LA GRANDE MELA
New York è una città degli Stati Uniti, una delle più grandi e più famose del mondo intero.
Affaccia sull’Oceano Atlantico, ed è stata la porta verso il nuovo mondo e una nuova vita nei lunghi anni del fenomeno dell’immigrazione. Ad accogliere milioni di disperati, che da lontano partivano affrontando il viaggio della speranza, la Statua della Libertà, simbolo del “sogno americano”. La città di New York è anche conosciuta con un altro simbolo: essa è definita “la Grande Mela”. Nel 1909, Edward S. Martin nel suo libro “The Wayfarer in New York” definì lo stato di New York come un melo con le radici piantate nella valle del Mississipi e il frutto, la mela, a New York. Negli Anni ’20, il termine fu ripreso dal cronista sportivo John Fitzgerald, riferendo come per gli scommettitori di corse di cavalli, New York fosse "la mela" (cioè il frutto) più ricca per i guadagni. Intanto, l’idea dell’identificazione col frutto prendeva sempre più piede, considerando che i musicisti jazz, durante il proibizionismo, suonavano nei locali di Harlem e Manhattan e ricevevano come ricompensa una grande mela rossa. Da qui l’affermarsi di questo soprannome. Fino a quando, nel 1997, il sindaco della città, Rudolph Giuliani, denominò "Big Apple Corner" l'angolo tra la 54° West Street e Broadway, dove il giornalista John J. Fitzgerald aveva abitato, per rendergli omaggio.
Se il "frutto" della civiltà occidentale per antinomasia è New York, uno dei posti meno rappresentativi della natura, ove cemento, grattacieli e consumi di energia sono vertiginosi da molti molti anni ormai, se tale "frutto" simbolico nasce da una similitudine con un albero, e se tale "frutto" sia proprio una mela, ossia simbolo del peccato originale nei testi sacri della religione cristiana, quella prevalente a New York, è facile associare quella città al declino culturale, ambientale e morale che stiamo vivendo. A New York il dominio del potere, del controllo delle risorse e delle decisioni su come impiegarle sono senza dubbio sotto gli occhi di tutti: imparare a vedere le cose come stanno è necessario per progredire...
Quando penso a questa città, dove sono nato e cresciuto, questa Manhattan di cui canta Whitman, una rabbia cieca, incandescente, mi sfiora le budella. New York. Le prigioni bianche, i marciapiedi brulicanti di vermi, le file del pane, gli spacci d'oppio costruiti come palazzi, gli sporchi ebrei che ci stanno dentro, i lebbrosi, sicari, e sopra tutto, l'ennui, la monotonia dei volti, strade, gambe, case, grattacieli, pasti, manifesti, mestieri, delitti, amori... Una città intera eretta sopra una vuota fossa di nullità. Senza significato. Assolutamente senza significato. E la Quarantaduesima Strada! La vetta del mondo, la chiamano. E il fondo allora dov'è? Se vai con la mano tesa, ti mettono cenere nel berretto. Ricchi o poveri, camminano con la testa buttata all'indietro e quasi si rompono l'osso del collo per levare lo sguardo sulle loro bellissime prigioni bianche. Vanno avanti come oche cieche e i riflettori spandono sui loro volti vuoti chiazze di estasi.
Henry Miller, Tropico del Cancro
“Immagino che le strade d’America si uniscono tutte a formare una enorme latrina, una latrina dello spirito in cui tutto è assorbito e ridotto a merda imperitura. Sopra a questa latrina lo spirito del lavoro intesse una magia: palazzi e fabbriche spuntano fianco a fianco, polverifici e stabilimenti chimici e acciaierie e sanatori e prigioni e manicomi. Tutto il continente è un incubo che produce la più gran miseria per la più grande massa.”
Henry Miller, "Tropico del Capricorno"
L'uomo bianco è come un serpente che si mangia la coda per vivere.
E la coda diventa sempre più corta.
Le nostre usanze sono diverse dalle vostre.
Noi non viviamo bene nelle vostre città, che sembrano un'infinità
di nere verruche sulla faccia della terra.
La vista delle città dell'uomo bianco fa male agli occhi dell'uomo rosso
come la luce del sole che colpisce gli occhi di chi emerge da una grotta buia.
Nelle città dell'uomo bianco ci si sforza sempre di superare in velocità una valanga.
Il rumore sembra perforare le orecchie.
Ma che senso ha di vivere se non si riesce a sentire
il verso solitario del tordo o il gracidare delle rane di notte intorno ad uno stagno?
Ma io sono un uomo rosso e non capisco.
Io preferisco il vento che dardeggia sulla superficie di uno stagno
e il profumo del vento stesso, purificato da uno scroscio di pioggia a mezzogiorno.
L'aria è preziosa per l'uomo rosso, perchè tutte le cose condividono lo stesso respiro;
gli animali, gli alberi, e l'uomo, partecipano tutto dello stesso respiro.
L'uomo bianco non si preoccupa dell'aria fetida che respira.
Come un uomo che ormai soffre da molti giorni, è insensibile al tanfo.
Tutte le cose sono collegate.
Tutto ciò che accade alla terra accade ai figli e alle figlie della terra.
L'uomo non ha intrecciato il tessuto della vita;
ne è solamente un filo.
Tutto ciò che egli fa al tessuto, lo fa a se stesso.
IL DIO DELL'UOMO BIANCO GLI DIEDE IL POTERE SUGLI ANIMALI,
SUI BOSCHI E SULL'UOMO ROSSO, per qualche scopo preciso,
ma questo destino è un mistero per l'uomo rosso.
Noi forse potremmo arrivare a capire se sapessimo che cosa sogna l'uomo bianco,
quali sono le speranze di cui parla ai propri figli nelle lunghe notti d'inverno,
quali sono le visioni che marcano a fuoco i suoi occhi e che questi desidereranno
all'indomani.
I sogni dell'uomo bianco sono ignoti, noi ce ne andremo sulla nostra strada.
Capo seattle degli Suquamish 1853.