"Non darmi, ti prego, un’etichetta fissa che sia impossibile togliermi di dosso. Io mi modifico incessantemente, sul ritmo delle mille situazioni in cui mi mette la vita di ogni giorno. Avvicinati quindi a me con stupore e meraviglia, e studia il mio viso, le mie mani, la mia voce per scorgere in essi i segni del mio cambiamento: perché non c’è dubbio che da ieri ad oggi io sia cambiato. Ma anche se questo lo riconosci, può accadere che io abbia paura a dirti chi sono."
John Powell
Etichettare significa trattare una persona come fosse una cosa: classificarla e archiviarla. Usarla..
purtroppo troppo spesso ci si basa sulle "prime" impressioni e poi si continuano a "vedere" le persone con questi occhi, forse e' troppo difficile e faticoso guardare "oltre" o forse siamo solo un po' troppo "superficiali"
Raperonzolo
Questa è una favola... una favola dei fratelli Grimm, leggermente modificata. C'era una volta, così sembra, una giovane ragazza di nome Raperonzolo. Era tenuta prigioniera in una torre da una vecchia e brutta strega, dall'aspetto veramente repellente. La vecchia strega ripeteva sempre alla giovane e bella Raperonzolo: "Sei brutta come me, Raperonzolo!" Non essendoci specchi nella torre, Raperonzolo era sicura di essere brutta. Non aveva mai cercato di lasciare la torre, temendo che la sua bruttezza avrebbe fatto allontanare gli altri. Un giorno il principe azzurro arrivò sul suo cavallo bianco, mentre la giovane Raperonzolo era affacciata alla finestra della torre per prendere una boccata d'aria fresca. Si scambiarono un sorriso e fu amore a prima vista. Raperonzolo gettò le sue lunghe trecce bionde dalla finestra (le estremità, naturalmente, rimasero attaccate alla sua testa) e il principe azzurro, avendo fatto il boy scout, le intrecciò come una scaletta e salì. Quando i loro occhi si trovarono a pochi centimetri di distanza, Raperonzolo scoprì in quelli luminosi del principe azzurro di essere bellissima. Così si paracadutarono subito dalla finestra della torre e vissero per sempre felici e contenti.
Io penso che abbiamo tutti bisogno degli occhi di un altro per vedere la nostra bellezza. Come dice una canzone: Non sei nessuno finché qualcuno non ti ama. Mi chiedo: i miei occhi riflettono a coloro che mi sono intorno la loro bellezza?".
Ciò che io sono, in qualunque momento del processo del divenire una persona, sarà determinato dalla mia relazione con coloro che mi amano o rifiutano di amarmi, con coloro che io amo o rifiuto di amare.
Pag. 28
L'uovo dell'aquila
Un indiano d'America trovò un uovo d'aquila per terra, fuori dal nido. Egli cercò il nido, ma non riuscì a trovarlo, poiché le aquile costruiscono i nidi in cima agli alberi. Così, con le migliori intenzioni, l'indiano mise l'uovo nel nido di un pollo della prateria e lì esso si schiuse. Quando l'aquila uscì dall'uovo, si guardò intorno per vedere come comportarsi. Vide gli altri polli della prateria che si alzavano un metro da terra e poi, gracchiando, raspavano il terreno. Così si mise a fare la stessa cosa. Quasi alla fine della sua vita, vide un uccello che volava orgoglioso al di sopra della sua testa. Domandò con meraviglia "Cos'è quello?" e un pollo a lui accanto gli rispose "Quella, amico mio, è un'aquila, ma non farti venire in mente di riuscire a fare ciò che fa lei. Lei vola su fino al sole, ma tu sei un pollo della prateria come tutti noi". La storia finisce male: l'aquila muore pensando di essere un pollo della prateria. Gli essere umani sono molto simili: se ci diciamo di essere polli, ci solleveremo solo un metro da terra. Ma, se dicessimo a qualcuno che è un'aquila, be', forse riuscirebbe a volare fino al Sole.
Siamo specchi l'uno per l'altro.
