Johann Gottlieb Fichte. Intuire è il sogno, pensare è il sogno di quel sogno.
“In nessun luogo vi è qualcosa di duraturo, né fuori di me, né in me, ma soltanto un cangiamento incessante. In nessun luogo so dell’esistenza di un essere e neppure del mio proprio. Non vi è alcun essere. – ‹Io stesso› non so in generale nulla e non sono nulla. Esistono le ‹immagini›: esse sono l’unica cosa che esiste, ed esse sanno di sé, al modo delle immagini: – immagini che trapassano, senza che vi sia qualcosa dinnanzi a cui trapassano; che stanno insieme in virtù di immagini, senza che vi sia in esse qualcosa di riprodotto, senza significato e scopo. Io stesso sono una specie di queste immagini; anzi io stesso non lo sono, ma sono soltanto una immagine confusa delle immagini. – Ogni realtà si cangia in un miracoloso sogno, senza una vita della quale si sogni, e senza uno spirito che sogni; in un sogno il quale ha il suo principio di unità in un sogno di se stesso. L’‹intuire› è il sogno: il pensare – la sorgente di ogni essere e di ogni realtà ch’io mi immagino, del ‹mio› essere, della mia forza, dei miei scopi, – è il sogno di quel sogno.”
JOHANN GOTTLIEB FICHTE (1762 – 1814), “La missione dell’uomo” (1800), a cura, trad. e introduzione di Remo Cantoni, Laterza, Bari 1970 (II ed., I ed. 1944), Libro secondo ʻSapereʼ, p. 102.
“ ‹Ich›. Es giebt überall kein Dauerndes, weder ausser mir, noch in mir, sondern nur einen unaufhörlichen Wechsel. Ich weiss überall von keinem Seyn, und auch nicht von meinem eigenen. Es ist kein Seyn. – ‹Ich selbst› weiss überhaupt nicht, und bin nicht. ‹Bilder› sind: sie sind das Einzige, was da ist, und sie wissen von sich, nach Weise der Bilder: – Bilder, die vorüberschweben, ohne dass etwas sey, dem sie vorüberschweben; die durch Bilder von den Bildern zusammenhängen, Bilder, ohne etwas in ihnen Abgebildetes, ohne Bedeutung und Zweck. Ich selbst bin eins dieser Bilder; ja, ich bin selbst dies nicht, sondern nur ein verworrenes Bild von den Bildern. – Alle Realität verwandelt sich in einen wunderbaren Traum, ohne ein Leben, von welchem geträumt wird, und ohne einen Geist, dem da träumt; in einen Traum, der in einem Traume von sich selbst zusammenhängt. Das ‹Anschauen› ist der Traum; das ‹Denken›, – die Quelle alles Seyns und aller Realität, die ich mir einbilde, ‹meines› Seyns, meiner Kraft, meiner Zwecke, – ist der Traum von jenem Traume.ˮJOHANN GOTTLIEB FICHTE, “Die Bestimmung des Menschenˮ (in der Vossischen Buchhandlung, Berlin 1800), in “Fichtes Werkeˮ, herausgegeben von Immanuel Hermann Fichte, de Gruyter, Berlin 1971 (Erste Auflage), Band II ʻZur theoretischen Philosophieʼ, II, Zweites Buch ʻWissenʼ, S. 245.
Johann Gottlieb Fichte. Il dotto
e le facoltà sociali della recettività e della comunicabilità.
“ 9.- IL DOTTO È DESTINATO ALLA
SOCIETÀ: anzi egli, come dotto, assai più dell'appartenente ad ogni altro ceto,
ESISTE PROPRIAMENTE SOLO MEDIANTE LA SOCIETÀ E PER LA SOCIETÀ: quindi egli, in
modo particolarissimo, ha il precipuo DOVERE DI SVILUPPARE IN SÉ, AL PIÙ ALTO
GRADO POSSIBILE, LE CARATTERISTICHE FACOLTÀ SOCIALI DELLA ‘RECETTIVITÀ E DELLA
COMUNICABILITÀ’. E in lui la recettività dovrebbe già essere sviluppata in modo
considerevole, s’egli ha seriamente acquistato le debite cognizioni empiriche.
