Mi sentivo ed ero un libro con righe chiare di parole sensibili e taglienti. Nessuno sapeva intravederne la fragilità, si pungevano e andavano via. Sono stata e mi son sempre sentita come un libro aperto circondato da analfabeti.
Sylvia Plath
Poi lo sguardo mi scivolò oltre le persone sul bersaglio di verde dietro le tende trasparenti, ed ebbi l'impressione di essere nella vetrina di un grande magazzino. Le sagome intorno a me non erano persone, bensì manichini, dipinti in modo da assomigliare a persone e atteggiati in gesti che imitavano la vita.
Sylvia Plath
Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti appetitosi, i colori brillanti.
Il mio demone vorrebbe ucciderlo imponendogli di diventare perfetto e spingendolo a darsela a gambe se non ci dovesse riuscire. Mi ostinerò a fare del mio meglio, con coscienza, non importa quello che diranno gli altri. […] Io ho questo demone che vorrebbe scappare urlando se fossi sul punto di cedere, di fallire. Vuole farmi pensare di essere tanto brava da dover essere perfetta. O niente. Al contrario, io sono qualcosa: una persona che si stanca, che deve combattere la timidezza, che ha moltissimi problemi nell’affrontare il prossimo con disinvoltura.
Sylvia Plath
Sylvia Plath
Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti appetitosi, i colori brillanti.
Il mio demone vorrebbe ucciderlo imponendogli di diventare perfetto e spingendolo a darsela a gambe se non ci dovesse riuscire. Mi ostinerò a fare del mio meglio, con coscienza, non importa quello che diranno gli altri. […] Io ho questo demone che vorrebbe scappare urlando se fossi sul punto di cedere, di fallire. Vuole farmi pensare di essere tanto brava da dover essere perfetta. O niente. Al contrario, io sono qualcosa: una persona che si stanca, che deve combattere la timidezza, che ha moltissimi problemi nell’affrontare il prossimo con disinvoltura.
Sylvia Plath
«Proprio non imparavo mai: sempre a fabbricarmi scenari romantici di uomini che al primo incontro si innamorava pazzamente di me, e il tutto sulla base di pochi particolari terra terra»
Sylvia Plath, “La campana di vetro”
«Dunque, d’ora in poi parlerò ogni notte. Con me stessa. Con la luna. Passeggerò, come ho fatto stasera, gelosa della mia solitudine, nell’argenteo livido della fredda luna, che splende facendo brillare una miriade di scintille sui cumuli di neve appena caduta. Parlo da sola e guardo gli alberi scuri, beatamente neutrali. Molto più facile che affrontare gli altri, che dover sembrare felice, invulnerabile, brava. Senza la maschera, cammino parlando con la luna, con la forza neutrale e impersonale che non ascolta, ma si limita ad accettare la mia esistenza».
Sylvia Plath, “Diari”
«E quando finalmente trovi qualcuno su cui senti di poter riversare la tua anima, ti blocchi sconvolta dalle tue stesse parole: le hai tenute in quella piccola stretta oscurità dentro di te così a lungo, che sono arrugginite, brutte, banali, fiacche. Sì, l'allegria, l'autorealizzazione, lo stare insieme ci sono, ma la solitudine dell'anima, nella sua spaventosa autoconsapevolezza, è orribile, schiacciante».
Sylvia Plath, “Diari”
«Proprio non imparavo mai: sempre a fabbricarmi scenari romantici di uomini che al primo incontro si innamorava pazzamente di me, e il tutto sulla base di pochi particolari terra terra»
Sylvia Plath, “La campana di vetro”
Sylvia Plath, “Diari”
«E quando finalmente trovi qualcuno su cui senti di poter riversare la tua anima, ti blocchi sconvolta dalle tue stesse parole: le hai tenute in quella piccola stretta oscurità dentro di te così a lungo, che sono arrugginite, brutte, banali, fiacche. Sì, l'allegria, l'autorealizzazione, lo stare insieme ci sono, ma la solitudine dell'anima, nella sua spaventosa autoconsapevolezza, è orribile, schiacciante».
Sylvia Plath, “Diari”
Quello che mi spaventa di più, credo, è la morte dell'immaginazione.
Quando il cielo lassù è solo rosa e i tetti solo neri:
quella mente fotografica che paradossalmente dice la verità, ma una verità senza valore, sul mondo.
Io desidero quello spirito di sintesi, quella forza " plasmante" che germoglia, prolifica e crea mondi suoi con più inventiva di Dio. Se sto seduta ferma e non faccio niente, il mondo continua a battere come un tamburo lento, senza senso. Dobbiamo muoverci, lavorare, fare sogni da realizzare; la povertà della vita senza sogni è troppo orribile da immaginare: è il peggior tipo di pazzia.
Sylvia Plath, Diari, 25 Febbraio 1956
Quando il cielo lassù è solo rosa e i tetti solo neri:
quella mente fotografica che paradossalmente dice la verità, ma una verità senza valore, sul mondo.