Pag. 126
Cercatori di bene, pagg. 124 - 125
Alcuni anni fa, un gruppo di ricercatori decise di studiare la felicità con un metodo puramente scientifico. Così selezionarono le 100 persone più felici e contente che riuscissero a trovare. Intervistarono queste 100 persone felici e inserirono le loro interviste nel computer, con lo scopo di trovare che cosa avessero in comune. All'inizio furono messi un po' fuori strada dal fatto che il 70 per cento di essi proveniva da piccole città con meno di 15.000 abitanti. Proprio quando erano sul punto di rinunciare scoprirono che il 100 per cento di queste persone aveva veramente qualcosa in comune. Erano tutti classici "cercatori di bene". (Gli scienziati dovettero inventarsi questo termine per descrivere questa qualità). Cercavano il bene in se stessi, negli altri e in tutte le situazioni della vita. Tornando a noi, una delle vicine università mi avrebbe dato una laurea ad honorem in cambio di un discorso di inizio anno. Fui naturalmente ben contento di farlo. Così improntai il mio discorso d'inizio anno sui "cercatori di bene". Sollecitai i laureandi a diventare cercatori di bene, perché ero sicuro che sarebbero stati più felici. Circa due mesi dopo, ricevetti la lettera di una di quei laureati. Mi diceva che, quel giorno, suo padre aveva fatto tantissime foto alla cerimonia di laurea e alla festa che c'era stata dopo, per scoprire, solo alla fine della giornata, che non c'era il rullino dentro la macchina fotografica. Dopo avermi raccontato questo, concluse scrivendo: "La sfido ad essere un cercatore di bene in questa occasione e a trovarci del bene". Le scrissi: "Pensa all'umiltà che tuo padre ha guadagnato da questo errore. Eccolo lì, padre di una laureata, ma incapace di mostrare le foto a causa di una sua svista. E pensa alla meravigliosa opportunità per te di accettare le sue scuse e perdonarlo".
C'è una promessa in ogni problema, un arcobaleno dopo ogni temporale, il calore in ogni inverno.
Cercatori di bene, pagg. 124 - 125
La morte di Marilyn Monroe
Ci sono molte storie plausibili riguardo la morte di questa diva. Una di queste rivela che abbia telefonato a un divo del cinema e gli abbia detto di avere appena assunto una dose letale di sonnifero. Usando le parole di Rhett Butler in Via col vento, questo le rispose: "Francamente, mia cara, non mi interessa". Marilyn gettò il telefono a terra. E così lei morì. Quando la sua cameriera scoprì il corpo, il mattino seguente, trovò il telefono a terra accanto al letto. Le ultime parole che aveva udito erano state: "Non mi interessa". Non me ne importa niente. Claire Boothe Luce ha scritto un pezzo tagliente per la rivista Life, intitolato "Ciò che veramente ha ucciso Marilyn". Nell'articolo diceva che il telefono in terra era in qualche maniera stranamente simbolico della vita di Marilyn e di tutte le vite umane.
Pag. 14
Stiamo tutti cercando e sperando che a qualcuno possa interessare. Non siamo mai meno che degli individui, ma non siamo mai solamente individui. Nessun uomo è un'isola.
Ray Charles e la cecità
Ray Charles era un grande pianista e cantante non vedente. Ho assistito a una sua intervista che vale la pena di riportare. L'intervistatore gli chiese: "Ho sentito dire che se Dio le volesse restituire la vista, lei non accetterebbe. È vero?" Il pianista-cantante confermò che si trattava della verità. Disse: "Quando non si vede, si apprezzano di più gli altri e talvolta la tua vita viene toccata da persone meravigliose, che magari non sono confezionate meravigliosamente, ma se sei cieco non lo sai. Ad esempio, quando uno dei miei figli mi sale in grembo, io sento solo che c'è qualcuno lì che mi ama e che io amo. Se vedessi, probabilmente noterei lo sporco sui suoi vestiti o sulle sue scarpe. E forse direi: Vai a pulirti, prima di venirmi in braccio. Ma io non lo vedo come bianco o negro, pulito o sporco. Sento solo su di me 33 chili d'amore".
Forse non mi sarei ricordato di questa intervista, se un medico oculista non mi avesse detto anni fa: "Ci sono probabilità che lei diventi cieco, un giorno". Infatti, oggi lo sono. Sto già curando con attenzione la poca vista che mi è rimasta. Cerco di imprimere bene nella mia mente il cielo, le foglie, i laghi, e penso al giorno in cui questi panorami potranno non esserci più. Questo pensiero mi rende triste. Poi ricordo le parole di Ray Charles.
