconnette qui a quanto aveva precedentemente scritto sul “processo della vita”, la cui molla del movimento è costituita dal “bisogno”: ad essere analizzata è la relazione io-mondo, nella quale il concetto di “desiderio” – indicante "l’originario atteggiamento dell’io di fronte all’ente"[127] - sta ad indicare proprio il modo in cui l’io si contrappone al mondo (come vita indipendente) e tende ad inglobarlo ma al quale l’individuo si oppone[128]: in questo processo il “desiderio” ha l’importante funzione di indicare all’io la via per il ritorno-in-sé:
"Così il desiderio, in cui l’io vuole “superare”, negare, trarre nel suo proprio essere il mondo che gli si contrappone come “vita indipendente”, è l’annuncio del suo vero compito di diventare “essenziale” a se stesso; il desiderio, che supera l’oggettività dell’io, è solo aspirazione verso l’essere proprio dell’io"[129].
E’ bene precisare che per “oggettività” è indicato il momento negativo, quello in cui il mondo si contrappone e nega l’individuo vivente, che deve volgersi contro questa negatività, contro questa oggettività.
Il rapporto dell’io con il mondo ed il superamento della dualità fra i due momenti conduce alla unificazione fra io ed io prima, fra io e mondo poi:
"il comportamento desiderante dell’io verso il mondo oggettivo diventa spiegazione fra diverse autocoscienze"[130]:
in questa unità fra i diversi io (il “carattere del noi”), lo spirito viene ad essere legato strettamente alla vita dell’uomo. Scrive Marcuse:
"con questa scoperta dell’accadere della vita avente il carattere del noi, come rapporto di implicanza e di opposizione di diverse autocoscienze nel mondo vivificato, è raggiunta la dimensione della storicità della vita"[131]
umana; ed è all’interno del “fare” che la vita dell’uomo si realizza[132] ma nel darsi e realizzarsi nel suo “fare-sé” essa in contrapposizione con gli altri io esistenti: la lotta che ne consegue è
"“lotta per la vita e per la morte”, giacchè non si tratta qui di un qualche ente, di un qualche possesso oggettivo, bensì dell’essere dell’individuo stesso"[133]:
compare qui la dialettica servo-padrone, magistralmente interpretata e da Marx e da Marcuse. E’ evidente come il fare si espliciti nell’opera di Hegel come lavoro: il nostro Autore pone bene in luce ciò quando scrive che
"ciò non muta nulla al fatto che Hegel ha inteso, in generale, il lavoro come l’essenza dell’uomo che si avvera – fatto da cui deriva ad esempio la conseguenza che, nonostante la “spiritualizzazione” della storia, nella Fenomenologia il concetto veramente fondamentale, secondo il quale è spiegata la storia dell’uomo, è quello del “fare” come principio di trasformazione"[134].
Nella lotta per la vita e per la morte vengono a distinzione le figure del padrone e del servo[135]: quest’ultimo ha il compito di lavorare le cose (che non gli appartengono) con cui è in contatto: esse, nel loro entrare in contatto con il servo assumono forma, diventano reali e vivificate.
Il servo svolge dunque il ruolo di mediatore fra le cose ed il padrone, nel rapporto con il quale il servo riconosce ed ammette la sua servitù, la sua mancanza di indipendenza. Il padrone, invece, libero dall’obbligo di lavorare, gode delle cose che il “non indipendente” deve produrre: è il preludio al rovesciamento della dialettica servo-padrone che viene attuata per mezzo del lavoro.
Il concetto del “fare” si rivela qui essere
"essenzialmente “cambiamento” e “produzione”. Ogni fare “intraprende” un cambiamento, cambia qualcosa nell’ente stesso che esso fa, esce da ogni stato momentaneo, lo “rovescia”"[136].
All’interno della Fenomenologia dello Spirito, Hegel cerca di mostrare – ed il tentativo, nella interpretazione marcusiana è ancora più esplicito – come la vita si innalzi per gradi fino alla completa autocoscienza, e che magna pars nel corso di questo sviluppo detenga il concetto di fare – cioè il concetto di lavoro.
Non sarà la prima volta che Marcuse si confronterà sul concetto di lavoro, sempre nel campo della teoria della storia, con Hegel.
Ancora nel 1932, poco tempo dopo la pubblicazione de L’ontologia di Hegel, diede alle stampe un saggio in cui recensiva – fu fra i primi a farlo – la pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici di Marx. Il nostro Autore si rese subito conto dell’importanza dell’avvenimento sottolineando non solo che in essi "si ritrovano già tutte le categorie della successiva critica dell’economia politica"[137], ma che anche che con essi si sarebbe potuto chiarire molto meglio il rapporto fra i due autori ed il debito filosofico che il giovane Marx aveva nei confronti di Hegel. Detto incidentalmente, il rapporto fra Marx ed Hegel era (ed è!) molto più importante per la storia del marxismo che non quello proposto dall’austromarxista Adler, che Marcuse aveva duramente criticato e liquidato due anni addietro[138], fra Marx e Kant.
Marx pone al centro dell’analisi che svolge nei Manoscritti del 1844 il concetto hegeliano di lavoro così come esso emerge dalle pagine della Fenomenologia dello Spirito.
Il concetto di lavoro, nel quadro dell’esposizione marxiana dei concetti tradizionali dell’economia politica (salario, profitto, rendita) è ciò che spezza l’unità del discorso. Marcuse pone in luce come Marx, attraverso l’opera di Hegel, scopra che dietro all’idea dell’uomo che si realizza nel lavoro appaia uno stravolgimento completo della vita dell’uomo e del mondo – e ciò che sia poi in grado di "costituire il fondamento reale di una rivoluzione che trasforma realmente l’essere dell’uomo e del suo mondo"[139]. Si ripresenta in tal modo una delle tematiche che era presente in Marcuse già a partire dai Contributi – la teoria della rivoluzione: i "Manoscritti costituiscono una fondazione della teoria della rivoluzione, e quindi, in ultima analisi, della prassi rivoluzionaria"[140].
Il nostro Autore osserva come
"il concetto fondamentale della critica marxiana: il concetto di lavoro alienato, si forma attraverso la discussione della categoria hegeliana della oggettivazione, che è sviluppata per la prima volta nella Fenomenologia dello Spirito a proposito del concetto di lavoro"[141]
e che nello sviluppo di questo concetto, Marx critichi Hegel dopo aver enumerato ciò che di buono vi era nella sua opera. Le critiche marxiane si appuntano principalmente sui fondamenti e sui contenuti del pensiero hegeliano, a partire dall’aver egli concepito l’uomo come autocoscienza[142].
Sempre sul concetto hegeliano di lavoro Marcuse pubblicò, nel 1932, un articolo in cui cercava di offrire una fondazione filosofica a tale concetto. Anche in questo articolo si sente il potente influsso marxiano: se Hegel aveva concepito il lavoro (nel quale "la coscienza “giunge a se stessa”"[143]) come fare – il cui fine è il soddisfacimento dei “bisogni”[144] –, Marx evidenziava il momento di alienazione implicito nel lavoro. Marx appunto riconduce[145] - più e meglio di Hegel – il lavoro (inteso come momento economico) alla sua reale dimensione, quella dell’esistenza umana. Importante è l’evidenziazione dell’alienazione (in quanto l’operaio non è “in-sé”, ma presso altro da-sé) come contrapposizione al gioco, dove l’uomo
"può (ma non deve) avere a che fare con oggetti, occuparsi di oggetti. Ma l’oggettività qui ha tutt’altro senso e tutt’altra funzione che nel lavoro. Giocando, l’uomo non si conforma agli oggetti, alla loro regolarità per così dire immanente (data cioè dalla loro oggettività), né a ciò che richiede il loro “contenuto oggettivo” (mentre il lavoro nel trattare, utilizzare, dare forma al suo oggetto deve conformarsi al contenuto oggettivo di esso) (…). L’“oggettività” degli oggetti con i suoi effetti, e la realtà del mondo oggettivo, con cui gli uomini sono altrimenti costretti a contendere, imparando così a rispettarla, vengono nel gioco quasi abrogati per alcuni attimi"[146],
nei quali l’uomo è presso-di-sé. Fa qui per la prima volta la sua comparsa negli scritti del nostro Autore, e per di più in maniera indiretta, la tematica della riduzione del tempo di lavoro che si troverà nelle sue opere dell’esilio americano – ma può questa anche essere intesa come anticipazione dell’idea marcusiana del lavoro come gioco (recuperando così un tema proprio del “socialista utopista” Fourier), tematiche ambedue presenti negli scritti successivi al 1940.
La problematica riguardante la soddisfazione immediata dei “bisogni” costituisce l’argomento di un saggio pubblicato nel 1938, nel quale il Nostro osserva come, a differenza dell’ideologia borghese – che ha condotto allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura – l’edonismo (Marcuse analizza quello antico ed in modo particolare quello cirenaico) invece punti
"sullo sviluppo e sulla soddisfazione globale dei bisogni individuali, sulla liberazione da un processo di lavoro disumano, sul riscatto del mondo dal godimento"[147].
Date queste premesse, è ovvio che le due way of thinking siano fra loro assolutamente inconciliabili: è evidente che così come l’edonismo si presenta come pensiero della soddisfazione degli istinti, l’altra rappresenta il suo esatto opposto.
Nell’individuo contemporaneo c’è un’evidente dissidio fra la ragione e la felicità; in nome della ragione all’uomo viene negata la felicità. Tale contrapposizione, presente già nel pensiero classico, ha avuto il compito di far accettare alle masse l’ordinamento sociale senza farlo mettere in discussione:
"si ha fortuna nel campo dei “beni esteriori”, che non dipendono dalla libertà dell’individuo, ma dall’accidentalità impenetrabile degli ordinamenti sociali. La vera felicità, la realizzazione delle più alte possibilità dell’individuo, non può quindi consistere in ciò che si chiama generalmente fortuna: essa deve essere ricercata nella sfera dell’anima e dello spirito"[148]
e ciò è stato talmente ben inculcato negli individui che
"l’uomo educato all’interiorizzazione non si lascerà trascinare tanto facilmente a lottare contro l’ordine esistente, neppure dalla miseria e dall’ingiustizia più dure"[149]:
veniamo così a trovarci pienamente all’interno dell’analisi svolta nel volume collettivo dell’Istituto per la ricerca sociale, gli Studi sull’autorità e la famiglia pubblicati (in tedesco) a Parigi nel 1936, nei primi anni dell’esilio.
Marcuse era stato incaricato di curare in essi una parte teorica sulla storia delle idee circa il rapporto fra l’autorità e la famiglia, nella quale prendeva in esame il pensiero di autori (tra i quali Lutero, Kant, Hegel, Marx, Pareto) nei quali sia affacciava e veniva trattata tale tematica, peraltro non neutra dal punto di vista della contemporaneità storica e politica: essa infatti costituiva implicitamente una critica al nazismo ed una spiegazione della mancanza di grandi movimenti di resistenza, analoghi a quelli presenti in altri Paesi.
Lutero è il primo degli autori con i quali il filosofo berlinese si confronta, facendo emergere – sotto l’innovatività della predicazione – i contenuti neppure tanto nascostamente reazionari del pensiero del riformatore tedesco, nei cui scritti lo iato fra libertà e subordinazione si fa anzi apertamente strada, giungendo ad identificare con la libertà il regno interiore (l’ambito spirituale) e con la subordinazione il regno esteriore (l’ambito temporale, mondano)[150].
Lutero anzi invitava ad accettare con rassegnazione tale stato di cose, negando la possibilità di ribellarsi all’ordine precostituito da Dio: tant’è che
"i contadini in rivolta sono condannati in nome dell’essenza della “libertà cristiana”, che non li rende liberi, ma sancisce, al contrario, la loro schiavitù. Il riconoscimento dell’illibertà reale (in particolare quella creata dai rapporti di proprietà) rientra, di fatto, nel significato di questo concetto di libertà"[151].
Allo stesso modo, si appella ai cristiani catturati dai turchi e ridotti in schiavitù affinché non tentino di fuggire[152]. E’evidente, quindi, che la ribellione contro il potere mondano (esterno) diventa un peccato gravissimo, in quanto "attacca “il capo stesso”"[153].
La teorizzazione della negatività della lotta contro il potere costituito[154] giunge all’acme con Kant, che giunge a distinguere fra uso pubblico ed uso privato della ragione – al fine di non mettere pubblicamente in discussione ordini e legislazioni emanate – ed a constatare che una volta sovvertito l’ordine costituito, si deve considerare legittimo il nuovo ordine (è la sua “difesa” dello Stato nato dalla Rivoluzione – inglese prima e francese poi) ed a distinguere minuziosamente i soggetti cui può essere concessa la libertà di voto dal resto della popolazione cui questo diritto viene negato. In Hegel le cose mutano sensibilmente: egli si rende conto che la società si basa sulla sperequazione sociale[155] ed intuisce una possibilità di sovvertimento completo delle istituzioni. Se quello hegeliano è un pensiero che presenta una dimensione rivoluzionaria, non altrettanto il Nostro può dire di quello di chi – come Burke, de Bonald, de Maistre[156], Stahl – si pone invece il problema di salvare la proprietà borghese e lo statu quo:
"la teoria della controrivoluzione lotta inizialmente per i gruppi clericali e feudali contro la borghesia come soggetto della rivoluzione. Nel corso della sua lunga storia, essa subisce un cambiamento di funzione decisivo: è adottata, da ultimo, dai ceti dominanti. La borghesia diventa, da oggetto, soggetto della teoria. Questa è, per l’età moderna, il più grandioso esempio di giustificazione di un ordine sociale minacciato"[157]:  
si ha qui per la prima volta, esplicitamente, il richiamo a Dio per la giustificazione del dominio che
"diventa un carisma conferito da Dio alla persona che governa in quanto tale e questo si irradia dalla persona del sovrano su tutto l’ordine politico e sociale che culmina in lui, ordine che ha il proprio centro, “per natura”, in una persona unica ed indivisibile, il monarca"[158].
Sin qui abbiamo esaminato la prima produzione marcusiana. Essa è partita dal tentativo di coniugare il pensiero heideggeriano con quello marxista, partendo così dall’assunto che il marxismo è scienza (della rivoluzione, afferma Marcuse), al fine di caratterizzare meglio il tipo di impegno che attende al marxismo per giungere infine, attraverso l’analisi della struttura autoritaria della famiglia e della società, al problema della affermazione politica e sociale del fascismo e la sua penetrazione in ogni ambito della vita familiare e sociale, rivelata dalla subordinazione e dalla assoluta fedeltà ad individui carismatici, e per estensione ai pater familias, che di quel potere assoluto ed autoritario sono i rappresentanti domestici e che si tramanda sotto la forma dell’autoritarismo maschile da una generazione all’altra (Marcuse pare quasi voler affermare che il fascismo è nella testa delle persone, prima che nei loro atti).
A partire da questi saggi, che hanno sott’occhio la situazione politica del tempo (l’affermazione dei vari fascismi per il vecchio, civilissimo, mondo) la riflessione filosofica di Marcuse si scontrerà, via via radicalizzandosi con questo avversario proteiforme – ciò verrà meglio esaminato nel prossimo capitolo.

CAPITOLO SECUNDO

§ 2.1a La critica al nazismo (back to top)
Lo studio collettivo del 1936 sull’autorità e la famiglia curato da Horkheimer aveva messo in luce che l’orientamento dominante presso la popolazione tedesca era l’atteggiamento autoritario, le cui basi culturali vennero da Marcuse individuate (all’interno del pensiero moderno[159]) in Lutero, il quale aveva di fatto fornito il sostrato – culturale e materiale – per la nascita e lo sviluppo della teoria del dominio e quindi per la edificazione dello stato autoritario[160].
Il nostro autore si era occupato già anni prima del problema relativo alla disgregazione interna dello stato liberale in un saggio apparso sulla Zeitschrift für Sozialforschung – la rivista dell’Istituto francofortese – nel 1934, poco dopo aver abbandonato la Germania nazista. In tale saggio (lo esamineremo con maggiore attenzione più avanti, limitandoci qui a brevi cenni) che si riconnette al lavoro da lui condotto all’interno degli Studi sull’autorità e la famiglia e – per le tematiche che affronta – alla totalità degli Studi (delle cui conclusioni evidentemente risente e nel quale tenta di dare una spiegazione non sociologica al problema dell’affermazione del nazismo), sostiene che ad aver generato lo stato autoritario sono state delle forze endogene all’ideologia ed al sistema di potere dominanti ed in contrasto con lo stato liberaldemocratico sin dalla fine del primo conflitto mondiale. Il filosofo berlinese le identifica nelle figure “eroiche” dei personaggi che nascono dall’unione del misticismo tedesco, del Rinascimento, del militarismo prussiano (tale sommatoria di caratteri culmina nella concezione del capo carismatico, che – in opposizione alla piatta vita borghese – serve ad esaltare lo “sprezzo del pericolo” proprio di chi vive nel culto della vita vissuta eroicamente); nella Lebensphilosophie poiché irrazionalistica; nel “naturalismo irrazionalistico” in quanto
"la natura viene concepita come una dimensione di originarietà mitica (indicata in maniera appropriata dal binomio “sangue e terra”), che ha tutte le caratteristiche di una dimensione pre-storica: la storia umana ha veramente inizio solo con il superamento e le trasformazione di questa dimensione"[161],
e nell’universalismo, che ha "assunto molto rapidamente la funzione di una teoria politica giustificatoria"[162]  dell’ordine esistente[163].
Nella loro lotta contro il liberalismo, le forze che ne hanno determinato la fine pretendono di attaccare
"“le idee del 1789”, di umanesimo e pacifismo da rammolliti, di intellettualismo occidentale, di individualismo egoistico, di abbandono della nazione e dello Stato alla lotta di determinati gruppi sociali, di egualitarismo astratto, di partitocrazia, di ipertrofia dell’economia, dell’effetto disgregatore del tecnicismo e del materialismo"[164].
Ma, fa osservare Marcuse, proprio i “liberali” – ai quali è stata attribuita l’assunzione e la difesa di queste posizioni – sono coloro i quali per primi hanno attaccato furiosamente queste idee essendo, fra l’altro, a favore di uno stato interventista (e sul piano economico e su quello militare). Non è un caso che nel liberalismo nasca, si sviluppi, si tempri l’ideologia e la venerazione per il “capo carismatico”: il liberalismo, infatti, esalta la figura del capitalista con la celebrazione del "geniale capo d’azienda, del boss “nato”"[165].
Lavorando per l’OSS (l’Office of Strategic Services, i servizi segreti americani) alcuni anni dopo, Marcuse – occupandosi più a fondo del nazismo e della sua struttura politico-economica – osserverà che in realtà il regime nazista (che era riuscito a sopprimere le ultime vestigia di feudalesimo ancora esistenti in Germania) è fortemente condizionato da quegli stessi industriali che avevano dominato la repubblica di Weimar[166].
La sostanziale debolezza della società liberale è determinata non semplicemente dal fatto di essere intrinsecamente democratica e quindi fare del confronto "libero ed aperto delle diverse opinioni e dottrine"[167] lo strumento attraverso il quale si sarebbe visto "ciò che è razionalmente vero e giusto"[168]; di fatto "non è tanto il liberalismo a mutare, quanto la vecchia borghesia ad attestarsi su posizioni conservatrici"[169].
In questo scritto di Marcuse emerge, con la necessaria evidenza, la sua preoccupazione per la “tenuta democratica” dello stato liberale. La democrazia, sostiene il Nostro, va costantemente difesa dalle aggressioni di quei gruppi che, con la copertura delle libertà offerte loro dallo stesso sistema liberaldemocratico, tentano in tutti i modi di stravolgerne la natura democratica. Queste problematiche tornano in evidenza anni dopo, ne La tolleranza repressiva – testo pubblicato nel pieno della guerra fredda e nel corso delle lotte per l’emancipazione delle popolazioni statunitensi non-bianche – nel quale si invita alla "intolleranza contro i movimenti di destra e la tolleranza dei movimenti di sinistra"[170], qualificati – questi ultimi – come progressisti (Marcuse ricorre qui ad una identificazione generalizzatrice e semplificatrice: destra = negativo, regresso; sinistra = positivo, progresso[171] - tutto ciò sarà anche generalmente corretto, ma non è vero in assoluto); tutto ciò sfocia in una sorta di
"“diritto naturale” della resistenza per le minoranze oppresse e dominate di usare mezzi extralegali se quelli legali hanno mostrato di essere inadeguati. La legge e l’ordine sono sempre e dovunque la legge e l’ordine che proteggono la gerarchia stabilita, è insensato invocare l’autorità assoluta di questa legge e di quest’ordine contro quelli che soffrono a causa sua e lottano contro di esso, non per ottenere vantaggi personali, ma per la loro parte di umanità (…). Se usano violenza, non danno inizio ad una catena di violenze ma cercano di spezzare quella stabilita. Da quando verranno puniti conosceranno il rischio, e quando lo corrono volontariamente, nessuna terza persona, e ultimi di tutti l’educatore e l’intellettuale ha diritto di predicare loro che se ne astengano"[172].
Tali affermazioni hanno consentito ai commentatori – che le hanno, in maggioranza, malamente interpretate – di considerarle come un “manifesto” terroristico, sbagliando. Ne La tolleranza repressiva, il Nostro analizza il potenziale reazionario della società statunitense dei primi anni ’60, in cui la segregazione razziale era combattuta in prima persona dagli studenti dei campus universitari (che spesso pagavano a caro prezzo la loro attività politica), e la rapporta spesso alla situazione tedesca poco prima della presa del potere dei nazisti.
Il nostro Autore scrive infatti che
"In circostanze passate e differenti, i discorsi dei leaders fascisti e nazisti furono il prologo immediato del massacro. La distanza tra la propaganda e l’azione, tra l’organizzazione ed i suoi effetti sulla gente si è fatta troppo corta. Ma la diffusione della parola avrebbe potuto essere arrestata prima che fosse troppo tardi: se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi cominciarono la loro campagna, l’umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale"[173].
E’ dunque il problema del fascismo, ad inquietare Marcuse: se, negli anni Venti, le forze interne allo stato liberaldemocratico avessero represso il nazifascismo sul nascere, la storia avrebbe avuto un corso diverso.
La trasformazione dallo stato liberaldemocratico allo stato totalitario ed autoritario è anche diretto frutto della trasformazione avvenuta all’interno stesso del modo di produzione capitalistico che, superando la fase della libera concorrenza per quella della concentrazione monopolistica del capitale (combines, cartelli, trusts) abbisogna di far adeguare l’ordinamento politico della società alla struttura economica, che ne impone il cambiamento[174]. Pertanto, il fascismo è figlio dello sviluppo capitalistico basato sulla razionalizzazione produttiva.
Circa la natura del regime fascista vi fu, fra i membri dell’istituto francofortese[175], un acceso dibattito, che vide contrapporsi – tanto in conferenze tenute presso la Columbia University[176] quanto sull’organo dell’Istituto[177] Neumann, Kirchheimer, Gurland e Marcuse a Pollock, Horkheimer ed Adorno[178]: il disaccordo non riguardava semplicemente la definizione da dare alla struttura che si stava creando (se si trattasse di capitalismo monopolistico o di capitalismo di stato[179]) ma anche sulla relazione intercorrente fra la società liberale e la sua degenerazione nazifascista, che il nostro autore considera una "tecnocrazia"[180] nella quale una burocrazia onnipervasiva ha permeato di sé lo Stato. Non c’è perciò distinzione, ma al contrario una "fusione fra burocrazie private, semiprivate (partito) e pubbliche (governative)"[181], e non solo:
"l’intensificazione del lavoro, la propaganda, l’addestramento di giovani e di operai, l’organizzazione della burocrazia governativa, industriale e di partito – tutti strumenti del terrore quotidiano del nazismo – si attengono alle direttive della massima efficienza tecnologica"[182]:
il nazismo può mantenersi al potere soltanto esercitando il terrore. Esso infatti finirà con il mostrare "in modo sempre più evidente la propria incapacità di sviluppare le forze produttive e cadrà di fronte ad un potere che  dimostrerà così di essere più efficiente del fascismo"[183]. Per la società tecnologica in generale e per quella  nazista in modo particolare,
"l’individuo efficiente è quello il cui rendimento è un’azione solo nella misura in cui è la reazione più appropriata alle oggettive pretese del sistema, e la cui libertà si limita alla selezione dei mezzi più adeguati per raggiungere una meta che lui non ha stabilito"[184].
Poiché la richiesta che viene rivolta all’individuo è sempre la stessa (non pensare, a tutto pensano gli ottimati al governo) non è allora possibile identificare, diversamente da Pollock, il nazismo con un nuovo ordine[185] - soprattutto tenendo anche conto che la vecchia oligarchia industrial-finanziaria rimase saldamente al suo posto.
La presa del potere dei regimi fascisti in Europa fu causa, per la gran parte degli aderenti alla Scuola, di studi specifici su vari aspetti delle società fasciste: dall’economia alla giurisprudenza, dalla filosofia al pensiero politico. Gli studi da loro compiuti non furono causati soltanto da un fatto puramente etnico-religioso e politico-culturale: il loro impegno contro di esso fu, per la maggior parte di essi, una intensa attività nei servizi segreti statunitensi.
Nel 1941, quando anche negli Stati Uniti entrarono in guerra, fra i membri dell’Istituto si era già da tempo consumata una frattura. Con la scusa delle ridotte possibilità finanziarie dell’istituto, Horkheimer aveva via via  allontanato dallo stesso – venendo in tal modo incontro ai desiderata di Adorno – parecchi dei suoi membri. All’epoca, a far parte in pianta stabile del “circolo ristretto” dell’Istituto – che di fatto aveva le funzioni di guida teorica del gruppo e che, per le influenze reciproche, dovute alla discussione collettiva delle tematiche che si affrontavano, era il cuore della scuola – facevano parte, oltre ad Horkheimer, Adorno, Weil e Pollock anche Fromm, Löwenthal e Marcuse. Tutti gli altri furono personalità che, inserite più o meno in pianta stabile nell’organico dell’Istituto per un lasso variabile di tempo, di tanto in tanto partecipavano (invitati) alle discussioni del circolo ristretto ma poi ritornavano nella cerchia ampia dei “collaboratori”.
Nel corso del 1942 la direzione dell’Istituto decise di rinunciare a Marcuse. La strategia utilizzata nei confronti del Nostro era stata sperimentata con successo con altri membri dell’Istituto non molto tempo addietro: il nostro Autore venne informato da Pollock (l’alter ego di Horkheimer e da questi incaricato) "che per il mese prossimo avrebbe ricevuto 300 dollari, e che per il futuro tutto dipendeva dalla situazione generale e da un suo (di Horkheimer) colloquio con Pollock"[186], rendendo molto precaria la situazione economica di Marcuse che iniziò a viaggiare fra la sede newyorkese dell’Istituto e Los Angeles, dove s’era stabilito Horkheimer – il quale iniziò a far balenare la possibilità di scrivere un libro assieme a lui.
Marcuse cercò, costretto dalla riduzione dello stipendio, di inserirsi stabilmente, assieme al suo amico Franz Neumann – allontanato dall’Istituto l’anno precedente, all’incirca nello stesso periodo della pubblicazione del suo libro Behemoth[187]– nella Columbia University, dove erano molto apprezzati[188]. Tuttavia, la tecnica "dell’affamamento finanziario"[189] funzionò anche su Marcuse, così come aveva funzionato anche su Fromm e su Neumann prima di lui: venuta a cadere la possibilità di entrare a far parte organicamente della Columbia, accettò – atterrito oltremisura da Pollock ed Horkheimer che continuavano a ripetergli di non poter assicurargli lo stipendio[190] dalla prospettiva di poter rimanere privo di mezzi – un incarico a Washington presso il Bureau of Intelligence of War information[191], prima, entrando successivamente a far parte dell’OSS (Office of Strategic Services, dal quale nascerà poi la CIA) ritrovandovi Kirchheimer, Gurland, Pollock e Neumann, che l’aveva preceduto.
A Neumann ed a Marcuse, Horkheimer (l’unico, assieme ad Adorno, a non lavorare per il governo americano) si rivolse perché redigessero in breve un bilancio ed un progetto di ricerca al fine di ottenere dall’American Jewish Commitee finanziamenti per un lavoro sull’antisemitismo, da condurre sulla falsariga del lavoro collettivo precedente (gli Studi sull’autorità e la famiglia), che vide la luce qualche anno dopo[192].
Adorno, dopo alcuni anni passati in Inghilterra, era giunto negli Stati Uniti nel 1938 – prima che Marcuse iniziasse a spostarsi fra le due sedi dell’Istituto e cercasse di risolvere i suoi problemi economici con una sistemazione lavorativa definitiva – ed aveva cercato (riuscendovi) di allontanare il Nostro da Horkheimer sin dal 1935, per prenderne il posto[193].
Horkheimer aveva proposto a Marcuse di lavorare assieme ad un libro, che non vide mai la luce. Proprio questo era il motivo recondito per il quale il Nostro era tanto riluttante ad accettare di lavorare al di fuori dell’Istituto ed era invece uno dei più desiderosi, al termine del conflitto, di riprendere al più presto il suo posto ed il suo lavoro all’interno dell’Istituto. Non era il solo a desiderare ciò: anche Kirchheimer e Neumann volevano tornare a collaborare con Horkheimer, il quale continuò loro a fare presenti le difficoltà finanziarie che l’Istituto stava attraversando – tacendo loro che
"Felix Weil nella primavera del 1945 si era impegnato di nuovo per una donazione di 100.000 dollari. Dal canto loro i direttori dell’Istituto si guardarono bene dall’invitarli personalmente a collaborare"[194].
Di fatto, già da allora, l’Istituto era costituito da Horkheimer, Adorno, Pollock, Weil e Löwenthal: erano quindi inevitabili le separazioni da tutti gli altri[195].
Al termine del conflitto, i membri dell’Istituto che lavoravano per il governo statunitense continuarono ancora per qualche anno a prestare servizio presso i vari uffici governativi prima di poter tornare alla vita civile o di pensare di potere tornare in Germania.
Il lavoro di Marcuse all’interno dell’OSS era stato quello di identificare i criminali di guerra in campo economico, in modo da poter procedere alla denazificazione della Germania[196]. Tornò nel suo Paese in qualità di ufficiale al seguito delle truppe americane nel 1947[197] ma finì con l’essere deluso del modo con cui tale operazione veniva condotta:
"i rappresentanti dei governi militari[198] scelsero la via più comoda per stabilizzare la situazione, lasciando intatte le organizzazioni che funzionavano e riconfermando al loro posto i funzionari in servizio effettivo. E quando vi furono davvero delle sostituzioni, spesso esse riguardarono soltanto noti nazionalsocialisti che vennero sostituiti da altri meno noti o da personale di propria fiducia. (…) Il divieto di attività politica ebbe conseguenze fatali. I comitati antifascisti formatisi in molte città in concomitanza con l’invasione degli alleati, furono paralizzati dalle crescenti limitazioni alla loro libertà d’azione. Venne così automaticamente favorita la continuità dell’influenza nazionalsocialista e conservatrice in ambiti non politici, soprattutto nell’economia e in grandi settori dell’amministrazione. Da parte degli alleati, inoltre, non c’era affatto l’intenzione, neppure a lunga scadenza, di sollecitare il ritorno degli emigranti antifascisti"[199].
In una lettera a sua moglie Maidon, Horkheimer – allora in Germania[200] per sondare la possibilità di riportare l’Istituto a Francoforte – osserva che il modo in cui veniva condotta la denazificazione non lasciava dubbi sul fatto che avrebbe inciso negativamente su tutto il popolo tedesco[201]. Dello stesso parere era Marcuse il quale scriveva, in un testo – trovato nell’Archivio Marcuse e da poco pubblicato – utilizzato molto probabilmente anche come base di documento interno per i servizi, che
"National socialism has changed the thought and behavior pattern of the German people in such a way that is no longer susceptible to the traditional methods of counterpropaganda and education"[202].
Ma l’analisi che conduceva Marcuse a proposito della mentalità tedesca era finalizzata determinare quali fossero le modalità per una efficace attività di rieducazione del popolo tedesco, al termine del secondo conflitto mondiale. Per fare ciò, Marcuse innanzitutto doveva necessariamente analizzare la struttura del fascismo tedesco.
Abbiamo già accennato in precedenza quali elementi il nostro autore considerasse determinanti per il dissolvimento dello stato liberale e per la fondazione dello stato fascista. Questi nuovi scritti ci serviranno a cercare di analizzare più dettagliatamente, con maggiore precisione ed a chiarire meglio l’intera questione.
Marcuse osserva che il nazismo ha inciso talmente nella mentalità della popolazione tedesca da aver fatto sviluppare in essa la capacità di esprimersi e di comprendere un linguaggio al di fuori e della originaria Kultur  tedesca e del comune sostrato culturale occidentale. Per arrivare a questo punto, il nazismo ha utilizzato due livelli: uno pragmatico – basato fondamentalmente sull’ideologia dell’efficienza e del successo – e l’altro mitologico (facendo leva sul razzismo e su quello che il Nostro chiama neopaganesimo)[203]. Uno degli aspetti culturali sui quali s’era accennato all’inizio era la Lebensphilosophie. Marcuse distingue attentamente fra il pensiero di Dilthey e quello degli altri “filosofi della vita”[204]. Non poteva non essere così: la sua Habilitationsschrift si proponeva proprio di “rileggere” Hegel con le categorie offerte da Dilthey.
La distinzione compiuta da Marcuse non gli impedisce però di individuare proprio nella Lebensphilosophie uno dei caratteri fondanti dell’ideologia fascista, di cui uno dei caratteri fondanti era l’eroicizzazione dell’uomo – concezione che culmina nella ideologia del capo carismatico – al fine di contrapporre lo “sprezzo del pericolo” (proprio degli “eroi”, delle “figure carismatiche”) di chi vive nel culto della vita vissuta pericolosamente con la piatta, monotona, vita borghese. Un secondo motivo ideologico il fascismo lo trova nella concezione della natura come di qualcosa che era preesistente, originario, e che creava un legame quasi ancestrale (pertanto, appunti, mitologico) con il sangue, con il popolo, che nelle concezioni politiche fasciste rappresentava l’unità, la totalità che "preesiste ad ogni differenziazione della società in classi, gruppi di interesse ecc."[205]. Visione della realtà evidentemente falsa: perché – come rileva Palombella –
"l’unità proclamata non sia “l’unificazione compiuta nell’ambito di una società classista per mezzo del dominio di una classe, ma un’unità che unifica tutte le classi”: una “società senza classi sulla base e nel quadro della società classista presente” (…) impedisce il superamento reale degli antagonismi, crea una comunità illusoria"[206].
Non si deve dimenticare che – anzi, Marcuse lo scrive a chiare lettere – che l’esaltazione fascista della figura eroica determina l’esaltazione del grande industriale[207] a scapito del piccolo industriale, del commerciante borghese. All’interno dell’ideologia fascista c’è una forte componente anticapitalista, ma – e questo è uno dei problemi che il nazismo si trova a dover affrontare – era l’espressione politica della razionalizzazione economica avviata con la cartellizzazione delle industrie. Si apre quindi all’interno stesso dell’ideologia fascista uno iato (e Marcuse non mancherà di farlo rilevare) fra l’ideologia anticapitalista propugnata dagli stessi piccoli industriali timorosi di dover soccombere alla grande industria ed il reale asservimento del regime fascista alle logiche d’impresa[208].
Ma mentre l’anticapitalismo fascista è soltanto un anticapitalismo che non intacca la proprietà privata, in una società comunista l’abolizione di questa è prerequisito essenziale alla sua stessa esistenza[209].
Non attaccando il concetto di proprietà e non analizzando dal punto di vista della critica della economia politica la società (fondamento essenziale, assieme al materialismo storico, per la comprensione della genesi e dello sviluppo della teoria critica elaborata dai francofortesi), risulta evidente che l’unica cosa che il fascista può fare – sempre – è difendere a spada tratta (e non soltanto metaforicamente) l’assetto sociale ed economico esistente. Le contraddizioni sociali, infatti, vengono dai fascisti fatte tacere all’interno di accordi corporativistici dichiaratemente miranti alla eliminazione del movimento operaio[210].
L’antimarxismo e la soppressione di ogni movimento operaio organizzato costituiscono le caratteristiche fondamentali del fascismo, le quali si trovano (evidenziando il debito di gratitudine che ogni liberale deve avere verso il fascismo) anche nella dichiarazione di Mises, riportata da Marcuse, secondo la quale
"il liberalismo sostiene che "il fascismo e tutte le tendenze dittatoriali affini abbiano salvato per il momento la civiltà europea. Il merito che il fascismo si è guadagnato vivrà così eterno nella storia" "[211].