Io desidero quello spirito di sintesi, quella forza " plasmante" che germoglia, prolifica e crea mondi suoi con più inventiva di Dio. Se sto seduta ferma e non faccio niente, il mondo continua a battere come un tamburo lento, senza senso. Dobbiamo muoverci, lavorare, fare sogni da realizzare; la povertà della vita senza sogni è troppo orribile da immaginare: è il peggior tipo di pazzia.
Sylvia Plath, Diari, 25 Febbraio 1956
«Sono solitaria come l’erba.
Che cos’è che mi manca?
Lo troverò mai, questo qualcosa che non so?».
Sylvia Plath
E allora impara a vivere. Tagliati una bella porzione di torta con le posate d’argento. Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. Apri gli occhi. Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada.
Sylvia Plath
Sylvia Plath
Un altro ramo è il mio futuro come scrittrice
ed ogni foglia una poesia
Un altro ancora è una brillante carriera accademica
e intanto che io resto seduta qui a decidere
le foglie diventano secche e volano via
finché l'albero non è completamente spoglio.
Sylvia Plath
Sylvia Plath - Io sono verticale
sono nessuno - Tu chi sei?
...non sono un albero con radici nel suolo, né sono la beltà di un’aiuola.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle, alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo, forse assomiglio a loro nel modo più perfetto.
Sylvia Plath - Io sono verticale
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
Succhiante minerali e amore materno
Così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un'aiuola
ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
E la cima d'un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell'uno la lunga vita, dell'altra mi manca l'audacia.
Stasera all'infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resterò sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno,
i fiori avranno tempo per me.
«I gatti hanno nove vite, dice il proverbio. Tu ne hai una: e in qualche parte del tenue, esile filo della tua esistenza c’è il nodo nero, il grumo di sangue, l’arresto del battito cardiaco che rappresenta la fine di questo particolare individuo che scrive « io » e « tu » e « Sylvia » […] Ti interroghi sui tuoi diciotto anni, oscillando fra l’ostinata convinzione di aver sfruttato al meglio le tue capacità e possibilità e la paura di non avere fatto abbastanza».
Sylvia Plath, “Diari”
«I gatti hanno nove vite, dice il proverbio. Tu ne hai una: e in qualche parte del tenue, esile filo della tua esistenza c’è il nodo nero, il grumo di sangue, l’arresto del battito cardiaco che rappresenta la fine di questo particolare individuo che scrive « io » e « tu » e « Sylvia » […] Ti interroghi sui tuoi diciotto anni, oscillando fra l’ostinata convinzione di aver sfruttato al meglio le tue capacità e possibilità e la paura di non avere fatto abbastanza».
Sylvia Plath, “Diari”
"Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più."
Sylvia Plath, Diari, traduzione di Simona Fefè, Adelphi, 1988
Non posso mai leggere tutti i libri che voglio.
Non posso mai essere tutte le persone che voglio
e vivere tutte le vite che voglio.
Non posso mai esercitarmi in tutte le abilità che voglio.
Io voglio vivere e sentire tutte le sfumature,i toni e le variazioni di tutte le esperienze
fisiche e mentali possibili nella vita.
E sono orribilmente limitata.
Sylvia Plat
Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l'Europa e l'Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n'erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell'albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finchè uno dopo l'altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi.»
Sylvia Plath, La campana di vetro (The Bell Jar), 1963
http://youtu.be/n3adPL8GotU
E quando finalmente trovi qualcuno su cui senti di poter riversare la tua anima, ti blocchi sconvolta dalle tue stesse parole: le hai tenute in quella piccola stretta oscurità dentro di te così a lungo, che sono arrugginite, brutte, banali, fiacche. Sì, l'allegria, l'autorealizzazione, lo stare insieme ci sono, ma la solitudine dell'anima, nella sua spaventosa autoconsapevolezza, è orribile, schiacciante.
Sylvia Plath
Tanta intelligenza e sensibilità su una bipolarità che la portò al suicidio.
La Plath soffriva di depressione e turbe psichiche.
Leggete "La campana di vetro".
Si e suicidata a soli trent'anni..
Da leggere l'unico racconto di questa poetessa: La campana di vetro...
Questo pezzo (che tra l'altro preferisco la traduzione di Simona Fefè che riesce a dare quella pennellata di poeticità che qui manca) appartiene alle prime pagine di uno dei diari che Sylvia Plath ha custodito ed elaborato principalmente come valvola di sfogo ed esercizio letterario fino alla morte. Quando lo ha scritto non aveva ancora conosciuto Ted, unico grande amore, ed aveva appena 18 anni. I diari sono testimonianza di un tormento interiore non ben definito: amori tormentati, amore/odio per sua madre, insoddisfazione sul piano letterario, ecc. In questi anni era fortemente pressata dall'esigenza di eccellere negli studi (per ottenere le borse) e nell'ambito letterario. Era una donna dal talento precoce e questo ha alimentato la sua estrema ambizione, era vulcanica, ma estremamente fragile. Lo stralcio qui riportato non appartiene a nessuno dei suoi momenti di delirio psicotico che si sono manifestati negli anni a venire: in maniera semplice e tragica come solo lei sa fare, ha elaborato la solitudine soverchiante di quel momento, di quella sera; e ha dato voce a un grido di aiuto disperato che ti conduce a un'alienazione volontaria dovuta principalmente ad una personale incomunicabilità verso un mondo che fa fatica ad ascoltarti
A me sembra che il messaggio sia chiaro: chi vive troppo a lungo in solitudine...non è più capace d'amare! E forse è così. Perchè per sopravvivere si impara ad amare solo se stessi,fare conto sulle proprie forze,non illudersi per non essere disillusi. L'amore è un sentimento strano...c'è chi ha la fortuna di averlo per tutta la vita...e chi lo fugge per non essere più ferito!
