Nessuna opera d’arte erotica è una porcheria,
quand’è artisticamente rilevante,
diventa una porcheria solo tramite l’osservatore,
se costui è un porco
Egon Schiele.
Egon Schiele: “Tutto nella vita è morte”
“Se intendo conoscermi interamente dovrò leggere in me stesso, dovrò sapere ciò che voglio, non soltanto quello che succede in me, bensì fino a che punto sono capace di vedere di che mezzi dispongo, di quali sostanze misteriose, di quanto di ciò che conosco, che finora ho riconosciuto in me, sono composto. Mi vedo evaporare ed esalare sempre di più, le vibrazioni della mia luce astrale diventato sempre più rapide, più immediate, più semplici e simili ad un’ampia comprensione del mondo. Così attingo da me stesso sempre di più, sempre altro, affinché l’amore che costituisce il tutto mi arricchisca e mi conduca verso quel punto da cui istintivamente vengo attratto”.
Inquieto, pessimista e dotato di un eccezionale vitalismo grafico, Egon Schiele affida al suo diario la sua concezione del mondo. Nato a Tulln nel 1890, il pittore austriaco è stato esponente assoluto del primo espressionismo viennese. Alla morte del padre, avvenuta nel 1905, Egon comincia a dipingere e l’anno successivo fa il suo ingresso all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Intollerante nei confronti degli insegnamenti che gli vengono impartiti, inizia ben presto a distaccarsene e a cercare ispirazione al di fuori, soprattutto all’interno dei Cafè. Ma è l’incontro con Gustav Klimt a segnare definitivamente il suo stile e la sua arte: entrambi nutrono un grande interesse nei confronti della raffigurazione del corpo umano. Mani secche, nodose, scheletriche. Nudi intrecciati in contorsioni acrobatiche, volti emaciati e sofferti. Un’umanità disperata e macabra di sopravvissuti, il volto intimo dell’impero austroungarico alla fine. I suoi magnifici disegni con tenere bambine nude, donne libere e sensuali con calze e stivali a coprire solo un pezzo di gamba, gli avevano procurato nel 1912 un’accusa grave da parte di un certo Von Mossig, ufficiale della marina in pensione. Schiele era stato incolpato di averne sedotto la figlia, una ragazzina neppure quattordicenne. Rinchiuso in prigione, affida alle pagine di un diario i suoi sentimenti, le sue angosce e le sue paure: «Devo vivere con i miei escrementi, respirarne l’esalazione velenosa e soffocante. Ho la barba incolta – non posso nemmeno lavarmi a modo. Eppure sono un essere umano! – anche se carcerato; nessuno ci pensa? ». Mentre scrive, abbozza velocemente la sua cella, il giaciglio in passa le notti insonni e, quasi a confortarlo, un’arancia posata sulle coperte sdrucite: «Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un’arancia brillante che mi ha portato è l’unica luce che risplenda in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile».
Alla fine viene assolto, ma i suoi disegni vengono giudicati pura e semplice pornografia: «Durante l’udienza, uno dei miei disegni confiscati, quello che avevo appeso nella mia stanza da letto, venne bruciato solennemente, dal giudice paludato nella sua toga, sulla fiamma d’una candela! Autodafé! Savonarola! Inquisizione! Medioevo! Castrazione, ipocrisia! Su, andate nei musei allora, e tagliate a pezzetti tutti i più grandi capolavori d’arte. Chi ripudia il sesso è un individuo sporco che diffama nella maniera più volgare i propri genitori che lo hanno generato».
Rientrato a Vienna riesce, grazie all’aiuto dell’amico Klimt, a reinserirsi nell’ambiente artistico. Le sue opere riflettono il suo pensiero: “Tutto nella vita è morte”. E difatti, i suoi impietosi e crudi segni riflettono la caducità della vita. Anche nei paesaggi, fitti di case arroccate, c’è la stessa, contratta espressione, lo stesso violento senso di oppressione.