Il liberalismo difende la proprietà privata dei mezzi di produzione, ed il fascismo fa altrettanto:
"lo Stato totalitario ed autoritario sposta la sua lotta contro il liberalismo sul piano di una lotta di Weltanschauungen, lasciando da parte la struttura fondamentale del liberalismo: esso accetta infatti largamente questa struttura fondamentale. Come fondamento di quest’ultima avevamo indicato l’organizzazione della società basata sull’economia privata, cioè sul riconoscimento della proprietà particolare e dell’iniziativa privata degli imprenditori. Proprio questa organizzazione della società rimane alla base anche dello Stato totalitario ed autoritario"[212].
Infine, altra caratteristica che unisce il liberalismo al fascismo e che dimostra la derivazione di questo da quello, è la credenza che esistano "eterne leggi naturali che reggono la vita sociale"[213].
A causa dell’affermarsi politico del fascismo, quello che in precedenza poteva essere considerato un valore per la cultura e per la società borghese – il riferimento che il Nostro porta è il razionalismo, inteso come capacità propria in ogni soggetto di utilizzare criticamente la propria ragione – viene a capovolgersi nel suo contrario. Non è più il singolo soggetto a stabilire in base a principî ciò ch’è giusto, vero, bello: è il sistema che si arroga il diritto di farlo; è il sistema che pretende di essere considerato razionale: si autoconsacra assolutamente necessario[214].
La razionalizzazione e la privatizzazione dell’economia costituiscono il prologo per la "privatizzazione della ratio" [215], e quindi la premessa per la successiva totale deviazione irrazionalistica del sistema, nella quale concetti elaborati dai teorici liberali, come quelli che hanno generato "discorsi sull’universalità, sull’umanità, ecc. si arenano in pure astrazioni"[216]. Questi concetti universali vennero considerati “astrazioni” (e per ciò stesso, inutili) dalle popolazioni, in quanto il nazismo era riuscito ad incidere in profondità nella mentalità delle popolazioni, facendo breccia nella mentalità delle popolazioni, facendo breccia in esse sia attraverso uno strato mitologico sia attraverso uno pragmatico. Su questo dobbiamo puntare la nostra attenzione.
Lo strato pragmatico è secondo Marcuse caratterizzato dalla filosofia dell’efficienza e del successo, dalla meccanizzazione e dalla razionalizzazione, nonché da una notevole dose di realismo[217], in contrapposizione al tradizionale idealismo tedesco – in base a questo carattere ben si comprende la ragione della “morte di Hegel” con l’ascesa di Hitler al potere.
Per penetrare a fondo nella mentalità della popolazione tedesca, il nazismo è ricorso al cavallo di Troia del mito, cercando di farla rivoltare contro i principî basilari della civilizzazione occidentale. La rivolta contro questi principî era rappresentativa della rivolta contro la repubblica di Weimar, nella cui cultura quei principî erano presenti[218].
La concezione che il fascismo tedesco ha della natura è tale da far giocare ad essa un ruolo molto particolare: essa non viene più considerata semplicemente come un elemento di cui ci si possa impadronire ed utilizzare o come ambiente nel quale siano date le basi per lo sviluppo sociale, produttivo; essa viene vista come fonte dei "most fundamental impulses, driver and desires of man"[219]: questa considerazione primordiale della natura è – per Marcuse – pre-cristiana, e pertanto dimostra come essa stessa sia una rivolta contro la civilizzazione occidentale: venendo concepita come fonte degli impulsi più fondamentali, delle energie, dei desideri dell’uomo, il quale finisce attraverso questa con l’essere inserito in una sfera nella quale "man lives “beyond good and evil”"[220]. Vivendo al di là del bene e del male, l’anima dell’uomo viene concepita e rimane in un rapporto antagonistico rispetto alla concezione sviluppata dalla civiltà occidentale: qui si ha conoscenza del bene e del male, lì ci si ferma in un limbo.
Nella storia tedesca, la protesta contro il modello di civiltà sviluppato in occidente ha dato spesso origine a movimenti che spesso sono stati attualizzati ed hanno assunto caratteri di massa. Ciò non elimina la possibilità – avverte Marcuse – che tali movimenti non abbiano potuto o non possano essere manipolati: l’esempio del nazismo che incita le masse a combattere
"against the Jews and the “capitalist plutocrats”, but the extermination of the Jews and the decline of “finance capital” served to strengthen the hold of those industrial groups which are already predominant in German society"[221].
Marcuse analizza crudamente e realisticamente la situazione tedesca: si accorge, infatti, che chi incita le masse ha una ricompensa immediata, generata nei singoli individui dallo scontento della civilizzazione: i “diversi” divengono il capro espiatorio di soggetti frustrati e manipolati[222].
Una delle caratteristiche del nazismo sta nell’aver rimosso – di contro alla morale cristiana – i tabù sessuali: si tratta però di cambiamento, non di abolizione degli stessi, cosa che ha generato un rafforzamento del regime, piuttosto che un suo indebolimento[223]. Qualche decennio più in là, il Nostro – riconnettendosi con le analisi fin qui esposte – affermerà che
"l’alto livello di vita non basta a riconciliare le genti con la propria vita e con i propri governanti, la "manipolazione sociale" delle anime e la scienza delle relazioni umane forniscono la necessaria catessi della libido. Nella società opulenta, le autorità non hanno quasi più il bisogno di giustificare il dominio che esercitano. Esse provvedono al continuo flusso dei beni; esse provvedono a che siano soddisfatte la carica sessuale e l’aggressività dei loro soggetti"[224]
ed aggiungendo subito dopo che la massa,
"efficacemente manipolata ed organizzata, è libera: ignoranza, impotenza e eteronomia introiettata costituiscono il prezzo della sua libertà. Non ha senso parlare di liberazione ad uomini liberi, e noi siamo liberi se non apparteniamo alla minoranza degli oppressi. E neppure ha senso parlare di repressione addizionale ad uomini e donne che godono oggi di una libertà sessuale maggiore di quanta ne abbiano mai avuta in passato"[225].
E se le masse non si ribellano a questo stato di cose, è perché anche loro si sono perfettamente integrate all’interno della società, di una società che – apparentemente – non offre alternative a se stessa[226]. Si giunge così, attraverso la manipolazione della popolazione, alla fascistizzazione dei paesi democratici: ampie parti dell’ideologia fascista vengono utilizzate in modo consapevole, scientifica, nei paesi “democratici” al fine di sottometterle meglio alle pretese del sistema. Il quale anche qui pretende di avocare a sé il massimo della credibilità, il massimo della razionalità. Ma questa è una evoluzione successiva del pensiero del filosofo berlinese, che esamineremo più in là; ora ci interessa continuare a studiarne le premesse, cioè l’interpetrazione che il Nostro dà del fascismo.
Il fascismo ha creato in Germania una nuova mentalità che è,
"even in its most irrational aspects, the results of a process of totalitarian “rationalization” which remove the moral inhibition, waste and inefficiency that stand in the way of ruthless economic and political conquest"[227].
Per far ciò ha dovuto anche politicizzare tutto, persino la vita privata: tutto si svolge all’interno di una sfera politica[228], la quale è giunta a traviare il significato ed il senso delle parole, pervadendole della propria irrazionalità[229]. Irrazionalità che non attiene però alla sfera direttamente impegnata con la produzione:
"in present day Germany apparently two different mentalities, logics and language coexist: the one, pertaining to the National Socialist philosophy, ideology and propaganda, utterly irrational; the other, pertaining to the realm of administration, organization and daily communication, utterly rational and technical."[230],
ma sono le due facce di una stessa medaglia. Il Nostro tuttavia evidenzia come in realtà proprio il linguaggio più strettamente tecnico sia in realtà pienamente subalterno alle logiche di produzione, ai programmi prefissati: tutto, quindi, parla il linguaggio propagandistico del regime. Ma esiste anche un altro linguaggio, quello mitologico, cui fa riferimento – avendo perso quello comune della civiltà occidentale – la popolazione, in questo comunque invogliata dalla propaganda e dall’ideologia nazista. Quella che doveva essere una protesta contro la civilizzazione cristiana si rivela in realtà essere un ulteriore mezzo col quale il nazismo pervade la società, piegando – anche con il contributo del mito – tutto al servizio della razionalità tecnologica[231]. Così facendo, però, il nazismo distrugge i contenuti stessi del mito, il cui valore "becomes an exclusively operational one: they are made parts of the tecnique of domination"[232]. Dopo una attenta analisi della struttura del discorso fascista nelle sue forme sintattiche, il nostro Autore scrive che il linguaggio nazista è fortemente incentrato su idee – che riflettono e riproducono l’irrazionalità stessa del sistema – irrazionali: le idee di popolo, razza, terra, sangue e di Reich. Sebbene essi sino degli universali, vengono utilizzate come particolari, escludendo altre razze, altri popoli, ecc.[233].
Ma perché il cittadino tedesco aveva rinunciato alla libertà per un regime totalitario? Una delle spiegazioni può essere data, oltre le altre che possono essere fornite, dalla concezione dostoevskijiana del borghese, precedentemente riportata. Il borghese, secondo il grande autore russo, aveva smesso di lottare perché di fronte non aveva altri all’infuori di sé. Fatto ciò, però, aveva finito col pagare l’assoluta mancanza di rivali con l’affidarsi ad un regime. Napoleone III prima, Hitler poi: ancora una volta il borghese aveva smesso di lottare purché gli venisse garantita la sûreté[234]. Nel nome di questa sicurezza, che avrebbe dovuto garantire la "libera conduzione dell’economia"[235] si è giunti al massimo di garanzie per i grandi industriali.
A porre per primo l’attenzione sul momento della razionalizzazione è stato, afferma il filosofo berlinese, Max Weber[236]. Il Nostro tornerà sul pensiero di Weber nel corso di un convegno di sociologia, negli anni ’60. E’ utile soffermarsi un momento su questo intervento, nel quale si afferma che per Weber
"l’idea specificamente occidentale della ragione sui realizza in un sistema della civiltà materiale ed intellettuale (economia, tecnica, “condotta della vita”, scienza, arte) che trova il suo pieno sviluppo nel capitalismo industriale, e questo sistema tende verso un tipo specifico di dominio, che diventa il destino dell’epoca presente: la burocrazia totale"[237].
Prima di andare avanti, comprendendo il nesso sotterraneo che lega Weber al nazismo, occorre fermarsi un momento ancora su questo intervento del Nostro, a detta del quale
"nello sviluppo della razionalità capitalistica, l’irrazionalità diventa così ragione: ragione, in quanto sviluppo frenetico della produttività, conquista della natura, allargamento della ricchezza di merci (e della loro disponibilità per strati più larghi della popolazione); ma irrazionale, perché l’aumentata produttività, il dominio della natura e la ricchezza sociale diventano forze distruttive"[238]:
Ecco così esplicitato, con estrema chiarezza, il senso dell’irrazionalità del sistema. Ma il nostro Autore non si ferma qui: accusa senza mezzi termini Weber di essere stato uno dei precursori del fascismo:
"si è definito un “borghese” e ha identificato il suo lavoro con la missione storica della borghesia: in nome di questa pretesa missione ha accettato l’alleanza di strati rappresentativi della borghesia tedesca con gli organizzatori della reazione e della repressione; per gli avversari politici dell’estrema sinistra ha raccomandato il manicomio, il giardino zoologico e le rivoltellate; si è infuriato contro gli intellettuali che hanno sacrificato la loro vita per la rivoluzione"[239].
L’opera weberiana, per il suo puntare sull’industrializzazione capitalistica nella prospettiva imperialistica, apre le porte alla concezione totalitaria dello stato per il semplice fatto che già "evoca il carisma irrazionale"[240]. Abbiamo sin qui evidenziato alcune delle caratteristiche del pensiero weberiano, che si ritrovano pari pari nell’ideologia fascista.
Abbiamo in precedenza visto che il carisma costituisce una delle basi ideologiche del fascismo. Marcuse, nell’analizzare l’opera di Weber, pone in luce come proprio dall’estrema razionalità dell’apparato burocratico discende l’assoluta necessità del "vertice carismatico"[241]. Lasciamo sia Marcuse stesso a chiarire il suo pensiero:
"Di tutti i concetti weberiani quello di carisma è forse il più problematico: già il termine implica il pregiudizio di una consacrazione quasi religiosa data ad ogni specie di dominio che riesca ad imporsi e pretenda di essere dominio personale. Non si vuole qui discutere il concetto stesso, ma esaminarlo solo nella misura in cui esso possa giovare a chiarire la dialettica di razionalità ed irrazionalità nella scienza moderna. Il dominio carismatico si presenta come stadio di un doppio processo evolutivo: da un lato il carisma tende a rovesciarsi in un dominio consolidato di interessi, mentre, dall’altro, l’organizzazione burocratica si sottomette a sua volta ad un vertice carismatico. (…) Ciò che inizia come carisma del singolo e del suo seguito personale, si compie poi nel dominio di un apparato burocratico di funzioni e diritti acquisiti, in cui i dominati dal carisma diventano “sudditi” regolari, che pagano le tasse ed adempiono dei doveri"[242].
Qual è, a questo punto, l’intima connessione che unisce Weber al fascismo? Essa è data – oltre che dal carisma, del quale abbiamo già parlato – dalla funzione che la burocrazia viene ad assumere nel fascismo.
La burocrazia (governativa, industriale, di partito) ha il compito di far raggiungere un fine prefissato alla popolazione. Poiché quella fascista non è soltanto una economia altamente razionalizzata, ma più precisamente una economia di guerra, tutta la popolazione deve rispondere con la massima efficienza agli imperativi dell’apparato industriale. Weber, afferma Marcuse, aveva intuito che essa era assolutamente
"inseparabile dalla progressiva industrializzazione, trasferendo all’insieme della società la capacità di prestazione, portata al massimo, dell’impresa industriale: esso è il mondo formalmente più razionale del dominio"[243]
che qui diviene dominio dell’apparato, costruito sul sapere specializzato[244]. Su questa base apparentemente neutra (quella del sapere), emerge la burocrazia. Essa, che regola nel modo più opportuno la società ai fini della produzione altamente razionalizzata e pianificata, è essa stessa strumento del carismatico e del gruppo di potere che accanto a lui si raccoglie. L’aumento del livello di specializzazioni non fa altro che aumentare in modo esponenziale il peso e l’importanza della burocrazia. Marcuse già negli anni ’40 si rende conto dell’importanza che avranno i i white collars nella società odierna, partendo proprio  dall’analisi che stava compiendo sulla struttura della società nazista[245].
Il linguaggio della burocrazia, altamente tecnico, riproduce il linguaggio fascista, anch’esso strettamente tecnico e nel quale i suoi concetti "aim at a definite pragmatic goal, and fixate all things, relations and institutions in their operational function within the National Socialist system"[246]. Tutto è definito, all’interno del sistema fascista, in base a concetti ed a modalità di comportamento operazionali, funzionali al mantenimento ed al rafforzamento del sistema. In tale situazione, persino il linguaggio usuale ed il significato che in passato avevano determinati concetti vengono ad essere svuotati di senso, privati del loro significato originario ed assumono un nuovo senso, più consono alle richieste del sistema – che cerca di evitare l’esplodere di conflitti sociali: i concetti utilizzati vengono “depotenziati”, tradotti – letteralmente – in maniera tale da renderli privi di tutto il loro potenziale critico, ed infine rimessi in circolazione[247]. In tal modo
"concetto e parola tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola. Il primo non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità (reazione)"[248].
Se i concetti critici vengono depotenziati a tal punto da essere se non rovesciati nel loro contrario, almeno abbondantemente stravolti[249], allora della ragione umana non si sa che fare: tutto ciò che il sistema chiede è semplicemente sottomettersi ad esso, lavorare e produrre rispondendo positivamente alle richieste del sistema[250]. La razionalità individuale cessa di essere un valore: è invece il sistema ad esserlo. La conseguenza diretta di ciò è che l’individuo, ormai privato della ragione, si affida totalmente al sistema, gli crede ciecamente. Colui il quale regge il sistema non deve nemmeno più indire – di tanto in tanto – le elezioni (come in Italia fino al 1925 ed in Germania fino al 1933) o i referendum consultivi (come nella Francia del Secondo Impero): l’appoggio popolare, dopo questo costante e continuo lavaggio del cervello, è certo. Le frange di dissenso se non sono perseguitate attraverso veri e propri pogrom con la partecipazione più o meno attiva della popolazione, vengono costrette all’illegalità ope legis.
L’inversione è compiuta: lo stato liberaldemocratico si trasforma in autoritario.
Al termine della guerra, la situazione economica della Germania era disastrosa[251]: lo smembramento del Paese in Länder economicamente autarchici era il risultato della politica delle forze alleate, il cui piano originario era addirittura la trasformazione di un Paese ad alta industrializzazione in un Paese agrario[252]. Il tutto poi era aggravato dalla crisi economica e dall’arrivo di profughi causato dallo spostamento ad Ovest dei confini geografici e politici del paese. Gli statunitensi, che più delle altre potenze occupanti erano coinvolte economicamente nello sforzo della ricostruzione post-bellica, resisi conto che mantenere i Länder privi di un organismo centrale unitario avrebbe significato un continuo e sempre maggiore sforzo economico delle potenze occupanti, avviarono di concerto con le altre potenze atlantiche la ricostruzione della Germania[253].
Kirchheimer, Neumann e soprattutto Marcuse avrebbero voluto, al termine del conflitto, riprendere il loro lavoro all’interno dell’Istituto. Il Nostro – che aveva studiato per conto dell’OSS il fenomeno nazista ed aveva cercato di fornire dei suggerimenti, una volta finita la guerra, per una ripresa della vita democratica[254] - premeva particolarmente perché venissero al più presto riprese le pubblicazioni dellaZeitschrift für Sozialforschung, ma proprio dai direttori dell’Istituto il progetto venne boicottato, spaventati dall’avvenuta radicalizzazione del filosofo berlinese, il quale nel frattempo era passato a lavorare come analista per il Dipartimento di Stato, che nello stesso periodo si trovava sotto
"constant attack from the right-wing, isolationist press during the war (“too many professors”, in the words of one astute journalist), and Mc Carthyite forces were not alarmed by the presence of fascists in the State Department"[255].
Nel clima da caccia alle streghe determinato prima dallo scoppio della guerra e che era tornato al termine della stessa ad opera di Mc Carthy, Marcuse pubblicò quattro lavori: Ragione e rivoluzione, Soviet Marxism, Eros e civiltà, L’uomo ad una dimensione. Essi rappresentano la produzione matura – quella che lo ha reso celebre come uno dei guru della Nuova Sinistra – del Nostro.
§ 2.1b La nuova interpretazione del pensiero hegeliano (back to top)
La nuova lettura di Hegel che Marcuse propone nel 1941 in Ragione e rivoluzione costituisce uno dei suoi principali contributi, e non in qualità di dipendente dai servizi segreti statunitensi, alla lotta contro il nazifascismo. L’originalità della pubblicazione sta tutta nel suo essere un lavoro esplicitamente partigiano – particolare che viene determinato non soltanto da ciò che l’Autore scrive nella prefazione[256], ma anche perché l’interpretazione che del pensiero di Hegel il Nostro presenta[257], è fornita sulla base che del pensiero di Hegel avevano dato la sinistra hegeliana (Feuerbach, Strauss, Bauer, Ruge, Stirner ed, in buona misura, Engels) e Karl Marx – che di quella era stato il critico più sarcastico e feroce.
Ragione e rivoluzione – brillante sommario del pensiero hegeliano, scritto con evidente intento divulgativo – potrebbe essere considerata una sorta di continuazione (politica, però) della precedente Habilitationsschrift, nella quale l’Autore prende in esame un nuovo aspetto del pensiero hegeliano: dalla fondazione di una teoria della storicità, incentrata sul concetto di vita (e quindi anche quelli di esistenza e di storicità) analizzata ne L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, il Nostro passa a considerare un aspetto ad essa strettamente connesso – cioè quello della dimensione sociale (associata) della vita, dell’esistenza dei singoli soggetti. Al centro dell’esposizione marcusiana, più che la sommaria esposizione data del pensiero di Hegel, vi è la teoria hegeliana dello Stato e della società[258].
Nell’analizzare queste problematiche, il Nostro darà una lettura del pensiero di Hegel che risente fortemente degli sviluppi del pensiero del gruppo del Doktorklub, cioè del gruppo dei “giovani hegeliani” berlinesi, le cui  frasi "scuotono il mondo"[259], che Marx conosceva assai bene e con i quali Engels aveva avuto i più stretti contatti[260].
L’interpretazione che offre Marcuse, basata su quella della sinistra hegeliana e su quella di Engels, è marxista, ma non è influenzata dall’interpretazione marxiana del pensiero di Hegel, tanto da essere l’opera che meno risente dell’influsso di Marx. Marcuse, tuttavia, non è però il primo ad incorrere in questo errore, che deriva dalla “canonizzazione” – compiuta da Lenin – dell’interpretazione del pensiero di Hegel che Engels aveva dato. In alcune pagine di Storia e coscienza di classe anche Lukàcs segue Engels – secondo il quale sarebbe stato possibile individuare una netta separazione, all’interno del pensiero di Hegel, fra un momento “rivoluzionario” ed uno “conservatore”.
Su tale interpretazione vi fu un acceso dibattito fra Marcuse e Löwith, il quale sosteneva che a Marcuse andava indubbiamente riconosciuto il merito di aver fatto meglio conoscere il pensiero di Hegel presso le popolazioni di lingua inglese, ma lo accusava apertamente di partigianeria e di rimanere sullo stesso piano dei teorici fascisti, per i quali Hegel era stato un precursore del fascismo[261], ed affermava che "Hegel non è né reazionario né rivoluzionario"[262]. Ma non finiva qui: Löwith accusava apertamente Marcuse di non aver saputo interpretare correttamente il ruolo che la borghesia ed il proletariato hanno avuto nella presa del potere da parte dei regimi fascisti in Germania ed in Italia[263]. La risposta di Marcuse non si fece attendere: il Nostro rivendicò l’essere di parte della sua opera come un contributo alla lotta contro il nazifascismo[264] e sottolineava come, essendo Löwith un valido interprete del pensiero hegeliano, non poteva a questi sfuggire che la natura dei regimi nazisti contraddice la filosofia hegeliana, poiché "è focalizzata sulle categorie di ragione e di libertà"[265] che Hegel dapprima sviluppa come categorie ontologiche e poi "trae da esse precise conclusioni sociali e politiche concernenti le forme concrete dello Stato e della società"[266] e contesta infine a Löwith il fatto di aver frainteso e il pensiero hegeliano e il pensiero marxiano. Tali osservazioni e precisazioni marcusiane in merito all’interpretazione che Löwith dava a Ragione e rivoluzione furono la causa di una seconda recensione a tale opera, nella quale il recensore effettivamente mostrava di aver capito ed apprezzato le critiche marcusiane, tanto da riconoscere che
"Il vero marxismo risulta più sofisticato di quanto ritenga il marxismo volgare, e il vero hegelismo è molto più realistico di quanto immagini l’attuale neohegelismo. Credo che tanto gli hegeliani accademici, quanto i seguaci di Marx abbiano molto da apprendere dallo sforzo di Marcuse di integrare i due"[267].
Dopo aver accennato al fatto che Marcuse interpreta Hegel secondo l’ottica della “sinistra hegeliana”, vediamo come questa – a sua volta – interpretava il pensiero di Hegel.
La lettura che dai giovani hegeliani veniva data dell’opera di Hegel, era tendente a porre in luce "un aspetto del sistema hegeliano e lo rivolge tanto contro l’intero sistema quanto contro gli aspetti che ne estraggono gli altri"[268] giovani hegeliani. Marx analizzò con vero interesse l’interpretazione che di Hegel dava Feuerbach[269], tanto più perché questi fu il primo a non fermarsi alla critica della religione, in quanto tutta
"la critica filosofica tedesca da Strauss fino a Stirner si limita alla critica delle rappresentazioni religiose. Si cominciò dalla religione reale e dalla teologia vera e propria. (…) Il progresso consisteva nel sussumere sotto la sfera delle rappresentazioni religiose o teologiche anche le rappresentazioni metafisiche, politiche, giuridiche, morali, ecc. che si presumevano dominanti; nel proclamare così che la coscienza giuridica, politica, morale è la coscienza religiosa o teologica, e che l’uomo politico, giuridico, morale, cioè “l’uomo”, in ultima istanza, è religioso. Fu presupposto il dominio della religione. A poco a poco ogni rapporto dominante fu dichiarato rapporto di religione e trasformato in culto, culto del diritto, culto dello Stato e così via"[270].
Feuerbach diede invece una lettura assai differente da quella allora in voga presso gli altri “giovani hegeliani”: fece osservare come in realtà il pensiero di Hegel stesse a simbolizzare, sia pure in maniera confusa, una condizione psicologica, una proiezione delle virtù del genere umano in un dio straniero, lontano[271]. Marx si convinse della giustezza del metodo, ma – influenzato da Moses Hess, anche lui hegeliano “di sinistra” – diede una interpretazione, modificata, della lettura di Feuerbach: per lui il pensiero di Hegel
"was not an allegory of religion but of economics. The adventure of Spirit, its passage via objectification back to itself, were a symbol of man’s sufferings in a divided economy and of his eventual return to wholeness by the re-appropriation of what was really his ownbut seemed alien, the economic process"[272].
Alla morte di Hegel, la scuola che aveva creato si divise in tre tronconi. Da una parte i “vecchi hegeliani” – gran parte di loro furono editori delle opere di Hegel – (von Henning, Hotho, Marheinecke, Conradi, Goeschel, Gabler, Fischer e Bauer – il quale poi passò alla Sinistra) i quali tendevano ad una conservazione totale del sistema del maestro, in modo particolare per ciò che riguardava la problematica religiosa[273] - sulla quale, come si è visto, si appuntavano le critiche dei “giovani hegeliani”. Fra i “vecchi” (Destra) ed i “giovani” (Sinistra) hegeliani, il “Centro” (Michelet, Gans, Rosenkranz – considerato anche lui un “vecchio hegeliano”).
Una delle ragioni della scissione della scuola hegeliana fu determinato dalle differenti possibilità di interpretare il momento del “superamento” dialettico nella filosofia di Hegel: esso poteva interpretato "tanto in senso conservatore quanto in senso rivoluzionario"[274]. Il pensiero di Hegel, almeno nella sua fase matura (dal 1816 alla morte, secondo Marcuse)[275], era infatti venuto a coincidere con la Restaurazione – periodo nel quale "Hegel divenne il cosiddetto filosofo ufficiale dello Stato prussiano e il dittatore filosofico della Germania"[276], ma le sue opere presentavano – come si è detto – un carattere ambivalente: ciò consentiva alla “sinistra hegeliana” ed al circolo del Doktorklub di affermare che Hegel aveva
"nascosto l’aspetto critico-rivoluzionario della sua teoria sotto quello dogmatico-conservatore"[277].
Il tentativo compiuto dai membri della “sinistra hegeliana” e del Doktorklub fu quello di portare alla luce l’aspetto rivoluzionario della teoria di Hegel; il Nostro si ricollega esplicitamente a quella linea di pensiero che 
"was the secretly, or at least implicitly, revolutionary Hegel imagined by the Berlin Doktorklub, the Hegel whose theory of essence was a programme for revolution"[278].
Engels, fortemente influenzato dall’interpretazione che questi davano del pensiero di Hegel, scrive che i
"limiti nei quali Hegel stesso aveva arginato il fiume poderoso, giovanile e ribollente, delle conseguenze delle conseguenze della sua dottrina, erano condizionati in parte dal suo tempo, in parte dalla sua personalità. Il sistema era compiuto nei suoi tratti fondamentali prima del 1810, la concezione generale del mondo di Hegel fu conclusa con il 1820. Le sue idee politiche, la sua teoria dello Stato, sviluppata guardando all’Inghilterra portano innegabilmente l’impronta dell’età della restaurazione, così come non gli fu chiara nella sua necessità storica neppure la rivoluzione di luglio. Così egli stesso fu soggetto alla norma, da lui stesso enunciata, che ogni filosofia è solo il contenuto di pensiero del proprio tempo. D’altro lato, le sue opinioni personali furono sì corrette dal sistema, ma non senza influire sulle conseguenze di esso. Così la filosofia della religione e quella del diritto sarebbero riuscite affatto diverse se egli avesse fatto più astrazione dagli elementi positivi che si trovavano in lui in conformità della cultura del suo tempo, e se invece le avesse sviluppate a partire dal pensiero puro. A ciò si possono ridurre tutte le incongruenze, tutte le contraddizioni di Hegel. Tutto ciò che appare troppo ortodosso nella filosofia della religione, troppo pseudo-storico nel diritto pubblico, si deve comprendere da questo punto di vista. I principî sono sempre indipendenti e liberali, le conseguenze – nessuno lo nega – qua e là moderate, anzi illiberali"[279].
All’autorità di Engels, autore di queste affermazioni, si sono sempre richiamati i critici marxisti – ed anche il Lukàcs di Storia e coscienza di classe, come si è visto in precedenza, si richiama a tale interpretazione[280]. La quale – come si è detto – è anche la linea interpretativa del Nostro, il quale finisce così – seguendo la linea interpretativa engelsiana, mutuata in seguito dai socialisti russi ed adottata infine anche da Lenin – col distinguere nel pensiero di Hegel fra i presupposti teorici (rivoluzionari) del suo pensiero e le sue conclusioni (conservatrici): anche per il filosofo berlinese, così come in passato per la “sinistra hegeliana”,
"la celebre identità hegeliana di Reale e Razionale non dev’essere intesa come la constatazione o consacrazione di uno stato di cose esistente, quanto, piuttosto, come un programma da attuare"[281].
Ben altra era la posizione di Marx in merito al pensiero hegeliano. La critica che il filosofo di Treviri volge ai “giovani hegeliani” risale a molto tempo prima della stesura de L’ideologia tedesca o della Sacra famiglia: essa viene svolta per la prima volta da Marx nella stesura della sua tesi, laddove afferma che
"riguardo ad Hegel, è per pura ignoranza che i suoi discepoli spiegano questa o quella determinazione del suo sistema come dovuta ad accomodamento o cose del genere, in una parola moralisticamente. Essi dimenticano che fino a poco tempo fa, come si può loro mostrare con evidenza in base ai loro propri scritti, seguivano entusiasticamente tutte le sue unilateralità. Se erano effettivamente così presi dalla scienza ricevuta bella e pronta da abbandonarsi ad essa con ingenua ed acritica fiducia, allora era tanto più una mancanza di scrupolo rimproverare una mancanza di scrupolo nel rimproverare un’intenzione nascosta dietro le sue vedute a quel maestro per il quale la scienza non era qualcosa di ricevuto, ma qualcosa in divenire, fino alla cui più estrema periferia pulsava il suo più intimo sangue spirituale! Con ciò essi fanno piuttosto nascere il sospetto di non avere essi stessi, precedentemente, fatto sul serio; e questa loro precedente posizione adesso la combattono attribuendola ad Hegel: ma così facendo dimenticano che egli aveva con il suo proprio sistema un rapporto immediato e sostanziale, mentre essi si trovano in un rapporto riflesso. Che un filosofo incorra in questa o quella apparente incoerenza per questo o quell’accomodamento, è concepibile; egli stesso può esserne cosciente. Ma ciò di cui egli non è cosciente è che la possibilità di questi apparenti accomodamenti ha la sua più profonda radice in una insufficienza, o in un’insufficiente esposizione del suo stesso principio. Se dunque un filosofo è realmente venuto ad accomodamenti, i suoi discepoli debbono spiegare in base alla sua interna coscienza essenziale, ciò che per lui stesso aveva la forma di una coscienza essoterica"[282].
Marcuse, come abbiamo già visto, si colloca sulla linea interpretativa del pensiero hegeliano che dal Doktorklub attraverso Engels giunge fino a Lenin. Appare qui per la prima volta – e ritornerà, con altre vesti, più in avanti nell’opera del Nostro – la distinzione fra la filosofia negativa e la filosofia positiva[283]: non si tratta, però, di mere contrapposizioni terminologiche, ma di autentiche contrapposizioni teoriche e politiche.
Il pensiero di Hegel era infatti stato definito dai suoi contemporanei filosofia negativa poiché uno dei suoi presupposti teorici concerneva la distruzione del reale: infatti, scrive Colletti, la
"filosofia di Hegel fa capo a tre affermazioni. (…) La terza, che la realizzazione del principio dell’idealismo implica la distruzione del finito e l’annientamento del mondo"[284].
La teoria hegeliana dello stato venne, con l’interpretazione della “destra hegeliana” che in tal modo stava servendo alle necessità della monarchia prussiana, “irrigidita” mentre la sua struttura interna conteneva invece – secondo l’interpretazione della “sinistra hegeliana” – grandi potenzialità rivoluzionarie[285]. Divenne quindi  tutt’altro che casuale l’appoggio che le classi dominanti diedero a quelle filosofie il cui compito primario fu quello di lottare contro il pensiero di Hegel (Schelling, Comte, Stahl) mentre quelle – antihegeliane anch’esse – che cercavano la salvezza del “singolo” (Kierkegaard) dalle sistemazioni hegeliane, in quanto anch’esse radicali finivano con l’essere messe da parte dalle istituzioni – nel caso di Kierkegaard, quelle religiose.
Nel 1830 e nel 1848, l’Europa venne percorsa da fermenti rivoluzionari che la percorsero nuovamente tutta. L’intenso sviluppo tecnologico dovuto alla meccanizzazione della fabbrica, generò un forte movimento di lotte che vie nuovamente la Francia protagonista principale di queste lotte e la sua borghesia[286] riuscire prima a prendere il potere (con la “rivoluzione borghese” del 1830, con la quale aveva messo sul trono gli Orléans) e poi lottare per mantenere il proletariato, che l’aveva aiutata nella sua lotta, nelle stesse condizioni di subalternità di prima. Nel giro di diciotto anni, però, il movimento operaio europeo tornò protagonista delle lotte in tutta Europa. Sempre in Francia, una nuova insurrezione – causata dall’improvviso divieto che era stato posto ad un grande raduno per la democratizzazione del Paese – determinava la caduta della monarchia di luglio degli Orléans e la proclamazione della (seconda) Repubblica.
Si poneva pertanto la necessità, tanto in Francia – bisognosa di dimostrare agli altri Paesi di essere politicamente stabile ed affidabile – quanto in Germania – dove il pensiero hegeliano aveva ancora una notevole influenza – di far perdere terreno ad un pensiero le cui interpretazioni più avanzate ponevano pubblicamente in discussione la funzione ed il ruolo dello Stato e della religione[287]. Perciò, l’interpretazione che venne dapprincipio data del pensiero hegeliano ad opera di alcuni dei suoi stessi discepoli era mirante a mostrare come l’opera di Hegel avesse il preciso compito di restaurare "la vecchia metafisica, i dogmi della chiesa e il contenuto sostanziale delle forze etiche"[288]. Ciò però non bastava: fu per eliminare del tutto il pensiero hegeliano dalle università prussiane che Schelling venne chiamato a Berlino, a prendere il posto del suo vecchio compagno di studi, dopo che, per tanti anni, era rimasto nel dimenticatoio. A seguire le sue prime lezioni berlinesi dopo la scomparsa di Hegel, c’erano hegeliani ed antihegeliani – spiccavano le presenze di Engels, Burckardt, Kierkegaard, Bakunin[289] - ma il contenuto delle sue lezioni era già noto da tempo: il latente antiilluminismo che era emerso nel suo periodo senese, unito a "tendenze politico-reazionarie"[290] emerse a partire dal 1804, con la pubblicazione di Filosofia e religione, nella quale per la prima volta fa la sua comparsa la "separazione di filosofia negativa e filosofia positiva"[291]. Trent’anni dopo, è proprio sulla base di questa distinzione che egli è chiamato a Berlino da Federico Guglielmo IV[292], e perché "sia considerato il San Giorgio destinato ad uccidere il drago della filosofia hegeliana, e soprattutto la sua ala sinistra radicale"[293]. Per una monarchia antiilluministica e reazionaria come quella prussiana, la teorizzazione schellinghiana della filosofia positiva era ciò che serviva per potere evitare critiche distruttive: nel pensiero di Schelling si potevano trovare gli strumenti idonei alla bisogna, dal momento che
"per la filosofia negativa, che si basa sulla conseguenza logica, può essere indifferente che ci sia un mondo e che questo concordi con la sua costruzione, quella positiva procede mediante il pensiero libero e deve così avere la sua conferma nella esperienza, con la quale deve procedere di pari passo. (…) Venendo in esse presupposto un pensiero libero, cioè volitivo, le sue dimostrazioni valgono solo per coloro che sono “saggi”; non si deve solo capirle ma anche voler sentire la loro forza"[294].