Un disagio psicologico dovuto all'abbandono, al non essere accettati, al rifiuto totale della persona. Succede anche oggi. E' bene NON colpevolizzarsi per questi vissuti spiacevoli sapendo che sono assolutamente "normali" e che procurano solo dolore e disperazione. Una grande donna tanto intelligente, quanto fragile.
Poetessa e scrittrice americana (1932-1963) 31 anni!
Sylvia Plath, La campana di vetro.
“Se mi avesse anche dato un biglietto per l'Europa o per una crociera intorno al mondo, non avrebbe fatto nessunissima differenza per me, perché dovunque sedessi o sul ponte di una nave oppure ad un caffè all'aperto di Parigi o Bangkok, sarei sempre rimasta là seduta sotto la medesima campana di vetro soffocando nella mia stessa aria viziata”.
Sono queste le parole con cui Sylvia Plath descrive uno dei momenti di massimo sconforto del suo personaggio, Esther Greenwood, brillante ragazza brava negli studi, ma estremamente confusa riguardo alla direzione da prendere nella vita che, dopo una serie di delusioni riguardo ad alcune persone e sulle proprie capacità, comincia a cadere nella spirale della depressione e a pensare costantemente all'idea del suicidio, un parallelo che si dimostrò purtroppo fin troppo realistico ad un mese dalla pubblicazione del romanzo, nel 1963, stampato sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, quando la stessa Sylvia Plath si suicidò, appena trentenne, lasciando due bambini, a pochi mesi dalla separazione dal marito Ted Hughes poiché questi aveva una relazione con un'altra donna. Solo dopo la morte di Sylvia Plath, nota già come poetessa, il suo primo e unico romanzo fu ristampato con il suo vero nome, ma sembra che contenesse tanti realistici dettagli della vita privata delle persone citate, talora con il loro stesso vero nome o facilmente riconoscibili all'epoca, da aver provocato più di un problema personale fra coloro che vi erano descritti e da aver spinto la madre e il marito a tentare di impedirne la pubblicazione negli Stati Uniti. La diciannovenne Esther ricorda inizialmente il periodo di apprendistato presso una rivista femminile, vinto tramite una borsa di studio, dopo il quale anziché trovare conferme della propria bravura, come durante il corso di studi, si trova invece in preda ad un forte disorientamento, nel quale l'unica cosa chiara sembra essere il desiderio di scrivere poesia. Sul lato privato, Esther sente una netto distacco da Buddy Willard, un ragazzo un tempo molto ammirato e che sembra desiderarla, ma di cui ora percepisce in pieno la falsità e il desiderio sotterraneo di minimizzare le sue capacità ed annullarla come persona. Quando ad Esther viene rifiutato un posto in un corso di scrittura tenuto da uno scrittore famoso, la ragazza comincia progressivamente a cadere in una spirale autodistruttiva, divenendo incapace di fare proprio ciò che più ama, e cominciando a pensare in maniera ossessiva al suicidio. Inizia quindi un tour di cure che comprende trattamenti brutali come l'elettroshock e la terapia con insulina allo scopo di provocare una reazione nell'organismo, tutte tecniche che oggi verrebbero viste come pura barbarie, descritte però con una sorta di ironico distacco, come se anche le più strane azioni od osservazioni appartenessero a qualcuno sconosciuto, di cui raccontare le gesta per darne in qualche modo una interpretazione. Sebbene Esther, che racconta in prima persona, ci lasci intuire la sua caduta, non ci parla di lacrime o di segni vistosi di dolore, ma di un senso di ottundimento, di un'aria soffocante sotto la sua campana di vetro, dove le si chiede di essere una donna interessata all'apparenza e alla superficialità dell'esistenza (trucchi, abiti, un marito da esporre come conquista sociale), ma non alla sua sostanza, alle cose che contano per lei, come ad esempio l'amatissima poesia o la capacità di mostrare un lato vero della propria personalità, come sembra incapace di fare ad esempio Buddy Willard, ipocrita patentato, sotterraneamente in rivalità con la stessa Esther. Un triste destino sembra essere riservato alle donne nel matrimonio, secondo quello che ha appurato Sylvia Plath, appena reduce da una sfortunata avventura matrimoniale, tanto che la scrittrice può far dire alla giovanissima Esther: “E sapevo che malgrado tutti i mazzi di rose e i baci e i pranzetti al ristorante che un uomo faceva piovere abbondantemente su una donna prima di sposarla, quello che egli segretamente voleva, appena fosse terminato il servizio nuziale, era di schiacciarla ben bene sotto i piedi come il tappetino della cucina della Willard”. Certo questa è una visione nata da una esperienza infelice, ma negli anni '60 forse accomunava non poche donne. “La campana di vetro” è uno strano, ma bellissimo romanzo che riesce a mescolare allo stesso tempo ironia e