Nel 1915 sposa Edith Arms. Da questo momento, il suo pessimismo si fa meno pesante: sembra che egli si apra alla speranza. Le sue immagini si fanno meno emaciate, i volti diventano più distesi, privi di quell’ansia soffocante che fino a quel momento li aveva caratterizzati. Questa felicità dura tuttavia molto poco: la febbre spagnola si abbatte come una furia e miete centinaia di vittime. La moglie del pittore, che aspettava un figlio, muore il 28 ottobre 1918. Egon le sopravvive solo tre giorni.
Di Laura Corchia
https://youtu.be/e0XR2wY_l8s
"Gli uomini disapprendono l'arte del dono. C'è qualcosa di assurdo e di incredibile nella violazione del principio di scambio; spesso anche i bambini squadrano diffidenti il donatore, come se il regalo non fosse che un trucco per vendere loro spazzole o sapone. In compenso si esercita la charity, la beneficenza amministrata, che tampona programmaticamente le ferite visibili della società. Nel suo esercizio organizzato l'impulso umano non ha più il minimo posto: anzi la donazione è necessariamente congiunta all'umiliazione, attraverso la distribuzione, il calcolo esatto dei bisogni, in cui il beneficato viene trattato come un oggetto. Anche il dono privato è sceso al livello di una funzione sociale, a cui si destina una certa somma del proprio bilancio, e che si adempie di mala voglia, con una scettica valutazione dell'altro e con la minor fatica possibile. La vera felicità del dono è tutta nell'immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l'altro come un soggetto: il contrario della smemoratezza".
quand’è artisticamente rilevante,
diventa una porcheria solo tramite l’osservatore,
se costui è un porco
Egon Schiele.
Il bambino nasce filosofo, pone domande, ascolta, elabora risposte;
poi arriva l'adulto con i suoi:
"non puoi capire", "è così e basta",
"quando crescerai capirai",
"ascolta quello che dico perchè sono più grande",
"zitto quando parlano i grandi",
"è così, è sempre stato così",
"il tuo lavoro è andare bene a scuola".
Piano piano spegne la fiamma e il bambino vivo diventa un adulto morto.
Egon Schiele
poi arriva l'adulto con i suoi:
"non puoi capire", "è così e basta",
"quando crescerai capirai",
"ascolta quello che dico perchè sono più grande",
"zitto quando parlano i grandi",
"è così, è sempre stato così",
"il tuo lavoro è andare bene a scuola".
Piano piano spegne la fiamma e il bambino vivo diventa un adulto morto.
Egon Schiele
Egon Schiele: “Tutto nella vita è morte”
“Se intendo conoscermi interamente dovrò leggere in me stesso, dovrò sapere ciò che voglio, non soltanto quello che succede in me, bensì fino a che punto sono capace di vedere di che mezzi dispongo, di quali sostanze misteriose, di quanto di ciò che conosco, che finora ho riconosciuto in me, sono composto. Mi vedo evaporare ed esalare sempre di più, le vibrazioni della mia luce astrale diventato sempre più rapide, più immediate, più semplici e simili ad un’ampia comprensione del mondo. Così attingo da me stesso sempre di più, sempre altro, affinché l’amore che costituisce il tutto mi arricchisca e mi conduca verso quel punto da cui istintivamente vengo attratto”.