La divisione schellinghiana fra filosofia positiva e filosofia negativa precorre, e richiama da vicino, la teorizzazione comtiana. Il filosofo francese aveva posto al centro della sua speculazione filosofica "l’étude de la nature comme servant de base rationelle à l’action sur la nature"[295] e lo studio dei fenomeni "assujettis a des lois naturelles invariables"[296]. Il filosofo francese aveva in programma di studiare le circostanze in cui si danno i fenomeni[297] e soprattutto considerava esplicitamente compito della filosofia positiva quello di ristabilire l’ordine nella società[298], sconvolta dagli effetti della rivoluzione francese.
Il positivismo – che ha sottolineato l’importanza dell’adozione di politiche tese al miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia al fine di evitare pericolose (per il potere) sollevazioni – fu da lì a poco “adottato” come ideologia delle classi dominanti; Comte fu tra i primi a scrivere a proposito dell’uso politico dell’istruzione finalizzata alle necessità tecnologiche dell’industria[299] – tema questo che continua a permeare a tutt’oggi la società capitalistica: non è affatto casuale che il modo di produzione capitalistico nel suo momento di sviluppo taylorista (ed in misura ancor più crescente oggi) richieda personale qualificato, con un certo grado di istruzione.
Ed è proprio sulla tecnologia in quanto strumento di sottomissione alle esigenze del sistema ed alla integrazione in esso che dovremo ora soffermarci.
§ 2.2 Freud e la tecnologia come strumento di condizionamento (back to top)
Nello stesso periodo in cui il Nostro analizza la società nazista, analisi che ritornerà ad affacciarsi anni dopo nelle sue analisi della società sovietica ed occidentale, si pone in lui un problema – strettamente connesso all’analisi del nazismo – dell’uso politico della tecnologia.
Come si è visto in precedenza, una delle caratteristiche positive che l’insieme della società attribuiva ad ogni singolo individuo, era l’uso libero della propria ragione, anche in aperto contrasto con le prescrizioni della società stessa[300]. Lo stravolgimento di questa positiva caratteristica umana è causa dell’adozione di schemi di pensiero nei quali all’uomo viene richiesto di non pensare, di – per meglio dire – agire in sintonia con le aspettative del sistema ed in base alle esigenze dello stesso[301]. Esso richiede che le attività dei singoli membri del sistema siano coordinate fra loro, per riuscire a spremere dagli stessi individui il massimo dell’efficienza produttiva[302] (plusvalore). In questo tipo di società non è possibile pensare a delle alternative: i comportamenti “premiati” dal sistema – i modelli “vincenti”, quelli cui ognuno deve ispirarsi – sono quelli che, paradossalmente, accettano le richieste del sistema (facendo passare per reale la pretesa razionalità dello stesso) rinunciando alla propria razionalità[303]. L’individuo è alienato, è sempre alienato. Anche quando non lavora[304]. In un sistema onnipervasivo come questo, qualsiasi "forma di protesta non ha senso e l’individuo che insistesse a parlare della sua libertà di azione sarebbe preso per pazzo"[305]. L’indottrinamento – scrive Marcuse – è iniziato con l’uso delle macchine[306] e risponde alle stesse direttive richieste dal sistema delle aziende: precisione ed efficienza. Le funzioni dell’individuo sono dirette a soddisfare le richieste del sistema, dimenticando quelle sue proprie[307]. Una di esse è la possibilità di vivere una vita non alienata, una vita nella quale il lavoro – grazie al progresso tecnico – posa essere superato, abolito[308]. Ciò è proprio quanto il sistema non vuole:
"Non solo l’apparato politico ma anche (e soprattutto) quello tecnico sono diventati sistemi di dominazione nei quali le classi lavoratrici sono integrate e si integrano"[309].
A questo punto, la ricerca del Nostro doveva approdare alle basi, alla fondazione del dominio tecnologico[310]. L’incontro con il pensiero di Freud era, pertanto, obbligato[311]. Eros e civiltà (1955) assolve al compito di dare una spiegazione psicologica alla necessità del lavoro. L’opera risente dell’influenza – per i suoi stessi contenuti – della Dialettica dell’illuminismo (1947) di Horkheimer ed Adorno. Ciò dimostra come Marcuse – che di fatto non faceva più parte della scuola dal 1941 – in realtà si inserisca perfettamente all’interno dei filoni di ricerca aperti dagli altri membri dell’Istituto e che essi studiavano, riprendendone le tematiche ed utilizzandole con originalità.
Lo spunto per la critica della società contemporanea e del modo di produzione capitalistico – e quindi anche dell’uso politico della tecnologia, ai fini di estendere e perpetuare il dominio – viene da Marcuse trovato nelle opere non cliniche di Sigmund Freud.
Secondo la teoria dello sviluppo della società, elaborata da Freud ed interpretata dal Nostro, essa si è evoluta e creata sulla base di un parricidio: in origine la tribù era dominata da un solo individuo maschio che teneva per sè tutte le femmine ed impediva agli altri – ed ai suoi figli – di accostarvicisi, costringendo tutti gli altri individui a lavorare[312]. Ad un certo punto del processo evolutivo, i figli coalizzatisi uccidono il padre e finalmente possono anche loro conoscere quei piaceri che il padre aveva mantenuto così a lungo per sè. Al padre primordiale segue quindi il matriarcato[313], la cui funzione sostanziale fu quella di riconciliare l’individuo con se stesso ed il mondo. A questo periodo – che coincide con quello autentico dell’età dell’oro – succede infine l’epoca in cui i fratelli – riuniti nell’orda – si dividono oltre che le donne anche i compiti:
"Freud, con questa storia ipotetica dell’orda primitiva, considera la ribellione dei fratelli come una ribellione contro il tabù paterno sulle donne dell’orda, non è implicita alcuna protesta “sociale” contro l’ineguale divisione del piacere. Di conseguenza la civiltà comincia in senso stretto soltanto nel clan fraterno, quando i tabù, ora autoimposti dai fratelli che dominano, completano la repressione nell’interesse comune di conservare il gruppo nel suo insieme. L’evento psicologico decisivo che separa il clan fraterno dall’orda primitiva è lo sviluppo del senso di colpa. Un progresso oltre l’orda primitiva – cioè la civiltà – presuppone il senso di colpa. Esso intrometta negli individui, e quindi sostiene, le principali proibizioni, costrizioni, e differimenti della soddisfazione, dalle quali dipende la civiltà"[314].
Questa è la fine della rivolta contro il padre: i fratelli hanno ormai introiettato gli ordini e le responsabilità di cui il padre li ha caricati ed egli viene divinizzato[315]. I fratelli raccolti nell’orda hanno compiuto il salto: sono passati, accettando spontaneamente le imposizioni paterne dopo averle avvertite per tanto tempo come  un peso, dal principio del piacere (quello della soddisfazione immediata dei bisogni, rappresentato dal periodo compreso fra l’assassinio del padre e la assunzione delle proprie responsabilità) a quello della realtà, nel quale la soddisfazione dei piaceri viene spostata più in là, non soddisfatta immediatamente[316]. E’ questo che scatena – all’interno dell’individuo – i conflitti psichici fra l’Io, l’Es ed il Super-Io[317]. L’Es, la struttura più antica, pretende la soddisfazione immediata del proprio piacere; il Super-Io invece impone il rinvio di questa soddisfazione immediata del piacere. Lo spiacevole compito di mediare fra le richieste dell’Es e le imposizioni del Super-Io, spetta all’Io[318] – il quale ha soprattutto il delicatissimo compito di non far percepire all’Es la realtà in maniera negativa, di “corazzarlo”, per così dire contro la realtà esterna, impedendone così la distruzione[319]. L’Io – struttura evoluta dell’Es – finisce con il dover lottare su due fronti: per preservare l’Es dalla realtà esterna e per non sentire la stessa come un pericolo. Il Super-Io, istanza censoria, sorge proprio nella fase della "dipendenza del bambino dai suoi genitori"[320] e finisce per concentrare in sé la moralità, i “valori superiori”.
L’Es, come si è detto vive sotto il dominio del principio di piacere: pertanto pretende la soddisfazione immediata del proprio bisogno[321]. L’Io invece opera in base al principio della realtà: pertanto lotta contro l’Es affinché questi differisca la soddisfazione del bisogno[322]. Ciò – secondo Marcuse – è dovuto al fatto che dietro
"il principio della realtà sta il fatto fondamentale dell’Ananke o penuria (Lebensnot), e ciò significa che la lotta per l’esistenza si svolge in un mondo troppo povero per poter soddisfare i bisogni umani senza continue limitazioni, rinunce e differimenti"[323].
Il Nostro a questo punto scrive che la penuria è stata pianificata (si ricordi la precedente analisi marcusiana sul nazismo e la sua affermazione che questo era un sistema costruito sulla scarsità) e giunge a parlare, per mezzo della soddisfazione del piacere, del lavoro:
"quel tanto di soddisfazione che è possibile raggiungere necessita lavoro, un adattamento più o meno doloroso, e attività atte a procurare i mezzi atti a soddisfare i bisogni"[324].
Qui il Nostro si rifà all’Ideologia tedesca: scrive infatti l’Autore che la penuria è
"conseguenza di un’organizzazione specifica della penuria e di un atteggiamento esistenziale specifico imposto da questa organizzazione. Durante tutto il corso della civiltà il bisogno prevalente fu sempre organizzato (anche se in forme molto diverse) in modo tale da non distribuire mai collettivamente la penuria a seconda delle necessità individuali, man mano che esse si sviluppano. Al contrario la distribuzione della penuria come anche lo sforzo di superarla con il lavoro, sono stati imposti agli individui – dapprima con la violenza pura, più tardi con un’utilizzazione più razionale del potere. Ma per quanto utile possa essere stata questa razionalità per il progresso dell’insieme, essa rimase una razionalità del dominio, e la graduale vittoria sulla penuria fu indissolubilmente legata agli interessi degli individui dominanti, e forgiata nei modi scelti da questi ultimi"[325]
La civiltà si è quindi sviluppata tramite la deviazione degli istinti libidici – deviati e canalizzati sul lavoro[326]. Nel lavoro stesso si crea la divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Chi opera il lavoro intellettuale viene ad assumere, di fronte agli altri, un ruolo ed una funzione ad essi superiore e finisce per l’utilizzare il suo potere per potere estendere il suo dominio[327]. Pertanto è colui che presta la sua forza-lavoro che crea il suo padrone[328]. E’ colui che vende la sua forza-lavoro che, introiettando le imposizioni del suo padrone, ne rafforza il dominio. Infatti, Marcuse afferma che
"the machine-like regularities and motions in the process abituate individuals in advanced industrial society to submission to social authority. In this way, domination takes the form of internalizing technical imperatives and mechanical behaviour"[329].
Non è un caso che, per primi, siano la psicologia del lavoro ed i suoi prezzolati esperti ad evidenziare le possibilità di influenzare la condotta dei lavoratori tramite appositi programmi di (ri)educazione[330]. Come utilizzare il sapere è palesemente un problema politico e di democrazia: non è affatto casuale che gli assunti di partenza degli psicologi del lavoro coincidano perfettamente con i desideri dei padroni[331].
La determinazione di criteri per mezzo dei quali la classe operaia va gioiosamente a farsi sfruttare non invalida – semmai rafforza – l’analisi che il Nostro compie a proposito della repressione, che può esserefondamentale[332] oppure addizionale[333].
In un mondo in cui la razionalizzazione produttiva e burocratica sono in costante aumento, non c’è spazio per la ricerca della felicità per i singoli individui: la pianificazione delle risorse lo impedisce, aumentando di fatto la  (inutile) repressione addizionale. E’ possibile liberarsi, vivere in maniera non-repressa se solo le energie deviate dagli impulsi erotici verso il lavoro alienato venissero nuovamente canalizzate "per l’adempimento dello sviluppo, autonomo e non manipolato, dei bisogni individuali"[334]. Ma questo non che non sia possibile: semplicemente non è voluto[335]. Quindi ogni possibile alternativa è fuori dal campo del reale – anche se tale reale non è razionale perché condanna chi vive al suo interno all’insanità mentale[336]. Non è razionale perché al di là dell’alto livello di sviluppo raggiunto, pianifica lo spreco ed il consumo delle risorse, impedendo ogni reale possibilità di sviluppo ecocompatibile[337]. Cioè possibilità di vita migliori. La scienza e la tecnologia, se utilizzate in maniera distorta (e a decidere le loro modalità d’uso è sempre chi detiene il potere economico), finiscono con il creare una struttura che, anziché contribuire a migliorarele condizioni di vita delle masse, serve ad aumentare il loro sfruttamento[338].
In questo, il sistema politico ed economico capitalistico e quello collettivistico si equivalgono perfettamente.
§ 2.3 La critica alla società occidentale ed al marxismo sovietico (back to top)
Al di là delle ovvie differenze istituzionali fra i Paesi ad economia pianificata (militarmente afferenti al Patto di Varsavia) e quelli ad economia di mercato (afferenti alla N.A.T.O.), gli elementi di somiglianza ci sono – ed evidenti.
Ambedue, inoltre, hanno assimilato degli elementi e delle innovazioni proprie del fascismo.
Al termine del secondo conflitto mondiale, il Nostro analizzò i nuovi equilibri che si erano determinati nel mondo in una serie di appunti scritti al fine di rilanciare la Zeitschrift für Sozialforschung, per poter tornare  a lavorare come sperava (e non era il solo, dato che a nutrire le sue stesse speranze vi era anche Neumann, fra gli altri) per l’Istituto francofortese, accanto ad Horkheimer ed Adorno. Ciò tuttavia non fu possibile, anche perché le posizioni che l’Autore esponeva erano evidentemente eccessivamente militanti – e tanto Horkheimer quanto Adorno stavano lentamente (proprio nello stesso periodo) cominciando ad accarezzare l’idea di poter ritornare in Germania.
La chiara visione politica dell’Autore emerge con evidenza laddove si consideri che egli aveva intuito che il mondo si avviava ad un confronto fra due blocchi – e con questo siamo già dentro l’analisi che l’Autore offre del marxismo sovietico.
Correttamente, il Nostro osserva che la divisione del mondo in due sfere politico-economiche contrapposte[339] apre la strada non ad una politica di “esportazione” del movimento rivoluzionario, ma ad una fase di coesistenza[340] - che determina una modificazione progressiva della politica interna ed estera in base alla situazione politica internazionale[341]. In realtà la radicalizzazione rivoluzionaria delle masse, da una parte così come dall’altra, non era gradita: perciò, se è vero che i paesi ad economia di mercato sono tendenzialmente ostili alla crescita ed allo sviluppo del movimento socialista[342], la scelta nell’Unione Sovietica di fare la “rivoluzione in un solo paese”, dimostra per contro l’incapacità di riuscire a penetrare in Paesi economicamente e tecnologicamente più progrediti – tanto da scatenare, nel corso delle tentate rivoluzioni europee degli anni venti, la maggioranza del movimento operaio contro i rivoluzionari[343].
L’originario presupposto marxiano secondo il quale la rivoluzione sarebbe scoppiata in Paesi nei quali le condizioni materiali di sviluppo tecnico e di sfruttamento avrebbero materialmente ed inevitabilmente condotto ad essa[344], venne – in seguito all’intervento di Lenin – modificato nel senso che la rivoluzione va compiuta – per dirla con una metafora – laddove l’anello della catena è più debole. Ciò non significa necessariamente che sia il posto giusto ed esistano le condizioni materiali marxianamente indispensabili per compierla. Anzi: le condizioni di sviluppo della Russia d’anteguerra erano (sono) assolutamente al di fuori delle condizioni che Marx riteneva indispensabili alla riuscita della rivoluzione. Questo è un primo dato di analisi.
Il secondo dato è che, rimanendo confinata all’interno dei Paesi del blocco socialista, si avvia più che una lotta aperta per il deciso predominio di una (super)potenza sull’altra, una netta spartizione delle zone di influenza e quindi la coesistenza fra i blocchi[345]. Tale coesistenza si sostanzia nella concorrenza nella produzione di mezzi di consumo[346]. Anche le strutture fondamentali dei due sistemi sono identiche – e sovente mutuate dal nazismo: ad esempio l’importante ruolo detenuto in ambedue i sistemi dall’apparato burocratico[347].
La funzione dell’apparato burocratico è però qualitativamente differente fra i due modelli economici e politici: nell’Unione Sovietica essa[348] detiene un grande peso ed una grande importanza perché l’economia pianificata ha bisogno di dirigenti che diano degli indirizzi precisi per la gestione e lo sviluppo del Paese. Ciò implica che, all’interno del Paese stesso, la burocrazia sia uno stato nello stato, che tenti di espandere il proprio potere ma che si ritrovi controbilanciata da altri poteri: l’apparato politico-industriale e quello militare[349].
Altra caratteristica che dimostra – ed in maniera più esplicita – che la penetrazione del fascismo era avvenuta in entrambi i blocchi, sta nell’uso che in essi si faceva della propaganda, della maniera con la quale si dipingeva l’avversario. Spinti soprattutto dalla coesistenza, i due blocchi hanno creato la psicosi del nemico[350]. Esso serve come collante ideologico:
"Le istituzioni libere competono con quelle autoritarie nel fare del Nemico una forza mortale che opera entro il sistema. E questa forza mortifera stimola lo sviluppo e l’iniziativa, non in virtù delle dimensioni e della spinta “economica” del settore che opera per la difesa, ma in virtù del fatto che la società come un tutto diventa una società fondata sui bisogni della difesa. Perché il Nemico è un dato permanente. Non fa parte della situazione d’emergenza ma del normale stato di cose. Esso avanza minacce in tempo di pace non meno che in tempo di guerra (e forse ancor di più); in tal modo esso viene inserito nel sistema come forza coesiva"[351].
Questo fantasma aggiratesi per l’uno e l’altro dei blocchi (e che contribuisce a mantenere quello stato di aggregazione delle masse attorno al potere costituito, che aveva fornito e garantito non solo nel corso del conflitto mondiale, ma anche prima di esso) fa che nei confronti dell’avversario politico si generi la stessa caccia che i nazifascisti davano ai “diversi”: il Gulag, le “purghe” per gli uni; le carceri speciali, le legislazioni d’emergenza, i tribunali speciali per gli altri. Dov’è la differenza? Ambedue i sistemi si dicono democratici; allora ci si potrebbe chiedere cos’è la democrazia – lasciano un senso di sgomento queste conclusioni che Marcuse non tira, ma che lascia lì al lettore perché le colga da sè. Inquieta trovarsi in un sistema che finge di dare delle possibilità, ma che non lascia neppure la possibilità di scelta[352].
In un sistema come nell’altro quel
"Nemico è il denominatore comune di ciò che si fa e che non si fa. Ed esso non si identifica con il comunismo o il capitalismo quali sono in realtà; nei confronti dell’uno come dell’altro, il Nemico è lo spettro reale della liberazione"[353].
Se il Nemico è lo spettro reale della liberazione, allora esistono dei meccanismi psicologici che impediscono alle vittime del sistema – che hanno introiettato il principio di prestazione, che è la forma con la quale si presenta il principio di realtà[354] – di ribellarsi ad esso; questo è "il migliore dei mondi possibili e (…) tutto è per il meglio"[355]. Torna a vedersi sullo sfondo quell’irrazionalità del sistema della quale si è detto precedentemente.
Lo spettro della liberazione è ciò che angoscia i dirigenti di qualsivoglia sistema politico ed economico, consci che la liberazione (cioè: l’uscita dal principio di prestazione e la scomparsa della repressione addizionale) significherebbe per le masse l’uscita "dallo stato di minorità"[356] nel quale volutamente continua a mantenerle[357].
I due blocchi non sono – evidenzia accuratamente Marcuse – una unità monolitica, intaccabile nelle sue politiche, anzi: la coesistenza determina invece una politica “elastica”, nella quale le aperture ed i cambiamenti  nell’azione politica sono determinati dai cambiamenti di indirizzo nella politica estera. Peter Marcuse giustamente ascrive a merito del padre l’aver per primo intuito che sarebbe stata la funzione e l’importanza assunta dalla burocrazia all’interno di una economia pianificata a determinare la trasformazione delle strutture sociali ed economiche dell’Unione Sovietica[358].
Subito dopo la fine della guerra e dopo la sua uscita dall’OSS prima e dal Dipartimento di Stato poi, Marcuse – chiamato come Senior Fellowship presso il Russian Institute della Columbia University (si ricordi che il Nostro aveva lavorato nel Dipartimento di Stato presso la divisione di studi sull’Europa centrale) [359] – continuò a lavorare sulla situazione politica russa, contemporaneamente lavorando ad Eros e civiltà[360].
Lo scopo di Marcuse era quello di riportare alla luce, al di sotto di tutte le incrostazioni interpretative, l’autentico pensiero marxiano. Rendere il pensiero marxiano non più soltanto ideologia, ma soprattutto strumento utile ai marxisti stessi per poter comprendere i loro errori. Per far ciò si appoggia in genere direttamente al Capitale, laddove sarebbe bastato citare un noto passo dell’Ideologia tedesca:
"Il comunismo è possibile empiricamente solo come una azione di popoli dominati tutti in “una volta” e simultaneamente, cioè che presuppone lo sviluppo universale delle forze produttive e le relazioni mondiali che esso comunismo implica. Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente. D’altronde la massa di semplici operai – forza lavorativa in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento – e quindi anche la perdita non più temporanea di questo lavoro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proletariato dunque può soltanto esistere sul piano della storia universale"[361].
Il Nostro autore compie dunque una operazione importantissima: tenta di deontologizzare il marxismo, facendogli recuperare il suo originario aspetto rivoluzionario. Il marxismo non è teologia: non è fede cieca ed assoluta in un qualcosa che (forse) prima o poi dovrà venire; il marxismo parla e parte dai bisogni (concreti, immediati) delle masse. Che è proprio ciò che il marxismo sovietico ha dimenticato: ha spostato sempre più in avanti, in un futuro indefinito l’obiettivo da raggiungere (la società senza classi) ma nel contempo ha creato una serie di autentiche caste – quella politica, quella burocratica, quella militare. Soprattutto, contro tutte le esplicite premesse marxiane, il socialismo sovietico si è dovuto sviluppare insieme al capitalismo – mentre per Marx, il comunismo succede al modo di produzione capitalistico. Marxianamente, il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione socialista implica il superamento del regno della necessità ed il raggiungimento del regno della libertà. Tra l’uno e l’altro c’è il momento centrale ed importante della transizione al socialismo[362], momento nel quale non si è ancora avuta la modificazione qualitativa che implica il passaggio ad un modo di produzione superiore[363]: la produzione materiale capitalistica oltrepassa i limiti del capitalismo privato, rendendo necessarie modificazioni nella struttura sociale ed economica, nella quale lo Stato diviene detentore della proprietà[364].
Il parallelismo può essere esteso anche all’arte, che deve celebrare solo i successi, il mito della classe operaia: ecco il realismo sovietico[365] (per cui tutte le altre correnti artistiche vengono considerate controrivoluzionarie e borghesi) che trova il suo esplicito contrappeso nel mondo capitalistico nelle forme artistiche non-convenzionali (l’arte in realtà è sempre rivoluzionaria) – quale ad esempio la pop art – dove il contenuto anche rivoluzionario delle opere viene massificato, perdendo quella che Benjamin chiamava “l’aura” dell’opera, il suo carattere trascendente[366].
Soprattutto, la non differenza fra i due sistemi è tutta nell’alto grado di repressione che ambedue i sistemi impongono, canalizzando le forze impiegate nel lavoro in un modo diverso da esso[367]. Il parallelo fra la società razionalizzata di tipo fascista, quella di tipo capitalista e quello di tipo collettivista poggia su una incredibile somiglianza: l’uso continuo della macchina e della tecnologia al fine di ottenere una continua e sempre maggiore sottomissione dell’uomo al dominio del sistema. Che non gli fa mancare nulla: dagli svaghi pianificati al rilassamento della morale sessuale, all’aumento dei beni di consumo creati distruggendo l’ecosistema, tutto contribuisce a mantenere in piedi e a spingere avanti il sistema stesso[368].

CAPITOLO TERZO

§ 3.1 La liberazione dalla società opulenta (back to top)
Attraverso Eros e civiltà Herbert Marcuse si distacca dall’ortodossia marxista – anche se marxista ortodosso non lo è mai stato davvero; egli è più che altro stato un marxista critico[369]– per slanciarsi nell’utopia, passando da Marx – e dal suo rigore scientifico – alla utopia libertaria attraverso l’opera di Fourier[370].
Nel tentativo di condurre oltre la società opulenta ed al rifiuto di essa, ci misuriamo nuovamente con il Grande Rifiuto[371]. Se, come affermava Benjamin nella citazione riportata da Marcuse al termine de L’uomo ad una dimensione, è "a favore dei disperati che ci è data la speranza"[372], possiamo ora finalmente cercare di capire chi siano i disperati e come si possa giungere ad una nuova fase di sviluppo della civiltà.
Preliminarmente, va fatto notare che dal suo punto di osservazione nel Nuovo Mondo, Marcuse ha il vantaggio di intuire e studiare – in anticipo rispetto all’Europa ed in particolare in Italia dove i suoi effetti arriveranno non prima della “marcia dei quarantamila” del 1980, ponendo così fine ad una lunga stagione di lotte apertasi con l’occupazione della Facoltà di Sociologia di Trento nel 1967[373] – la guerra che, scopertamente e chiassosamente, la maggioranza silenziosa avrebbe condotto – di lì a poco – contro la sinistra extraparlamentare. Perché Marcuse non si rivolgeva alla gauche caviar, bensì ad un numero indefinito di soggetti, a coloro i quali intendevano realmente trasformare in senso rivoluzionario la società.
Diversamente da Mao Zedong, il quale affermava che
"La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra"[374],
il Nostro – che pure aveva avuto esperienza diretta della rivoluzione – non è dello stesso parere, tanto da sostenere che al socialismo ci si può arrivare per via biologica[375]: Marcuse parla
"di “cambiamento qualitativo”, non di “rivoluzione” perché troppe rivoluzione sono state il sostegno della continuazione della repressione, rivoluzioni che hanno sostituito un sistema di dominio ad un altro"[376].
Soprattutto, il Nostro prova una repulsione fisica per la morte e l’omicidio politico. Egli
"hated death with an intensity that astonished me until I finally understood that only such a tremendous hatred could conceive the vulgarity and non-necessity of death"[377]
tanto da attaccare duramente le azioni della R.A.F. (la Röte Armee Fraktion, l’equivalente tedesco delle italiane Brigate Rosse), non soltanto perché tali violenze avrebbero rafforzato le posizioni di dominio del sistema – che avrebbe ricevuto la solidarietà della popolazione – o perché controproducente per la sinistra stessa, quanto perché – e soprattutto per questo – il terrorismo avrebbe contribuito ad invalidare la lotta che la sinistra stessa conduce per la trasformazione della società capitalista in socialista[378].
La scelta che compie Marcuse è pertanto una scelta consapevolmente pacifista, ma non è, la sua, una maniera per rifiutare a priori la lotta materiale, fisica. Parlando – a Berlino – nel luglio 1967 con gli studenti, l’autore afferma che
"cercare lo scontro per amore dello scontro non è solo inutile, è anche irresponsabile. Gli scontri, i confronti violenti ci sono: non occorre andarli a cercare. La ricerca dello scontro finirebbe col confondere anziché chiarire le ragioni che hanno portato alla nascita di una opposizione"[379].
In tal modo criticando chi, a sinistra, al confronto ha anteposto e preferito il rotear di mani.
Arriviamo qui di necessità ad individuare i soggetti agenti della rivoluzione, ed in ciò ci troveremo a ricapitolare le fasi di sviluppo del pensiero del Nostro.
Partito inizialmente da una posizione marxista ortodossa, Marcuse individua il soggetto rivoluzionario nel proletariato: è il periodo immediatamente seguente alla Rivoluzione Russa ed ai tentativi sovietici di riuscire a creare una serie di repubbliche sovietiche che avrebbero dovuto esserle di aiuto tanto per lo sviluppo economico quanto in caso di guerra. Grandi speranze i russi riponevano nella Germania, ma i tentativi rivoluzionari vennero soffocati nel sangue.
Al termine della guerra, Marcuse intuisce la capacità capitalistica di pervertire (in questo brillantemente supportato dal riformismo piccolo-borghese di certa nuova (?) sinistra e dai sindacati, sempre più reazionari e filopadronali) le aspirazioni operaie; ed in cui la classe operaia stessa non riesce più ad esprimere dei contenuti antagonistici. L’integrazione della classe operaia all’interno della società opulenta (affluent society, secondo la definizione di un noto economista statunitense) induce Marcuse a non identificarla più tout court con la classe rivoluzionaria. Ed a non considerare neppure il movimento studentesco come l’unico autentico soggetto rivoluzionario[380], ma una pluralità di soggetti – dei quali la classe operaia, il movimento studentesco ecc., sono soltanto una delle componenti, e neppure la più importante. E’ evidente, a questo punto, che il soggetto cui Marcuse si rivolge sono quegli stessi che sono il Grande Rifiuto: sono le periferie, i non-integrati, i “marginali” e gli emarginati. Sono coloro che cercano quotidianamente di sopravvivere con la  forza della propria disperazione, e che forzano spesso i confini fra un mondo e l’altro. Nel mondo integrato, nel quale l’unica differenza non è neppure il colore della pelle o il fatto di essere nati da questa parte o dall’altra della cortina di ferro, il soggetto cui Marcuse si rivolge è quello che preme e vive giorno dopo giorno ai confini del mondo “civile”. Sono proprio in quelle sacche di resistenza che il capitalismo combatte le sue guerre più sporche e trova i suoi avversari più tenaci[381]. E’ lì che l’industria trova le sue materie prime, che distrugge nel nome del progresso e della “civiltà”. E lo spreco e la distruzione sistematica delle risorse – sotto le mentite spoglie dell’aumento dei beni circolanti (o generi di consumo, che è lo stesso) – permettono al sistema stesso di potere andare avanti[382].
Marcuse è forse fra i primi, nel corso degli anni settanta, ad intuire le grandi potenzialità di cambiamento che, rispetto ai partiti tradizionali, possedevano i movimenti ecologisti. La difesa della natura diventa elemento fondamentale per chi
"lotta contro le società sfruttatrici in cui la violazione della natura rende più grave la violazione dell’uomo. La scoperta delle forze liberatrici della natura e della loro importanza vitale ai fini della costruzione di una società libera diventa una nuova forza tesa alla trasformazione sociale"[383].
La natura non è da Marcuse concepita come un qualcosa da sfruttare e da distruggere[384], bensì come qualcosa da preservare non soltanto per le generazioni future. In questo senso, il capitalismo al socialismo potrà – o potrebbe consentire – alle masse di recuperare, attraverso un nuovo rapporto con la natura, tutta la propria umanità[385].
Forse, il punto centrale della questione – che, però, nell’analisi del Nostro non appare esplicitamente – è che il modello di sviluppo capitalistico, allargatosi ormai su scala planetaria, non offre in realtà alternative ai Paesi  “in via di sviluppo” – pessima metafora per indicare quei Paesi le cui capacità industriali sono in fase di crescita, ma utilizzano tecnologie superate da decenni, pericolose ed inquinanti. E’ la quindi tutt’altro che casuale il fatto che nel corso delle ultime conferenze mondiali sull’ambiente, ad essere messi sotto accusa non siano (quasi) più i Paesi industrializzati, ché in un modo o nell’altro cercano di adeguarsi a dei parametri internazionali per la (ir)respirabilità dell’aria nelle città – complice anche il fatto che ormai non conviene quasi più mantenere unità produttive nei Paesi a tecnologia avanzata per via degli alti costi del lavoro (e della vita), per cui è preferibile per il capitalista trasportare l’unità produttiva nel terzo mondo, pagando poco l’operaio – bensì proprio i Paesi “in via di sviluppo”, i quali non solo si vedono espropriate le materie prime ma sono poi costrette ad acquistarle a caro prezzo come prodotto finito e lavorato dalle stesse multinazionali occidentali che le pagano, grezze, pochissimo.
Alle lotte per l’emancipazione dal colonialismo e dal neocolonialismo che erano combattute nel Terzo Mondo, Marcuse ha sempre prestato attenzione[386]. Perché, nella opinione di Marcuse, le dinamiche di lotta che si sviluppano nel Terzo Mondo si riverberano su quello industrializzato contribuendo così alla crisi ed al dissolvimento di questo.
Ma per poter giungere a tale punto, c’è bisogno della coscienza di classe. Siamo così tornati al punto d’inizio: l’identificazione dei soggetti rivoluzionari. Tali soggetti rivoluzionari devono avere ben chiaro una cosa: che nel compiere il
"passaggio dalla servitù volontaria (come esiste in gran parte della società opulenta) della libertà, presuppone la abolizione della istituzione e dei meccanismi della repressione. Ma l’abolizione dei meccanismi stessi presuppone che sia già avvenuta una liberazione dalle schiavitù, e che prevalgano le esigenze della liberazione"[387].
Contro queste esigenze, quel mostro proteiforme che è il capitalismo si mobilita dentro e fuori la società opulenta, per contenere ed impedire la fine del suo sistema. Dentro, con la repressione dei movimenti antagonistici, l’omicidio “politico”, le varie strategie della tensione, la militarizzazione del territorio[388], le miopi politiche di “contenimento” (più giusto parlare di drastico taglio, di vera e propria eliminazione) della spesa sociale mentre aumenta l’esercito dei non-occupati, dei lavoratori precari[389]; fuori con la guerra aperta contro i popoli in rivolta[390]. Ed ancora una volta la macchina della propaganda ideologica fa sì che il nemico perda ogni carattere di essere umano, che uccidere il nemico – sia tale nemico donna o uomo, anziano o bambino – sia giusto. Si perde così anche la capacità di comprendere non solo le ragioni dell’altro che lotta, ma anche di quegli altri “diversi” che la guerra non la vogliono e non vogliono farla[391]. La ragione è detenuta dalla classe al potere che nega ad altri il riconoscimento di una ragione diversa dalla propria, ad essa irriducibile[392]. L’inumanità di una ragione “privatizzata” da un sistema irrazionale conduce gli stessi detentori del potere (e quindi anche del sapere “ufficiale”, in contrapposizione ai saperi "della gente che sono saperi senza senso comune e che sono stati in qualche modo lasciati a riposo quando non sono stati effettivamente ed esplicitamente emarginati"[393]) ad "una spaventosa brutalizzazione, disumanizzazione della società"[394] il cui unico valore è la quantità di avversari uccisi[395] e poco conta se a protestare siano degli attivisti per i diritti civili[396] o se, per puro caso, fra i dimostranti sui quali spara la polizia si vengano a trovare i figli di una classica famiglia reazionaria americana[397], i genitori dei quali affermano che "bisognerebbe sparare ai lazzaroni, a quelli che non si lavano, a quelli che si vedono in giro a non far niente"[398]. Non ci si pone neppure il perché della contestazione, non si tenta di capire le ragioni di chi critica questa società; sia chi contesta che chi viene contestato finisce con il contrapporre un potere ad un altro. Ma le ragioni di chi, in divisa ed armato di manganello, picchia il contestatore sono senza dubbio migliori (e più convincenti) di chi invece viene picchiato[399].
Come affrancarsi dall’opprimente ed ideologica libertà della società opulenta è un problema cui Marcuse tenta di rispondere, ma rimane uno dei punti meno limpidi della sua opera. Si potrebbe dire che Marcuse propenderebbe per un rifiuto tout court della società opulenta e dei suoi (nefasti) frutti, ma questo è davvero troppo riduttivo, come pensare che il Nostro sia per la distruzione della società opulenta e non abbia nulla di alternativo da proporre[400].
La proposta di Marcuse prende invece corpo con sufficiente chiarezza. Si tratta di uscire dal principo di realtà per aderire finalmente al principio di piacere. Non si tratta evidentemente di una regressione, bensì di totale liberazione di quell’energia erotica che opportunamente canalizzata conduce ad una crescita armoniosa della civiltà[401].