Suicidio per annegamento
Anni fa scrissi un piccolo libro intitolato Touched by God, dove parlavo di come Dio ha toccato la mia vita. Ricevetti allora una lettera che catturò in modo particolare la mia attenzione. Questa persona raccontava di aver vissuto una vita "cattiva" e di aver concluso che ci fosse un unico modo per fermare tutto questo male, cioè il suicidio. L'autrice della lettera aveva deciso la morte per annegamento. Una mattina all'alba, aveva passeggiato in riva all'oceano, mentre le spiagge erano deserte. Aveva camminato lungo la riva sabbiosa, dando un lento addio a tutti coloro che aveva conosciuto. Improvvisamente, una voce forte, imperiosa ma gentile, le disse di fermarsi, voltarsi e guardare verso il basso. Lei vide che l'oceano aveva cancellato le sue impronte. "Ti sto chiamando a vivere e ad amare, non a morire", continuò la strana voce, "Come l'oceano ha cancellato le tue impronte, così il mio amore e la mia pietà hanno cancellato i tuoi peccati. Ti sto chiamando a vivere e ad amare".
L'autrice della lettera ammetteva di non aver condiviso prima questa esperienza con nessuno, per due motivi: "Il primo motivo è che si tratta di una faccenda profondamente personale ed il secondo è che la mia vita si basa su quell'unica esperienza e non voglio che qualcuno la minimizzi dicendo: Non volevi morire e ti sei inventata una voce."
L'ultimo capitolo
Nel 1995 mi sono ritirato dall'insegnamento. La mia intenzione era di continuare a parlare pubblicamente e a scrivere. Benché avessi avuto alcuni impedimenti fisici, non ritenevo che avrebbero potuto rallentarmi molto. Chi mi conosce mi ha sempre considerato come una persona dall'energia illimitata. Intorno ai vent'anni, mi fu diagnosticata una malformazione genetica che comportava una graduale perdita della vista. Dalla diagnosi iniziale, non avevo notato rilevanti cambiamenti con il passare degli anni. Pensavo di essere fortunato. Ho anche avuto episodi di perdita dell'equilibrio, ma riuscivo a compensare abbastanza bene questa situazione, ogni volta che avveniva. Facevo ancora delle vasche in piscina e andavo in ufficio a scrivere. Ma i miei anni sfortunati stavano per cominciare: l'udito iniziò a diminuire; avevo bisogno di una protesi all'anca; mi dissero che avevo il diabete; sia gli occhi sia l'equilibrio peggiorarono. Uno dei medici che consultai disse che la carne al fuoco era talmente tanta che avrebbe potuto definire il mio caso "Sindrome di Powell". Durante questi anni difficili, mi mantenevo attivo. Non credo che qualcuno di noi smetta mai di pensare a se stesso come giovane, eppure prima o poi la fantasia e la realtà non coincidono più. Me ne resi conto nel 2000, quando arrivò per me il momento di ritirarmi in una casa di cura per gesuiti. È stata dura per me lasciare la mia famiglia e gli amici di Chicago, ma l'addio più duro è stato alla mia idea di essere ancora giovane e indipendente. Per anni avevo fatto terapia alle persone parafrasando Viktor Frankl: "Non chiedete alla vita, lasciate che la vita chieda a voi". Così, adesso sto seguendo i miei stessi consigli. Ora chiedo a Dio che cosa quest'ultimo capitolo della vita abbia da insegnarmi. Comincio a vedermi gradualmente ritornare al primo capitolo della mia vita. E ascolto le storie di Dio su quanto siamo amati tutti i giorni della nostra vita.
John Powell, L'ultimo capitolo, pagg. 140 - 141
https://it.wikiquote.org/wiki/John_Powell
https://books.google.it/books?id=KAx3AqGvDX4C&pg=PA146&lpg=PA146&dq=%22John+Powell%22+Storie+dal+mio+cuore&source=bl&ots=mLOO2c9w7-&sig=YcRRjTL87BrnLV5W5kDJqTjq5l0&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjpzLLV1OPKAhUH7g4KHf8MBrYQ6AEIMDAD#v=onepage&q=%22John%20Powell%22%20Storie%20dal%20mio%20cuore&f=false
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