Inquieto, pessimista e dotato di un eccezionale vitalismo grafico, Egon Schiele affida al suo diario la sua concezione del mondo. Nato a Tulln nel 1890, il pittore austriaco è stato esponente assoluto del primo espressionismo viennese. Alla morte del padre, avvenuta nel 1905, Egon comincia a dipingere e l’anno successivo fa il suo ingresso all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Intollerante nei confronti degli insegnamenti che gli vengono impartiti, inizia ben presto a distaccarsene e a cercare ispirazione al di fuori, soprattutto all’interno dei Cafè. Ma è l’incontro con Gustav Klimt a segnare definitivamente il suo stile e la sua arte: entrambi nutrono un grande interesse nei confronti della raffigurazione del corpo umano. Mani secche, nodose, scheletriche. Nudi intrecciati in contorsioni acrobatiche, volti emaciati e sofferti. Un’umanità disperata e macabra di sopravvissuti, il volto intimo dell’impero austroungarico alla fine. I suoi magnifici disegni con tenere bambine nude, donne libere e sensuali con calze e stivali a coprire solo un pezzo di gamba, gli avevano procurato nel 1912 un’accusa grave da parte di un certo Von Mossig, ufficiale della marina in pensione. Schiele era stato incolpato di averne sedotto la figlia, una ragazzina neppure quattordicenne. Rinchiuso in prigione, affida alle pagine di un diario i suoi sentimenti, le sue angosce e le sue paure: «Devo vivere con i miei escrementi, respirarne l’esalazione velenosa e soffocante. Ho la barba incolta – non posso nemmeno lavarmi a modo. Eppure sono un essere umano! – anche se carcerato; nessuno ci pensa? ». Mentre scrive, abbozza velocemente la sua cella, il giaciglio in passa le notti insonni e, quasi a confortarlo, un’arancia posata sulle coperte sdrucite: «Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un’arancia brillante che mi ha portato è l’unica luce che risplenda in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile».
Alla fine viene assolto, ma i suoi disegni vengono giudicati pura e semplice pornografia: «Durante l’udienza, uno dei miei disegni confiscati, quello che avevo appeso nella mia stanza da letto, venne bruciato solennemente, dal giudice paludato nella sua toga, sulla fiamma d’una candela! Autodafé! Savonarola! Inquisizione! Medioevo! Castrazione, ipocrisia! Su, andate nei musei allora, e tagliate a pezzetti tutti i più grandi capolavori d’arte. Chi ripudia il sesso è un individuo sporco che diffama nella maniera più volgare i propri genitori che lo hanno generato».
Rientrato a Vienna riesce, grazie all’aiuto dell’amico Klimt, a reinserirsi nell’ambiente artistico. Le sue opere riflettono il suo pensiero: “Tutto nella vita è morte”. E difatti, i suoi impietosi e crudi segni riflettono la caducità della vita. Anche nei paesaggi, fitti di case arroccate, c’è la stessa, contratta espressione, lo stesso violento senso di oppressione.
Nel 1915 sposa Edith Arms. Da questo momento, il suo pessimismo si fa meno pesante: sembra che egli si apra alla speranza. Le sue immagini si fanno meno emaciate, i volti diventano più distesi, privi di quell’ansia soffocante che fino a quel momento li aveva caratterizzati. Questa felicità dura tuttavia molto poco: la febbre spagnola si abbatte come una furia e miete centinaia di vittime. La moglie del pittore, che aspettava un figlio, muore il 28 ottobre 1918. Egon le sopravvive solo tre giorni.
Di Laura Corchia
https://youtu.be/e0XR2wY_l8s
"Gli uomini disapprendono l'arte del dono. C'è qualcosa di assurdo e di incredibile nella violazione del principio di scambio; spesso anche i bambini squadrano diffidenti il donatore, come se il regalo non fosse che un trucco per vendere loro spazzole o sapone. In compenso si esercita la charity, la beneficenza amministrata, che tampona programmaticamente le ferite visibili della società. Nel suo esercizio organizzato l'impulso umano non ha più il minimo posto: anzi la donazione è necessariamente congiunta all'umiliazione, attraverso la distribuzione, il calcolo esatto dei bisogni, in cui il beneficato viene trattato come un oggetto. Anche il dono privato è sceso al livello di una funzione sociale, a cui si destina una certa somma del proprio bilancio, e che si adempie di mala voglia, con una scettica valutazione dell'altro e con la minor fatica possibile. La vera felicità del dono è tutta nell'immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l'altro come un soggetto: il contrario della smemoratezza".
https://youtu.be/e0XR2wY_l8s
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