Le modalità che possono portare a questo tipo di rivoluzione (e la prima rivoluzione da compiere è sempre quella interiore, realizzando così che si è succubi di un sistema che impone di introiettare il principio di realtà e negando ogni possibilità di cambiamento) sono varie. Marcuse non può non accennare ad alcuni atteggiamenti che secondo lui portano al di là del principio di prestazione:
"far mostra di comportamenti non competitivi, il rifiuto delle forme brutali di “virilità”, il ridimensionamento del concetto capitalistico di produttività del lavoro, l’affermazione della sensibilità e sensualità del corpo, la protesta ecologica, il disprezzo per il falso eroismo delle imprese spaziali e delle guerre coloniali, il movimento di liberazione della donna (laddove non si limita a considerare liberate le donne che condividono le prerogative repressive maschili), il rifiuto del culto antierotico e puritano della bellezza plastica e della pulizia – tutti questi atteggiamenti contribuiscono a indebolire il “principio di prestazione”, e esprimono in modo articolato il profondo disagio diffuso tra la gente comune"[402].
Questi atteggiamenti non-conformisti, prosegue Marcuse, finiscono con l’isolare la sinistra stessa (o almeno i settori non istituzionalizzati di essa) dalle masse.
In realtà tali atteggiamenti finiscono per l’essere per quelle frange stese della sinistra uno degli elementi interni di coesione, riconoscimento ed appartenenza ad un gruppo (chiaramente chiuso all’esterno) “etnico” e contrapposto ad altri soggetti. Fra i gruppi e le generazioni differenti si sviluppa un muro di incomunicabilità e di reciproca intolleranza.
Uno degli ulteriori elementi di novità all’interno del pensiero marcusiano e che rivelano tutta la dipendenza del Nostro e la sua filiazione dal pensiero marxiano, riguarda la concezione che il filosofo berlinese ha della tecnologia. Anche per lui, la tecnologia ha un uso politico, avrebbe dovuto liberare l’uomo dalla fatica ed invece lo ha reso maggiormente schiavo.
Le critiche che il Nostro muove alla società tecnologica non possono non ricordare le analisi marxiane del Frammento sulle macchine[403]. La scelta che Marcuse, seguendo Marx, pare suggerire è quella dell’uso (politico) liberante della tecnologia. La quale è usata – nel modo di produzione capitalistico – per non consentire alle masse il passaggio ad uno stato superiore di civiltà, in cui ci sia finalmente il passaggio dalla quantità (capitalismo) alla qualità (socialismo)[404], ed in cui il tempo liberato finisca con l’essere non un momento di pausa più o meno lunga in cui poter recuperare le energie dissipate con il lavoro ed in vista del successivo ritorno al proprio lavoro, bensì come un momento nel quale recuperare pienamente il rapporto con il mondo circostante e prendersi cura di esso.
Provocatoriamente, Marcuse usa categorie "morali, politiche, estetiche"[405] per la critica della società.
Tali categorie consentono il passaggio ad uno stadio superiore di civiltà, ed in particolare Marcuse annette importanza alla convergenza di lavoro e gioco[406], recuperando in tal modo – come già si diceva all’inizio – il pensiero dell’utopista Fourier, in contrapposizione alla scientificità del pensiero marxiano. Ma tale spostamento d’interesse è determinato fondamentalmente dal fatto che è così possibile per il Nostro essere più consapevole ed attento alle esigenze dei singoli individui. Da Fourier, il Nostro assume l’idea della trasformazione del lavoro – inteso come travail, cioè travaglio[407] – in piacere, consentendo in tal modo ad ogni individuo da un alto di poter vivere al di là del principio di prestazione, proprio della società tecnologica; dall’altro di poter mutare più volte lavoro, giungendo così ad evitare l’alienazione[408].
Tutto lo sforzo marcusiano è tendente a portare tanto il singolo individuo quanto le masse oltre il principio di prestazione, riconciliandolo così con il suo essere e con la natura – le due cose, per la futura umanità, non possono più essere distinte.
In tale tentativo, l’arte gioca un ruolo decisivo: essa, attraverso il ricordo di un’era passata, nella quale l’uomo era in pace con se stesso e con il mondo circostante, presenta "alla realtà costituita una dimensione nuova, quella della possibile liberazione"[409].
Con l’incentrare la sua analisi sull’arte e sulle possibilità liberanti in essa contenute, Marcuse passa decisamente dalla parte dell’utopia – ma attenzione: Marcuse ci avverte educatamente e correttamente che
"nel corso della storia, società che venivano considerate utopistiche possono benissimo diventare delle possibilità storiche"[410]
– immaginando un mondo nuovo. Questa ultima fase del suo pensiero ci riporta paradossalmente alle sue origini ed alla sua formazione: la teoria politica di Marcuse si trasforma e si confonde con l’estetica, con l’arte e la letteratura, suoi vecchi grandi amori.
§ 3.2 Arte, rivoluzione (back to top)
Timothy Lukes, uno dei più recenti critici marcusiani che – dell’opera del Nostro – in particolare ha analizzato la concezione dell’estetica in relazione alla liberazione dalla società opulenta, ha posto in luce la dipendenza della concezione estetica del filosofo berlinese con le tre critiche kantiane. Marcuse infatti "aknowledges his debt to Kant in regard to his discussion of the aesthetic imagination"[411] ma, pur avendo riconosciuto tutti i pregi dell’opera di Kant, lo critica poi duramente per non aver portato fino in fondo la mediazione fra uomo e natura[412]. Non è l’unica critica che il filosofo berlinese rivolge a Kant: l’altra fondamentale osservazione contestatrice che Marcuse porta nei confronti del filosofo di Königsberg concerne lo scarso ruolo che questi lascia giocare alla immaginazione[413] ammettendo che rispetto alle due precedenti la terza critica costituiva un progresso rispetto le prime due
"in that the sensuous and the cognitive realms are mediated through the aesthetic imagination, rather than pitted against each other in the opposition of morality and nature"[414].
Anzi, il tentativo marcusiano diventa quello di ampliare le possibilità che Kant intuisce ma che non apre del tutto. Per fare questo, Marcuse riserva uno spazio particolare ed una particolare attenzione tanto alla fantasia quanto alla immaginazione.
Tale operazione è compiuta in Eros e civiltà, ma prima di soffermarci su questo punto, è bene vedere come si sviluppa la concezione estetica marcusiana perché ed in che modo essa sia in rapporto con la teoria marcusiana della liberazione.
Si è già detto, all’inizio, che il Nostro era stato in gioventù fortemente influenzato dagli artisti dell’avanguardia – francesi soprattutto; Mann in particolare per i tedeschi – e che all’università – inizialmente a Berlino ed in seguito a Friburgo – aveva studiato "prima filologia germanica e poi storia della letteratura tedesca moderna"[415] e si era laureato con una tesi sul “Romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca[416]: di tale genere letterario il Nostro traccia la storia.
In essa emerge subito la netta divisione fra il mondo dell’artista ed il mondo reale nel quale esso si muove[417], divisione che produce tutto quell’insieme di figure – tragicamente fragili – che diventano, spesso per eccessiva sensibilità, totalmente incapaci di comprendere e vivere nel mondo:
"una stirpe di borghesi forti, sani, vitali, sicuri di sé, senza problemi e ben piantati in terra, che, grazie a questa semplicità e a questa concretezza, sono pervenuti alla ricchezza, alla grandezza ed alla felicità, comincia a decadere man mano che si perde la loro ingenua e compatta sicurezza vitale e che, nella successione delle generazioni, emergono individui di carattere più differenziato, dalla costituzione più sensibile e nervosa, per i quali non è più così facile e così ovvio risolversi completamente e di punto in bianco nella realtà della vita pratica, che intuiscono, da qualche parte, l’esistenza di mondi superiori, che prestano ascolto ai loro segni e richiami che conoscono il dubbio e la nostalgia, e per cui questa chiara esistenza quotidiana rappresenta, in qualche modo, una sofferenza. E questi caratteri tardivi e problematici, questi Buddenbrook del periodo dello sfacelo, sono appunto quelli che sono colpiti dal malanno della conoscenza"[418].
Dalle creazioni che quegli individui affetti dal “malanno della conoscenza”, dalle creazioni che la visione della ricchezza nel loro mondo intérieur ispira in contrasto alla miseria ed alla povertà del mondoextérieur[419] si giunge alla creazione artistica – o, nel peggiore dei casi al suicidio[420] o alla pazzia[421].
La grande arte è sempre stata antagonistica rispetto alla società ed ai tempi nei quali essa è stata creata.
"La separazione dell’utile e del necessario dal bello e dal godimento è l’inizio di quel processo che apre la strada, da una parte al materialismo della prassi borghese e, dall’altra, al confinamento della felicità in una zona di riserva della “cultura”"[422].
Marcuse correttamente rileva che nell’antichità solo un ristretto numero (classe è il termine più indicato) di persone che non avevano il problema di dover lavorare poteva dedicarsi a qualcosa al di là della sfera del necessario[423]. Con l’avvento dell’età moderna, la divisione non scompare. Solo appaiono, all’interno della stessa arte borghese, le prime linee di tendenza di una sua latente rivoluzionarietà. Infatti, la
"grande arte borghese, rappresentando il dolore e la mestizia come eterne forze cosmiche, ha continuamente infranto nel cuore degli uomini la rassegnazione noncurante della vita quotidiana; dipingendo con i colori raggianti di questo mondo una felicità ultraterrena e la bellezza degli uomini e delle cose, ha immerso nel fondo della vita borghese, accanto alla cattiva consolazione e alla falsa consacrazione, anche la nostalgia vera"[424].
Nostalgia del ritorno ad una condizione di felicità passata[425] che la grande arte borghese dipinge e pone sotto gli occhi degli spettatori. In questo il Nostro già vede l’inizio di una latente contraddizione e ribellione: indicare all’uomo che esiste la possibilità di vivere una vita felice, priva di tensioni e contemporaneamente – nella realtà – vivere questa scissione che il sistema stesso impone[426].
Tale è il carattere “affermativo” della cultura e dell’arte, che di quella è lo specchio – la cultura affermativa condivide con l’arte affermativa il fatto di avere insieme e le potenzialità liberanti e le potenzialità di “contenimento” delle istanze rivoluzionarie[427]. Avendo in sé tali potenzialità di repressione e controllo delle potenzialità rivoluzionarie, certamente l’arte affermativa non milita dalla parte del regno della libertà, ma da quello della razionalità tecnologica, cioè dalla parte del regno della necessità[428].
Naturalmente, non è soltanto l’arte affermativa a militare dalla parte del regno della necessità. Essa è soltanto una delle tipologie artistiche che incontriamo nell’opera di Marcuse; ci conviene esaminare per gradi la concezione estetica marcusiana, che si sviluppa di pari passo – e contemporaneamente – all’evoluzione del suo pensiero.
Cosa può essere più affermativo, più scientifico, più tecnologico, della “arte ad una dimensione”? Certo, Marcuse non arriva a definire in tal modo la produzione artistica del mondo capitalistico; nemmeno Lukes lo fa[429]. Con tale termine intendiamo definire – in quanto speculari fra loro – e la produzione artistica del mondo capitalistico e la produzione artistica del mondo sovietico (il realismo sovietico, che Marcuse aveva ampiamente stigmatizzato in Soviet Marxism), pur riconoscendo – ed opportunamente mostrando – le reciproche differenze fra le due.
L’arte ad una dimensione è anch’essa una forma di arte affermativa, perché in essa quelle istanze di contenimento delle spinte rivoluzionarie all’interno della società vengono ampiamente supportate ed evidenziate nelle sue espressioni artistiche.
In ambedue i sistemi socio-politico-economici, l’arte viene considerata "an auxiliary to scientific “progress”"[430] – e ciò spiega ampiamente perché Lukes chiami il realismo sovietico e la produzione artistica del mondo capitalistico “scientific art”.
Poiché tutto viene visto in funzione del progresso materiale – scientifico, tecnologico e produttivo (industriale), questo tipo di produzione artistica non può che celebrare i fasti, i successi, le conquiste effettuate. Mettendo al bando ogni tipo di creazione artistica non in linea con quanto richiesto dall’apparato – è il caso, per la letteratura sovietica a cavallo fra gli anni venti – trenta de Il suicida di Nicolaj Erdman (deportato in seguito alla pubblicazione di tale lavoro), nel quale ci si prendeva gioco anche del partito e dell’apparato. Ad essere posto alla ribalta non era il classico operaio impegnato e tutto dedito alla causa, ma un uomo che inscena la propria morte per un piatto di salsicce! Tale piéce teatrale – come altre, del teatro satirico russo del tempo – venne messa al bando perché non adeguato ai detami del realismo sovietico. Che, essendo “arte scientifica” imponeva agli artisti di adeguarsi ai suoi parametri.
Se per Marx lo sviluppo delle forze produttive avrebbe reso possibile
"il materiale adempimento di quella promesse du bonheur che l’arte esprime; l’azione politica (la rivoluzione) ha il compito, appunto, di tradurre in realtà questa possibilità"[431].
Poiché la variante sovietica del marxismo
"pretende di poter sostenere che la rivoluzione bolscevica abbia davvero messo in atto questo passaggio (…) quale funzione resta dunque all’arte, secondo l’estetica sovietica? La risposta è precisa: resta il rispecchiamento della realtà sotto forma di immagini artistiche"[432]
e tutto ciò implica la messa al bando di forme artistiche alternative al realismo. Se la Russia prerivoluzionaria era un continuo fiorire di movimenti artistici, dopo la rivoluzione le avanguardie culturali si spostarono altrove.
Ciò dipendeva anche dalla affermazione di Lenin, secondo il quale l’arte doveva essere partigiana: ed infatti sotto Stalin ciò divenne dogma ufficiale: delle opere si valutava la partiticità, l’appoggio e l’apporto ideologico, il grado di comprensione presso il popolo[433]. La critica che quindi Marcuse rivolge alla società  sovietica finisce con il coinvolgere anche l’arte sovietica: in un sistema totalizzante anche l’arte è totalitaria, e la mancanza di libertà e di espressione finisce con il riflettersi con la stessa aridità dell’arte “realista”, i cui stessi soggetti da rappresentare sono aridi, falsi ed “ingessati” come quella società che pretendono di rappresentare.
Parallelamente al realismo sovietico, l’arte del mondo capitalistico si sviluppa in maniera assolutamente speculare. Non è bandita la politicità dell’arte, solo vi è una fortissima commercializzazione del prodotto artistico che fa pertanto perdere all’oggetto d’arte stesso la sua aura di sovversività[434]. L’opera, depauperata del suo contenuto trascendentale (o sovversivo) trova il suo posto fra gli scaffali, nella vita di ogni giorno.
Tutto ciò non fa altro che invalidare quel processo di ricerca e di individuazione di un personalissimo linguaggio espressivo proprio di ogni artista: in questo senso Marcuse individua con chiarezza il legame fra arte e libertà[435]. Marcuse si chiede se il riprodurre ed il consumare in massa le opere d’arte sia realmente un simbolo di avvenuta democraticizzazione ed innalzamento culturale per l’intera società, essendo aumentato il numero di coloro che (potenzialmente, almeno) sono in grado di capirle[436]. Ma la
"verità della letteratura e dell’arte è sempre stata accettata (posto sia mai stata accettata) come una verità di ordine "superiore", che non doveva turbare e invero non turbava l’ordine economico. Quel che è mutato nel periodo contemporaneo è la differenza che prima esisteva tra i due ordini e le loro verità. Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il nuovo totalitarismo si manifesta precisamente in un pluralismo armonioso, dove le opere e le verità più contraddittorie consistono pacificamente in un mare di indifferenza"[437].
La ricerca che l’artista porta avanti, tentando di individuare gli strumenti idonei per la comunicazione attraverso l’arte ha bisogno di
"un nuovo linguaggio, di un linguaggio poetico e di un linguaggio artistico intesi come linguaggi rivoluzionari. Questo implica il concetto di immaginazione come facoltà conoscitiva, capace di trascendere e rompere l’incantesimo delle Istituzioni"[438].
Siamo così tornati alle analisi svolte da Lukes ed al rapporto che questi individua e propone fra la teoria estetica marcusiana ed il pensiero kantiano.
Il Nostro svolge le sue riflessioni sulla immaginazione e sulla fantasia in Eros e civiltà, laddove si interessa della relazione fantasia – utopia. Marcuse afferma che "Freud identifica la fantasia come l’attività psichica che  conserva un alto grado di libertà dal principio della realtà perfino nella sfera della coscienza sviluppata"[439]. Con ciò stesso, il principio di realtà viene minato al suo stesso interno:
"La fantasia ha una funzione d’importanza decisiva nella struttura psichica totale: essa collega gli strati più profondi dell’inconscio con i prodotti più alti della coscienza (arte), il sogno con la realtà; conserva gli archetipi della specie, le idee eterne ma represse nella memoria collettiva e individuale, le immagini represse e ostracizzate della libertà"[440].
Marcuse, comunque, usa in maniera assai ambigua il concetto di fantasia[441]. Essa serve a sanare la netta frattura che si genera all’interno della psiche dell’individuo con l’istituzione del principio di realtà: l’Io viene guidato solo da quella parte della psiche che si è conformata al principio di realtà. La fantasia conserva la memoria di quel passato primordiale, di quella realtà dominata dal principio di piacere che si rivela e si svela (anche) per mezzo dell’arte. La fantasia, afferma il Nostro, "ha un proprio valore di verità, che corrisponde a un’esperienza propria – il superamento cioè della realtà umana antagonistica"[442]. Pare superfluo sottolineare che tale superamento avviene attraverso l’arte, all’interno della quale,
"dietro la forma estetica sta l’armonia repressa tra sensualità e ragione – l’eterna protesta contro l’organizzazione della vita dalla parte della logica di dominio, la critica al principio di prestazione"[443],
nella quale viene celebrato l’individuo privo delle proprie catene, l’uomo libero, l’uomo nuovo. La coscienza, all’interno dell’arte, della dimensione libera dell’esistenza umana ha generato tutto un lungo insieme di opere che sottolineano che nel mondo reale non c’è libertà. Già in queste pagine Marcuse pone particolarmente in luce l’importante funzione, nell’arte, della forma – così come sottolinea il fatto che nel mondo ad una dimensione il contenuto trascendente dell’arte pare essere stato smarrito:
"l’arte ha espresso, anche se in maniera ambivalente, il ritorno della repressa immagine della liberazione: l’arte fu opposizione. Nella fase attuale, nel periodo della mobilitazione totale, sembra che perfino questa opposizione estremamente ambivalente non sia più vitale. L’arte sopravvive soltanto dove essa annulla se stessa, dove salva la propria sostanza negando la sua forma tradizionale, e quindi negando la riconciliazione: dove diventa surrealista e atonale"[444].
Nell’interpretazione che il Nostro dà dell’opera di Freud, la fantasia – a differenza del principio di realtà "si sente più a suo agio nei processi subreali e surreali quali il sognare, il fantasticare, il giocare, il "flusso della coscienza""[445], che è anche strettamente connessa alla sessualità – che è anch’essa regolata dal principio di realtà – e dà pertanto origine alle fantasie erotiche.
Attraverso la sua capacità di evocare un mondo diverso, di pacificazione fra gli esseri umani e fra questi e la natura, il
"valore di verità dell’immaginazione non si riferisce soltanto al passato, ma anche al futuro: le forme di libertà e felicità che essa invoca, pretendono di liberare la realtà storica. Nel suo rifiuto di accettare come definitive le limitazioni che il principio della realtà impone alla libertà ed alla felicità, nel suo rifiuto di dimenticare ciò che può essere, sta la funzione critica della fantasia"[446].
Riappare il Grande Rifiuto, "protesta contro la repressione superflua, la lotta per la forma definitiva di libertà"[447]: utopie confinate nel mondo della fantasia e dell’immaginazione. Che solo nell’arte trovano il loro posto, solo nell’arte riescono a spezzare le imposizioni della razionalità tecnologica e repressiva.
La potenza repressiva della razionalità tecnologica e la perdita di potenza della utopia liberativa sono da Marcuse analizzate già a partire dal 1945[448], tanto da indurlo ad affermare che l’arte rivoluzionaria "becomes fashionable and classical. Picasso’s Guernica is a cherished museum piece"[449]. Ed è a partire da questo momento che il Nostro si pone il problema del contenuto dell’opera d’arte, che rivela la negatività del sistema e la sua non libertà; il contenuto negativo dell’opera d’arte si rivela nella sua forma, nello stile. Ma se dapprincipio lo stile (la forma) era lo strumento con il quale l’artista e il poeta rompevano gli schemi imposti dalla società (si pensi allo scandalo generato dalle opere di Courbet, di Baudelaire, di Flaubert o – in tempi relativamente più recenti – di E. Lee Masters, giusto per citarne alcuni), poi, lo stile è andato perso: quello che prima era novità, innovazione, rottura con gli stili e gli schemi espressivi del passato, mutuato da una schiera di replicanti ed utilizzato in massa perde la sua autentica rivoluzionarietà per diventare maniera. Ma è e rimane nella forma la radicale sovversività dell’opera d’arte, che pur se ridotta ad oggetto di contemplazione estetica continua a possedere quel qualcosa, quella forma, che le consente di esprimere la sua ribellione nei confronti dell’esistente.
Nel corso degli anni ’70 la cosiddetta Nuova Sinistra iniziò a contestare l’arte in quanto espressione del mondo borghese. Marcuse prese le difese dell’arte, tanto più che proprio in quegli anni andava sviluppando la propria concezione estetica, la quale è incentrata sulla analisi della Forma dell’oggetto d’arte: "In virtù della Forma, e della Forma soltanto, il contenuto acquista quella unicità che fa di esso il contenuto di una particolare opera d’arte e di nessun’altra"[450]. E’ la interrelazione fra la struttura dell’opera, ciò che vi è rappresentato come ciò che non lo vi è, che costituiscono la forma dell’opera, e la inseriscono all’interno del regno delle forme, realtà che le è propria. Come frutto del regno delle forme essa ha una utilità
"di tipo trascendente, utilità per l’animo e la mente che non interferisce col normale comportamento dell’uomo e non lo modifica realmente; tranne che per quel breve periodo di elevazione, di vacanza colta: in chiesa, al museo, nella sala da concerti, a teatro, di fronte ai monumenti ed alle rovine dl grande passato. E dopo la parentesi, la vita reale riprende: ordinaria amministrazione"[451].
Il Nostro pone in evidenza che è contro questa anestesizzazzione dei contenuti trascendenti dell’arte che la Nuova Sinistra si scaglia, nel tentativo di vivificare, l’arte stessa, facendola così uscire dal suo protettivo involucro mussale: parte in tal modo la ricerca dell’antiarte, della quale l’Autore registra il fallimento. Marcuse pare così sottolineare come certa sinistra sia passata dalla rivoluzione dell’estetica all’estetica della rivoluzione:
"L’antiarte di oggi è condannata a rimanere arte, per quanto “anti” s’affanni ad essere. Incapace di colmare il divario fra Arte e realtà, di sfuggire alle pastoie della Forma Arte, la ribellione contro la “forma” ha per esito nient’altro che una perdita di qualità artistica: distruzione illusoria,  illusorio superamento dell’alienazione"[452].
Egli riconosce invece a particolari movimenti artistici l’essere le vere avanguardie artistiche. Esse, secondo Marcuse, sono costituite da quanti
"non si sottraggono alle esigenze della Forma, da quanti trovano parole, immagini e suoni nuovi che siano capaci di “comprendere” la realtà come l’Arte soltanto può comprenderla, e negarla"[453].
Tali soggetti sono costituiti dalle opere di Schönberg, Kafka, Picasso, Beckett – autore che lui amava particolarmente[454].
A differenza dell’arte scientifica (realismo sovietico ed arte razional-tecnologica) che rappresentano il gradino più basso della produzione artistica del mondo della necessità, l’antiarte – cui fa riferimento il Nostro – si colloca a metà fra il regno della necessità ed il regno della libertà. Lo stadio superiore, quello dell’uscita dal regno della necessità e l’approdo al regno della libertà si ha solo con l’arte critica – per questa sua concezione, Marcuse ha molto utilizzato e criticato l’opera di Adorno[455].
Di contro alle prese di posizioni della Nuova Sinistra e marxiste in generale riguardo l’estetica – licenziata, come si è già detto, in quanto “borghese” – Marcuse rivaluta paradossalmente l’arte borghese per le sue capacità evocative, capacità che possiede in quanto – a differenza di certa arte “vivente” e certo teatro “vivente”[456], che abolisce la distanza con lo spettatore e così facendo diventa posa, commedia delle parti – conserva in se stessa quelle potenzialità liberative, evocative e liberanti che l’arte politicamente “impegnata” non ha in sé.
Marcuse è tornato, così, alla sua originaria posizione: nell’analizzare la storia e la struttura del “romanzo dell’artista” era partito da Lukàcs ed in un certo senso a lui ritorna negli scritti più tardi, tornando a misurarsi con la letteratura. Distanziandosi e criticando le prese di posizione estreme di chi, in nome della rivoluzione totale, non è più in grado di distinguere e separare una proposta alternativa dal rifiuto sic et simpliciter della società presente e delle sue produzioni.
L’arte può servire a liberare l’individuo, condurlo avanti ed indicargli la strada per un futuro diverso, privo di tensioni superflue. Può servire a ricondurlo in quello stato di piacevole quiete che è rappresentato dal “principio del nirvana” – ma questo è possibile soltanto in una società qualitativamente diversa, nella quale quella “internazionale futura umanità”, quel proletariato ormai libero delle proprie catene, ripudi ed abbandoni per sempre la guerra fra gli uomini e fra gli uomini e la natura. L’arte, la Forma estetica, il Bello, possono servire a riconciliarlo, a placarne angosce e timori. Possono servire ad indirizzarlo verso un mondo nuovo, migliore, da costruire qui sulla terra: questo il “messaggio nella bottiglia” che Marcuse indirizza a tutti gli uomini di buona volontà.
Conclusioni (back to top)
Il problema che assilla Marcuse è il superamento del modo di produzione capitalistico. Tale problematica si agita per tutta la sua produzione, dai Contributi a una fenomenologia del materialismo storico (1928) sino a La dimensione estetica (1977), in forme e modi differenti.
All’interno dello studio dell’opera marcusiana ci si imbatte in un lavoro assai singolare, Soviet Marxism, dove fra le righe pare che Marcuse abbia addirittura previsto (per il suo incentrare l’analisi sulla funzione della struttura burocratica) con quasi quaranta anni di anticipo, il crollo del “socialismo reale”. Sebbene larga parte della sua opera sia stata scritta nel corso della “guerra fredda”, essa è ancora attuale – cambia quello che il capitalismo considera il nemico: esso non è più il socialismo, ma è quella maggioranza di umanità che preme per entrare nel mondo industrializzato: Marcuse infatti riserva attenzione all’importanza dei movimenti per la liberazione delle colonie.
Marcuse lavora in un periodo di transizione, analizza ancora una società che è fondamentalmente basata su una economia di tipo taylorista, per cui la sua analisi sulla società industriale può dirsi superata. Marcuse scrive che attraverso un uso differente della tecnologia (e questo implica necessariamente una scelta ed un cambiamento politici qualitativi) si può arrivare ad una società in cui l’individuo sia finalmente libero. La sua attenzione è dunque tutta sotto il segno dell’ambivalenza: da una parte si rende conto che la tecnologia ha delle potenzialità liberanti, dall’altra che essa contribuisce a mantenere ed a perpetuare la repressione. Nella odierna società globale, incentrata sul momento della distribuzione, l’analisi marcusiana è ampiamente superata, giacché ancora incentrata sul momento precedente della produzione dei beni. Ed il problema, per molti autori molto noti negli anni settanta, è che la teorizzazione del “grande rifiuto” e del “rifiuto del lavoro”, sono oggi decisamente anacronistiche: la tragedia, oggi, è essere fuori dell’unità produttiva, è la prospettiva concreta della non-occupazione di lunga durata perché con la apertura al mercato di interi continenti (per esempio: l’Est europeo ed il Sud-Est asiatico), al capitalista conviene aprire l’unità produttiva laddove i costi di produzione sono più bassi. Venti anni fa, ipotizzare una situazione di questo tipo sarebbe stato fantapolitica.
La maggiore problematica irrisolta nel pensiero di Marcuse riguarda la transizione dal capitalismo al socialismo ed al comunismo – e del resto non può non essere così – ma bisogna tener conto del fatto che non solo Marx ed Engels in prima persona non abbiano sviluppato molto questo passaggio, quanto anche dal  fatto che non è una cosa facile da teorizzare – se non per linee generali.
Ma al fine di giungere alla instaurazione di una società qualitativamente diversa, il Nostro ha posto in luce il potenziale liberante dell’arte ma ha utilizzato anche il contributo che poteva essere offerto – al fine di spiegare l’origine della repressione e del dominio tecnologico sull’uomo – dalla psicanalisi.
La crisi del marxismo nella quale Marcuse finisce con il dibattersi è determinata dalla rottura della seconda Internazionale. L’impossibilità di poter arrivare ad una trasformazione in senso rivoluzionario dell’esistente determinano in Marcuse il passaggio dal marxismo all’utopia. In tale passaggio Marcuse torna al tentativo di trasformare l’assetto ed i rapporti sociali esistenti.
Bibliografia (back to top)
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(con B. Moore jr ed R. P. Wolff) A Critique of Pure Tolerance, The Beacon Press, Boston 1965 (tr. it.: Critica della tolleranza. I mascheramenti della repressione, Einaudi, Torino 1982);
Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968;
La liberazione dalla società opulenta, in: AA. VV.: Dialettica della liberazione. Integrazione e rifiuto nella società opulenta, Einaudi, Torino 1970;
Il concetto di negazione nella dialettica, AutAut n. 135, Milano 1973;
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Ecologia e critica della modernità, in: Capitalismo Natura Socialismo n. 6, Roma 1992.
Opere curate da altri autori:
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Stark, Franz: Marcuse – Popper: rivoluzione o riforme?, Armando Editore, Roma 1989.
Apparato critico (back to top)
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Schmidt, Alfred – Rusconi, Gian Enrico: La Scuola di Francoforte. Origini e significato attuale, De Donato, Bari 1978;
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b) su Herbert Marcuse e la sua opera:
Brunkhorst, Hauke – Koch, Gertrud: Herbert Marcuse, erre emme edizioni, Roma 1989;
Calloni, Marina: Il nazismo fra esistenza cultura e teoria. Gli anni quaranta nelle lettere di Adorno, Horkheimer e Marcuse, in: Fenomenologia e Società n. 1, Milano 1988;
Cecchinel, Silvana: Contestation et utopie chez Marcuse, in: Comprendre n. 37 – 38, Venezia 1971 – 1972 ;
Cerullo, Margaret: Marcuse and Feminism, in: New German Critique n. 18; Milwaukee (Wisconsin) 1979;
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Ul’ianov, Vladimir I. (Lenin): L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1973.
[1] La maggior parte dei filosofi che hanno fatto capo alla Scuola di Francoforte era di origine ebraica; la maggior parte delle loro famiglie era pienamente inserita nelle strutture e nelle gerarchie socioeconomiche dell’età guglielmina. Cfr.: L. Geninazzi, Horkheimer & C. gli intellettuali disorganici, Jaca Book, Milano 1977, pag. 21 e segg.; M. Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali (1923-1950), Einaudi, Torino 1979, pag. 41 e segg.; R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pag. 52 e segg.
[2] Cfr.: H. Marcuse, Il “romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1985, pag. 445; H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, erre emme edizioni, Roma 1989, pag. 13; B. Katz, Praxis and Poiesis: toward an intellectual Biography of Herbert Marcuse (1898-1978), in: New German Critique, n.18, 1979, Milwaukee (Wisconsin), pag. 12; R. Wiggershaus, La scuola... , pag. 106 e segg.
[3] B. M. Katz, Praxis and... , pag. 12
[4] ibidem.
[5] P. Frölich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Pantarei, Milano 1995, pag. 42, usa giustamente questo temine per connotare meglio i socialdemocratici riformisti, guidati da Bernstein, che alla solidarietà internazionalista fra i popoli anteponevano l’interesse (imperialistico) dello stato-nazione. Cfr.: P. Frölich, Guerra e... , pag. 28 e segg.; E. Bernstein, I presupposti del socialismo ed i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1974, pag. 205 e segg.
[6] P. Frölich, Guerra e…, pag.27 e seg.: "Dopo la sospensione delle leggi antisocialiste del 1890, la socialdemocrazia tedesca aveva avuto una costante crescita, parallela all’industrializzazione della Germania. Le idee riformiste avevano provocato all’interno del partito dei conflitti protrattisi per due decenni e dai quali il radicalismo era uscito, almeno sulla carta, sempre vittorioso. Ma ogni volta ci si era solo accontentati soltanto di parole scritte e di risoluzioni solenni, senza che fosse presa alcuna misura contro i revisionisti. Ne conseguì che, a dispetto di tutte le dichiarazioni enfatiche, i revisionisti acquistarono sempre maggiore influenza sulla direzione del partito tanto che, alla fine, quest’ultima finì per far suo quel riformismo che condannava nella teoria. Fu proprio nella fase dell’imperialismo che il movimento operaio tedesco (…) piombò sempre più nell’opportunismo. Questa evoluzione non era casuale. Il partito si era ampliato in un momento estremamente favorevole alle conquiste "pratiche", contingenti. In questo periodo di espansione dell’imperialismo il partito era sostenuto sì da masse numerose, ma allo stesso tempo doveva affrontare compiti dei quali, considerata la sua natura, non era ancora all’altezza. Così come i sindacati dovevano decidere se arrischiare scontri in cui la posta era la loro organizzazione complessiva, anche il partito si trovava di fronte a lotte a carattere rivoluzionario. Questi limiti risaltarono in occasione del movimento prussiano a favore del diritto di voto nel 1910, quando venne organizzata una vera e propria mobilitazione di massa. Nel momento in cui la forza stessa delle cose premeva per passare dalle pure e semplici manifestazioni alla lotta aperta con lo sciopero di massa, la direzione socialdemocratica indietreggiò intimorita  dall’enorme responsabilità che le stava dinanzi. (…) La guida intellettuale della socialdemocrazia, Kautsky, escogitò in quel frangente la "strategia del logoramento": il partito avrebbe dovuto eludere in futuro ogni serio conflitto, per evitare pesanti sconfitte e per assicurare in questo modo la crescita costante del movimento operaio, fino a consentirgli di schiacciare il capitalismo con tutto il suo peso. Sul campo delle battaglie sindacali si era già visto che questa tattica evitava la sconfitta soltanto in apparenza, perché rifuggire la lotta comportava pesanti conseguenze che si traducevano in un costante abbassamento del tenore di vita del proletariato e nel logoramento della forza intrinseca dell’organizzazione. Sul piano pratico gli effetti dovevano essere ancor più devastanti. La contraddizione tra i principî socialisti e l’azione concreta del partito divenne sempre più stridente. Il partito non osava guardare in faccia la realtà.". Cfr.: E. Bernstein, I presupposti…, pag. 63 e segg.: "Nel movimento socialista moderno possiamo distinguere due grandi correnti divergenti e spesso opposte l’una all’altra a seconda dei diversi momenti storici. La prima si riallaccia alle proposte di riforma elaborate dai pensatori socialisti ed ha una tendenza sostanzialmente costruttiva, la seconda si ispira ai movimenti popolari rivoluzionari ed ha scopi sostanzialmente distruttivi. A seconda delle possibilità offerte nelle varie situazioni storiche, l’una assume un carattere utopistico, settario, pacifista-evoluzionista, l’altra un carattere cospiratorio, demagogico, terroristico. Quanto più ci avviciniamo al presente, tanto più la parola d’ordine diventa, per l’una emancipazione mediante l’organizzazione economica, per l’altra, emancipazione mediante l’espropriazione politica. Nei secoli passati la prima tendenza fu rappresentata pel lo più da isolati pensatori, la seconda da isolate sommosse popolari. Nella prima metà di questo secolo da entrambe le parti si costituirono già alcuni gruppi che svolgevano un’azione continuativa: da una parte le sette socialiste e associazioni operaie di varia natura, dall’altra gruppi rivoluzionari d’ogni specie. (…) Il marxismo ha superato il blanquismo soltanto in un senso – nel senso del metodo. Per il resto, per quanto riguarda la sopravvalutazione della forza creatrice della violenza rivoluzionaria ai fini della trasformazione socialista della società moderna, esso non si è mai completamente svincolato dalla concezione blanquista. Le correzioni che vi ha apportato – p.es. l’idea di una rigida centralizzazione della violenza rivoluzionaria – riguardano più la forma che la sostanza." Ciò mostra bene come Kautsky si muova su un terreno, quello del riformismo e della  subalternità alla logica capitalistica, elaborato teoricamente proprio dal suo amico-nemico Bernstein – il quale, a sua volta, si muove su un terreno che non è quello marxiano: egli infatti si rifiuta di lottare per "rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo" (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in: Opere complete vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, pag. 24; corsivo mio), pensando che con il porsi su un piano “legale”, con il tempo (questo è già darwinismo sociale, cfr.: G. Lukàcs, La distruzione della ragione, vol. II, Einaudi, Torino 1974, pag. 673 e segg.), si possa riuscire a superare il modo di produzione capitalistico: E. Bernstein, I presupposti…, pag. 189: "Tutta l’attività pratica della socialdemocrazia è rivolta alla creazione di situazioni e presupposti che rendono possibile e garantiscono un trapasso senza rotture violente del moderno ordine sociale ad un ordine superiore. (…) La dittatura di classe invece appartiene ad un livello di civiltà più arretrato, e anche astraendo dalla razionalità e realizzabilità della cosa, soltanto una ricaduta nell’atavismo politico può evocare l’idea che il passaggio dalla società capitalistica alla socialista debba necessariamente compiersi entro le forme evolutive di un’epoca che ancora non conosceva o conosceva soltanto imperfettamente gli attuali metodi di propagazione e di conquista delle leggi, e che mancava degli ordini adatti a tale scopo.". Le interpretazioni riformiste del pensiero marxiano vengono varie volte criticate da Lukàcs, il quale afferma (G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Sugar editore, Milano 1967, pag. 38 e seg.), a proposito del brano di Bernstein su citato che l’"appiattimento del marxismo, il suo ripiegamento nella "scientificità" borghese trovò la sua prima, chiara ed aperta espressione ne I presupposti del socialismo di Bernstein. Non è affatto un caso che il medesimo capitolo di questo libro che inizia con un attacco dialettico in nome della "scienza" esatta si concluda accusando Marx stesso di blanquismo. Non a caso infatti, nel momento in cui viene lasciato cadere il punto di vista della totalità, che è punto di partenza e scopo, presupposto ed istanza del metodo dialettico; nel momento in cui la rivoluzione non viene intesa come momento del processo, ma come atto isolato e separato dallo sviluppo nella sua totalità, il carattere rivoluzionario di Marx deve necessariamente presentarsi come una ricaduta nel periodo primitivo del movimento operaio, nel blanquismo. E con il principio della rivoluzione, come conseguenza del dominio categoriale della totalità, crolla l’intero sistema del marxismo. La critica di Bernstein, anche come opportunismo, è troppo opportunistica per far apparire alla luce del giorno tutte le conseguenze che essa implica sotto questo riguardo."