Egli deve infatti, almeno nei limiti della sua scienza, CONOSCERE PER OGNI COSA
QUANTO È STATO CONQUISTATO PRIMA DI LUI: e di ciò egli può esser informato solo
con l’immediato INSEGNAMENTO ORALE, o con quello mediato ATTRAVERSO I LIBRI,
non mai con riflessioni dedotte da puri principi di ragione. Ma egli deve pure
conservarsi duttile tale facoltà recettiva, col CONTINUARE COSTANTEMENTE AD
APPRENDERE, EVITANDO COSÌ DI CHIUDERSI IN QUELL’ISOLAMENTO MENTALE,
INDIFFERENTE DI FRONTE AI PUNTI DI VISTA ED ALLE OPINIONI ALTRUI, che
costituisce un difetto abbastanza diffuso e che si riscontra talora in PENSATORI
EMINENTI, QUANTO SOLITARI: difatti NESSUNO È TANTO ISTRUITO DA NON AVERE ANCORA
ALTRO DA APPRENDERE, in particolare da apprendere talvolta qualcosa di molto
necessario; e d’altra parte, raramente v’è qualcuno così ignorante da non poter
dire, anche all’uomo più dotto, qualcosa che questi non sa. LA FACOLTÀ
COMUNICATIVA è poi sommamente NECESSARIA AL DOTTO, poiché EGLI POSSIEDE LA
SCIENZA NON PER SÉ, MA PER LA SOCIETÀ. Egli ha pertanto il dovere di esercitare
questa facoltà fin dalla giovinezza e di tenerla in continuo esercizio ‘con i
mezzi’ che indicheremo.
[…]
12.- IL FINE ULTIMO DI CIASCUN
INDIVIDUO, COME DI TUTTA QUANTA LA SOCIETÀ E QUINDI ANCHE DI OGNI ATTIVITÀ CHE
IL DOTTO ESPLICA IN MEZZO ALLA SOCIETÀ, È L’ELEVAZIONE MORALE DELL’UOMO INTERO.
È dovere del dotto di prefiggersi sempre questo FINE ULTIMO e di tenerlo
costantemente presente come motivo ispiratore di ogni suo sforzo rivolto alla
società. Ma NON PUÒ LAVORARE CON SUCCESSO PER L’ELEVAZIONE MORALE ALTRUI, CHI
GIÀ PER SE STESSO NON È MORALMENTE BUONO. NOI NON INSEGNIAMO SOLTANTO CON LA
PAROLA; INSEGNIAMO ANCHE, E ASSI PIÙ EFFICACEMENTE, COL NOSTRO ESEMPIO; perciò
chiunque vive nella società ha nei suoi rispetti il DOVERE DI DARE UN BUON
ESEMPIO, poiché LA FORZA DELL’ESEMPIO SORGE PRECISAMENTE DAL NOSTRO CONCRETO
VIVERE IN MEZZO ALLA SOCIETÀ. E quanto più imperiosamente non ha tale dovere il
dotto che in tutti i rami della cultura deve essere alla testa degli altri ceti
sociali! Ma se egli rimane indietro nella PERFEZIONE MORALE, in ciò che v’è di
più alto e di più nobile, in quello che è IL FINE CUI TENDE TUTTA LA CULTURA,
in che maniera potrà egli, com’è pur suo dovere, ESSERE DI ESEMPIO AGLI ALTRI?”
JOHANN GOTTLIEB FICHTE (1762 –
1814), “Lezioni sulla missione del dotto”(Lezioni tenute nel semestre estivo
del 1794, presso l’Università di Jena), a cura, trad. e introd. di Emilio
Cassetti, con in appendice un capitolo del Curatore, ‘Concetto e funzione della
cultura’, Laterza, Bari 1960 (I ed. 1948), Lezione IV ‘La missione del dotto’,
9., pp. 132 – 133 - 12., pp. 138 – 139.
E' con l'attività morale, infatti, che l'Io supera ogni limite, vince ogni ostacolo che gli impedisce di essere pienamente se stesso. L'io, se rinunciasse alla lotta e si adeguasse al non-io, riconoscendolo come realtà data ed estranea a sè, sarebbe determinato dalla natura, dal mondo delle cose e rinnegherebbe se stesso. L'uomo deve vivere in società per farsi libero e rendere liberi gli altri e più è dotto più ha consapevolezza di essere parte dell'io puro. Annullando i propri interessi personali, ha il dovere di porre la sua cultura a disposizione del popolo, di cui diventa così guida e maestro. [...]
