Cuore di creta.
Molto spesso, ammirando una scultura, si resta affascinati non solo da ciò che rappresenta ma anche dal lavoro dell’artista che essa sottende e che sembra ai più un misterioso miracolo. Il raggiungimento di un risultato finale in scultura implica in effetti una serie di passaggi intermedi piuttosto complessi con l’ausilio di materiali diversi da quello definitivo. Conoscere la tecnica e la sua storia consente allora di penetrare un poco i segreti dell’arte plastica e con ciò di assaporare meglio l’abilità e il genio dell’artefice. “Stile” ha già affrontato questo tema approfondendo la tecnica del gesso; ora è la volta della terracotta. Rivolgiamo alcune domande sull’argomento a Bruce Boucher, docente di Storia dell’arte all’University College di Londra, nonché esperto di scultura italiana e curatore di varie mostre sull’argomento.
Professor Boucher, ci illustri per cominciare qualche caratteristica tecnica: ovvero, come si ottiene la terracotta dall’argilla e quali sono gli aspetti positivi per un artista che lavora questo materiale.
L’argilla è la materia più comune per lo scultore ed è anche tra le più antiche. Si trova diffusamente in natura, ed essendo una materia fittile è facile da plasmare. Occorre tuttavia fare molta attenzione, perché bisogna calcolare che il manufatto si ritira e si riduce di dimensioni quando si asciuga, a causa dell’evaporazione dell’acqua, e così pure quando si cuoce per ottenere la terracotta, che è un tipo di ceramica. Vi si possono inoltre applicare i colori ed eventualmente degli smalti per ottenere una finitura affascinante, simile ad un dipinto. Naturalmente l’argilla cotta diventa più robusta, e la sua resistenza può persino essere millenaria.
Dal punto di vista storico, l’impiego della terracotta per la scultura risale all’antichità, ma in Italia si assiste ad un uso massiccio del materiale dal XIV secolo circa. A cosa si deve questa intensificazione nell’utilizzo? Ci può fare qualche esempio di scultura dell’epoca sopravvissuta fino ad oggi?
A cavallo tra il Trecento e il Quattrocento, l’importazione in Italia di maiolica (il cui nome deriva da una distorsione del nome dell’isola di Majorca) sembra avere stimolato l’industria locale, soprattutto nelle zone dove vi era una certa carenza di pietra come materia prima. Si trattava soprattutto delle Marche, della Lombardia e del Piemonte, dove le maestranze svilupparono un interesse in altre forme d’arte plastica, tra cui appunto la ceramica. Al Museo Diocesano di Ancona, ad esempio, si trova una statua di San Marcellino. Quando essa fu scoperta, negli anni Trenta del secolo scorso, si pensò che fosse un lavoro del Quattrocento, ma studi recenti hanno accertato che risale ai primi anni del Trecento. Dai manoscritti, sappiamo anche dell’esistenza di tombe della stessa epoca, che non sono sopravvissute ma che testimoniano l’ampia produzione di opere in ceramica in quella zona. Non bisogna dimenticare poi che a Firenze, nei primi anni del Quattrocento, vi era il grande esempio della bottega di Lorenzo Ghiberti, che fu un vero e proprio laboratorio, sia del marmo che della terracotta, per tanti scultori rinomati come Donatello, Michelozzo e via dicendo. La lavorazione della creta era oltretutto fondamentale nella produzione delle formelle per i grandi portali del Battistero fiorentino. Secondo molti studiosi del Novecento, tra cui Wilhelm Bode, terrecotte come la “Creazione di Eva”, del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, erano esattamente una sorta di prova, nel processo di esecuzione delle formelle e delle statue bronzee del circolo ghibertiano.
La divisione rinascimentale tra arti maggiori e arti minori relegò la terracotta nella sfera dei materiali meno nobili e, come sottolineava il Vasari, appropriata soprattutto per i bozzetti e i modelli preparatori all’esecuzione in bronzo o in marmo. Quali erano, allora, i vari passaggi adottati da Donatello o dal Giambologna prima di realizzare l’opera finale?
Sicuramente Vasari ha contribuito a sottovalutare le opere in creta o in qualsiasi altro materiale che non fosse il marmo, secondo una scala di valori che vedeva in testa il mito della scultura “in levare” di Michelangelo; e questa visione ha poi influenzato per secoli la lettura della scultura quattrocentesca. In realtà in quel secolo non vi era affatto disprezzo per la creta, e neppure per lo stucco. Oggi sappiamo che Donatello lavorava con materie diverse, spesso addirittura utilizzate insieme (un fatto questo che Vasari ignorava) come nella “Madonna Piot” (1460) del Louvre: e sappiamo che queste nuove tecniche erano ben accolte dai conoscitori. Per esempio, Lamberti lodava le tecniche di Brunelleschi e Donatello come “arti e scienze mai viste” nella sua premessa al “Della pittura” del 1436. Ovviamente tutti i grandi scultori impiegavano la creta come prima traduzione dell’idea, che poi sviluppavano in versioni sempre più grandi. Le terrecotte del Quattrocento rimaste sono raramente studi: sono quasi tutte o modelli finiti dell’opera, pronti per essere traslati in marmo o bronzo, oppure opere devozionali (rilievi o busti di Gesù Bambino, di San Giovannino, e cosi via). Dal Cinquecento in avanti invece si cominciarono a conservare anche i bozzetti e i modelli in creta a grandezza naturale, quali studi anatomici dal vero, secondo l’uso accademico.