[7] Cfr.: P. Frölich, Guerra e... , pag. 16 e segg.; Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1973, pag. 35, scrive che è dimostrato che "la guerra del 1914 – 1918 fu imperialista (cioè di usurpazione, di rapina, di brigantaggio) da ambo le parti, che si trattò di una guerra per la spartizione del mondo, per una suddivisione e nuova ripartizione delle colonie, delle "sfere d’influenza" del capitale finanziario e via dicendo."
[8] Notevoli le colpe dei socialimperialisti tedeschi, in maggioranza concordi con Bernstein quando questi affermava che "la socialdemocrazia può dire una parola molto importante, se non decisiva, a favore della pace; e lo farà tutte le volte e con tutta l’energia che sarà necessaria e possibile, come le detta l’antica divisa  dell’Internazionale. E interverrà anche, come le detta il suo programma, nei casi in cui scoppino conflitti con altre nazioni e non sia possibile una intesa diretta per una soluzione arbitrale delle divergenze. Ma nulla la obbliga a rinunciare alla salvaguardia degli interessi presenti e futuri della Germania, se o per il fatto che gli sciovinisti inglesi, francesi e russi si scandalizzino per i relativi provvedimenti. Ove da parte tedesca non si tratti semplicemente delle manie o degli interessi particolaristici di certe sfere, privi di importanza o addirittura nocivi per il benessere del popolo; ove siano in gioco effettivamente importanti interessi della nazione – l’internazionalismo non può essere un motivo di debole arrendevolezza di fronte alle pretese degli interessi stranieri" (E. Bernstein, I presupposti…, pag. 212 e seg.). Cfr., invece: K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Roma – Bari 1992, pag. 115 e seg.: "si è rimproverato ai comunisti ch’essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletariato deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, seppure non certo nel senso della borghesia. Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l’azione unita".
[9] Cfr.: H. Marcuse, Il “romanzo…, pag. 445; H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, pag. 13.
[10] P. Frölich, Guerra e…, pag. 67 e segg.
[11] Cfr.: W. Abendroth, La socialdemocrazia in Germania, Editori Riuniti, Roma 1980, pag. 57; U. Ranieri – U. Monopoli, Il movimento è tutto. Rileggendo Eduard Bernstein, Sugarco Edizioni, Varese 1993, pag. 145 e seguenti. Abendroth chiama MSP la frazione maggioritaria dell’SPD dopo l’uscita (1914), dallo stesso partito, della SDA (Cooperazione Socialdemocratica) guidata da R. Luxemburg e K. Liebknecht, che confluirà – come movimento “federato”, con il nome Spartakusbund (Lega di Spartaco, poi KPD(S) – Partito comunista tedesco (Lega di Spartaco) a partire dal 1918) nella USPD (Partito socialdemocratico indipendente tedesco) fondata (1917) da Kautsky e Bernstein in polemica con la scelta, avvenuta tre anni prima, della frazione maggioritaria dell’SPD di votare a favore della guerra.
[12] P. Gay, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 1978, pag. 32, riporta che essa fu proclamata "dal socialista Philipp Scheidemann non certo per genuino entusiasmo repubblicano, quanto nell’ansioso desiderio di prevenire la proclamazione di una repubblica dei soviet da parte di Karl Liebknecht."
[13] F. Stark (a cura di), Rivoluzione o riforme? Marcuse – Popper. Un confronto, Editore Armando Armando, Roma 1989, pag. 11.
[14] P. Frölich, Guerra e…, pag. 228.
[15] Cfr.: W. Abendroth, La socialdemocrazia... , pag. 63; P. Gay, La cultura…, pagg. 41 e 195.
[16] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 106. Cfr.: P. Gay, La cultura... , pag. 194, il quale riferisce che il giorno "8 novembre il socialista indipendente Kurt Eisner, un idealista, proclamò una repubblica in Baviera e si autonominò primo ministro (…). Lo stesso giorno il cancelliere Max von Baden chiese con fermezza all’imperatore di abdicare."
[17] B. M. Katz, Praxis and... , pag. 14. Cfr.: P. Gay, La cultura... , pag. 42, riporta che "Truppe regolari, affiancate da formazioni paramilitari istituite precipitosamente per l’occasione, i Freikorps, passarono per le armi decine di militanti spartachisti; il socialdemocristiano Noske, il "segugio" della repubblica di Weimar, conferì alle truppe, al comando di ufficiali di destra, un’ampia possibilità di azione che si risolse di fatto nella possibilità di pianificare di fatto l’eliminazione fisica degli avversari".
[18] F. Stark (a cura di), Rivoluzione o…, pag. 11.
[19] Cfr.: H. Marcuse, Il “romanzo…, pag. 445; H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, pag. 17 e seg.
[20] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 107.
[21] In questo Marcuse era pienamente in sintonia con il fermento culturale che si registrava nei circoli e nei salotti impegnati della repubblica di Weimar. Cfr.: D. Kellner, Critical Theory, Marxism and Modernity, Polity Press, Cambridge 1989, pag. 10; R. Wiggershaus, La scuola... , pag. 107; B. M. Katz, Praxis and... , pag. 15.
[22] M. Jay, L’immaginazione…, pag. 37.
[23] Cfr.: M. Jay, L’immaginazione…, pag. 37; H. Brunkorst – G. Koch, Marcuse, pag. 42; R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 114.
[24] B. M. Katz, Praxis and... , pag. 16.
[25] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 52. Marcuse verrà sempre considerato tale da Horkheimer ed Adorno.
[26] M. Jay, L’immaginazione…, pag. 9.
[27] Le fonti a questo proposito sono discordanti. R. Wiggershaus (La scuola…, pag. 25) riporta "nella prima settimana di Pentecoste del 1923", M. Jay (L’immaginazione…, pag. 6) invece "nell’estate del 1922", ed in una nota (pag. 54, nota 4) riferisce che Karl August Wittfogel "ha osservato che la EMA (Erste Marxistiche Arbeitswoche) ebbe luogo dopo la settimana di Pentecoste del 1923. Weil smentisce e fa notare  che a quella data l’attività dell’Istituto era già iniziata". A sostegno della periodizzazione proposta da M. Jay, cfr.: L. Geninazzi, Horkheimer…, pag. 216.
[28] M. Jay, L’immaginazione…, pag. 9.
[29] Oltre a Marcuse – giunto all’Istituto circa dieci anni dopo la sua fondazione – che era stato vicino all’SPD pur simpatizzando per gli spartachisti, gran parte dei membri fondatori dell’Istituto erano stati vicini alle luxemburghiane (Weil, Pollock, Horkheimer) ed alcuni di loro (Wittfogel, Borkenau, Gumperz, Massing) militarono per qualche tempo nel KPD. Cfr.: M. Jay, L’immaginazione…, pag. 17; R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 23 e segg.; D. Kellner, Critical theory…, pag. 9.
[30] M. Jay, L’immaginazione…, pag. 12.
[31] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 34.
[32] ibidem.
[33] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 46.
[34] D. Kellner, Critical theory…, pag. 50, rileva la paradossalità della posizione dei francofortesi: da un lato proclamavano la necessità della trasformazione rivoluzionaria della società e dall’altro invece erano totalmente estranei dalle lotte politiche.
[35] L. Geninazzi, Horkheimer…, pag. 230 e seg.
[36] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 34.
[37] Cfr.: W. Abendroth, La socialdemocrazia... , pag. 63; P. Gay, La cultura…, pag. 43 e seg., il quale riporta che tra il "1918 ed il 1922, gli assassinii attribuiti ad elementi di sinistra furono ventidue e di questi diciassette furono puniti con rigore, dieci con la pena capitale. Gli estremisti di destra, d’altro canto, trovarono i tribunali comprensivi: di 354 omicidi da essi perpetrati uno soltanto fu punito con severità, e neppure questo con la pena di morte. Le sentenze emesse riflettono lo stesso pregiudizio: i responsabili di assassinii politici, se di sinistra, furono condannati in media a quindici anni di reclusione, se di destra a quattro mesi. Gli elementi della destra che giocarono la carta della eversione, come Kapp, che cercò di rovesciare la repubblica con la forza e la violenza e di cui si macchiarono di numerosi e rivoltanti assassinii, vennero assolti ricorrendo a scappatoie giuridiche o poterono rifugiarsi indisturbati all’estero. (…) Gli assassinii perpetrati dai membri delle Feme, illegali "organizzazioni di difesa", gruppi paramilitari di vigilantes, appartengono ai crimini più atroci di un secolo non certo povero di atrocità: disoccupati fanatici ed ex-ufficiali non più reinseribili ormai nella vita civile bastonarono a morte uomini e strangolarono donne su cui spesso non gravava che il sospetto di "attività non patriottiche". Pochi di questi assassini subirono un processo ed ancor meno furono i condannati e in ogni caso nessuno dovette scontare lunghi periodi di detenzione o fu in un modo o nell’altro inibito dal proseguire nella sua attività criminosa."; cfr.: G. Lukàcs, La distruzione…, vol. I pag. 73 e seg., laddove riporta che "la repubblica di Weimar fu una repubblica senza repubblicani, una democrazia senza democratici (…). I partiti borghesi di sinistra alleati ai riformisti non servirono all’attuazione di una democrazia rivoluzionaria, ma furono – sotto i motti di repubblica e democrazia – essenzialmente "partiti dell’ordine", la qual cosa significò in pratica che la struttura della Germania guglielmina fu lasciata il più possibile immutata".
[38] P. Gay, La cultura…, pag. 200.
[39] A. Sohn-Rethel, Economia e struttura di classe del fascismo tedesco, De Donato, Bari 1978, pag. 210 e seg., scriveva nel 1932 a proposito della repubblica di Weimar che la "socialdemocrazia di allora e l’attuale nazionalsocialismo sono intanto funzionalmente paragonabili, in quanto sono stati entrambi i becchini del sistema precedente ed entrambi hanno condotto le masse che li seguivano, invece che alla conclamata rivoluzione, a un sostanziale riassetto del dominio borghese. Da questo punto di vista è pienamente sostenibile il parallelo che viene spesso tracciato tra Ebert e Hitler. Tra le correnti da loro "risvegliate" esiste un’affinità strutturale, costituita dal fatto che entrambi erano movimenti popolari – troppo spesso si dimentica questa caratteristica dell’alta marea socialdemocratica del 1918-19; entrambi promettevano, con l’appello a nostalgie anticapitalistiche di liberazione, la creazione di una nuova "comunità di popolo", rispettivamente "sociale" e "nazionale"; entrambi avevano un seguito la cui composizione sociale nell’area delle masse piccolo-borghesi, e perfino spesso fuori di questa, coincideva largamente; ambedue infine erano caratterizzati spiritualmente da un diffuso irrazionalismo e da una fedeltà gregaria tanto cupamente fideistica quanto di breve respiro. La constatazione di questo parallelismo non è una diffamazione dell’idea nazionalsocialista, in quanto non riguarda affatto le idee, ma serve piuttosto alla pura conoscenza analitica della funzione e del significato di due movimenti di massa che in un identico contesto sociale, in due momenti storicamente omologhi, hanno giocato o, nell’altro caso, giocano, un analogo ruolo politico. Il parallelismo stesso stabilisce che il nazionalsocialismo doveva sostituirsi alla socialdemocrazia nel compito di fornire l’appoggio di massa al dominio della borghesia in Germania."
[40] Cfr.: P. Gay, La cultura... , pag. 41; P. Frölich, Guerra e…, pag. 220 e segg.. Il primo dimostra che fu il governo socialdemocratico, che si era accordato con le cricche guglielmine per mantenere l’ordine, a far recuperare all’esercito ed ai suoi comandanti il credito perduto; il secondo dimostra che furono proprio il comandante supremo delle forze armate tedesche, Hindenburg, assieme al suo capo di stato maggiore, Ludendorff, a “pugnalare alle spalle” l’esercito.
[41] W. Abendroth, La socialdemocrazia…, pag. 65.
[42] W. Abendroth, La socialdemocrazia…, pag. 66.
[43] W. Abendroth, La socialdemocrazia…, pag.70.
[44] P. Gay, La cultura…, pag. 212 e seg., laddove scrive che "i nazisti (…) balzarono (…) da dodici seggi a centosette".
[45] Borghesia bancarottiera: A. Sohn-Rethel, Economia e…, pag. 69, scrive che la "specificità della situazione creatasi in Germana all’inizio degli anni Trenta dev’essere piuttosto individuata nel fatto che la "fronda dei debitori insolventi" (così i circoli del capitale finanziario avevano ribattezzato lo schieramento della cosiddetta “opposizione nazionale) non si limitava ad arrogarsi il ruolo di alternativa, ma minacciava di assumerlo veramente. Ciò non sarebbe stato possibile, se alla testa dell’opposizione non ci fossero stati i vari Thyssen, Flick, Vogler, Schacht, Kirdorf, Borsig. Questo rapido elenco di nomi comprende alcuni dei principali finanziatori di Hitler: e ciò non è un elemento superficiale della scena politica". Su Thyssen e gli altri industriali del ferro ed il loro ruolo nella prima guerra mondiale, cfr.: P. Frölich, Guerra e…, pag. 120 e segg.
[46] P. Gay, La cultura…, pag. 214.
[47] P. Gay, La cultura…, pag. 215.
[48] A. Sohn-Rethel, Economia e…, pag. 84, segnala che la "scissione della Deutsche Volkspartei, nell’estate del 1929, aveva segnato l’apertura di una fase dell’imperialismo tedesco. Subito dopo si erano aperte tra industriali renani e agrari dell’Est faticose trattative, nel faticoso tentativo, nel tentativo di giungere al superamento della divaricazione dei rispettivi interessi e all’elaborazione di una linea comune di politica economica. La necessità di un compromesso si faceva sempre più stringente. La crisi, infatti, aveva radicalizzato le contraddizioni fra industriali e agricoltura e minacciava così di frapporre un ostacolo insormontabile a quella politica di unificazione che gli esponenti più consapevoli dell’alta borghesia tedesca giudicavano ormai indispensabile. La polarizzazione degli interessi si prolungava del resto anche all’interno di  ciascun settore: alla contrapposizione fra le industrie “di base” e di trasformazione corrispondeva quella fra il latifondo, basato sulla monocultura dei cereali o di patate, e l’azienda contadina, fondata piuttosto sull’allevamento e la specializzazione delle colture. E mentre l’industria pesante e la grande proprietà terriera convergevano a formare il fronte di Harzburg, l’industria di trasformazione e l’azienda contadina si ritrovarono entrambi insieme nella coalizione di Brüning."
[49] Quello di von Papen fu il primo governo in cui la nobiltà tornava al potere, tanto che il suo gabinetto venne soprannominato “Almanacco di Gotha”. Esso segna la fine della rivoluzione del 1918. Questo governo, riporta A. Sohn-Rethel, Economia e…, pag. 88 e segg., "varò nel settembre del 1932 un programma “di sostegno all’occupazione” che avrebbe dovuto tradursi in un considerevole incremento dell’indice della produzione industriale. (…) A secca smentita delle speranze del governo, in pochi giorni la quotazione di borsa dei buoni del Tesoro che dovevano costituire la base finanziaria del “sostegno all’occupazione” cadde al di sotto del valore di emissione. (…) Mentre il governo von Papen manifestava tutta la sua impotenza e veniva a perdere, uno dopo l’altro, tutti i suoi principali sostenitori in campo industriale, l’industria pesante e la grande proprietà terriera serravano i tempi delle trattative. Nell’agosto del 1932 l’accordo era ormai cosa fatta, e il programma di cartellizzazione dell’agricoltura definito in tutti i suoi aspetti qualificanti. I connotati autentici di tale programma risaltano solo se lo si colloca contro lo sfondo che gli spetta: la strategia di preparazione alla guerra, sbrigativamente dissimulata dalla parola d’ordine "ristrutturazione del commercio estero della Germania". Inutile sottolineare (…) che la cartellizzazione dell’agricoltura suscitava i più spontanei consensi da parte degli ambienti militari."
[50] A. Sohn-Rethel, Economia e…, pag. 108, riporta che fu il passaggio – nella fine di dicembre del 1932 – della IG Farben, una grossa compagnia della chimica industriale, nel gruppo di Harzburg a determinare la caduta del governo Schleicher, gettando così "le premesse di una dittatura in grado di rappresentare gli interessi di quasi tutte le componenti decisive del capitale finanziario".
[51] Fra il 1933 ed il 1935 si manifestò il volto, razzista e discriminatorio, del nazismo: alla legge per la riorganizzazione della burocrazia (1933; essa prevedeva il pensionamento dei non “ariani” – in base a questa norma Husserl dovette lasciare l’insegnamento) fece seguito nel 1935 l’avvio – legalizzato – delle persecuzioni antisemite (leggi di Norimberga). A. Sohn-Rethel, Economia e…, pag. 59, riporta che la conseguenza dell’avvio delle persecuzioni antisemite per la Germania fu che sin dall’inizio produsse larghi vuoti fra le fila dei cattedratici più noti: interi nuovi e promettenti campi di ricerca vennero “regalati” agli inglesi ed agli americani, che avevano preso a “reclutare” gli studiosi tedeschi. Non condivido l’analisi che G. Lukàcs, La distruzione…, vol. I pag. 75, dà dell’ascesa e della presa del potere di Hitler e del nazismo.
[52] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 137.
[53] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 138.
[54] Sono pochi coloro i quali hanno analizzato in modo non superficiale il rapporto fra Heidegger e Marcuse attraverso le opere giovanili di quest’ultimo. Fra questi: A. Schmidt, Ontologia esistenziale e materialismo storico, in: (a cura di J. Habermas) Risposte a Marcuse, Laterza, Bari 1969; G. Pasqualotto,  Teoria come utopia. Studi sulla scuola di Francoforte (Marcuse – Adorno – Horkheimer), Bertani, Verona 1964; il saggio di S. Cirrone, Il giovane Marcuse fra fenomenologia e materialismo storico, in: Siculorum Gymnasium, Catania 1977; G. Palombella, Ragione e immaginazione. Herbert Marcuse 1928-1955, De Donato, Bari 1982.
[55] B. M. Katz, Praxis and... , pag. 15. G. Lukàcs, La distruzione... , pag. 496 e seg., scrive che proprio grazie a Martin Heidegger "la fenomenologia viene per qualche tempo a trovarsi al centro dell’interesse filosofico dell’intellettualità tedesca. Ma essa ora diventa l’ideologia della depressione dell’individualismo nel periodo imperialistico. (…) Sören Kierkegaard, ha espresso la filosofia della depressione romantico-individualistica di allora nella forma più originale. Nessuna meraviglia quindi che ora, quando questa tendenza alla depressione comincia ad affermarsi nella forma di presentimento di tristi eventi futuri già alcuni anni prima dello scoppio della crisi, sia proclamato il ritorno a Kierkegaard dai pensatori di guida del nuovo periodo, dal discepolo di Husserl, Heidegger, e dall’ex psichiatra Karl Jaspers.".
[56] Tanto su “Die Gesellschaft” (diretta da Hilferding) quanto su “Philosophische Hefte” (la rivista del suo amico Maximilian Beck).
[57] H. Marcuse, Contributi a una fenomenologia del materialismo storico, in: Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialistica. Tre studi (1928 – 1936), Unicopli, Milano 1980, pag. 3. Cfr.: G. Lukàcs, Storia e…, pag. 320: "Proprio qui si può più facilmente cogliere il carattere rivoluzionario del marxismo. Il marxismo è la teoria della rivoluzione proprio perché afferma l’essenza del processo (in contrasto con i suoi sintomi, le forme fenomeniche), mostrando la sua tendenza decisiva, orientata verso il futuro (in contrasto con le manifestazioni quotidiane). Per la stessa ragione esso è anche l’espressione ideologica della classe proletaria che lotta per liberarsi".
[58] H. Marcuse, Contributi…, pag. 4, scrive: "Chiamiamo situazione fondamentale di un uomo la condizione nella quale egli giunge a cogliere e può determinare la propria irripetibile posizione rispetto al mondo circostante e il compito che ne deriva.". Più avanti, a pag. 6, afferma che "Nella situazione fondamentale marxista ne va della possibilità storica dell’azione radicale, che deve liberare la necessità di una nuova realtà effettuale e la realizzazione dell’uomo intiero. Il suo portatore è l’uomo storicamente cosciente, suo unico campo d’azione la storia, che viene scoperta come la categoria fondamentale dell’esserci umano. Con ciò l’azione radicale si rivela come azione storica rivoluzionaria della “classe” in quanto unità storica."
[59] Secondo H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, pag. 29, "Polemicamente si potrebbe dire che per fortuna Marcuse ha frainteso il suo maestro Heidegger".
[60] H. Marcuse, Contributi…, pag. 40. Cfr.: G. Lukàcs, Storia e…, pag. 3: "Solo se la presa di coscienza rappresenta il passo decisivo che il processo storico deve fare verso il proprio fine – un fine che è fatto di volontà umana, ma che non dipende dall’arbitrio dell’uomo e non è inventato dallo spirito umano; se la funzione storica della teoria consiste nel rendere praticamente possibile questo passo; se è data una situazione storica nella quale la corretta conoscenza della società si converte, per una classe, in condizione immediata della propria affermazione nella lotta, se per questa classe la conoscenza che essa ha di sé significa al tempo stesso una corretta conoscenza della società nella sua interezza; se di conseguenza, per una simile conoscenza, questa classe è al momento stesso soggetto ed oggetto della conoscenza ed in questo modo la teoria interviene immediatamente ed adeguatamente nel processo di rivolgimento della società: solo allora diventa possibile l’unità di teoria e praxis, presupposto della funzione rivoluzionaria della teoria. Una tale situazione è sorta con la comparsa del proletariato nella storia.".
[61] Marcuse forza "il concetto di deiezione fino a farlo coincidere con la "determinazione storica dell’Esserci", col suo "radicamento nel “destino” della comunità"." (S. Cirrone, Il giovane…, pag. 158).
[62] M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1992, pag. 221.
[63] M. Heidegger, ibidem, scrive che la "inautenticità (…) indica (…) un modo preciso di essere-nel-mondo, modo in cui l’Esserci è completamente immedesimato nel “mondo” e nel con-Esserci con gli altri".
[64] Cfr.: H. Marcuse, Contributi…, pag. 21: "la ricerca di Heidegger resta ancora fedele al suo proprio senso (storico), quando ferma la propria analisi a queste indicazioni? Come inizio di ogni filosofare è stato scoperto l’uomo concreto nella sua concreta situazione storica. La storicità si era rivelata non come una mera casualità dell’esserci, o come il suo “luogo” meramente effettivo nel mondo, ma come la maniera d’essere dell’esserci stesso, sulla quale si fonda la sua piena determinazione. Questo significa che per un progetto così radicale come quello di Heidegger è necessario il ricorso al fatto decisivo dell’“oggi” nella sua intiera concezione storica. In e per questo “oggi” sono state svelate le realtà occultate: non come un nuovo tentativo di risolvere i problemi tradizionali della philosophia perennis, ma come una presa di coscienza richiesta dal destino attraverso la situazione di pericolo dell’uomo presente. Nella prospettiva di questo “oggi” erano anche da porre e da risolvere le questioni ultime che scaturiscono da queste verità: che cos’è l’esistenza concretamente autentica? Com’è possibile ed è, in generale possibile, un’esistenza concretamente autentica? Queste questioni, poste e risolte per l’“esserci in generale”, sono vuote, cioè, senza forza di fede o di obbligazione, caratteri che devono essere loro attribuiti in quanto problemi esistenziali. La introduzione dell’“oggi” e della sua situazione avrebbe mostrato che la esistenza autentica, la quale è sempre possibile solo come “revoca di ciò che nell’oggi ha efficacia come passato”, può accadere per l’oggi solo come azione concretamente trasformatrice, avrebbe mostrato che è il destino dell’oggi quello di doversi affermare solo attraverso il rovesciamento dell’esistenza presente ed effettiva"; M. Heidegger, Essere e…, pag. 225: "l’esistenza autentica non è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità deiettiva; esistenzialmente, essa è soltanto un afferramento modificato di questa". Balza immediatamente agli occhi che Marcuse si muove all’interno di un’ottica propriamente marxiana: cfr.: K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pagg. 27 e 66.
[65] Ancora una volta, Marcuse si situa nell’alveo della grande tradizione marxista. Cfr.: H. Marcuse,Contributi…, pag. 6: "Nella situazione fondamentale marxista ne va della possibilità storica dell’azione radicale, che deve liberare la necessità di una nuova realtà effettuale come realizzazione dell’uomo intiero. Il suo portatore è l’uomo storicamente cosciente, suo unico campo d’azione la storia, che viene scoperta come la categoria fondamentale dell’esserci umano. Con ciò l’azione radicale si rivela come azione storica rivoluzionaria della “classe” in quanto unità storica."; H. Marcuse, Marxismo trascendentale, in: Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, Einaudi, Torino 1975, pag. 55: "L’universalità della realtà (in quanto oggetto dell’esperienza sociale) si fonda sulla connessione della storia. Per storia non intendiamo il decorso degli avvenimenti politici o economici o culturali, ma la totalità di tutte queste forme di vita umana come accadere dell’esistenza umana stessa. Poiché l’uomo può esistere solo nella storia e tutto il suo ambiente (persone e cose) è ugualmente storia ed è coinvolto nel flusso dell’accadere storico."; G. Lukàcs, Storia e…, pag. 92 e segg., pag. 217 e segg., ed in particolare a pag. 245: "La storia è (…) il prodotto dell’attività dell’uomo, rimasto sia pure inconsapevole fino ad oggi; d’altro lato essa è l’avvicendarsi di quei processi nei quali si sovvertono le forme di questa attività, le relazioni che l’uomo stabilisce con se stesso, con gli uomini e la natura."
[66] M. Heidegger, Essere e…, pag. 451. A questo proposito cfr.: G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 269.
[67] M. Heidegger, Essere e…, pag. 452.
[68] M. Heidegger, Essere e…, pag. 455.
[69] M. Heidegger, Essere e…, pag. 452; pag. 483 e segg.
[70] M. Heidegger, Essere e…, pag. 287.
[71] Cfr.: A. Schmidt, Ontologia... , pag. 18. G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 269, per il quale queste affermazioni heideggeriane sono palesemente irrazionaliste. Sul rapporto fra storia e storicità in Heidegger, G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 518 e seg., scrive – fra l’altro – che "secondo la concezione che Heidegger ha della storia, proprio la storia reale è la storia impropria, allo stesso modo che il tempo reale era il tempo "volgare".".
[72] Per Heidegger, Essere e…, pag. 239, la Cura è l’essere dell’Esserci. "I caratteri ontologici fondamentali  di questo ente sono l’esistenzialità, l’effettività e l’esser-deietto"; fra questi caratteri "ha luogo una connessione originaria in cui si esprime quella unitarietà dell’insieme delle strutture" nella quale "si rende ontologicamente accessibile l’essere dell’Esserci in quanto tale".
[73] G. Pasqualotto, Teoria come…, pag. 35; corsivo mio. In sintonia con quanto affermato da K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 27.
[74] Questa esigenza di concretezza non si comprende se non si ricordi che Marcuse aveva fatto in prima persona l’esperienza di una rivoluzione ed è costantemente teso ad individuare le reali possibilità per la sua attuazione – e quindi anche i soggetti che dovrebbero compierla. Questa tensione attraversa l’intera sua opera. Ancora alla fine degli anni ’20, osserva A. Schmidt (Ontologia…, pag. 29) Marcuse "si oppone alla condotta in quegli anni ancora contemplativa di Heidegger, accentuando con decisione e novità in senso rivoluzionario e proletario la realtà immediata dell’epoca". Mentre Heidegger non consente, all’interno della storia, l’azione dell’Esserci (confinandola nell’inautenticità ed aprendo come unico varco possibile di accesso alla autenticità, l’Esserci-per-la-morte), Marcuse invece lo spinge all’azione: cfr.: Contributi…, pag. 20 e segg.
[75] H. Marcuse, Sulla filosofia concreta, in: Marxismo…, pag. 24.
[76] H. Marcuse, Contributi…, pag. 7 e seg.
[77] G. Palombella, Ragione e…, pag. 22.
[78] H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in: Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1982, pag. 31, scrive che la "posizione di Heidegger fino a Sein und Zeit rappresenta il punto più avanzato raggiunto dalla filosofia in questa direzione. Poi ha luogo l’inversione di marcia".
[79] G. Lukàcs, Storia e…, pag. 215, di fatto conferma questa interpretazione: "Il punto di vista del proletariato si contrappone dunque alla classe borghese: ma per comprendere la realtà, il pensiero proletario non richiede affatto una tabula rasa, u nuovo inizio "privo di presupposti", così come è avvenuto nel caso del pensiero borghese – almeno considerando la sua tendenza di fondo – nei confronti delle forme feudali del medioevo. Proprio perché il suo scopo pratico è un rivolgimento fondamentale della società nella sua interezza, esso intende la società borghese, con le sue elaborazioni intellettuali, artistiche, ecc., come punto di avvio del metodo". Tuttavia, il tutto si spiega semplicemente con il fatto che la società comunista è “l’erede” di quella borghese – e quindi assume quest’ultima come base di partenza.
[80] M. Heidegger, Essere e…, pag. 97.
[81] M. Heidegger, Essere e…, §§ 14, 15, 16, 21.c, 22.
[82] “Utilizzabile” è anche la manodopera. Il termine però non dice in quali condizioni avvenga e chi sia il soggetto di quella “utilizzabilità”. Una critica all’apparente neutralità linguistica è svolta in: H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1991, pag. 102 e segg.
[83] M. Heidegger, Essere e…, pag. 95, scrive che il "modo di essere e del mezzo, in cui questo si manifesta  da se stesso, lo chiamiamo utilizzabilità. Solo perché il mezzo possiede questo “essere in sé” e non è qualcosa di semplicemente-presente, esso è maneggiabile e disponibile nel senso più largo".
[84] H. Marcuse, Ecologia e critica della modernità, in: Capitalismo Natura Socialismo, n. 6, Dicembre 1992, pag. 52.
[85] H. Marcuse, Ecologia e…, pag. 51.
[86] H. Marcuse, Ecologia e…, pag. 52.
[87] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 115.
[88] H. Marcuse, Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico, in: Marxismo…, pag. 24.
[89] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 103.
[90] H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969, pag. 3.
[91] H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, pag. 37. Cfr.: G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 301 e pag. 840, che dà di Heidegger un giudizio politico ed umano molto duro.
[92] ibidem.
[93] Il carteggio Marcuse – Heidegger è stato pubblicato su: Reset n. 50, Milano 1998, pagg. 100 – 103.
[94] I brani citati sono stati tratti dalla lettera di Marcuse ad Heidegger, datata 28 agosto 1947.
[95] Nella sua lettera di risposta a Marcuse, Heidegger afferma: "Nel 1934 riconobbi il mio errore politico: mi dimisi dal mio Rettorato come protesta contro lo Stato e il partito. Non fui messo al corrente del fatto che a) del mio errore se ne approfittasse a livello propagandistico sia in patria, sia all’estero, ma che in egual misura si tacesse a livello propagandistico del b) riconoscimento del mio errore. Pertanto ciò non mi può essere imputato".
[96] I brani citati sono stati tratti dalla lettera di Heidegger a Marcuse, datata 20 gennaio 1948.
[97] Lettera di Marcuse ad Heidegger, 13 maggio 1948.
[98] Heidegger gli aveva scritto che "il Suo scritto mi mostra davvero quanto sia difficile avere un colloquio con uomini che non sono più vissuti in Germania dal 1933 e che danno un giudizio sul movimento nazionalsocialista a partire dalla sua fine".
[99] Se questa di Heidegger era una critica rivolta a Marcuse era completamente sbagliata: già nel 1934, in un saggio (La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in: Cultura e società, Einaudi, Torino 1982, pag. 3 e segg.) apparso sulla Zeitschrift für Sozialforschung, il nostro Autore attaccava duramente il nazismo e la sua ideologia.
[100] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 4. Cfr.: G. W. F. Hegel, Scienza della Logica, tomo III cap. I, Laterza, Bari 1968, pag. 863.
[101] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 8. Cfr.: G. W. F. Hegel, Scienza... , tomo II sez. III cap. I, pag. 864; G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. I, Laterza, Bari-Roma 1980, pag. 202.
[102] H. Marcuse, L’ontologia…, pagg. 8-9.
[103] ibidem. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse.
[104] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 3. Cfr.: H. Marcuse, Contributi…, pag. 15: "Dalla metà del secolo  scorso il problema della storicità è stato di nuovo riconosciuto come il problema capitale della filosofia. Indipendentemente dal sistema di Hegel e degli hegeliani, Droysen, nei suoi Lineamenti della Storiografia, ha posto questo problema, ma solo in Dilthey esso diventa il motore centrale del filosofare. Da allora esso è stato aggredito dai più diversi lati con la sempre più chiara coscienza che qui si tratta probabilmente del problema della scienza in generale (…) finché Heidegger lo ha posto e risolto a partire dalla fenomenologia rigorosa in tutto il suo peso di radicalità"; G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 572 e seg., dove attacca duramente Marcuse, perché lascia trasparire una certa adesione alla Lebensphilosophie diltheyana. Tale critica, se pur comprensibile, non è accettabile sia che L’ontologia di Hegel (sulla quale si appuntano gli strali lukàcsiani) venga situata all’interno dell’intera produzione filosofica del Nostro – decisamente distante da questo orientamento – sia che essa venga considerata singolarmente: l’opera, è bene ricordarlo, è uno scritto accademico nel quale l’Autore si confronta, all’interno di un’ottica heideggeriana (ed anche ad Heidegger, ed a ragione – in questo caso – Lukàcs muove l’accusa di essere un seguace della filosofia della vita nonché un irrazionalista: G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 485 e 496-497), con Hegel e con alcuni fra  i suoi maggiori interpreti.