disperazione, dolore e scene buffe, attraverso la voce di Esther, così distaccata dal proprio senso di afflizione, in contrasto con un desiderio di vita che le fa dire, all'inizio del romanzo, “Volevo cambiamenti ed entusiasmo e partire io stessa in tutte quante le direzioni, come le frecce colorate da un razzo del 4 Luglio.”, da descrivere ciò che le accade e la trascina nella depressione come se fosse osservato dall'esterno, descrivendo tutto con scientifica precisione, quasi che esistessero due donne differenti a vivere la stessa vita nel medesimo corpo: una desiderosa di affrontare con entusiasmo e curiosità l'esistenza, l'altra continuamente in cerca della morte. Il finale è aperto, ma quello che accadrà poi ad Esther è in realtà intuibile fin dalle prime righe, in cui essa cita un fiore, preso da uno dei doni ricevuti durante un suo stage, ed utilizzato per un bambino, si suppone il suo. Il libro, che non a caso inizia citando un caso di condanna a morte, quello dei Rosenberg, mediante l'uso della sedia elettrica, per istituire un parallelo fra ciò a cui sono sottoposti i malati e chi è invece giudicato autore di un crimine (in entrambi i casi sottintendendo però l'innocenza ) è anche una vera e propria denuncia contro l'uso di mezzi come l'elettroshock nella cura delle malattie psichiatriche, capaci essi stessi di diventare fonte di estrema infelicità e terrore, anziché curare. “La campana di vetro” è paragonata a “Il giovane Holden” di Salinger, un parallelo che sembra essere molto comune nella critica ufficiale: in effetti ci sono molte somiglianze nello stile, come ad esempio l'ammiccamento al lettore con scene divertenti, ma in cui la protagonista agisce in maniera che potrebbe essere giudicata scorretta, ma a rendere vicini Holden e Esther è soprattutto il loro senso di smarrimento, il loro rifiutare di seguire i cartelli giganti e ben visibili lungo l'autostrada del conformismo per tentare di essere qualcuno che non è uguale a nessun altro, cioè se stessi. Quello di Holden è il conflitto, forse transitorio, di ogni adolescente per raggiungere la vita adulta, e lascia quindi ampio spazio alla speranza, quella di Esther invece è una guerra che sembra destinata a durare, di quelle che hanno già provocato molte sconfitte e il cui esito resta fino alla fine sempre incerto (da qui il finale aperto). (L’angolo di Jane, 6 maggio 2013)
Sono verticale Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo che succhia minerali e amore materno per poter brillare di foglie ogni marzo, e nemmeno sono la bella di un'aiola che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi, ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me, un albero è immortale,
la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente, e a me manca la longevità dell'uno e l'audacia dell'altra. Questa notte, sotto l'infinitesima luce delle stelle, alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi. Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota. A volte penso che è quando dormo che assomiglio loro più perfettamente - i pensieri offuscati. L'essere distesa mi è più naturale. Allora c'è aperto colloquio tra il cielo e me, e sarò utile quando sarò distesa per sempre: forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno tempo per me. Sylvia Plath (28 marzo 1961)
http://www.lutemilazzo.com/wordpress/wp-content/uploads/2014/02/Sylvia-Plath-La-campana-di-vetro.pdf
"QUARANTASEI anni dopo il suicido di sua madre, la poetessa Sylvia Plath, Nicholas Hughes si è impiccato nella sua casa in Alaska. Da anni combatteva contro la depressione. Aveva lasciato la cattedra di Scienze oceaniche all' università di Fairbanks per mettere su una fabbrica di ceramiche. Nicholas Hughes era nato 47 anni fa dal matrimonio fra la Plath e Ted Hughes, anche lui poeta. Non era sposato e non aveva figli. Si è ucciso il 16 marzo scorso, ma la notizia è stata diffusa l' altro ieri sul Times dalla sorella Frieda. Sylvia Plath si uccise nel 1963 con il gas. Sei anni dopo anche la nuova compagna di Ted Hughes, Assia Wevill, si tolse la vita allo stesso modo e morì anche la figlioletta della coppia. Sul poeta britannico cadde la colpa di aver spinto entrambe le donne al suicidio con i suoi adulteri. La sua versione dei fatti fu raccontata poco prima della morte, nel 1998, in Lettere di compleanno. Non deve essere facile trovare un posto nel mondo sapendo che tua madre si è tolta la vita quando tu eri poco più di un neonato. Ancor meno deve esserlo se lei lo ha fatto in cucina, infilando la testa nel forno mentre tu, ignaro, dormivi nella camera accanto insieme alla sorellina di due anni. Se poi il gesto estremo diventa un mito della letteratura moderna e trasforma tua madre in un oggetto di culto, vivere può rivelarsi intollerabile. Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, si è impiccato la scorsa settimana. Viveva immerso nei paesaggi aspri e selvaggi dell' Alaska. Aveva ereditato la passione per il mare e i pesci dal padre Ted che amava esaltare la potenza della natura nei suoi versi. Pare che nonostante tutto avesse mantenuto un entusiasmo e un' innocenza quasi infantili. Ma il difficile equilibrio deve essersi spezzato. I fantasmi del passato hanno preso il sopravvento. «Ha lottato per qualche tempo contro la depressione» spiega la sorella Frieda. Si dice spesso che la tendenza al suicidio sia ereditaria. Il caso di Sylvia Plath è però assai aggrovigliato e non può essere ridotto a una questione di tara genetica. Che la scrittrice soffrisse di manie depressive è fuor di dubbio, così com' è certo che i tre elettroshock cui fu sottoposta da ragazza non l' hanno aiutata. Furono tuttavia altre le questioni sollevate all' indomani del ritrovamento del cadavere, l' 11 febbraio 1963. Si parlò di pene d' amore, di tradimento, di un celebrato quanto egoista poeta inglese che aveva abbandonato una dotata quanto fragile poetessa americana per un' altra donna. Sylvia e Ted si erano conosciuti sette anni prima, a Cambridge. Nata a Boston, Sylvia era una studentessa brillante con una sfrenata ambizione di imporsi nel mondo letterario. Ted era invece un giovanotto inglese dai progetti ancora confusi ma aveva comunque pubblicato alcune poesie, oggetto d' ammirazione per Sylvia. Al loro primo incontro lui rimase abbagliato dalla frangetta alla Veronica Lake di lei. Lei gli recitò a memoria i suoi versi. Si trovavano a una festa. Lui la invitò a ballare. Si ubriacarono e si baciarono. E con ciò giunse il momento poi diventato leggenda: i denti di lei affondarono a tal punto nella guancia di lui da farla sanguinare. Nei castigati anni Cinquanta si veniva chiacchierati per molto meno. Nel giro di pochi mesi la coppia finisce all' altare. All' inizio è una luna di miele, uniti dalla passione per la letteraturai due fanno avanti e indietro tra l' America e il vecchio continente. Con la nascita dei figli arrivano però i problemi, e alla frustrante routine della maternità si aggiungono le scappa telle di Ted, che alla fine preferirà gettarsi tra le braccia di un' altra, Assia Wevill. Per Sylvia inizia un periodo di ristrettezze economiche ma anche di intensa attività che culmina nel 1963 con la pubblicazione sotto pseudonimo del romanzo La campana di vetro. L' accoglienza, pur non del tutto negativa, è tiepida e comunque inferiore alle speranzose attese dell' autrice, che sentiva la propria sensibilità schiacciata tra la voglia di affermarsi e il ruolo che la società del tempo imponeva a una donna. In capo a un mese, mette in camera i figli, sigilla porte e finestre della cucina, scrive un' ultima poesia e infila la testa nel forno. La tragedia ha un' assurda replica qualche tempo dopo. Perché il 23 marzo 1969, anche Assia Wevill si toglie la vita alla stessa maniera: con il gas del forno. Diversamente da Sylvia, però, decise di uccidere pure la figlia di quattro anni. L' ignominia si abbatté fatalmente su Ted Hughes. Il poeta fu accusato di essere un uomo dal cuore di pietra che aveva indotto due donne al suicidio; qualcuno tirò via a colpi di scalpello il suo cognome dalla tomba di Sylvia Plath. Lui si è chiuso in un impenetrabile silenzio finché non diede la propria versione dei fatti in una raccolta di poesie che fece scalpore. In una di queste, ricordando il primo momento d' amore con Sylvia, scrive: «Eri sottile, sinuosa, sfuggente come un pesce». Sinuosa e sfuggente come le creature amate da suo figlio Nicholas, verrebbe da aggiungere col senno di poi. Ma la catena dei suicidi è più lunga ancora. Nel 1974 si uccide con il gas Anne Sexton, amica di gioventù di Sylvia. Anni addietro, quando erano entrambe poetesse alle prime armi, si divertivano a chiacchierare al bar delle loro inclinazioni suicide. Chiacchierate che la Sexton ha rievocato in versi dopo la scomparsa di Sylvia: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /... la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry». I gas con cui anche lei, in seguito, si tolse la vita furono però quelli di scarico di un' automobile. Con macabra ironia qualcuno ha commentato che fu costretta a optare per il garage perché in America i forni erano ormai tutti elettrici. L' amante del marito, l' amica, il figlio. Un cerchio inquietante che trascende i legami di sangue. Cos' è dunque il suicidio? Una malattia contagiosa, una perversa tentazione che si trasmette alla maniera dei virus? Le paurose ragioni che spingono un essere umano a rincorrere un suo simile verso l' eterna notte sono fatte di mistero, ma devono somigliare molto alle parole che Sylvia Plath appuntò in un gelido giorno d' inverno: «Parlo a Dio ma il cielo è vuoto».