I bozzetti e i modelli avevano un loro mercato?
Sì, certo, dal tempo di Michelangelo e Giambologna in poi i bozzetti diventano oggetto di collezionismo. In particolare, i committenti del Giambologna raccoglievano i suoi modellini in cera e creta, e sappiamo da fonti contemporanee che un personaggio come Bernardo Vecchietti aveva intere camere dedicate ad essi. Questo fatto è molto importante perché indica un cambiamento nel gusto, dovuto all’apprezzamento degli “studi preparatori”. Il collezionismo di bozzetti in terracotta era di fatto parallelo a quello dei disegni su carta. Una tendenza che, d’altra parte, aveva precedenti nell’antichità se, come narra Plinio nella “Storia naturale”, i bozzetti di importanti scultori greci erano più apprezzati delle opere finite di altri artisti mediocri.
La terracotta continuò comunque ad avere impieghi diversi: nella realizzazione di copie, ma anche come materiale definitivo per decorazioni murarie degli edifici, oppure – invetriata o smaltata o magari semplicemente colorata – per simulare altri materiali (il legno o il bronzo) o per essere più “verosimile”, come nei magnifici quadri viventi del Sacro Monte di Varallo. Può farci qualche altro esempio in proposito?
Le prime formelle ed i primi bassorilievi in terracotta spesso venivano smaltati come i vasi. Il fatto è che gli scultori si rivolgevano ai vasai per la cottura dei loro manufatti, così come alle fonderie per la fusione dei bronzi. Era una competenza tecnica specifica, ma la divisione tra le arti era allora piuttosto fluida. Interessante è ugualmente il collegamento tra scultura e architettura. Basta pensare a Giuliano, Benedetto e Giovanni da Maiano, famiglia che aveva una bottega di scultura e architettura: qui come altrove la collaborazione era all’ordine del giorno. E così pure i Sangallo rivelavano analoga capacità di passare dalla scultura all’architettura. Quanto al Sacro Monte di Varallo, vi era una grande tradizione di artisti in grado di lavorare una gamma di materiali differenti, come Gaudenzio Ferrari nel Cinquecento e poi i fratelli Tanzio ed Enrico da Varallo nel Seicento. Una tradizione risalente ancora prima, ai tempi di Niccolò dell’Arca e Guido Mazzoni in Emilia Romagna. In epoca barocca, la complessità delle opere richiedeva molti bozzetti e modelli preparatori. Sono rimasti vari esempi di questo genere, eseguiti da Bernini e da Algardi per opere famose: bozzetti che consentono oltretutto di osservare più da vicino le diverse modalità di lavoro e lo stile dei due grandi artisti. Quali sono le differenze e le analogie più interessanti?
Nella mostra “Earth and Fire”, attualmente in corso a Londra, abbiamo riunito per la prima volta sette angeli del Bernini, provenienti da musei di Roma, Parigi, San Pietroburgo, e dall’America. Osservandoli, si capisce immediatamente che a Bernini non interessava l’opera finita: anzi, ogni modellino o bozzetto era una specie di studio in cui l’artista si concentrava su un aspetto saliente del progetto (il panneggio, il contrappunto, ecc.). Le altre parti di creta erano lasciate incompiute e crude. Bernini non si curava affatto della cottura di questi oggetti (le indagini più recenti hanno svelato che la cottura di molti suoi bozzetti è postuma, voluta per renderli più duraturi). L’atteggiamento dell’Algardi era invece molto diverso. Egli lavorava la creta in modo più meticoloso e puntuale, e non lasciava mai abbozzi simili a quelli berniniani. Un aspetto tipico della sua personalità artistica, coerente con la produzione generale.
Nel Settecento, invece, si deve soprattutto a Canova il rinnovamento dell’idea di bozzetto e di opera finita. Ma si tratta altresì di un cambiamento che riguarda l’intera concezione della “bottega”. A cosa si deve questa evoluzione, e quali furono le novità rispetto all’epoca precedente?
Nel Settecento si assiste ad una crescita del valore della terracotta in sé. Molti scultori realizzarono opere finite, spesso simulando un bozzetto, per renderle più attraenti. Il lavoro del Clodion (che trascorse molti anni a Roma) è indicativo di questa tendenza. Altri scultori, come Filippo della Valle, vendettero repliche delle proprie statue in terracotta quali souvenir ai viaggiatori del Grand Tour. Sempre secondo il “culto dello schizzo”, studiosi come Winckelmann esprimevano una preferenza per il primo pensiero anziché per l’opera finita. Winckelmann sosteneva infatti che la lavorazione in creta era come la prima spremitura dell’uva, e quindi la più fresca espressione della mente dell’artista. Con Canova, invece, iniziò la pratica dei modellini in stucco piuttosto che in terracotta (soprattutto dopo il 1800), e la sperimentazione del calco in gesso come metodo per conservare i bozzetti, rendendo duraturo il gesto originale, di cui si potevano fare oltretutto diverse repliche; ma, allo stesso tempo, il modello originale in creta veniva distrutto nel processo di formatura. Per ciò sono rimasti assai pochi bozzetti in terracotta (tra cui, per esempio, quelli della “Maddalena penitente”, del 1793). E proprio questo è stato il momento che segna il tramonto della grande tradizione della terracotta nella scultura italiana.
(Stile Arte,01.03.2002)
http://www.stilearte.it/cuore-di-creta/
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