[105] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 17. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse.
[106] Cfr.: G. W. F. Hegel, Scienza... , tomo II sez. III cap. I, pag. 597; G. W. F. Hegel, Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971, pag. 12 e seg. E pag. 20 e segg.
[107] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 49.
[108] ibidem. Cfr.: H. Marcuse, Sul problema della dialettica (I), in: Fenomenologia…, pag. 56, si pone la "domanda: quali oggetti sono storici e quindi dialettici nel loro modo di essere? Oppure lo sono tutti gli oggetti, l’intera realtà? Hegel si è deciso in quest’ultimo senso; e per quel che riguarda il suo sistema è evidente che una simile assolutizzazione della storicità o storicizzazione dell’assoluto sforza sia l’essenza della storicità che l’essenza della realtà nel senso di una compatta costruzione concettuale. Se ora tentassimo di rispondere positivamente alla domanda circa l’ambito della storicità, bisognerebbe dire che una tale risposta presuppone necessariamente vaste ricerche nel campo dell’ontologia; è inevitabile riferirne qui solo i risultati, ma si può correggere qui questa mancanza rinviando alla fondamentale elaborazione di questa problematica da parte di Dilthey (soprattutto anche nello scambio epistolare con il conte York v. Wartenburg) e più recentemente da Heidegger". Questo saggio, del 1930, pare già tracciare la linea di sviluppo sulla quale il Nostro si muoverà ne L’ontologia di Hegel. Sulle stesse tematiche il Nostro torna ne Sul problema della dialettica (II), del 1931, in cui offre (pag. 65-71) una sintesi delle problematiche svolte proprio ne L’ontologia di Hegel.
[109] ibidem.
[110] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 58. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse. Cfr.: G. W. F. Hegel, Scienza…, tomo I sez. I cap. II, pag. 110: "L’essere determinato è un ente determinato, qualcosa. (…) L’esistere, la vita, il pensiero, si determinano essenzialmente a esistente, vivente, pensante (Io) etc…".
[111] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 70. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse.
[112] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 70, mutua questo termine da Hegel. Cfr., per un concetto analogo: G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito senese, Laterza, Roma - Bari 1983, pag. 21.
[113] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 71. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse, del quale è il corsivo. Cfr.: H. Marcuse, Contributi…, pag. 22: "La problematica dell’esistenza storica ha portato automaticamente alla costituzione materiale della storicità. Con questo noi indichiamo preliminarmente l’ambito delle condizioni storiche concrete dell’esistere di un esserci concreto, nelle quali l’esserci e la totalità di appagamento del suo modo sono di volta in volta radicati".
[114] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 188. Cfr.: G. W. F. Hegel, Filosofia... , pag. 33.
[115] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 192 – 193. L’Autore sta esaminando G. W. F. Hegel, Scienza…, tomo II sez. III cap. I, ed in particolare le pagg. 873 e segg.; cfr.: G. W. F. Hegel, Scienza…, tomo I sez. I cap. II, pag. 135: "sente dolore, e il privilegio della natura sensibile è di sentire dolore"; G. W. F. Hegel, Primi…, pag. 14; G. W. F. Hegel, Enciclopedia…, vol. II pag. 424 e segg.; G. W. F. Hegel, Filosofia…, pag. 35 e segg.
[116] Cfr.: K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in: Opere filosofiche giovanili, Edizioni Rinascita, Roma 1950, pag. 227.
[117] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 71. Marcuse sta citando K. Marx, Manoscritti…, pag. 184: (il lavoratore) "In quanto esso è, dunque, mentalmente e fisicamente abbassato a una macchina, e da uomo diventa una astratta attività ed un ventre, diventa anche sempre più dipendente da tutte le oscillazioni del prezzo di mercato, dell’impiego di capitali e dell’umore dei ricchi". L’analisi marxiana delle condizioni di vita della classe operaia all’interno del modo di produzione capitalistico prosegue a pag. 186: "L’economista ci dice che originariamente e idealmente l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Ma ci dice a un tempo che, nella realtà, al lavoratore tocca la parte minima e strettamente indispensabile del prodotto; solo quanto è necessario affinché egli esista non come uomo, bensì come lavoratore; affinché non l’umanità egli propaghi, ma la classe schiava dei lavoratori. L’economista ci dice che tutto i compra con il lavoro, e che il capitale non è che il lavoro accumulato, ma ci dice a un tempo che il lavoratore, ben lungi dal poter comprare tutto, deve vendere se stesso e la sua umanità. (…) Mentre la divisione del lavoro aumenta la forza produttiva del lavoro e la ricchezza e il raffinamento della società, impoverisce il lavoratore sino a farne una macchina. Mentre il lavoro fa sorgere l’accumulazione del capitale, e con ciò il crescente benessere della società, rende il lavoratore sempre più dipendente dal capitalista" ed a pag. 225 e seg. Marx scrive che l’operaio "diviene tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed in estensione. L’operaio diviene una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa condizione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come  privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione. La realizzazione del lavoro si palesa tale privazione che l’operaio è spogliato fino alla morte per fame". Poco più avanti (pag. 242), il filosofo di Treviri scrive che la "produzione produce l’uomo solo come una merce, la merce umana, l’uomo con il carattere della merce, ma lo produce conformemente a questo carattere, come un ente disumanato sia spiritualmente che fisicamente. (…) Il loro prodotto è la merce auto-cosciente e automatica…, la merce umana…". Cfr.: G. W. F. Hegel, Filosofia…, pag. 57 e segg.; G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, pag. 165: "La società civile (…) offre (…) lo spettacolo della dissolutezza, della miseria e della corruzione fisica ed etica (…)". Un riscontro di questa affermazione di Hegel si trova in K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Bari 1992, pag. 114 e seg.
[118] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 94. Il corsivo é di Marcuse. Cfr.: K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto, in: Opere filosofiche…, pag. 134: "Nel suo più alto sviluppo, il principio della proprietà privata contraddice il principio della famiglia". La critica che qui svolge Marx è tutta tesa a controbattere le affermazioni di Hegel circa l’importanza del maggiorascato: in particolare Marx critica l’aggiunta (di Gans) al § 306 dei Lineamenti di filosofia del diritto ed osserva che (pag. 144) "la proprietà privata (…) appare come proprietà fondiaria inalienabile". E’ da cercarsi proprio in Hegel, come giustamente indica Marx, l’origine dello stretto rapporto intercorrente fra il lavoro ed il concetto di proprietà (privata). Cfr.: K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 31 e seg.; K. Marx – F. Engels, Manifesto... , pag. 107 e seg., dove viene reso con esemplare chiarezza il nesso fra proprietà. Ancor più chiaro risulta essere in F. Engels – K. Marx, La sacra famiglia, in: Opere vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1972, pag. 32 e  segg., lo stretto rapporto istituito fra proprietà privata (e quindi: lavoro) ed economia politica.
[119] Tale tentativo sembra emergere distintamente in: G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storiavol. I, La Nuova Italia, Firenze 1989, pag. 66 e segg.. Marcuse pare evidenziare all’interno del pensiero di Hegel un percorso, che ha come sua conclusione la storia assoluta, costituito da tre momenti: l’identificazione della vita come idea della vita, l’idea del conoscere come momento successivo più alto, infine l’idea assoluta come momento ultimo dell’intero movimento. La lettura dell’ontologia che offre Marcuse (della quale presenta un sommario problematico ne L’ontologia…, a pag. 237) assume una evidente ottica retrospettiva,  data in funzione della Fenomenologia dello Spirito cui la Scienza della Logica viene a riconnettersi. Cfr.: F. Engels – K. Marx, La sacra... , pag. 94: "La concezione della storia di Hegel presuppone uno spirito astratto o assoluto, il quale si sviluppa in modo tale che la umanità è solo una massa che coscientemente o incoscientemente lo porta. Hegel fa perciò accadere, all’interno della storia empirica, essoterica, una storia speculativa, esoterica. La storia dell’umanità si trasforma nella storia dello spirito dell’umanità, di uno spirito astratto, e quindi trascendente rispetto all’uomo reale".
[120] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 237 e seguenti.
[121] Cfr.: H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 246; G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, Guida Editori, Napoli 1972, pag. 415 e segg.
[122] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 252 e seg. Cfr.: G. W. F. Hegel, Scritti…, pag. 227: "Questo aspetto del rapporto della religione cristiana cogli uomini non può chiamarsi per se stesso positivo; esso si fonda sul presupposto, bello certamente, che tutto ciò che vi è di alto, di nobile, di buono negli uomini è qualcosa di divino, viene da Dio, è suo spirito, che da lui procede. Ma invero questo aspetto diviene acuta positività, se si separa assolutamente la natura umana dalla divina, se non si ammette nessuna mediazione di esse eccetto che in un solo individuo". Più in avanti, a pag. 473 e segg., tracciata la distinzione tra la vita umana (finita) e la vita infinita, scrive che "la vita limitata si eleva alla vita infinita; e solo per il fatto che il finito è esso stesso vita, esso porta con sé la possibilità di elevarsi alla vita infinita".
[123] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 265. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse.
[124] H. Marcuse, L’ontologia…, pag.268 Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse. Cfr.: G. W. F. Hegel, Scritti... , pag.473 e seg.
[125] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 269. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse.
[126] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 285.
[127] H: Marcuse, L’ontologia…, pag. 288. Cfr.: G. W. F. Hegel, Filosofia... , pag. 94.
[128] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 192 e segg. Queste pagine sono fondamentali per la fondazione della teoria della storicità. Cfr.: G. W. F. Hegel, Scienza... , tomo II sez. III cap. I, pag. 873 e segg.
[129] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 288. Cfr.: G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1996, pag. 121 e seg.
[130] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 292. Cfr.: G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, pag. 120 e segg.
[131] ibidem.
[132] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 298, scrive: "La vita realizza il senso del suo proprio essere (...) soltanto nel f a r e".
[133] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 302. Cfr.: G. W. F. Hegel, Filosofia... , pag. 45 e segg. e pag. 105; nonché G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, pag. 119 e segg.: "La relazione di ambedue le autocoscienze è così costituita ch’esse danno prova reciproca di se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte. – Esse debbono affrontare questa lotta, perché debbono, nell’altro ed in se stesse, elevare a verità la certezza loro di esser per sé. E solo mettendo in gioco la vita si conserva la libertà, si dà prova che all’autocoscienza essenza non è l’essere, non il modo immediato nel quale l’autocoscienza sorge, non l’esser calato in essa nell’espansione della vita: - si prova anzi che nell’autocoscienza niente è per lei presente, che non sia per un momento dileguante, e ch’essa è soltanto puro esser-per-sé. L’individuo che non ha messo a repentaglio la vita, può ben venire riconosciuto come persona, ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento di autocoscienza indipendente. Similmente ogni individuo deve aver di mira la morte dell’Altro, quando arrischia la propria vita, perchè per lui l’altro non vale più come lui stesso; la sua essenza gli si presenta come un Altro (…). In questa esperienza si fa (chiaro) all’autocoscienza che a lei la vita è così essenziale, come lo è l’autocoscienza pura. Nell’autocoscienza immediata l’Io semplice è l’oggetto assoluto (…). Resultato della prima esperienza è la risoluzione di quell’unità semplice; mediante quell’esperienza son pste un’autocoscienza pura ed una coscienza la quale non è pura per se stessa, ma per un altro: (…) l’uno è il signore, l’altro il servo".
[134] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 109.
[135] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 304, scrive: "la vita accade come un implicarsi e un opporsi di individui “indipendenti” e “non indipendenti”, dei quali l’uno è soltanto esser-per-sé, l’altro soltanto esser-per-altro: come rapporto d’implicazione e opposizione fra p a d r o n e e s e r v o". Cfr.: G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, pag. 119 e segg.; tali tematiche sono delineate con una certa chiarezza già in G. W. F. Hegel, Scritti…, pag. 397 e segg.
[136] H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 310. Il grassetto sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Marcuse.
[137] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 63.
[138] H. Marcuse, Marxismo trascendentale, in: Marxismo e…, pag. 58: "Quale danno – ci chiediamo ora – può derivare al marxismo da una interpretazione trascendentale che si ricollega alla filosofia kantiana? Il pericolo è quello di trasformare la teoria della rivoluzione proletaria in una sociologia scientifica che isola il marxismo dalla necessità concreta della situazione storica, lo neutralizza, e svaluta la prassi radicale. Secondo Max Adler il lavoro metodologico di Marx giunge a enucleare l’a priori specifico della teoria sociale. L’analisi marxiana dei fenomeni economici mirerebbe anzitutto “a conquistare gli strumenti intellettuali che consentono di dominare questo complesso infinito di eventi, nelle sue leggi formali”. – No, Marx non si preoccupa minimamente dell’a priori della teoria sociale, delle leggi “formali” dell’accadere sociale. Se si assume questo punto di partenza non c’è possibilità di giungere a quella prassi radicale che mira a trasformare la realtà" e, come considerazione preliminare, rileva (pag. 44) – liquidandolo con una battuta – che "Max Adler è più trascendentale della filosofia trascendentale".
[139] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 69. Cfr.: K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 66.
[140] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 87.
[141] H. Marcuse, Nuove fonti…, pag. 74. Cfr.: G. W. F. Hegel, Filosofia... , pag. 129 e seg.
[142] K. Marx, Manoscritti…, pag. 247: "Come l’essere, l’oggetto, è un ente ideale, così il soggetto è sempre coscienza o autocoscienza; o piuttosto l’oggetto appare soltanto come astratta coscienza, l’uomo (il soggetto) soltanto come autocoscienza".
[143] H. Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, in:Cultura…, pag. 152.
[144] H. Marcuse, Sui fondamenti…, pag. 161: "Ci si pone la domanda, perché mai l’accadere dell’esistenza umana sia essenzialmente “mediazione”, produzione e riproduzione, perché ad essa sia essenzialmente negato un immediato lasciar-accadere, e si risponde con il richiamo della situazione per così dire “naturale” dell’uomo nel mondo: l’accadere dell’esistenza è il lavoro, poiché il mondo, così come l’uomo  se lo trova di fronte di volta in volta, non può mai bastare ai suoi “bisogni”, cosicché l’uomo deve darsi continuamente da fare per poter vivere in questo mondo (per procurarsi vesti, cibo e alloggio, utensili, ecc.). Questa “manchevolezza” originaria della situazione naturale dell’uomo fa del “bisogno” l’impulso del suo fare". Cfr.: K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 27: "per poter "fare storia"gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire ed altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente una azione storica, una condizione storica fondamentale di qualsiasi storia, che ancor oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno ed ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini".
[145] K. Marx, Manoscritti…, pag. 298: "Hegel (…) coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del proprio lavoro. (…) Hegel (…) intende il lavoro come l’essenza, l’essenza che si avvera nell’uomo, vede soltanto l’aspetto positivo del lavoro, non quello negativo. Il lavoro è il divenire per sé dell’uomo nell’alienazione o in quanto lavoro alienato. Il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto".
[146] H. Marcuse, Sui fondamenti…, pag. 155.
[147] H. Marcuse, Per la critica dell’edonismo, in: Cultura…, pag. 116.
[148] H. Marcuse, Per la critica…, pag. 111.
[149] H. Marcuse, Per la critica…, pag. 128.
[150] H. Marcuse, L’autorità e la famiglia. Una introduzione storica al problema, Einaudi, Torino 1982, pag. 30 e segg. Cfr.: H. Marcuse – F. Neumann, A History of the Doctrine of Social Change, in: H. Marcuse, Technology, war and fascism. Collected papers of Herbert Marcuse vol. I, Routledge, London and New York 1998, pag. 99, in cui i due autori evidenziano come – a differenza dell’averroismo latino, critico e molto utilizzato dai pensatori eretici – la filosofia sociale tomista abbia in tutti i modi tentato di mantenere stabile l’ordinamento sociale allora esistente.
[151] H. Marcuse, L’autorità e…, pag. 34.
[152] H. Marcuse, L’autorità e…, pag. 35.
[153] H. Marcuse, L’autorità e…, pag. 36. Cfr.: H. Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura, in: Cultura…, pag. 44 e segg. Parallelamente a questa divisione, si sviluppa la cultura affermativa – frutto dell’affermarsi sociale e politico della borghesia – ed i cui tratti dominanti sono quelli della contrapposizione (pag. 52) "della miseria fisica con la bellezza dell’anima, alla schiavitù esterna con la libertà interiore, all’egoismo brutale con il regno della virtù e del dovere": i regni dell’anima e dello spirito vengono considerati al di sopra del mondo materiale. Se – quando la borghesia iniziava la sua ascesa – tali concetti avevano una portata rivoluzionaria, successivamente servirono al mantenimento dello statu quo.
[154] E’ per via dello sviluppo della riforma luterana e delle guerre di religione che ne seguirono, che il sistema feudale andò in pezzi e iniziò a profilarsi la società capitalistica. A partire di qui – ed a causa della struttura dinamica della società capitalistica – i teorici borghesi sono indotti a subordinare il problema del social change a quello della social stability. Cfr.: F. Neumann – H. Marcuse, Theories of Social Change, in: Technology…, pag. 108.
[155] Cfr.: H. Marcuse, L’autorità e…, pag. 71; F. Neumann – H. Marcuse, A History…, pag. 102; F. Neumann – H. Marcuse, Theories of…, pag. 120 e segg., che pure si soffermano ad evidenziare le differenze fra il pensiero controrivoluzionario inglese e francese.
[156] Su questi tre autori, cfr.: F. Neumann – H. Marcuse, Theories of…, pag. 120 e segg., che pure si soffermano ad evidenziare le differenze fra il pensiero controrivoluzionario inglese e francese.
[157] H. Marcuse, L’autorità e…, pag. 87.
[158] H. Marcuse, L’autorità e…, pag. 89. Cfr.: F. Neumann – H. Marcuse, Theories of…, pag. 121 e seg.; in particolare a pag. 121 si afferma che "monarchs and princes were regarded as the immediate delegates of God, and obedience to them as an unconditional obligation".
[159] F. Neumann – H. Marcuse, A History…, pag. 96 e segg., F. Neumann – H. Marcuse, Theories of…,  pag. 110 e segg., si soffermano ad analizzare le teorie e le concezioni politiche a partire dalla grecità. Il primo è un saggio estremamente succinto, che parte dal pensiero dei sofisti ed arriva al novecento; l’altro costituisce di fatto un approfondimento dei temi toccati nel saggio precedente, con particolare riguardo al pensiero filosofico dal Vico in poi.
[160] F. Neumann – H. Marcuse, A History…, pag. 99, annettono particolare importanza alla filosofia sociale tomistica per la comprensione e la fondazione della teoria sociale del dominio. Essa, infatti, aveva provato a "reconcile the natural law doctrine of the Stoics with the existing feudal, hierarchically organised estate. The Stoic natural law had certain revolutionary implications. In the Thomistic philosophy, it becomes the justification of a hierarchical society based on a clear distinction between three estates. Besides the Summa Theologia there exist innumerable pamphlets, the sole intention of which is to equip the existing society with the dignity of moral law. In the Thomistic philosophy, this reconciliation is made possible by the reception of the Aristotelian philosophy. Thomistic philosophy is thus necessarily hostile to social changes seeping into the ordained division of society". In contrasto con tali concezioni, i due autori sottolineano l’importanza dell’averroismo latino (del quale sottolineano la creativa ereticità in contrasto con la cupa ortodossia del tomismo) per la nascita e lo sviluppo della società contemporanea.
[161] H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in: Cultura e…, pag. 5.
[162] H. Marcuse, La lotta…, pag. 6.
[163] G. Palombella, Ragione e…, pag. 183.
[164] H. Marcuse, La lotta…, pag. 8.
[165] H. Marcuse, La lotta…, pag. 18.
[166] H. Marcuse, The New German Mentality, in: Technology…, pag. 145: "National Socialism may be characterised as the specifically German adaption society to the requirements of large scale industry, as the typically German form of “technocracy”. We might even venture to say that National Socialism is the first and only “middle class revolution” in Germany, occurring at the stage of large scale industry and therefore skipping or condensing the preceding stages of developments. National Socialism has furthermore abolished the remnants of feudalism, notwithstanding the concentration of large real estate which the system promotes with all means (this concentration is a capitalistic rarther than feudal process). (…) National Socialism has incorporated labor into the dominion of industry (…). National Socialism has merged the industrial, governmental (ministerial) and semigovernmental (party) bureaucracy, thereby adjusting the state to the needs of the industrial apparatus. Finally, National Socialism has released the full capacity of this apparatus by embarking upon a policy of imperialist expansion on a continent scale." (Il corsivo è mio). Lo stesso Marcuse affermerà, dopo la Guerra, che i criminali di Guerra in campo economico – che egli ed il gruppo di lavoro nell’OSS presso il quale era distaccato avevano identificati – continuarono senza grossi problemi la loro attività economica. Cfr.: H. Marcuse, Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia, in: A. R. L. Gurland – O. Kirchheimer – H. Marcuse – F. Pollock, Tecnologia e potere nelle società post-liberali, Liguori editore, Napoli 1981, pag. 137 – 170. In particolare, Marcuse analizza la struttura burocratica in relazione a quella economica del fascismo pag. 160 e seg.
[167] H. Marcuse, La lotta…, pag. 16.
[168] H. Marcuse, La lotta…, pag. 17.
[169] G. Palombella, Ragione e…, pag. 181.
[170] H. Marcuse, La tolleranza repressiva, ne: R. P. Wolff – B. Moore jr. – H. Marcuse, Critica della tolleranza. I mascheramenti della repressione, Einaudi, Torino 1982, pag. 99.
[171] H. Marcuse, La tolleranza…, pag. 97 e seg., dove afferma essere "possibile identificare quelle politiche, opinioni, movimenti che promuoverebbero questo cambio, e quelle che farebbero il contrario. La soppressione del regresso è un preliminare per il rafforzamento del progresso" laddove per cambio intende lo sviluppo di politiche tese a sviluppare pienamente (materialmente ed intellettualmente) la società, e continua affermando che "garantita la razionalità empirica della distinzione tra progresso e regressione, e garantito che essa possa giustificare una tolleranza fortemente discriminatoria sul terreno politico (l’eliminazione del credo liberale di una libera ed eguale discussione), un’altra impossibile conseguenza ne deriverebbe. Ho detto che, in virtù della sua logica interna, il ritiro della tolleranza verso i movimenti regressivi e la tolleranza discriminatoria in favore delle tendenze progressive equivarrebbe alla promozione "ufficiale" della sovversione. Il calcolo storico del progresso (che è attualmente il calcolo delle prospettive di ridurre la crudeltà, la miseria, la repressione) sembra implicare la scelta calcolata fra due forme di violenza politica: quella della parte dei poteri legalmente costituiti (dalla loro azione legittima o dal loro tacito consenso o dalla loro impotenza a prevenire la violenza) e quella dalla parte dei movimenti potenzialmente sovversivi. Inoltre, nei confronti della seconda, una politica di trattamento diseguale proteggerebbe il radicalismo della sinistra contro quello della destra".
[172] H. Marcuse, La tolleranza…, pag. 105.
[173] H. Marcuse, La tolleranza…, pag. 99. Il corsivo è mio.
[174] H. Marcuse, La lotta…, pag. 19.
[175] Douglas Kellner rileva giustamente, nel suo Critical theory…, pag. 1 e pag. 234, che è fuorviante parlare di “Scuola di Francoforte” (così come anche io ho fatto, dei “membri dell’Istituto francofortese”) per una comunità di studiosi in esilio: questa definizione è valida per il periodo precedente all’esilio ed invece non  lo è per quello – a partire dagli anni ’50 – in cui parte dei membri del vecchio Istituto tornano a lavorare in Europa: per la precisione, la definizione “Scuola di Francoforte” finisce per riguardare, in quest’ultimo caso, soltanto Adorno ed Horkheimer, che tornarono ad insegnare a Francoforte. Kellner usa invece i termini critical theorists per gli studiosi e critical theory per indicare il frutto della loro elaborazione teorica (la teoria critica della società) quanto la posizione collettiva dei pensatori.
[176] E’ il caso della conferenza tenuta dal Nostro, dal titolo: State and Individual Under National Socialism, in: H. Marcuse, Technology…, pag. 69 – 92.
[177] G. Marramao nell’introduzione ad A. R. L. Gurland – O. Kirchheimer – H. Marcuse – F. Pollock, Tecnologia e…, pag. 9 e segg.
[178] L’interpretazione che offre Marramao nell’introduzione a Tecnologia…, non sembra cogliere affatto l’analisi che Marcuse compie sul nazismo. Preferibile invece la lettura proposta da M. Calloni in Il nazismo tra esistenza cultura e teoria, in: Fenomenologia e società n. 1, Milano 1988, pag. 141 e segg.
[179] Cfr.: M. Jay, l’immaginazione... , pag. 24 e segg.; L. Geninazzi, Horkheimer…, pag. 248 e segg.; R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 72 e segg.; e soprattutto D. Kellner, Critical theory…, pag. 55 e segg., il quale sottolinea che Pollock, in seguito ad un suo viaggio in Unione Sovietica nel 1929, elaborò (dopo averne vista la sua applicazione) la teoria dell’economia di piano giungendo così a d affermare che senza dubbio il collasso economico totale – che avrebbe dovuto portare, secondo i teorici marxisti del tempo, alla rivoluzione – non ci sarebbe stato e che il capitalismo sarebbe stato in grado di "coming up with survival strategies involving state planning and regulation and using at least some features of a planned economy in its own interests". Da ciò in Pollock deriva la convinzione che una economia pianificata capitalistica sarebbe stato l’antidoto alla depressione del 1929, ma questa avrebbe dovuto portare dei cambiamenti nella vita sociale, politica, economica e culturale. Nel 1941 Pollock, in un suo articolo, coniò il termine capitalismo di stato, affermando essere pienamente rispondente al carattere della nuova struttura socioeconomica, che sarebbe stata caratterizzata dal massiccio intervento dello stato nell’economia.
[180] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 136 e segg. Molte delle analisi qui svolte si ritroveranno poi ne L’uomo ad una dimensione.
[181] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 160. Queste affermazioni riprendono quanto aveva già affermato in precedenza nel corso della sua conferenza presso la Columbia University State and…, pag. 69 e cioè che "Today, we no longer need to refute the opinion that National Socialism signifies a revolution. This  movement, we now see, has not changed the basic relationship of the productive process that is still administred by special groups as a whole. The economic organization of the Third Reich is built around the great industrial combines which, to a large extent with power. They mantained their key position in the production for war and expansion. Since 1933, they have been amalgamated with a new “elite”, recruited from the top ranks of the National Socialist party, but they have not lost their decisive social and economic functions".
[182] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 138. Cfr.: H. Marcuse, State and…, pag. 78 e seg.
[183] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 60.
[184] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 142.
[185] L’aver considerato dapprincipio il nazismo come un nuovo ordine è stata una delle caratteristiche della Scuola di Francoforte. Cfr.: L. Geninazzi, Horkheimer…, pag. 251; R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 290 e segg. Questa è una posizione che è sostenuta fondamentalmente da Pollock e che Neumann principalmente contesta. Cfr.: F. Pollock, Il nazionalsocialismo è un ordine nuovo?, in: Tecnologia e…, pag. 171. Pollock sbaglia decisamente nel considerare (pag. 185 e segg.) – sia pure con i dovuti distinguo – la Germania nazista come un Paese a “capitalismo di stato” ed il nazismo "successore del capitalismo privato". E’ in definitiva proprio quest’ultima definizione a trarre in errore l’economista dell’Istituto francofortese. Facilmente contestabile – per l’uso distorto che Pollock fa del concetto di “capitalismo di stato” – la sua affermazione (pag. 178) circa la conversione della "“quantità in qualità”" che trasformerebbe "il capitalismo monopolistico in capitalismo di stato": (sorvolando sul fatto che Pollock non dimostra il passaggio dall’uno all’altro) ammesso fosse stato vero, si sarebbe trattato del primo passo per la transizione al socialismo. L’uso distorto del concetto di “capitalismo di stato” risulta più che evidente a pag. 184 e seg., laddove chiarisce – senza peraltro riuscirvi – come, con quel concetto, non intenda dire che in Germania si sia avviato un percorso analogo a quello dell’Unione Sovietica. Ma tale “chiarimento” non significa che Pollock definisca la sua concezione di “capitalismo di stato”, né lo farà in seguito. Una autorevole risposta a Pollock viene data da A. R. L. Gurland nel suo saggio Trends tecnologici e struttura economica sotto il nazionalsocialismo, in: Tecnologia e…, pagg. 70 – 72. Il saggio di H. Marcuse ivi contenuto (Alcune implicazioni…) risente dell’evidente influenza di Gurland. Nell’introduzione a Tecnologia e…, Marramao pone Marcuse lungo l’asse Pollock – Horkheimer – Adorno, a favore quindi della definizione del nazismo come una forma di “capitalismo di stato”. Marramao sbaglia in maniera evidente. Cfr., ad es.: H. Marcuse, La lotta…, pag. 18 e seg.; l’impostazione ed il senso che il Nostro dà al suo Alcune implicazioni…, nonché alla conferenza ad essa precedente State and…, pag. 69 e pag. 71; Marcuse parla invece di economia di piano più volte ne The New German Mentalità. Il più noto critico vivente dell’opera del Nostro, D. Kellner, Critical theory…, pag. 63 e pag. 67, afferma che il Nostro si basò sulle concettualizzazioni di Pollock per elaborare la sua "theory of the transition to a new stage of capitalism" (pag. 63), ma anche che Marcuse tentasse di mediare fra le posizioni di Neumann e di Pollock. D. Kellner, Critical theory…, pag. 59 – 60, individua in Pollock un duplice senso nel concetto di “capitalismo di stato”, dal momento che questi  lo riferisce e a quello propriamente totalitario (tanto il modello nazifascista quanto il modello di economia di piano sovietica: Pollock parla infatti di “forma totalitaria di capitalismo di stato”) e di “forma democratica di capitalismo di stato” in quanto esso è controllato dal popolo (per farsi una idea chiara di tale concetto, basta riferirla al tipo di modello economico che è emerso negli USA con il New Deal rooseveltiano). Ma, afferma giustamente Kellner, sembra "somewhat of naive to assume that in any state capitalist form, the state is “controlled by the people”".
[186] R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 106. L’Autore riporta, nella stessa pagina, che Horkheimer chiese "a Pollock di ridurgli al più presto lo stipendio da 330 a 280 dollari mensili".
[187] Intorno al 1941, parte dei membri della Scuola pubblicarono libri contro il nazismo. Alcuni di essi sono: Fromm, Fuga dalla libertà (1941); Marcuse, Ragione e rivoluzione (1941); Neumann, Behemoth (1942), Kirchheimer – Gurland – Neumann, The Fate of Small Business in Nazi Germany (1943). Può essere casuale il fatto che tutti questi autori abbiano scritto questi lavori all’incirca nel periodo in cui vennero allontanati dall’Istituto.
[188] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 307.
[189] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 310.
[190] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 310 e seg.
[191] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 312. Cfr.: H. Marcuse, Letters to Horkheimer, in:Technology…, pag. 234 e seg., nella quale spiega quale sarà il suo compito nei servizi, cioè quello di suggerire che tipo di immagine fornire, al popolo americano, dei nazisti. La lettera è datata 11 Novembre 1942 ed in essa il Nostro scrive che Pollock gli aveva detto che le finanze dell’Istituto non avrebbero potuto garantirgli lo stipendio per un lasso di tempo superiore ai due anni. Quattro giorni dopo in una nuova lettera ad Horkheimer avrebbe scritto che solo argomentazioni “razionali” lo spingevano ad accettare l’incarico a Washington. Il 2 Dicembre gli comunicava di essere stato chiamato a Washington.
[192] Si tratta degli Studies in Anti-Semitism e degli studi ad essi connessi. Neumann (grazie al quale l’Istituto ottenne i finanziamenti) e Marcuse non furono invitati a partecipare a questo nuovo lavoro.
[193] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 157.
[194] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 393. Marcuse premeva anzitutto per una ripresa delle pubblicazioni della Zeitschrift. Cfr.: H. Marcuse, Letters to…, pag. 251 e segg.
[195] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 395.
[196] Cfr.: H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, pag. 76; R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 395; B. M. Katz, Praxis and…, pag. 17; F. Stark (a cura di), Rivoluzione o…, pag. 12 e seg.
[197] In quell’occasione il Nostro si recò a Todtnauberg, a trovare Heidegger: quest’incontro con il suo vecchio maestro fu alla base del carteggio (1947 – 1948) fra i due.
[198] Al termine del conflitto, la Germania fu divisa in quattro sfere d’influenza: americana, francese, inglese (territorio che costituirà da lì a poco la Repubblica Federale Tedesca) e russa (i Länder che costituiranno la Repubblica Democratica Tedesca). Il governo di queste zone venne dapprincipio affidato alle forze armate dei singoli Paesi occupanti, incapaci di elaborare una politica complessiva per la ricostruzione della Germania. Cfr.: A. Spinelli, Considerazioni di un federalista sulla Germania, in (a cura di Lucio Levi) A. Spinelli, La crisi degli stati nazionali. Germania, Italia, Francia, Il mulino, Bologna 1991.
[199] R. Wiggershaus, La Scuola…, pag. 395. Non fu un caso limitato alla sola Germania: L. Geymonat, La società come milizia (a cura di Fabio Minazzi), Marcos y Marcos, Milano 1989, pag. 55 e seg., riferisce che in Italia "i fascisti erano stati esautorati di fatto da tutti i centri sociali e politici e si sentiva l’esigenza di completare l’epurazione degli elementi compromessi con le forze che avevano determinato lo sfascio della nazione. Non a caso i partigiani nominarono immediatamente dei prefetti e dei nuovi questori che non avessero nulla in comune con il passato regime. I “prefetti della Liberazione” durarono però un tempo estremamente esiguo: ben presto vennero sostituiti d’autorità da Roma con uomini tutt’altro che adamantini, spesso apertamente compromessi con il regime passato".
[200] Poté intraprendere il viaggio grazie a Marcuse. Vedi: H. Marcuse, Letters to…, 258.
[201] Max Horkheimer alla moglie (riportato da M. Calloni, Il nazismo…, pag. 165 e seg.) Maidon scrive che "La circostanza secondo cui non vengano generalmente puniti coloro che hanno compiuto infamie, ma semmai ricompensati, avrà conseguenze terribili nel carattere di tutto quanto il popolo. Si pensi a quell’uno – due per cento di Tedeschi che sono stati contro il nazismo, mettendo a repentaglio la propria vita e che sono a tutt’oggi ancora coloro che rimangono svantaggiati sotto ogni riguardo. Non solo essi non godono di alcuna protezione tramite gli ex-compagni di partito, ma proprio questi ultimi riescono a fare in modo che su questi pochi ricadano tutti gli svantaggi, da cui i tedeschi nella loro situazione di vinti, sono colpiti. Ciò non significa che anche diversi nazisti non stiano particolarmente bene; nel complesso, però è una piccola percentuale delle persone rette quella che è colpita del tutto. Le carogne vengono denazificate con gloria e vengono reinserite nelle funzioni che detenevano prima. Contro il Signor Rettore Platzhoff si sta svolgendo il processo di denazificazione. Il presidente del tribunale mi ha scritto che ha sentito che mi trovo qui, per cui mi pregherebbe di passare da lui ed aiutarlo nella pratica. Ma dovrò seriamente rifletterci, se debba inimicarmi l’università come unico vero teste d’accusa. Da alcune cose si trae onore, ma nessun utile. Ci sono certo molti altri che sono stati altrettanto porci come il Signor Platzhoff e che hanno ricominciato a rieducare da tempo la gioventù tedesca." .
[202] H. Marcuse, The New German…, pag. 141.
[203] H. Marcuse, The New German…, pag. 141. Il testo, che consta di tre appendici, è datato dallo stesso autore "June 1942" ma le sue appendici vengono sviluppate fino agli inizi dell’anno successivo.
[204] H. Marcuse, La lotta…, pag. 5. Cfr.: G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 418 e segg., che pur rendendosi conto che Dilthey non avesse molto a che fare con i suoi epigoni fascisti, gli dedica un capitolo del libro ed infine conclude (pag. 444), affermando la sua non totale estraneità alla fondazione dell’ideologia fascista: "Per quanto poco Dilthey, per il suo contenuto e per la sua metodologia intenzionale, abbia a che fare col fascismo, questi effetti che da lui derivano, e che non sono affatto casuali, fanno oggettivamente di lui un preparatore, anche se inconsapevole e indiretto, della futura, aperta contro la ragione, e dell’oscuramento della coscienza filosofica in Germania".