Repubblica, 24 marzo 2009 TOMMASO PINCIO-SYLVIA PLATH IL FANTASMA DI UNA MADRE
“Se mi avesse anche dato un biglietto per l'Europa o per una crociera intorno al mondo, non avrebbe fatto nessunissima differenza per me, perché dovunque sedessi o sul ponte di una nave oppure ad un caffè all'aperto di Parigi o Bangkok, sarei sempre rimasta là seduta sotto la medesima campana di vetro soffocando nella mia stessa aria viziata”.
Sono queste le parole con cui Sylvia Plath descrive uno dei momenti di massimo sconforto del suo personaggio, Esther Greenwood, brillante ragazza brava negli studi, ma estremamente confusa riguardo alla direzione da prendere nella vita che, dopo una serie di delusioni riguardo ad alcune persone e sulle proprie capacità, comincia a cadere nella spirale della depressione e a pensare costantemente all'idea del suicidio, un parallelo che si dimostrò purtroppo fin troppo realistico ad un mese dalla pubblicazione del romanzo, nel 1963, stampato sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, quando la stessa Sylvia Plath si suicidò, appena trentenne, lasciando due bambini, a pochi mesi dalla separazione dal marito Ted Hughes poiché questi aveva una relazione con un'altra donna. Solo dopo la morte di Sylvia Plath, nota già come poetessa, il suo primo e unico romanzo fu ristampato con il suo vero nome, ma sembra che contenesse tanti realistici dettagli della vita privata delle persone citate, talora con il loro stesso vero nome o facilmente riconoscibili all'epoca, da aver provocato più di un problema personale fra coloro che vi erano descritti e da aver spinto la madre e il marito a tentare di impedirne la pubblicazione negli Stati Uniti. La diciannovenne Esther ricorda inizialmente il periodo di apprendistato presso una rivista femminile, vinto tramite una borsa di studio, dopo il quale anziché trovare conferme della propria bravura, come durante il corso di studi, si trova invece in preda ad un forte disorientamento, nel quale l'unica cosa chiara sembra essere il desiderio di scrivere poesia. Sul lato privato, Esther sente una netto distacco da Buddy Willard, un ragazzo un tempo molto ammirato e che sembra desiderarla, ma di cui ora percepisce in pieno la falsità e il desiderio sotterraneo di minimizzare le sue capacità ed annullarla come persona. Quando ad Esther viene rifiutato un posto in un corso di scrittura tenuto da uno scrittore famoso, la ragazza comincia progressivamente a cadere in una spirale autodistruttiva, divenendo incapace di fare proprio ciò che più ama, e cominciando a pensare in maniera ossessiva al suicidio. Inizia quindi un tour di cure che comprende trattamenti brutali come l'elettroshock e la terapia con insulina allo scopo di provocare una reazione nell'organismo, tutte tecniche che oggi verrebbero viste come pura barbarie, descritte però con una sorta di ironico distacco, come se anche le più strane azioni od osservazioni appartenessero a qualcuno sconosciuto, di cui raccontare le gesta per darne in qualche modo una interpretazione. Sebbene Esther, che racconta in prima persona, ci lasci intuire la sua caduta, non ci parla di lacrime o di segni vistosi di dolore, ma di un senso di ottundimento, di un'aria soffocante sotto la sua campana di vetro, dove le si chiede di essere una donna interessata all'apparenza e alla superficialità dell'esistenza (trucchi, abiti, un marito da esporre come conquista sociale), ma non alla sua sostanza, alle cose che contano per lei, come ad esempio l'amatissima poesia o la capacità di mostrare un lato vero della propria personalità, come sembra incapace di fare ad esempio Buddy Willard, ipocrita patentato, sotterraneamente in rivalità con la stessa Esther. Un triste destino sembra essere riservato alle donne nel matrimonio, secondo quello che ha appurato Sylvia Plath, appena reduce da una sfortunata avventura matrimoniale, tanto che la scrittrice può far dire alla giovanissima Esther: “E sapevo che malgrado tutti i mazzi di rose e i baci e i pranzetti al ristorante che un uomo faceva piovere abbondantemente su una donna prima di sposarla, quello che egli segretamente voleva, appena fosse terminato il servizio nuziale, era di schiacciarla ben bene sotto i piedi come il tappetino della cucina della Willard”. Certo questa è una visione nata da una esperienza infelice, ma negli anni '60 forse accomunava non poche donne. “La campana di vetro” è uno strano, ma bellissimo romanzo che riesce a mescolare allo stesso tempo ironia e disperazione, dolore e scene buffe, attraverso la voce di Esther, così distaccata dal proprio senso di afflizione, in contrasto con un desiderio di vita che le fa dire, all'inizio del romanzo, “Volevo cambiamenti ed entusiasmo e partire io stessa in tutte quante le direzioni, come le frecce colorate da un razzo del 4 Luglio.”, da descrivere ciò che le accade e la trascina nella depressione come se fosse osservato dall'esterno, descrivendo tutto con scientifica precisione, quasi che esistessero due donne differenti a vivere la stessa vita nel medesimo corpo: una desiderosa di affrontare con entusiasmo e curiosità l'esistenza, l'altra continuamente in cerca della morte. Il finale è aperto, ma quello che accadrà poi ad Esther è in realtà intuibile fin dalle prime righe, in cui essa cita un fiore, preso da uno dei doni ricevuti durante un suo stage, ed utilizzato per un bambino, si suppone il suo. Il libro, che non a caso inizia citando un caso di condanna a morte, quello dei Rosenberg, mediante l'uso della sedia elettrica, per istituire un parallelo fra ciò a cui sono sottoposti i malati e chi è invece giudicato autore di un crimine (in entrambi i casi sottintendendo però l'innocenza ) è anche una vera e propria denuncia contro l'uso di mezzi come l'elettroshock nella cura delle malattie psichiatriche, capaci essi stessi di diventare fonte di estrema infelicità e terrore, anziché curare. “La campana di vetro” è paragonata a “Il giovane Holden” di Salinger, un parallelo che sembra essere molto comune nella critica ufficiale: in effetti ci sono molte somiglianze nello stile, come ad esempio l'ammiccamento al lettore con scene divertenti, ma in cui la protagonista agisce in maniera che potrebbe essere giudicata scorretta, ma a rendere vicini Holden e Esther è soprattutto il loro senso di smarrimento, il loro rifiutare di seguire i cartelli giganti e ben visibili lungo l'autostrada del conformismo per tentare di essere qualcuno che non è uguale a nessun altro, cioè se stessi. Quello di Holden è il conflitto, forse transitorio, di ogni adolescente per raggiungere la vita adulta, e lascia quindi ampio spazio alla speranza, quella di Esther invece è una guerra che sembra destinata a durare, di quelle che hanno già provocato molte sconfitte e il cui esito resta fino alla fine sempre incerto (da qui il finale aperto). (L’angolo di Jane, 6 maggio 2013)
Sono verticale Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo che succhia minerali e amore materno per poter brillare di foglie ogni marzo, e nemmeno sono la bella di un'aiola che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi, ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me, un albero è immortale,
la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente, e a me manca la longevità dell'uno e l'audacia dell'altra. Questa notte, sotto l'infinitesima luce delle stelle, alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi. Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota. A volte penso che è quando dormo che assomiglio loro più perfettamente - i pensieri offuscati. L'essere distesa mi è più naturale. Allora c'è aperto colloquio tra il cielo e me, e sarò utile quando sarò distesa per sempre: forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno tempo per me. Sylvia Plath (28 marzo 1961)
http://www.lutemilazzo.com/wordpress/wp-content/uploads/2014/02/Sylvia-Plath-La-campana-di-vetro.pdf
"QUARANTASEI anni dopo il suicido di sua madre, la poetessa Sylvia Plath, Nicholas Hughes si è impiccato nella sua casa in Alaska. Da anni combatteva contro la depressione. Aveva lasciato la cattedra di Scienze oceaniche all' università di Fairbanks per mettere su una fabbrica di ceramiche. Nicholas Hughes era nato 47 anni fa dal matrimonio fra la Plath e Ted Hughes, anche lui poeta. Non era sposato e non aveva figli. Si è ucciso il 16 marzo scorso, ma la notizia è stata diffusa l' altro ieri sul Times dalla sorella Frieda. Sylvia Plath si uccise nel 1963 con il gas. Sei anni dopo anche la nuova compagna di Ted Hughes, Assia Wevill, si tolse la vita allo stesso modo e morì anche la figlioletta della coppia. Sul poeta britannico cadde la colpa di aver spinto entrambe le donne al suicidio con i suoi adulteri. La sua versione dei fatti fu raccontata poco prima della morte, nel 1998, in Lettere di compleanno. Non deve essere facile trovare un posto nel mondo sapendo che tua madre si è tolta la vita quando tu eri poco più di un neonato. Ancor meno deve esserlo se lei lo ha fatto in cucina, infilando la testa nel forno mentre tu, ignaro, dormivi nella camera accanto insieme alla sorellina di due anni. Se poi il gesto estremo diventa un mito della letteratura moderna e trasforma tua madre in un oggetto di culto, vivere può rivelarsi intollerabile. Nicholas Hughes, figlio di Sylvia Plath, si è impiccato la scorsa settimana. Viveva immerso nei paesaggi aspri e selvaggi dell' Alaska. Aveva ereditato la passione per il mare e i pesci dal padre Ted che amava esaltare la potenza della natura nei suoi versi. Pare che nonostante tutto avesse mantenuto un entusiasmo e un' innocenza quasi infantili. Ma il difficile equilibrio deve essersi spezzato. I fantasmi del passato hanno preso il sopravvento. «Ha lottato per qualche tempo contro la depressione» spiega la sorella Frieda. Si dice spesso che la tendenza al suicidio sia ereditaria. Il caso di Sylvia Plath è però assai aggrovigliato e non può essere ridotto a una questione di tara genetica. Che la scrittrice soffrisse di manie depressive è fuor di dubbio, così com' è certo che i tre elettroshock cui fu sottoposta