Ma, come è noto, passati i 40 anni, Fichte cambiò radicalmente parere e scrisse, a disdetta della Missione del dotto, la Destinazione dell'Uomo, con la quale affermò il destino trascendente e non trascendentale dell'esperienza umana e l' assoluto e irrelato significato dell'essere 'coscienza', dunque la sua sostanziale estraneità a qualunque ordine sociale e significato terreno.
” Der Gelehrte ist ganz
vorzüglich für die Gesellschaft er stimmt: er ist, insofern er Gelehrter ist,
mehr als irgend ein Stand, ganz eigentlich nur durch die Gesellschaft und für
die Gesellschaft da; er hat demnach ganz besonders die Pflicht, die
gesellschaftlichen Talente, ‘Empfänglichkeit’ und ‘Mittheilungsfertigkeit’,
vorzüglich und in dem höchstmöglichen Grade in sich auszubilden. Die Empfänglichkeit
sollte in ihm, wenn er auf die gehörige Art sich die gehörigen empirischen
Kenntnisse erworben hat, schon vorzüglich ausgebildet seyn. Er soll bekannt
seyn mit demjenigen in seiner Wissenschaft, was schon vor ihm da war: das kann
er nicht anders als durch Unterricht – sey es nun mündlicher oder
Bücherunterricht, – gelernt, nicht aber durch Nachdenken aus blossen
Vernunftgründen entwickelt haben. Aber er soll durch stetes Hinzulernen sich
diese Empfänglichkeit erhalten; und sich vor der oft, und bisweilen bei
vorzüglichen Selbstdenkern, vorkommenden gänzlichen Verschlossenheit vor
fremden Meinungen und Darstellungsarten zu verwahren suchen; denn niemand ist
so unterrichtet, dass er nicht immer noch hinzulernen könnte, und bisweilen
noch etwas sehr nöthiges zu lernen hätte; und selten ist jemand so unwissend,
dass er nicht selbst dem Gelehrtesten etwas sollte sagen können, was derselbe
nicht weiss. Der Mittheilungsfertigkeit bedarf der Gelehrte immer; denn er
besitzt seine Kenntniss nicht für sich selbst, sondern für die Gesellschaft. Diese hat er von Jugend auf zu üben,
sie hat er in steter Thätigkeit zu erhalten, – ‘durch welche Mittel’, werden
wir zu seiner Zeit untersuchen.
[…]
Der letzte Zweck jedes einzelnen Menschen
sowohl, als der ganzen Gesellschaft, mithin auch aller Arbeiten des Gelehrten
an der Gesellschaft, ist sittliche Veredlung des ganzen Menschen. Es ist die
Pflicht des Gelehrten, diesen letzten Zweck immer aufzustellen, und ihn bei
allem, was er in der Gesellschaft thut, vor Augen zu haben. Niemand aber kann
mit Glück an sittlicher Veredlung arbeiten, der nicht selbst ein guter Mensch
ist. Wir lehren nicht bloss durch Worte; wir lehren auch weit eindringender
durch unser Beispiel; und jeder, der in der Gesellschaft lebt, ist ihr ein
gutes Beispiel schuldig, weil die Kraft des Beispiels erst durch unser Leben in
der Gesellschaft entsteht. Wie vielmehr ist der Gelehrte dies schuldig, der in
allen Stücken der Cultur den übrigen Ständen zuvor seyn soll! Ist er in dem
ersten und höchsten, demjenigen, was auf alle Cultur abzweckt, zurück, wie kann
er Muster seyn, das er doch seyn soll; und wie kann er glauben, dass die
anderen seinen Lehren folgen werden, denen er vor aller Augen durch jede
Handlung seines Lebens widerspricht?”
JOHANN GOTTLIEB FICHTE, “ Einige Vorlesungen
über die Bestimmung des Gelehrten”(Die Vorlesungen wurden im Sommersemester
1794 an der Universität Jena gehalten. Erstdruck: Gabler, Jena 1794), in “J. G.
Fichtes sämmtliche Werke”, Band 6, Berlin 1845 – 1846, 4. “Ueber die
Bestimmung des Gelehrten”, Seite 330; Seiten 332–333.
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