[205] H. Marcuse, La lotta…, pag. 5 – 7.
[206] G. Palombella, Ragione e…, pag. 183.
[207] H. Marcuse, La lotta…, pag. 18. Cfr.: G. Palombella, Ragione e…, pag. 178.
[208] Cfr.: H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 140: "La società liberista era tenuta ad essere l’adeguato impianto per la razionalità individualistica. Nella sfera della libera concorrenza, le tangibili conquiste dell’individuo che faceva dei suoi prodotti e della sua efficienza di rendimento una parte dei bisogni della società, erano i segni evidenti della sua individualità. Nel corso del tempo, però, il processo di produzione delle merci sgretolò la base economica su cui era costruita la razionalità individualistica. La meccanizzazione e la razionalizzazione costrinsero il concorrente più debole a subire il dominio dei colossi industriali e dei giganti della meccanica, che, istituendo il dominio della società sulla natura, abolirono la libera iniziativa economica del singolo"; H. Marcuse, The New German…, pag. 145: "National Socialism may be characterized as the specifically German adaption of society to the requirements of large scale industry, as the tipically German form of “technocracy”. We might even venture to say that National Socialism is the first and only “middle class revolution” in Germany, occurring at the stage of large scale industry and therefore skipping or condesing the preceding stages of the developments. (…) National Socialism has furthermore abolished the relatively independent position of those groups which lagged behind the capacity of large scale enterprise, namely, the groups of small and middle business, of commerce and finance. (…) National Socialism has merged the industrial, governmental (ministerial) and semigovernmental (party) bureaucracy, thereby adjusting the state to the needs of the industrial apparatus", con: A. R. L. Gurland, Trends tecnologici…, pag. 70 – 72.
[209] Cfr.: A. R. L. Gurland, Trends tecnologici…, pag. 70 – 72.
[210] Mentre in Italia si vararono leggi antisciopero (1930) proprio al fine di subordinare – eliminandolo del tutto – il movimento operaio al padronato per mezzo delle corporazioni fasciste, in Germania (dove si ottenne la massima occupazione con una politica di bassi salari – e quindi con un sostanziale peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia) si giunse in breve (maggio – giugno 1933) a dichiarare illegali – oltre che i partiti democratici – anche (e soprattutto) le istituzioni sindacali.
[211] H. Marcuse, La lotta…, pag. 10. La dichiarazione di Mises è qui riportata in corsivo (mio). In nota Marcuse riporta le illuminanti dichiarazioni programmatiche di Mussolini in merito all’organizzazione della società. Ritornano nelle parole di Mises le affermazioni di Heidegger, secondo le quali il nazismo – per lui – avrebbe dovuto salvare "l’Esserci occidentale dai pericoli del comunismo".
[212] H. Marcuse, La lotta…, pag. 10.
[213] H. Marcuse, La lotta…, pag. 13.
[214] Cfr.: [214] H. Marcuse, La lotta…, pag. 15, dove afferma che la "teoria razionalistica non ignora i limiti del sapere umano ed i limiti di una autorganizzazione conforme alla ragione; tuttavia evita di tracciare questi limiti in maniera troppo precipitosa e soprattutto di trarne profitto per sanzionare acriticamente gli ordinamenti esistenti", con H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 138, dove analizza il corso del processo tecnologico a partire dai Puritani radicali inglesi, i primi nei quali "il principio dell’individualismo poneva (…) l’individuo contro la sua società. Gli uomini dovevano aprirsi un varco nell’intero sistema di idee  e valori loro imposti e scoprire e fare propri idee e valori più conformi al proprio interesse razionale. Dovevano vivere in uno stato di costante attenzione, apprensione e critica, per rifiutare ogni cosa che non fosse vera e non giustificata dalla libera ragione. Il che, in una società che non era affatto razionale, costituiva un principio di opposizione permanente". F. M. Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, Feltrinelli, Milano 1993, pag. 61, analizzando perfettamente la società francese del secondo impero, si chiedeva perché il borghese "non vuol ricordare nulla e fa un gesto annoiato con la mano, quando gli rammentano qualcosa di quel che c’era in passato? Perché ha subito l’angoscia nella mente, e sugli occhi, e sulla lingua, quando gli altri osano desiderare qualcosa lui presente? Perché, quando lui stesso per balordaggine si sente in vena di stravaganze e tutto a un tratto desidera qualcosa, di lì a un istante gli è già venuto il tremito e incomincia subito a far gli scongiuri: “Santo cielo! ma che faccio, ma insomma!” e poi per molto tempo ancora cerca coscienziosamente di rimediare ad una tale condotta con lo zelo e l’obbedienza?". L’autore russo, nella stessa pagina fa dire ad un suo immaginario interlocutore che il borghese "è il re, egli è tutto, le tiers état c’est tout", affermando (pag. 74 e seg.) – dopo una lunga analisi sul socialismo francese, sulla quale il borghese trionfa – che "se il borghese trionfa in questo modo, allora vuol dire che si è realizzata anche la formula di Sieyès, letteralmente e fino all’ultimo. E dunque il borghese è tutto: ma allora perché si confonde, perché mai si rannicchia tutto, cosa teme? Tutti han fatto cilecca contro di lui, tutti al suo cospetto si sono rivelati privi di mezzi. Prima, ai tempi, per esempio, di Luigi Filippo, il borghese in genere non si confondeva affatto così, e non aveva paura, benché anche allora avesse il potere. Sì, ma alora egli combatteva ancora, presentiva di avere dei nemici, e difatti se li levò di torno una volte per tutte, sulle barricate di giugno, col fucile e la baionetta. Ma la lotta ebbe termine, e il borghese all’improvviso vide che era solo sulla terra, che non esisteva nulla meglio di lui, che egli era l’ideale, e che ora gli restava non, come un tempo, da convincere il mondo intero che egli appunto era l’ideale, ma semplicemente da mettersi in posa,  tranquillo e maestoso, davanti al mondo come estrema bellezza e massima tra tutte le possibili perfezioni umane. Ditene quel che volete, ma era comunque una situazione imbarazzante. Fu Napoleone III a trarlo d’impiccio. Gli cadde come dal cielo, come l’unica via di scampo, come l’allora unica possibilità. E proprio da allora il borghese prospera, e per la sua prosperità paga tremendamente caro e ha paura di tutto, proprio per il fatto che tutto ha raggiunto". E’ da rilevare come tali ultime osservazioni coincidano con l’analisi che il Nostro compie ne L’autorità e la famiglia e nei due studi – scritti assieme a F. Neumann – sulla teoria del social change. Di fatto, l’aver scoperto che “egli appunto era l’ideale”, ha indotto il borghese a servirsi di tutte le forme ideologiche possibili per garantire a se stesso il perpetuarsi del suo dominio: per far ciò doveva, contemporaneamente, considerare assolutamente immutabile, necessario, razionale, l’ordinamento politico esistente. Cfr.: K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1997, laddove egli spiega come – grazie ad un uso spregiudicato delle divisioni interne ai vari partiti borghesi al potere dopo l’abbattimento della monarchia orléanista – promessa alla borghesia stessa la sicurezza interna, essa gli si sia affidata con il plebiscito del 20 dicembre del 1851, di fatto sanzionando la legittimità del colpo di stato effettuato.
[215] H. Marcuse, La lotta…, pag. 16. G. Palombella, Ragione e…, pag. 180, scrive che questa "è la premessa dell’irrazionalità del tutto, ed in rapporto ad essa l’universalità propria delle idee liberali perde ogni credibilità, finisce per essere costantemente disattesa. E’ in questo settore ideologico della "totalità", privato di ogni residuo critico, che attecchisce il seme regressivo dell’irrazionalismo".
[216] H. Marcuse, La lotta…, pag. 18.
[217] H. Marcuse, The New German…, pag. 141: "We may distinguish between two layers of the mentality: 1 the pragmatic layer (matter-of-facteness, the philosophy of efficiency and success, of mechanization and rationalization) 2 the mythological layer (paganism, racism, social naturalism)".
[218] H. Marcuse, The New German…, pag. 143: "The pragmatic cynism which pervades the National Socialism matter-of-factness has been pushed forward into a revolt against the basic principles of Christian civilization. To the German people, these principles were last materialized in the Weimar Republic and in the Labor movement. National Socialism has from the beginning associated the latter with the basic ideas of Christian civilization: Christian humanism, the Rights of Man, democracy and socialism have been made elements of one and the some compound. (…) The revolt against Christian civilization appears in various forms: antisemitism, terrorism, social Darwinism, anti-intellectualism, naturalism. Common to all them is the rebellion against the restraining and transcendental principles of Christian morality (…)".
[219] H. Marcuse, The New German…, pag. 155.
[220] ibidem.
[221] H. Marcuse, The New German…, pag. 156.
[222] H. Brunkhorst – G. Koch, Marcuse, pag. 13, ricordano che il Nostro partecipò al movimento giovanile dei Wandervögel, un movimento di protesta contro il modo di vita borghese della Germania guglielmina. In questa sede ci interessa tuttavia sottolineare le posizioni dell’Autore, così come emergono dai suoi testi dell’epoca. Cfr.: H. Marcuse, The New German…, pag. 156: "The manipulation of the folkish movement is rendered possible by the fact that the incited masses obtain an immediate compensation. The material compensation which we have already mentioned are supported and supplemented by not less important compensations for the frustrated impulses and instincts which carry the latent “discontent of civilization”. They are released and satisfies in a form which perpetuates their frustrations under aggravated forms of control. Their aggressive tendencies are directed against the feeble and the weak, the alien and the outsider, against the intelligentsia and the uncompromising critique, against luxury and conspicuous leisure" con: H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 153 – 155: "Sembrerebbe autoevidente che massa ed individuo siano due concetti contraddittori e due realtà incompatibili. (…) Con l’autoritarismo, la funzione delle masse consiste (…) nell’eliminare l’isolamento dell’individuo (…). La folla è un insieme di individui privati di ogni differenziazione "naturale" e personale e ridotti all’espressione standardizzata della loro individualità astratta, e cioè al perseguimento dell’interesse personale. (…) Nella folla, la repressione imposta dalla società al perseguimento competitivo dell’interesse personale tende a diventare inefficace e si liberano facilmente gli impulsi aggressivi. (…) Quasi tutti sono diventati membri potenziali della folla, e le masse appartengono agli strumenti e attrezzi usati quotidianamente dal processo sociale. Come tali, si possono maneggiare facilmente, perché la struttura del sistema, dell’apparato che ha assimilato pensieri, sentimenti e interessi degli atomi-membri. Indubbiamente, le esplosioni di massa sono terrificanti e violente, ma si possono prontamente convogliare verso i concorrenti più deboli, e i cospicui "outsider" (ebrei, stranieri, minoranze nazionali)".
[223] H. Marcuse, The New German…, pag. 144, scrive "Shift of traditional taboos": il verbo (to) shift, più propriamente, significa assunzione di una nuova posizione. Tale più precisa definizione non indica un’avvenuta modificazione del rifiuto culturale in merito ai tabù sessuali, come ci si potrebbe invece aspettare parlando genericamente di cambiamento. Si potrebbe dare una idea più precisa di ciò, parlando di allentamento della morale sessuale. Cfr.: F. Pollock, Il nazionalsocialismo…, pag. 183, secondo il quale il  nazismo aveva individuato nella sfera sessuale "una forma di soddisfazione che doveva intensificare e non indebolire il sistema. Una forma di soddisfazione di questo tipo era resa possibile dall’abolizione di determinati tabù sociali che, limitando e restringendo pulsioni e desideri dell’individuo, nello stesso tempo ne avevano protetto l’intimità e l’isolamento domestico dall’interferenza dello stato e della società. Il nazionalsocialismo ha eliminato ogni discriminazione contro madri e figli illegittimi, ha incoraggiato relazioni extraconiugali tra i due sessi e ha trasformato tutta questa sfera del protezionismo domestico in un settore destinato ai pubblici servizi".
[224] H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1995, pag. 33 e seg.
[225] H. Marcuse, Eros e…, pag. 34 e seg.
[226] Cfr.: H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 141: "la razionalità individualistica si è trasformata in razionalità tecnologica. Non è affatto limitata ai soggetti e agli oggetti delle imprese su larga scala ma caratterizza al forza penetrativa del pensiero e anche le molteplici forme di protesta e ribellione. Questa razionalità stabilisce criteri di giudizio e incoraggia atteggiamenti che predispongono l’uomo ad accettare e anche ad interiorizzare i diktat del sistema", con: H. Marcuse, Eros e…, pag. 37: "Quando, nelle società più o meno opulente, la produttività ha raggiunto un livello al quale le masse partecipano ai suoi vantaggi, per cui l’opposizione è tenuta, efficacemente e democraticamente sotto controllo, allora anche il conflitto fra il padrone e lo schiavo è tenuto sotto controllo" con: H. Marcuse, L’uomo ad una…, pag. 23: "In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine "totalitario", infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della  società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un "pluralismo" di partiti, di giornali, di "poteri controbilanciatisi", ecc." ed H. Marcuse, Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968, pag. 33 e seg., dove scrive che la "socialdemocrazia divenne una parte integrante del mondo occidentale, così come frattanto il comunismo venne decisamente assorbito dall’orbita orientale", accennando così al fatto che il sistema di dominio è unico, anche se si presenta con forme diverse. L’unica “rivolta” possibile contro la società ad una dimensione (abbia essa caratteri capitalisti o socialisti) è quella che il Nostro chiama il "Grande Rifiuto" (L’uomo a…, pag. 265). Essa però è destinata a fallire: innanzitutto perché con il porre eccessiva attenzione per i sottoproletari finisce per dimenticare altri soggetti rivoluzionari, anche borghesi; ed in secondo luogo – ed il Nostro in pecca di ingenuità, avrebbe dovuto saperlo – che se il proletario guarda al borghese come un modello da imitare, per il sottoproletario l’esempio non è mica differente! Anch’egli pensa a salire nella scala sociale ed ad inserirsi nel sistema. Ed è lo stesso Marcuse (L’uomo a…, pag. 28) a scriverlo: "Il cosiddetto livellamento delle distinzioni di classe rivela qui la sua funzione ideologica. Se il lavoratore ed il suo capo assistono al medesimo programma televisivo e visitano gli stessi luoghi di vacanza, se la dattilografa si trucca e si veste in modo altrettanto attraente della figlia del padrone, se il negro possiede una Cadillac, se tutti leggono lo stesso giornale, ne deriva che questa assimilazione non indica tanto la scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione". La via di fuga del Grande Rifiuto si rivela un vicolo angusto e cieco. Dalla società ad una dimensione non esiste alcuna linea di fuga.
[227] H. Marcuse, The New German…, pag. 145.
[228] H. Marcuse, The New German…, pag. 142: "Social as well as private existence, work as well as leisure, are political activities. The traditional barriers between society and the state has disappeared".
[229] H. Marcuse, The New German…, pag. 148.
[230] ibidem.
[231] H. Marcuse, The New German…, pag. 149.
[232] ibidem.
[233] H. Marcuse, The New German…, pag. 150; H. Marcuse, La lotta…, pag. 22 – 30.
[234] H. Marcuse, La lotta…, pag. 17. La sicurezza cui Marcuse si riferisce è innanzitutto quella economica: anche nella originaria concezione liberale – cui il Nostro fa riferimento – della razionalizzazione della gestione economica si insinuano e penetrano degli elementi irrazionalistici che ne "disgregano la concezione teorica fondamentale".
[235] ibidem.
[236] ibidem.
[237] H. Marcuse, Industrializzazione e capitalismo nell’opera di Max Weber, in: Cultura e…, pag. 245.
[238] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 248.
[239] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 249.
[240] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 250.
[241] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 256.
[242] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 256 e seg.
[243] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 255.
[244] H. Marcuse, Industrializzazione…, pag. 255.
[245] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 161 e seg.
[246] H. Marcuse, The New German…, pag. 149.
[247] H. Marcuse, L’uomo a…, pag. 121: "La comunicazione funzionale è solo lo strato esterno dell’universo ad una sola dimensione in cui l’uomo è addestrato a dimenticare, a tradurre il negativo nel positivo in modo da poter continuare a funzionare, ridotto nelle sue facoltà ma atto alla bisogna e ragionevolmente efficiente". In merito a queste affermazioni dell’Autore, un riscontro concreto è fornito nel testo in esame alle pag. 125 e segg. Circa l’analisi che il Nostro propone in merito al linguaggio amministrativo-burocratico, cfr.: H. Marcuse, The New German…, pag. 150 e seg., con H. Marcuse, L’uomo a…, pag. 104 e seg., che riproduce fedelmente l’analisi esposta (perfino nell’uso della bibliografia!)  nella conferenza newyorkese.
[248] H. Marcuse, L’uomo a…, pag. 104 e seg.
[249] H. Marcuse, L’uomo a…, pag. 125 e segg.
[250] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 142 e segg.
[251] Roberto Rossellini mostrò assai bene la situazione tedesca al termine del conflitto nel suo Germania anno zero (1947).
[252] A. Spinelli, Considerazioni…, pag. 145.
[253] A. Spinelli, Considerazioni…, pag. 139 e seg.: "Il governo americano dovette ben presto mandare aiuti di ogni genere ai tedeschi, creando la paradossale situazione del vincitore che spende per mantenere il vinto. Comprendendo che il permanere di tali condizioni avrebbe significato una spesa continua a fondo perduto, il governo americano ha cominciato ad un certo punto ad insistere perché si realizzasse quell’unità economica della Germania ammessa dai vincitori a Potsdam" con: R. Wiggershaus, La scuola…, pag. 395, riporta che i "managers tedeschi che fin dall’invasione delle truppe americane non avevano avuto dubbi sul fatto che il capitale americano si sarebbe subito impegnato nella ricostruzione, ebbero la conferma di aver visto giusto".
[254] Il Nostro aveva subito puntato sull’opposizione interna al nazismo, ed in particolare sul movimento operaio: cfr.: H. Marcuse, The New German…, pag. 171 e Description of Three Major Projects, in: H. Marcuse, Technology…, pagg. 193 – 198. Il primo progetto riguarda il tentativo di dissolvere il partito nazista e le sue organizzazioni affiliate e la politica per la riformazione dei vecchi partiti; il secondo progetto riguarda l’SPD (le sue politiche tradizionali, le sue capacità, la sua composizione e forza, le prospettive di sviluppo e le strategie utilizzate durante l’occupazione); il terzo ed ultimo progetto riguarda la forza, i collegamenti politici, le tattiche e le politiche del movimento operaio nelle varie zone della Germania occupata, nonché le prospettive del movimento operaio tedesco in relazione alla politica a americana ed allo scenario internazionale.
[255] B. M. Katz, Praxis and... , pag. 17.
[256] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Hegel ed il sorgere della teoria sociale, Il Mulino, Bologna 1997, pag. 41: "il sorgere del fascismo richiede una nuova interpretazione della filosofia di Hegel. Spero che l’analisi esposta in questo libro dimostri che i concetti fondamentali di tale filosofia si oppongono alle tendenze che hanno condotto alla teoria ed all’azione fasciste".
[257] L’intera ottica nella quale ruota Ragione e rivoluzione è interamente presente in ciò che scrivono, in un testo comune H. Marcuse – F. Neumann, A History…, pag. 102; H. Marcuse – F. Neumann, Theories…, pag. 123, dove in particolare si afferma che Hegel aveva difeso la rivoluzione francese in quanto uno dei massimi avvenimenti per l’umanità, dando quindi del grande filosofo tedesco una caratterizzazione rivoluzionaria.
[258] A mio avviso, tutta la prima parte dell’opera del filosofo berlinese (incentrata sull’analisi delle opere di  Hegel) si spiega ed ha senso solo in funzione della seconda, dove mostra le interpretazioni del pensiero hegeliano dalla polemica fra la “destra” e la “sinistra” hegeliana sino alle interpretazioni fasciste del pensiero di Hegel: In questa seconda parte, l’analisi è incentrata sui lavori della sinistra hegeliana ed analizzano in maniera molto critica le interpretazioni date dalla destra e dai fascisti.
[259] K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 16.
[260] Essi sono rintracciabili, in Engels, tanto in opere scritte prima del rapporto di collaborazione con Marx (si vedano, ad esempio, gli scritti su Schelling – firmati con lo pseudonimo di Oswald, risalenti ai primi anni ’40), quanto dopo la morte del suo amico – ed in modo particolare nel testo su Feuerbach.
[261] K. Löwith – H. Marcuse, Dialogo su “Ragione e rivoluzione”, in: Micromega, Roma 1997, pag. 228 (recensione di Löwith): "Marcuse (…) ha l’ambizione di dimostrare che i concetti fondamentali di Hegel risultano contrari alle tendenze che hanno portato alla teoria ed alla pratica del fascismo, anzi che fascismo e nazionalsocialismo affondano le proprie radici nella reazione positivistica ad Hegel, “mentre Hegel passava da Marx a Lenin”. La difesa apologetica di Marcuse contro l’accusa che Hegel abbia preparato la strada all’avvento dello Stato totalitario non ha alcun significato reale, poiché forza Hegel a prendere la posizione opposta, rimanendo sullo stesso piano dei suoi oppositori e insistendo sul fatto che Hegel fosse un antifascista che preparava la via a Marx".
[262] K. Löwith – H. Marcuse, Dialogo…, pag. 229.
[263] K. Löwith – H. Marcuse, Dialogo…, pag. 230.
[264] K. Löwith – H. Marcuse, Dialogo…, pag. 231: "sembra che il signor Löwith (…) giudichi incompatibile con la dignità della filosofia il prendere posizione nelle grandi lotte storiche del nostro tempo. Altrimenti risulterebbe difficilmente comprensibile come egli possa considerare il problema del rapporto tra la  filosofi hegeliana e quella fascista uno “strano problema”".
[265] K. Löwith – H. Marcuse, Dialogo…, pag. 231.
[266] ibidem.
[267] K. Löwith – H. Marcuse, Dialogo…, pag. 233.
[268] K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 15.
[269] Cfr.: K. Marx, Tesi su Feuerbach e K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, ambedue in K. Marx – F. Engels, Opere vol. V.
[270] K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 15.
[271] N. McInnes, From Marx to Marcuse, in Survey. A Journal of East and West Studies, n. 1 1971, pag. 139.
[272] ibidem.
[273] Cfr.: H. Marcuse, Ragione e…, pag. 287; K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1964, apg. 95 e segg. G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 164, sostiene invece che il "processo di dissoluzione dell’hegelismo comincia già quando il filosofo era ancora in vita, nella controversia sulla rivoluzione di luglio col finora fedele discepolo Eduard Gans" e che (pag. 553) la "sconfitta della rivoluzione del 1848 completò la dissoluzione del sistema hegeliano nell’ambiente filosofico tedesco"; K. Löwith, Da Hegel.. , pag. 523, scrive che le posizioni critiche della “sinistra hegeliana” erano già presenti nell’opera giovanile di Hegel Fede e sapere, laddove era già presente "la giustificazione positiva della religione cristiana e al tempo stesso la sua critica" pervenendo così, da punti di partenza differenti da quelli di e di G. Lukàcs e di H. Marcuse, ad una conclusione analoga a quella cui era giunto il filosofo ungherese, ossia che la "separazione della scuola Hegeliana in una Destra e Sinistra derivò da tale equivocità. I problemi attorno cui si polemizza nel 1830 – 40 non riguardano ancora il rapporto di Hegel con lo Stato e con la storia del mondo, ma piuttosto la sua posizione di fronte alla religione". Hegel morì nel 1831, pertanto l’affermazione di Lukàcs è corretta.
[274] K. Löwith, Da Hegel…, pag. 123.
[275] H. Marcuse, Ragione e…, pag. 78 e pag. 209.
[276] H. Marcuse, Regione e…, pag. 209. Cfr.: L. Colletti, Ideologia e società, Laterza, Bari 1972, pag. 157 e segg., K. Löwith, Da Hegel…, pag. 86.
[277] K. Löwith, Da Hegel... , pag. 124.
[278] N. McInnes, From Marx…, pag. 148 e seg.
[279] F. Oswald (pseudonimo di F. Engels), Schelling e la rivelazione, in: K. Marx – F. Engels, Opere vol. II, Editori Riuniti, Roma 1975, pag. 193.
[280] Va però ricordato che, tanto per Lukàcs quanto per gli altri marxisti classici, il Marx più noto – e sul quale si basavano – era fondamentalmente quello del Capitale. Storia e coscienza di classe di Lukàcs, pubblicata nel 1923, anticipò – per le tematiche trattate – il contenuto dei Manoscritti del ’44 marxiani, riscoperti soltanto circa dieci anni dopo.
[281] L. Colletti, Ideologia e…, pag. 158. Colletti evidentemente si riferisce a quanto afferma F. Oswald (pseudonimo di F. Engels), Schelling e…, pag. 197: "Ogni filosofia si è finora posta il compito di concepire il mondo come razionale. Ciò che è razionale è certamente anche necessario, ciò che è necessario deve essere reale, oppure diventarlo".
[282] K. Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, in: K. Marx – F. Engels, Opere vol. I, pag. 78 e segg.
[283] H. Marcuse, Ragione e…, pag. 41; pag. 353 e segg.
[284] L. Colletti, Ideologia e…, pag. 151. Il corsivo sostituisce il carattere spaziato utilizzato da Colletti.
[285] H. Marcuse, Ragione e…, pag. 354 e seg.: "La filosofia positiva era una reazione cosciente alle tendenze critiche e distruttive del razionalismo francese e tedesco, una reazione che in Germania fu particolarmente acre. A causa delle sue tendenze critiche, il sistema di Hegel fu definito “filosofia negativa”. I suoi contemporanei riconobbero che i princìpi esposti da Hegel nella sua filosofia lo condussero “a una critica di tutto ciò che fino ad allora era considerato come verità oggettiva”. La filosofia di Hegel “negava”, cioè ripudiava, ogni realtà irrazionale ed assurda. Chi reagiva a tale concezione vedeva nel tentativo di Hegel di valutare la realtà sulla base dei princìpi della ragione autonoma una sfida all’ordine esistente. La filosofia negativa, veniva asserito, cerca di individuare le potenzialità delle cose, ma è incapace di conoscere la loro realtà di fatto. (…) Ne risulta – affermavano gli avversari di Hegel – che la filosofia negativa non può spiegare, né giustificare le cose come sono. Ciò comporta l’affermazione più grave: la filosofia negativa, in seguito alla sua struttura concettuale, “nega” le cose come esse sono di fatto. I dati di fatto che formano lo stato di cose esistente, se considerati alla luce della ragione diventano negativi, limitati, transitori; divengono forme periture nell’ambito di un processo globale che porta al di là di esse. La dialettica hegeliana fu considerata il prototipo di ogni negazione tendente a demolire la realtà data, poiché in essa ogni forma, appena esistente, si trasforma nel suo opposto e raggiunge il suo vero contenuto solo attraverso tale processo. Questo tipo di filosofia, dicevano i suoi critici, nega al dato la dignità del reale; esso ha in sè il “principio della rivoluzione”(sono parole di Stahl)". Il corsivo è mio. Cfr.: A. Comte, Philosophie première. Cours de philosophie positive vol. I, Hermann éditeur, Paris 1975, pag. 22, dove – fra le righe – attacca il razionalismo e l’hegelismo: "Ce n’est pas ici le lieu de démontrer spécialement cette loi fondamentale du développement de l’esprit humain, et d’en déduire les conséquences les plus importantes. Nous en traiterons directement, avec toute l’estension conveinable, dans la partie de ce cours relative à l’étude des phénomènes sociaux. Je ne la considère maintenant que pour déterminer avec précision le véritable caractère de la philosophie positive, par opposition aux deux autres philosophie qui ont successivement dominé, jusq’à ces derniers siécles". Sull’emergere del concetto di negativo in Hegel, cfr.: H. Marcuse, L’ontologia…, pag. 53.
[286] In realtà si trattò soltanto – osserva K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori  Riuniti, Roma 1992, pag. 4 – del dominio di "una frazione di essa, i banchieri, i re della borsa (…): la cosiddetta aristocrazia finanziaria". Il 1848, preceduto da due inverni di carestia e da un forte aumento del costo della vita, si aprì con la rivoluzione in febbraio. Gli equilibri raggiunti nella composizione del governo non rappresentavano (pag. 11) "altro che un compromesso tra le diverse classi che insieme hanno abbattuto il trono di luglio": ciò rappresentò il trionfo politico della borghesia nella sua totalità. A ragione G. Lukàcs, Storia e coscienza…, pag. 93 e seg., scrive che "le classi che nelle società anteriori erano destinate al potere e che perciò erano in grado di realizzare rivoluzioni vittoriose, proprio a causa dell’inadeguatezza della loro coscienza di classe rispetto alla struttura economica oggettiva, quindi a causa della loro inconsapevolezza sulla loro propria funzione nel processo di sviluppo sociale, si trovavano dal punto di vista oggettivo di fronte ad un compito più facile. Esse dovevano soltanto imporre i loro interessi immediati con la violenza di cui potevano disporre, ma il senso sociale delle loro azioni rimaneva nascosto a loro stesse  e veniva semplicemente rimesso all’"astuzia della ragione" del processo di sviluppo. Ma poichè il proletariato è posto dalla storia di fronte al compito di una trasformazione cosciente della società, nella sua coscienza di classe si forma necessariamente la contraddizione dialettica tra l’interesse immediato e lo scopo finale, tra il momento singolo e l’intero. Infatti, nella sua essenza, la situazione concreta e le sue esigenze, il momento del singolo processo, è immanente alla società del presente, alla società capitalistica, si trova sotto le sue leggi, è sottoposto alla sua struttura economica. Solo se si viene inserito nella visione totale del processo, se viene messo in relazione con lo scopo finale, esso rimanda concretamente e coscientemente al di là della società capitalistica, esso diventa rivoluzionario. Ciò significa tuttavia, soggettivamente, per la coscienza di classe del proletariato, che il rapporto dialettico tra l’interesse immediato e l’influsso oggettivo sull’intero della società è trasferito nella coscienza del proletariato stesso; invece di svolgersi, come in ogni classe anteriore, al di là della coscienza (attribuita di diritto) come processo puramente oggettivo. La vittoria rivoluzionaria del proletariato non è quindi, come nel caso delle classi precedenti, la realizzazione immediata dell’essere socialmente dato nella classe, ma come è già stato riconosciuto e messo in evidenza dal giovane Marx: la sua autosoppressione".
[287] K. Löwith, Da Hegel…, pag. 86, scrive che solo grazie alle sue grandi capacità, ad Hegel riuscì di tenere insieme nel momento della mediazione cose distinte fra loro, che trova "la sua più chiara espressione nella filosofia dello Stato e della religione. Le aspirazioni dei discepoli mirarono alla distruzione di tutto ciò, proprio per il fatto che a loro interessava lo stato "reale" ed il cristianesimo "reale" ".
[288] K. Löwith, Da Hegel…, pag. 109, il quale si riferisce alla lettura di Erdmann del pensiero Hegeliano.
[289] K. Löwith, Da Hegel... , pag. 193.
[290] G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 149.
[291] G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 157.
[292] G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 165.
[293] G. Lukàcs, La distruzione…, pag. 160.
[294] F. Oswald (pseudonimo di F. Engels), Schelling e…, pag. 216.
[295] A. Comte, Cours de…, pag. 46.
[296] A. Comte, Cours de…, pag. 25.
[297] A. Comte, Cours de…, pag. 26: "dans nos explications positives, (…) nous n’avons nullement la prétention d’exposer les causes génératrices des phénomènes, (…) mais seulement d’analyser avec exactitude les circostances de leur production".
[298] A. Comte, Cours de…, pag. 39.
[299] A. Comte, Cours de…, pag. 35: "la nécessité de replacer notre éducation européenne, (…) par une éducation positive conforme à l’esprit de notre époque, et adaptée aux besoins de la civilisation moderne".
[300] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 139.
[301] Si veda in merito l’analisi sviluppata da L. Baritz, I servi del potere. Storia dell’applicazione della scienza sociale nell’industria americana, Bompiani, Milano 1963.
[302] H. Marcuse, Soviet…, pag. 73 e seg.; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 50 e segg.
[303] I meccanismi adottati dagli psicologi per ottenere questo uniformarsi alle richieste dell’industria (e poi, se ci si pensa su per un momento e si amplia l’analisi, anche della intera società), sono vari. Particolarmente interessanti: il terrorismo psicologico (Baritz, I servi.. , pag. 206 – 208) esercitato sugli operai attraverso i tests e la valutazione degli operai affidata ai capireparto, in aperta funzione antisindacale, con l’obiettivo di ammorbidire le posizioni degli operai con il padronato e per potere contemporaneamente elevare la produzione con la paura del licenziamento; la “riunione di gruppo”, la cui finalità (pag. 265) è dichiaratamente quella di far conformare i più politicizzati alle “opinioni” della massa reazionaria, facendo così, spudoratamente, il gioco dei padroni. Cfr.: E. Lo Giudice, La democrazia impossibile o dell’utopia, Sapere 2000, Roma 1993, pag. 152: "Nel “sistema capitalistico” dunque si afferma il “dominio reale” che significa non soltanto sfruttamento, ma anche emanazione di cultura, di valori, di modelli, che arrivano a riprodursi attraverso lo stesso proletariato, il quale comincia ad identificarsi con essi. Il vivere sociale assume un aspetto ed un’attività nel complesso peculiari ai movimenti strutturali del capitale ed il proletariato, attraverso l’infiltrazione di merce ideologica perde gradatamente, nella sovrastruttura soggettiva, le caratteristiche di soggetto antagonistico, arrivando ad esprimere una concezione della vita non contraddittoria alle esigenze capitalistiche".
[304] K. Marx, Frammento sulle macchine, in: Quaderni rossi n.4, pagg. 289 – 300; cfr.: H. Marcuse,Psicanalisi e politica, Laterza, Bari 1968, pag. 26.
[305] H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 144.
[306] Cfr.: K. Marx, Frammento…, pag. 290; H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 144 e seg.; H. Marcuse, State and…, pag. 77: "In the administration of the state, National Socialism has developed and employed a peculiar type of rationality as an instrument of mass domination. We may call it technical rationality because it is derived from the technological process and therefore applied to the ordering of all human relationship"; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 23.
[307] Cfr.: H. Marcuse, State and…, pag. 79; H. Marcuse, Alcune implicazioni…, pag. 145; L. Baritz, I servi…, pag. 267, laddove scrive che "c’è stato un tempo in cui l’uomo sapeva che le sue libertà venivano limitate. Gli scienziati sociali sono troppo sofisticati perché ciò avvenga. I fuochi della pressione e del controllo sono ora accesi nel pensiero stesso dell’uomo. Il controllo non ha più bisogno di essere imposto. Lo si sa generare dall’interno".
[308] H. Marcuse, Umanesimo socialista?, in: Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968, pag. 47 e seg.
[309] H. Marcuse, Umanesimo…, pag. 48.
[310] Secondo D. Kellner, Herbert Marcuse and the Crisis of Marxism, University of California Press, Berkley and Los Angeles 1984, pag. 154, Marcuse fa incontrare la teoria critica ed il pensiero di Freud nel tentative di ricostruire il marxismo. La sua interpretazione mi trova totalmente d’accordo.
[311] Si tratta, più che altro, di un reincontro: si ricordi che Marcuse aveva già letto e studiato Freud negli anni ’20. Ora il Nostro riprende in mano Freud per altri interessi.
[312] Cfr.: H. Marcuse, Eros e…, pag. 100; H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 47 e seg. e pag. 77 e segg.
[313] H. Marcuse, Eros e…, pag. 104.
[314] H. Marcuse, Eros e…, pag. 102 e seg.
[315] H. Marcuse, Eros e…, pag. 102 e segg.
[316] Cfr.: M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1967, pag. 115.
[317] Cfr.: H. Marcuse, Eros e…, pag. 75 e segg.; H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 35 e segg.
[318] H. Marcuse, Eros e…, pag. 75.
[319] Cfr.: M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica... , pag. 42.
[320] H. Marcuse, Eros e…, pag. 76.
[321] Cfr.: M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica... , pag. 114 e seg.; H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 18 e seg.
[322] H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 21 e seg.
[323] H. Marcuse, Eros e…, pag. 80. Marcuse confonde i desideri (illimitati) con i bisogni (limitati). Questi ultimi sono assolutamente essenziali, i primi invece no. Infatti, mentre i bisogni – in quanto essenziali – possono essere soddisfatti, i desideri possono non esserlo.