da ragazza non l' hanno aiutata. Furono tuttavia altre le questioni sollevate all' indomani del ritrovamento del cadavere, l' 11 febbraio 1963. Si parlò di pene d' amore, di tradimento, di un celebrato quanto egoista poeta inglese che aveva abbandonato una dotata quanto fragile poetessa americana per un' altra donna. Sylvia e Ted si erano conosciuti sette anni prima, a Cambridge. Nata a Boston, Sylvia era una studentessa brillante con una sfrenata ambizione di imporsi nel mondo letterario. Ted era invece un giovanotto inglese dai progetti ancora confusi ma aveva comunque pubblicato alcune poesie, oggetto d' ammirazione per Sylvia. Al loro primo incontro lui rimase abbagliato dalla frangetta alla Veronica Lake di lei. Lei gli recitò a memoria i suoi versi. Si trovavano a una festa. Lui la invitò a ballare. Si ubriacarono e si baciarono. E con ciò giunse il momento poi diventato leggenda: i denti di lei affondarono a tal punto nella guancia di lui da farla sanguinare. Nei castigati anni Cinquanta si veniva chiacchierati per molto meno. Nel giro di pochi mesi la coppia finisce all' altare. All' inizio è una luna di miele, uniti dalla passione per la letteraturai due fanno avanti e indietro tra l' America e il vecchio continente. Con la nascita dei figli arrivano però i problemi, e alla frustrante routine della maternità si aggiungono le scappa telle di Ted, che alla fine preferirà gettarsi tra le braccia di un' altra, Assia Wevill. Per Sylvia inizia un periodo di ristrettezze economiche ma anche di intensa attività che culmina nel 1963 con la pubblicazione sotto pseudonimo del romanzo La campana di vetro. L' accoglienza, pur non del tutto negativa, è tiepida e comunque inferiore alle speranzose attese dell' autrice, che sentiva la propria sensibilità schiacciata tra la voglia di affermarsi e il ruolo che la società del tempo imponeva a una donna. In capo a un mese, mette in camera i figli, sigilla porte e finestre della cucina, scrive un' ultima poesia e infila la testa nel forno. La tragedia ha un' assurda replica qualche tempo dopo. Perché il 23 marzo 1969, anche Assia Wevill si toglie la vita alla stessa maniera: con il gas del forno. Diversamente da Sylvia, però, decise di uccidere pure la figlia di quattro anni. L' ignominia si abbatté fatalmente su Ted Hughes. Il poeta fu accusato di essere un uomo dal cuore di pietra che aveva indotto due donne al suicidio; qualcuno tirò via a colpi di scalpello il suo cognome dalla tomba di Sylvia Plath. Lui si è chiuso in un impenetrabile silenzio finché non diede la propria versione dei fatti in una raccolta di poesie che fece scalpore. In una di queste, ricordando il primo momento d' amore con Sylvia, scrive: «Eri sottile, sinuosa, sfuggente come un pesce». Sinuosa e sfuggente come le creature amate da suo figlio Nicholas, verrebbe da aggiungere col senno di poi. Ma la catena dei suicidi è più lunga ancora. Nel 1974 si uccide con il gas Anne Sexton, amica di gioventù di Sylvia. Anni addietro, quando erano entrambe poetesse alle prime armi, si divertivano a chiacchierare al bar delle loro inclinazioni suicide. Chiacchierate che la Sexton ha rievocato in versi dopo la scomparsa di Sylvia: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /... la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry». I gas con cui anche lei, in seguito, si tolse la vita furono però quelli di scarico di un' automobile. Con macabra ironia qualcuno ha commentato che fu costretta a optare per il garage perché in America i forni erano ormai tutti elettrici. L' amante del marito, l' amica, il figlio. Un cerchio inquietante che trascende i legami di sangue. Cos' è dunque il suicidio? Una malattia contagiosa, una perversa tentazione che si trasmette alla maniera dei virus? Le paurose ragioni che spingono un essere umano a rincorrere un suo simile verso l' eterna notte sono fatte di mistero, ma devono somigliare molto alle parole che Sylvia Plath appuntò in un gelido giorno d' inverno: «Parlo a Dio ma il cielo è vuoto».
Repubblica, 24 marzo 2009 TOMMASO PINCIO-SYLVIA PLATH IL FANTASMA DI UNA MADRE
Storia di una malattia del corpo o di una malattia dell' anima? Certamente Storia dell' Esistere e del male di quell' Esistere che spesso assale e pervade tutti: anche gli "apparentemente sani".
Grazie per questa condivisione forte e bellissima.
Meraviglioso! "Vorrei tanto sdraiarmi per terra e sentire le farfalle posarsi sul mio corpo"...
Il dolore o ci eleva o ci sotterra, e tutto quello che ci spinge ad attraversarlo se non è amore non può che divenire odio.Un fremito è vivere. Dolore, piacere, desiderio, sussulto estremo del nostro divenire incontro al ricongiungimento con la nostra vera natura eterna che ci invoca di restituirci ad se. Adoriamola e tornero a noi stessi.
"Quando l'essere umano riscopre il legame naturale che lo collega al tutto, e il suo spirito è limpido come un cielo azzurro, in quell'istante la sua saggezza raggiunge la vetta che noi possiamo solo sognare"...
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