[324] ibidem.
[325] ibidem. Cfr.: H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 14; M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica…, pag. 40: "attraverso la subordinazione di tutta la vita alle esigenze della sua conservazione, la minoranza che comanda garantisce, con la propria sicurezza, anche la sopravvivenza del tutto". Entrambi dipendono da: K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 30: "(…) si sviluppa così la divisione del lavoro che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro si produce spontaneamente o "naturalmente" in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale ed il lavoro mentale", ed alle pag. 31 – 32: "La divisione del lavoro (…) è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna ed i suoi figli sono gli schiavi dell’uomo. La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale ed allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui. Del resto divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività. Inoltre, con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come "universale", ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso".
[326] H. Marcuse, Eros e…, pag. 104.
[327] L. Baritz, I servi…, pag. 230.
[328] M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica... , pag. 45: "dell’immaturità dei dominati vive la decadente società. (…) Sono le concrete condizioni di lavoro nella società a produrre il conformismo, e non influssi consapevoli che interverrebbero in seguito a istupidire gli uomini oppressi e a sviarli dal vero. L’impotenza dei lavoratori non è solo un alibi dei padroni, ma la conseguenza logica della società industriale, in cui, nello sforzo di sottrarvisi, si è infine trasformato il fato antico". Cfr.: H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 15.
[329] D. Kellner, Herbert Marcuse…, pag. 146.
[330] L. Baritz, I servi…, pag. 39. La stessa autrice riporta, a pag. 137 del testo, che presso gli stabilimenti  della Western Electric venne avviato nel 1936 un servizio di “consulenza psicologica” – la quale così "come la concepiva la direzione della Western Electric, era un metodo per insegnare alla gente a pensare in modo tale da compiere con più gioia il proprio lavoro". (corsivo mio)
[331] L. Baritz, I servi…, pag. 253: "Se uno scienziato sociale voleva essere iscritto sul libro paga, egli doveva produrre. E a giudicare se egli producesse o no era il suo padrone. Questo era interessato a determinati problemi di lavoro, inclusi quelli che minacciavano il suo controllo di dirigente. Così gli scienziati sociali sono stati generalmente dei salariati, che facevano bene ciò che veniva detto loro di fare, compromettendo perciò quegli altri interessi, di persona, di gruppo, di classe ed istituzionali che si opponevano all’estendersi ulteriore del dominio degli imprenditori economici sugli stati d’animo e sulla direzione della vita americana. Danneggiati soprattutto sono stati i milioni di lavoratori che sono stati obbligati (anche con la seduzione) a sottomettersi al ministero degli scienziati sociali industriali".
[332] H. Marcuse, Eros e…, pag. 79, dove afferma questa essere costituita "dalle "modificazioni" agli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà".
[333] H. Marcuse, Eros e…, pag. 79; essa è costituita dalle restrizioni rese necessarie dal potere sociale, o dominio sociale".
[334] H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 17.
[335] H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 14.
[336] Una delle cose che stupisce gli antropologi è il fatto che nelle società non evolute siano assenti le malattie mentali. Cfr.: H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 42.
[337] Cfr.: H. Marcuse, Ecologia e…, pag. 48 e segg.; J. O’Connor, L’ecomarxismo, Datanews, Roma 1994, pag. 30 e segg.; M. Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo. Per una critica del "capitalismo reale", erre emme edizioni, Roma 1993, pag. 235 e segg.
[338] Cfr.: H. Marcuse, Psicanalisi…, pag. 39 e seg.; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 23.
[339] H. Marcuse, 33 Theses, in: Technology…, pag. 217; tesi 1: "After the military defeat of Hitler – Fascism (which was a premature and isolated form of capitalist reorganization) the world is dividing into a neo-fascist and a Soviet camp. What still remains of democratic-liberal forms will be crushed between the two camps or absorbed by them. The states in which the old ruling classes survived the war economically and politically will become fascistized in the foreseeable, while the others will enter the Soviet camp".
[340] Cfr.: H. Marcuse, Soviet marxism, Guanda, Parma 1968, pag. 32; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 53.
[341] Cfr.: H. Marcuse, Soviet…, pag. 65; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 22 e pag. 40.
[342] H. Marcuse, 33 theses, pag. 217; tesi 2: "The neo-fascist and the Soviet societies are economic and class enemies and a was between them is probable. But both are, in their essential forms of domination, antirevolutionary and hostile to socialist development. The war might force the Soviet state to adopt a new, more radical “line”. This type of shift would be superficial and subject to revocation; if successful, it would be neutralized by the massive increase of power of the Soviet state".
[343] H. Marcuse, Soviet…, pag. 32.
[344] Cfr.: K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 33 e seg.: "Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei singoli individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e donde va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e questo agire. Questa "estraneazione", per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinchè essa diventi un potere "insostenibile", cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che esso abbia reso la massa degli uomini affatto "priva di proprietà" e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano della locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa "priva di proprietà" contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali", con: H. Marcuse, Soviet…, pag. 17.
[345] H. Marcuse, Soviet…, pag. 56: "la “coesistenza” non è più soltanto un dato di fatto, ma tende a divenire una vera e propria teoria. (…) Il criterio della coesistenza comporta una politica chiamata, nel linguaggio sovietico, “di pace” (il che vuol dire, in realtà, diretta ad evitare un conflitto armato con le maggiori potenze imperialiste). Essa viene a costituire il motivo centrale di tuta la politica estera russa, quello che deve “determinare i suoi atti essenziali”: e ciò non in nome di un innato pacifismo del gruppo dirigente, ma semplicemente perché un simile conflitto (…) interromperebbe quella tregua (o rinvio) che Lenin aveva riconosciuto come requisito pregiudiziale inderogabile per ogni speranza di sopravvivenza dello Stato sovietico".
[346] Cfr.: H. Marcuse, Soviet…, pag. 150 e pag. 152; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 27 e segg., pag. 44.
[347] Cfr.: H. Marcuse, Soviet…, pag. 70 e pag. 91; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 39. La burocrazia è determinante per quello che Marcuse chiama “warfare state”.
[348] H. Marcuse, Soviet…, pag. 92 e seg.
[349] H. Marcuse, Soviet…, pag. 90.
[350] H. Marcuse, L’uomo…, pag. 71.
[351] ibidem.
[352] Enzo Lo Giudice, La democrazia…, pag. 14 e seg., scrive che "L’esperienza storica del mondo ha dimostrato che in una società nella quale non è garantita l’uguaglianza sociale lo Stato è uno strumento di dittatura per la maggioranza del popolo, perché deve garantire la democrazia per i membri della classe al potere. Dittatura e democrazia caratterizzano sempre lo stato ed i rapporti tra lo Stato ed il popolo, ma la democrazia in sè non esiste. Democrazia significa potere del popolo, ma il popolo è composto di classi, di ceti, di categorie diseguali tra loro e solo una delle classi è al potere. Essa ha dunque la sua democrazia, mentre le altre componenti sociali di fatto subiscono il dominio della prima. Il potere borghese organizza nei suoi rapporti con le classi oppresse una particolare forma di dittatura che definisce democrazia borghese, fondata in economia sul libero mercato ed in politica sulla rappresentanza parlamentare". Cfr.: H. Marcuse, saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino 1969, pag. 85: la "democrazia non esiste, ed in pratica il governo è esercitato da un complesso di gruppi di pressione e di organizzazioni, ovvero di interessi costituiti rappresentati dalle istituzioni democratiche ed operanti per mezzo di queste. Le istituzioni democratiche non sono creazioni di un popolo sovrano. La rappresentanza rappresenta la volontà foggiata dalle minoranze che  comandano".
[353] ibidem.
[354] H. Marcuse, Eros e…, pag. 80.
[355] Voltaire (pseudonimo di F. M. Arouet), Candido o l’ottimismo, Feltrinelli, Milano 1992, pag. 16.
[356] I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? In: I. Kant, Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, Firenze 1994, pag. 25 (il corsivo è di Kant). La risposta kantiana al quesito delinea perfettamente il carattere paternalistico dello stato capitalista e totalitario.
[357] Cfr.: H. Marcuse, Soviet…, pag. 152 e seg.; H. Marcuse, Umanesimo…, pag. 51.
[358] P. Marcuse, Herbert Marcuse on Real Existing Socialism: a Hindsight Look at “Soviet Marxism”, in: (edited by) K. Gavroglu, J. Stachel, M. W. Wartofsky, Science, Politics and Social Practice, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1995, pag. 57 e seg.
[359] Cfr.: H. Marcuse, Letters to…, pag. 259 e seg., dove scrive (la lettera è datata 30 Marzo 1949) che "I am to work on a study of Russian Marxim (from the split of the Russian party to the la test manifestation of Stalinism) in its interconnection with the transformation of Western society (…). This study should be published as a book"; con D. Kellner, Herbert Marcuse…, pag. 199 e segg., il quale afferma oltre che con il Russian Institute, lavorò anche presso il Russian Reasearch Center di Harvard.
[360] P. A. Robinson, La sinistra freudiana. Wilhelm Reich – Geza Roheim – Herbert Marcuse, Astrolabio, Roma 1970, pag. 163. A mio avviso Robinson sbaglia nell’affermare che, rispetto ad altre opere, "Soviet Marxism è piuttosto un lavoro di abilità intellettuale e perciò è forse il meno interessante fra i suoi scritti. Esso è fortemente ostile nei confronti del marxismo sovietico, e rispecchia l’atmosfera di guerra fredda che caratterizzò quel periodo, anche se Marcuse cercò di spiegare l’infelice corso dello sviluppo politico e sociale sovietico nei termini del persistente vigore del capitalismo occidentale e del carattere aggressivo della politica estera occidentale, soprattutto americana". A Robinso, così come ad altri interpreti del pensiero di Marcuse, è sfuggito totalmente il contesto nel quale questa opera del Nostro si situa.
[361] K. Marx – F. Engels, L’ideologia…, pag. 34.
[362] K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1990, pag. 30: "tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione".
[363] K. Marx, Critica al…, pag. 15: "quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le “macchie” della vecchia società dal cui seno essa è uscita".
[364] Cfr.: G. Lukàcs, Storia e…, pag. 219 e segg.; H. Marcuse, Soviet…, pag. 18 e seg.; H. Marcuse, Umanesimo…, pag. 46 e seg.; H. Marcuse, L’obsolescenza del marxismo, in: Critica della…, pag. 129; H. Marcuse, L’individuo nella “grande società”, in: Critica della…, pag. 87 e segg.; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 43.
[365] H. Marcuse, Soviet…, pag. 111 e seg.
[366] H. Marcuse, L’uomo…, pag. 79 e segg.
[367] H. Marcuse, Soviet…, pag. 71: "L’abolizione della proprietà dei mezzi di produzione non costituisce di per sé un elemento essenziale di distinzione fra i due tipi di sistema, fino a che la produzione è centralizzata e controllata dall’alto. Se non si ha iniziativa e controllo "dal basso", da parte dei "produttori immediati", la nazionalizzazione si riduce a un espediente tecnico-politico per accrescere la produttività del lavoro, per accelerare lo sviluppo delle forze produttive e per mantenerle sotto controllo (pianificazione accentrata): nient’altro, dunque, che un mutato criterio, una dinamizzazione del dominio, piuttosto che un requisito preliminare per la sua abolizione".
[368] H. Marcuse, Soviet…, pag. 73.
[369] G. Lukàcs, Storia e…, pag. 2, nel rispondere alla domanda “Che cosa è il marxismo ortodosso?”, scrive che il "marxismo ortodosso non significa (…) un’accettazione acritica dei risultati della ricerca marxiana, non significa un "atto di fede" in questa o quella tesi di Marx, e neppure l’esegesi di un libro "sacro". Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo. Essa è la convinzione scientifica che nel marxismo dialettico si sia scoperto il corretto metodo della ricerca, che questo metodo possa essere potenziato, sviluppato ed approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori". La direzione che segue Marcuse – anche dopo essere stato allontanato dalla Scuola di Francoforte – è quella della teoria critica, che nel marxismo, nel materialismo storico e nel metodo dialettico trovano i loro punti di forza.
[370] Uno dei primi ad avere una chiara visione libertaria del pensiero di Charles Fourier è stato il “principe rosso” Pëtr Kropotkin, L’Anarchia: la sua filosofia e il suo ideale, Edizioni La Fiaccola, Ragusa 1994, pag. 10.
[371] Il concetto di Grande Rifiuto era apparso per la prima volta in H. Marcuse, Eros e…, p.e.: pag. 248, dove è connesso ad Orfeo, che libera, che riconcilia la vita con la morte e che ricorda a tutti – insieme a Narciso (pag. 184) – il tempo perduto in cui fu fatta "l’esperienza di un mondo che non va dominato e controllato, ma liberato – una libertà che scioglierà i freni delle forze ad Eros, che ora sono legate nelle forme represse e pietrificate dell’uomo e della natura. Queste forze non sono concepite come distruzione, m come pace, non come terrore, ma come bellezza". Tale stato di mancanza di dolore, che ha pace, è il principio del  Nirvana. In particolare, le immagini di Orfeo e di Narciso negano il principio di prestazione. Il principio del Nirvana, come momento del ritorno ad uno stato originario di quiete, pace, assenza di dolore, è anch’esso antitetico (al pari del principio di piacere) al principio di prestazione o di realtà. A tale proposito, T. J. Lukes, The Flight into Inwardness. An Exposition and critique of Herbert Marcuse’s Theory of Liberative Aesthetics, Susquehanna and Toronto 1985, pag. 41, scrive che "Marcuse attempts to show that Thanatos is a derivative of a more primary impulse, the Nirvana impulse (the drive to reduce tension), and that the inclination toward death is powerful only in a reality filled with abrasive stimuli – a reality that need not be present in a pacified society".
[372] H. Marcuse, L’uomo…, pag. 266.
[373] Cfr.: M. Capanna, Formidabili quegli anni, Rizzoli, Milano 1994, pag. 17: "Da noi il Sessantotto iniziò l’anno prima e continuò l’anno successivo. Le agitazioni in molte università cominciano nell’autunno ’67, all’inizio dell’anno accademico. Ai primi di novembre è occupata la facoltà di Sociologia a Trento, con una impostazione molto netta di rifiuto del suo ruolo di allevamento di sociologi in batteria al servizio del potere. (…) A metà novembre, incredibilmente, scendono in campo gli studenti dell’Università Cattolica a Milano" con R. Curcio – M. Scialoja, A viso aperto. Vita e memorie del fondatore delle BR, Mondatori, Milano 1995, pag. 34, dove Curcio ricorda che "Come facoltà di sociologia eravamo direttamente collegati a Berkeley e, in sintonia con la rabbia degli studenti californiani, ci mobilitammo. Nell’autunno ’67 decidemmo di occupare l’università".
[374] (Mao Zedong) Citazioni dalle opere del Presidente Mao Tze-Tung, Casa editrice in lingue estere, Pechino 1967, pag. 12 e seg.
[375] Cfr.: H. Marcuse, La liberazione dalla società opulenta, in: AA. VV.: Dialettica della liberazione, Einaudi, Torino 1970, pag. 185 e seg.; . Marcuse, Saggio sulla…, pag. 16 e seg.
[376] H. Marcuse, La liberazione…, pag. 179.
[377] R. Lettau, Herbert Marcuse and the Vulgarity of Death, in: New German Critique, n. 18, 1979, Milwaukee (Wisconsin), pag. 20.
[378] H. Marcuse, Sul terrorismo nella Germania Federale oggi, in: A. Schwarz, Conversazione con Herbert Marcuse, Multiphla edizioni, Milano 1978, pag. 35 e segg.
[379] H. Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Bari 1968, pag. 58 e seg.
[380] H. Marcuse, La fine…, pag. 21: "fra le molte accuse che mi sono state avanzate due fanno particolare  spicco. Prima accusa: io avrei affermato che oggi l’opposizione studentesca è in grado di fare da sola la rivoluzione. Seconda: che io avrei affermato che i cosiddetti hippies d’America, o i beatniks, ecc., costituiscono la nuova classe rivoluzionaria. Non ho mai pensato di affermare cose del genere".
[381] H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 19: "La lotta di classe armata è combattuta all’esterno; dai diseredati della terra che combattono il mostro opulento".
[382] Cfr.: H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 19 e 95; H. Marcuse, Ecologia e…, pag. 52.
[383] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, mondatori, Milano 1973, pag. 73; cfr.: H. Marcuse, Ecologia e…, pag. 55: "la ricerca di una situazione priva di dolore, della pacificazione dell’esistenza, troverebbe un soddisfacimento nella riconquista e nella protezione della natura, sia esterna che interna agli esseri umani. Questo è esattamente il mio modo di vedere il movimento ambientalista e quello ecologista, oggi. Il movimento ecologista si rivela, in ultima analisi, come un movimento politico e psicologico di liberazione. E’ politico perché si misura con il potere organizzato del grande capitale, minacciandone gli interessi vitali. E’ psicologico perché (e questo è un punto molto importante) la pacificazione della natura esterna e la protezione dell’ambiente vitale pacificheranno anche la natura interna degli uomini e delle donne. Un ambientalismo coronato da successo sottometterà dunque l’energia distruttiva degli individui alla loro energia erotica".
[384] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 75: "La natura, quando non è lasciata stare e protetta come "riserva", viene aggredita in modo scientifico: esiste nell’interesse della dominazione, è cosa sprovvista di valore, materia".
[385] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 82: "Per la concezione marxiana, la natura è un universo che diviene mezzo congeniale alla gratificazione dell’uomo nella misura in cui le forze e le caratteristiche produttive di piacere, proprie della natura, vengono ritrovate e liberate. In netto contrasto con lo sfruttamento capitalistico, la "appropriazione umana" della natura sarebbe non violenta, non distruttiva, tesa alle qualità vitali, sensibili ed estetiche inerenti alla natura stessa la quale, così trasformata e "umanizzata", risponderebbe al tendere dell’uomo verso la propria realizzazione, anzi questa non sarebbe possibile senza quella".
[386] Cfr., in particolare: H. Marcuse, La fine…, pag. 145 – 176; H. Marcuse, La liberazione…, pag. 192.
[387] H. Marcuse, La liberazione…, pag. 180 e seg. Analogamente si era espresso A. Camus, Il mito di Sisifo, in: Opere, Bompiani, Milano 1992, pag. 207: "Vivere, naturalmente, non è mai facile. Si continua a fare i gesti che l’esistenza comanda, per molte ragioni, la prima delle quali è l’abitudine".
[388] Basti pensare all’Ungheria (1956), a Praga (1968), a Città del Messico (1968), a Roma (1977), a Bologna (1977)…. Cfr.: H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 9 e segg.
[389] Sulla precarizzazione del lavoro e l’eliminazione del welfare state meritano di essere riportate le lucide osservazioni di A. Negri, Fine secolo. Un manifesto per l’operaio sociale, Sugarco, Milano 1988, pag. 139 e seg.: "La ricostruzione del mercato, dunque, per cominciare. Un’operazione quanto mai complessa. Una finalità parziale distruttiva le è subito attribuita: la dissoluzione, meglio, la "devoluzione" dello Stato assistenziale. Non a caso, in effetti, le mille manovre che organizzano la macchina ideologica "ricostruzione del mercato" trovano una razionalità strumentale accertata solo nel caso di distruzione del Welfare state – dell’assistenza, dunque, in tutte le sue forme. (…) Dunque, distruggere il Welfare state sarà disarticolare la socializzazione del lavoro. Restaurare il mercato sarà programma di potenza esclusivamente negativa (…). Restaurare il mercato è lasciare mano libera alla rapina individuale della cooperazione sociale, è celebrare l’ignobile favola della concorrenza (…). In secondo luogo, a capo della restaurazione del mercato, l’ideologia capitalistica propone l’obiettivo della segmentazione del mercato del lavoro".
[390] H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 19 e seg.: "Questa società è oscena nel senso che produce ed espone senza decenza una soffocante quantità di merci, mentre priva le sue vittime all’estero del necessario per vivere; è oscena nel senso che si rimpinza e riempie fino all’orlo i suoi bidoni di rifiuti mentre avvelena e brucia gli scarsi alimenti nei campi nei quali porta la sua aggressione".
[391] Cfr.: h. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 35 e seg.; H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 83 e seg.; B. Vian, Il disertore, in: F. Lippi, Vian il disertore, Stampa alternativa, Roma 1993, pag. 29 e segg. Boris Vian, poco prima che terminasse la guerra d’Indocina e scoppiasse quella d’Algeria, ha avuto il coraggio di esprimere in versi la sua protesta pacifista.
[392] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 64: "La "maturità" resta per definizione appannaggio della classe egemone, di ciò che è, e allora la saggezza alternativa resta quella del buffone e del bambino. Quando però assume i caratteri che sono propri della classe egemone, della frustrazione e della repressione che essa scatena, la protesta è ignorata oppure punita con buona coscienza e largo appoggio popolare". Il presidente Mao, Citazioni…, pag. 64, aveva giustamente affermato "questa verità: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”".
[393] M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, Ponte alle Grazie,  Firenze 1990, pag. 23.
[394] H. Marcuse, La fine…, pag. 109.
[395] ibidem.
[396] H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 87.
[397] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 35 e seg.
[398] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 36.
[399] H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 87: "Nel vocabolario dell’establishment, il termine "violenza" non si applica alle azioni della polizia, della guardia nazionale, dei marines, dei marescialli, dei bombardieri. Le parole "cattive" sono riservate a priori per il Nemico, e il loro significato è definito e convalidato dalle azioni del Nemico indipendentemente dalle loro motivazioni e dai loro fini".
[400] H. Marcuse, La fine…, pag. 107 (rispondendo ad una obiezione mossagli da Richard Löwenthal): "Una politica della distruzione, e senza alternative costruttive? No! Io credo che quanto abbiamo in mente io e l’opposizione sia una cosa molto diversa da una politica della distruzione per amore della distruzione. Per facilitare la spiegazione voglio ricorrere ad un paragone. Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori. Tuttavia lei dice giustamente: dobbiamo per lo meno sapere che al posto della prigione vogliamo costruire la casa di abitazione. E’ proprio quello che noi crediamo di sapere. E non è necessario aver già pronto un piano preciso della casa per cominciare a demolire la prigione; purché si sappia che si vuole e si può sostituire a quest’ultima appunto una casa di abitazione, e purché si abbiano le idee chiare su come deve essere una casa decente (il che costituisce, secondo me, l’aspetto decisivo). Sui particolari ci si può mettere d’accordo dopo. In nessun modo, né implicitamente, né esplicitamente, io ho parlato della politica fondata sul piacere della distruzione". Con queste affermazioni, Marcuse stesso invalida quanto affermato da alcuni superficiali suoi critici: V. Terenzio, Riflessioni sul “caso” Marcuse, in: Rivista di studi crociani, Napoli 1979, pag. 237 – 241 che si segnala – oltre che per la mostruosità e per la totale mancanza di umanità in ciò che scrive ("La notizia della scomparsa di Herbert Marcuse non poteva non suscitare in me i sentimenti che sempre si provano al cospetto della morte; ma sarebbe ipocrisia se non confessassi che al compianto si è unito un senso di liberazione, ancorché illusorio, perché le corbellerie tante volte ripetute da questo eroe della controcultura sono destinate ad una lunga sopravvivenza nella società contemporanea che, per non parere reazionaria, è disposta a condiscendere ad ogni forma di assurdità ed idiozia che le venga propinata in nome della rivoluzione e dell’avanguardia", pag. 237) – per il fatto di non aver capito assolutamente nulla del Nostro ("Marcuse aveva di mira una rivolta fine a se stessa; egli voleva demolire tutto, ma non aveva un progetto di riedificazione organica, perché gli premeva unicamente il successo, la popolarità nel mondo dei giovani, che sono i più inclini a illudersi e a credere alle paradossali fumisterie dei cialtroni", ibidem; il vaniloquio continua nelle pagine successive) e S. Cecchinel, Contestation et utopie chez Marcuse, in: Comprendre n. 37 – 38, Venezia 1971 – 1972, pag. 116 – 130, la quale, sebbene non abbia anch’essa colto affatto il sottile nesso che tiene insieme l’opera del Nostro, ha almeno – rispetto a quell’altro – la decenza di aver letto, del Nostro autore, qualche opera in più.
[401] A. Schwarz, Conversazione…, pag. 28, riporta una risposta chiarificatrice di Marcuse sull’argomento: "La trasformazione della sessualità in Eros è la trasformazione della sessualità nelle pulsioni di vita e l’allargamento delle relazioni libidiche all’ambiente di vita, alla lotta per la protezione e il miglioramento  della vita. Per citare Adorno: “per vivere senza paura”". La limitazione (voluta anche dal sistema) della sessualità alla sfera puramente procreativo-genitale viene distrutta e l’Eros allargato, sino ad abbracciare il mondo. H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 21, scrive che "la liberalizzazione della moralità dell’establishment si effettua entro un quadro di efficaci controlli; contenuta entro questi limiti, la liberalizzazione rafforza la coesione dell’insieme. Il rilassamento dei tabù allevia il senso di colpa, e lega libidinalmente (sia pure con notevole ambivalenza) i "liberi" individui ai padri istituzionalizzati. Questi padri sono potenti, ma anche tolleranti, e la loro direzione del paese e della sua economia alimenta e protegge le libertà dei cittadini. Peraltro, se la violazione dei tabù trascende la sfera sessuale e porta la rifiuto ed alla ribellione, il senso di colpa non è più alleviato né represso, bensì trasferito: non siamo noi i colpevoli, ma i padri; costoro non sono tolleranti, ma falsi; vogliono redimere la loro colpa rendendo colpevoli noi, i figli; hanno creato un mondo di ipocrisia e di violenza nel quale noi non vogliamo vivere. La rivolta istintuale diventa ribellione politica, e contro codesta unione l’establishment mobilita tutte le sue forze".
[402] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 41.
[403] K. Marx, Frammento…, pag. 290 e seg.
[404] Cfr.: H. Marcuse, La liberazione…, pag. 178 e segg.; H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 25 e seg.; H. Marcuse, La liberazione…, pag. 185 e seg., scrive sul passaggio dal capitalismo al socialismo: "la liberazione dalla società della opulenza si identifica con il passaggio dal capitalismo al socialismo? La risposta che suggerisco è: non vi si identifica, se si definisce il socialismo come un semplice sviluppo pianificato delle forze produttive e come una razionalizzazione delle risorse (sebbene questa non rimanga la condizione essenziale per ogni tipo di liberazione). Si identifica invece con il passaggio dal capitalismo al socialismo, se per socialismo intendiamo il suo significato di utopia: un socialismo che conduce, tra le altre cose, all’abolizione del lavoro fisico, alla fine della lotta per l’esistenza (il che vuole dire intendere la vita come fine e non come mezzo), alla liberazione della sensibilità e dei sentimenti umani, non come fatto privato, ma come una forza da impiegare nella trasformazione della vita dell’uomo e del suo ambiente. Dare al sentimento ed alle emozioni la giusta collocazione è, io credo, uno dei punti base del socialismo integrale. Sono questi gli aspetti qualitativa di una società libera. Essi presuppongono un tipo di uomo che rigetta il principio di prestazione che regge la società, e rifiuta la sua moralità puritana e ipocrita; un tipo di uomo che è biologicamente incapace di fare le guerre e di creare la sofferenza; un tipo di uomo che sa rallegrarsi della gioia e del piacere e che opera, a livello individuale e collettivo, affinché si determini un ambiente naturale e sociale dove una tale esistenza divenga possibile".
[405] H. Marcuse, Saggio sulla…, pag. 19. Cfr.: H. Marcuse, La liberazione…, pag. 177.
[406] H. Marcuse, La liberazione…, pag. 186.
[407] Nella cultura popolare (ad esempio in tutti i dialetti italiani) il lavoro è sempre associato alla fatica, allo sforzo, alla sofferenza fisica. L’idea di un luogo ove sia possibile vivere senza soffrire per il lavoro – che era e resta quello che è, cioè una maledizione (cfr.: Gen. 3, 17 – 19) – è presente in tutte le culture popolari, giungendo ai giorni nostri come il Paese di Cuccagna.
[408] Cfr.: H. Marcuse, Eros e…, pag. 230 e seg.; C. Fourier, Teoria dei quattro movimenti; Il nuovo mondo amoroso, Einaudi, Torino 1971, pag. 137 e segg.
[409] H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 109. Cfr.: H. Marcuse, L’arte come forma della realtà, in: AA. VV., Sul futuro dell’arte, Feltrinelli, Milano 1972, pag. 138: "L’Arte è trascendentale in un senso che la distingue e la divorzia da qualsiasi realtà “quotidiana” che possiamo presagire. (…) Perciò le arti manterranno forme di espressione ad esse consone, e soltanto ad esse: di una bellezza e verità antagoniste a quelle della realtà" ed H. Marcuse, La dimensione estetica, Mondadori, Milano 1978, pag. 15 e seg.: "un’opera d’arte può dirsi rivoluzionaria se, attraverso l’elaborazione estetica, essa rappresenta nel destino esemplare di singoli individui la realtà dell’oppressione e delle forze che vi si ribellano, irrompendo così nella realtà sociale mistificata (e reificata) e schiudendo gli orizzonti del rinnovamento e della liberazione. In tal senso, qualsiasi opera d’arte autentica sarebbe anche rivoluzionaria, costituirebbe cioè un sovvertimento del modo di sentire e concepire, un atto di accusa contro la realtà costituita, l’apparire di una immagine di liberazione. (…) Le palesi differenze nella rappresentazione del potenziale sovversivo risalgono alla diversità delle strutture sociali con cui queste opere si confrontano: il modo in cui il peso dell’oppressione è distribuito nella società, la composizione e la funzione delle classi dominanti, le effettive possibilità di rinnovamento radicale. Tali condizioni storiche possono presentarsi nell’opera d’arte in maniera esplicita ovvero come sfondo e orizzonte, nel linguaggio oppure nella scelta delle immagini, ma in ogni caso esse sono la manifestazione e l’espressione storica specifica di una medesima essenza metastorica dell’arte: la sua dimensione di verità, d’accusa e di promessa, una dimensione che si costituisce nella forma estetica".
[410] A. Schwarz, Conversazione…, pag. 14.
[411] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 65. Non soddisfacente l’attenzione che D. Kellner, Herbert Marcuse…, pag. 347 e segg., riserva alla concezione dell’arte del Nostro filosofo, strettamente connessa alla teoria della liberazione.
[412] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 66.
[413] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 70 e seg.
[414] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 77.
[415] H. Marcuse, Il romanzo…, pag. 445.
[416] D. Kellner, Herbert Marcuse…, pag. 381, riporta che prima della sua pubblicazione nel primo volume delle opere complete edito dalla Suhrkamp, nessuno – né fra i più intimi amici di Marcuse, nè fra i suoi vecchi colleghi dell’Istituto francofortese – conosceva l’esistenza di quest’opera.
[417] H. Marcuse, Il romanzo…, pag. 17: "La vita e la poesia furono separate l’una dall’altra nel modo più netto, e la poesia rimase il valore primario, in cui si cercava la protezione dalla vita, soddisfazione e compimento. Per questo modo di sentire la vita il "romanzo dell’artista" era semplicemente impossibile: l’artista si guardava bene dall’entrare nel mondo, il mondo esterno rimaneva completamente escluso dalla rappresentazione poetica".
[418] H. Marcuse, Il romanzo…, pag. 393.
[419] Cfr.: H. Marcuse, Il romanzo…, pag. 22 e segg., laddove l’Autore prende in considerazione l’Antonio Reiser di K. P. Moritz; H. Marcuse, L’uomo…, pag. 77 e segg., in particolare a pag. 79, laddove afferma che le "immagini tradizionali dell’alienazione artistica sono in effetti romantiche nella misura in cui sono esteticamente incompatibili con la società che si va sviluppando".
[420] H. Marcuse, Il romanzo…, pag. 25.
[421] E. L. Masters, Antologia di Spoon River, Mondadori, Milano 1992, pag. 75 (si tratta dell’epitaffio di  Frank Drummer): "La lingua non poteva dire che cosa/ si agitava dentro di me/ e il paese mi credeva un folle".
[422] H. Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura, in: Cultura e…, pag. 45.
[423] H. Marcuse, Sul carattere…, pag. 45.
[424] H. Marcuse, Sul carattere…, pag. 52 e seg.
[425] Sulla importanza della liberazione nell’opera di Marcuse e sulla stretta connessione che questo concetto ha nel pensiero del nostro con quello del ritorno ad uno stato precedente, unitamente all’analisi dell’opera freudiana svolta dall’autore berlinese: T. J. Lukes, The Flight…, pag. 81.
[426] H. Marcuse, Sul carattere…, pag. 53.
[427] Cfr.: H. Marcuse, Sul carattere…, pag. 55; T. J. Lukes, The Flight…, pag. 99.
[428] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 127, traccia un diagramma della concezione estetica del Nostro, dal quale si evince – anche graficamente – quanto si è detto.
[429] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 87 e segg., usa il termine "scientific art" per definire tanto il realismo sovietico quanto l’arte del mondo capitalistico.
[430] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 88.
[431] H. Marcuse, Soviet…, pag. 111 e seg.
[432] H. Marcuse, Soviet…, pag. 112.
[433] H. Marcuse, Soviet…, pag. 112.
[434] H. Marcuse, L’uomo…, pag. 79 e seg.
[435] H. Marcuse, L’arte nella società ad una dimensione, in: H. Marcuse, Critica della…, pag. 136 e seg.: "I concetti e le parole tradizionali usati per designare un società migliore, vale a dire una società libera (e l’arte ha a che vedere con al libertà), sembrano essere oggi senza significato. Essi sembrano inadeguati a comunicare ciò che gli uomini e le cose sono oggi e ciò che possono e dovrebbero essere. Questi concetti tradizionali si riferiscono a un linguaggio che ancora quello di una epoca pretecnologica e pretotalitaria, rispetto a quella in cui viviamo. Essi non contengono l’esperienza degli anni trenta, quaranta e sessanta, e la loro razionalità stessa sembra militare contro il nuovo linguaggio capace di comunicare l’orrore del presente e la promessa del futuro possibile. Perciò fin dagli anni trenta, assistiamo alla ricerca intensa e metodica di un nuovo linguaggio, di un linguaggio poetico e di u linguaggio artistico intesi come linguaggi rivoluzionari".
[436] H. Marcuse, L’uomo…, pag. 80.
[437] ibidem.
[438] H. Marcuse, L’arte nella…, pag. 137.
[439] H. Marcuse, Eros e…, pag. 168.
[440] ibidem.
[441] H. Marcuse, Eros e…, pag. 169, lo usa anche per significare la immaginazione: "L’aver riconosciuto la  fantasia (immaginazione) come un processo di pensiero con proprie leggi e propri valori di verità, non era un fatto nuovo nella psicologia e nella filosofia; il contributo originale di Freud consisteva nel tentativo di mostrare la genesi di questo modo di pensiero e la sua connessione essenziale con il principio del piacere."
[442] H. Marcuse, Eros e…, pag. 171.
[443] ibidem.
[444] H. Marcuse, Eros e…, pag. 172. Il corsivo è mio.
[445] ibidem.
[446] H. Marcuse, Eros e…, pag. 175.
[447] H. Marcuse, Eros e…, pag. 176.
[448] H. Marcuse, Some Remarks on Aragon. Art and Politics in the Totalitarian Era, in: Technology…, pag. 201: "Intellectual opposition to the prevailing form of life seems to become increasingly impotent and ineffective. The aim of this opposition: man’s liberation from domination and exploitation, has failed to materialize although the historical conditions for its realization have been attained. The revolutionary forces which were to bring about freedom are being assimilated to the all-embracing system of monopolistic controls".
[449] ibidem.
[450] H. Marcuse, L’arte come…, pag. 129.
[451] H. Marcuse, L’arte come…, pag. 130.
[452] H. Marcuse, L’arte come…, pag. 135 e seg.
[453] H. Marcuse, L’arte come…, pag. 136.
[454] R. Lettau, Herbert Marcuse and…, pag. 20.
[455] T. J. Lukes, The Flight…, pag. 109. Cfr.: H. Marcuse, La dimensione…, pag. 10.
[456] Marcuse sta, chiaramente, attaccando il Living Theatre. Cfr.: H. Marcuse, L’arte come…, pag. 136; H. Marcuse, Controrivoluzione…, pag. 136.

http://www.marcuse.org/herbert/booksabout/90s/98FabioFinoTesi.htm



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