La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni.
Alexander Dubcek
Il ’68 in Cecoslovacchia: l’inverno sovietico e la Primavera di Praga.
Per quanto sia lungo l’Inverno, alla fine arriva la Primavera.
Il 5 gennaio del 1968, dopo il lungo e spietato inverno sovietico, la primavera del blocco orientale era arrivata a Praga. Di fronte a una stagione di cambiamenti imprevista e incontrollabile, l’Urss non seppe fare di meglio che inviare l’Armata Rossa a marciare sulla Cecoslovacchia, per calpestare senza pietà quei germogli di novità. Era la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968: si concludeva così la breve stagione della Primavera di Praga. Ma più in profondità, alla radice delle cose, si apriva una crepa nel monolitico inverno sovietico: i semi di Praga non erano stati gettati invano.
La Storia è nota. Alla fine del 1967, il consenso intorno al segretario del Partito comunista cecoslovacco, il filo-sovietico Antonín Novotný, è ai minimi storici. Le sue politiche di matrice stalinista, con epurazioni dei dissidenti e gravissime limitazioni alle libertà di espressione e stampa sul modello dell’Urss, gli hanno alienato a tal punto il consenso del Paese che quando il presidente sovietico Leonid Brežnev gli fa visita in dicembre non trova altra soluzione che sostituirlo con un uomo più liberale e innovatore.
Il 5 gennaio 1968 diviene quindi segretario del Partito Alexander Dubček, affiancato nei mesi successivi dal nuovo presidente della Repubblica Ludvík Svoboda (in carica dal 22 marzo) e dal Primo Ministro Oldřich Černík (a partire dall’8 aprile). Questi tre uomini politici – su impulso costante di Dubček – avviano una stagione di riforme della vita pubblica cecoslovacca sintetizzate nel Piano d’azione dell’aprile ’68, un documento che il Partito avrebbe poi ratificato nel settembre dello stesso anno. Numerose le liberalizzazioni previste dal Piano, a partire dall’incremento delle libertà di stampa, espressione e associazione, alla possibilità di una maggior concorrenza economica, fino all’apertura politica a partiti diversi da quello comunista.
Il Piano di Dubček prevedeva anche la limitazione del potere della polizia segreta, nonché la federalizzazione del Paese in due Stati (ceco e slovacco). Quanto alla politica estera, al mantenimento delle relazioni di cooperazione con l’Urss e il blocco orientale si sarebbero dovuti affiancare anche buoni rapporti con le nazioni occidentali. La transizione verso quello che veniva definito “Socialismo dal volto umano” avrebbe richiesto nelle intenzioni di Dubček circa dieci anni.
L’intento non era quello di superare il modello socialista, bensì di rinnovarlo dall’interno in senso più liberale, con l’obiettivo di costruire il primo esperimento al mondo di democrazia socialista. Questo perché, diceva Dubček, «Socialismo non può significare solo liberazione dei lavoratori dalla dominazione delle relazioni con la classe sfruttatrice, ma deve garantire una realizzazione della personalità più completa di quella assicurata da qualunque democrazia borghese».
Nella sua opera riformatrice, il governo guidato da Dubček procedeva con cautela e moderazione, con l’obiettivo di non suscitare reazioni da parte dell’Urss, che guardava con crescente preoccupazione alla Cecoslovacchia. Tuttavia, la popolazione e il ceto intellettuale (riunito intorno alla rivista Literární listy), esasperati dai lunghi anni di Novotný, chiedevano al governo maggiore coraggio. Le istanze di rinnovamento più radicale furono racchiuse nel manifesto delle Duemila parole, che il giornalista Ludvík Vaculík rese pubblico il 27 giugno ’68.
Il fermento politico e culturale cecoslovacco suscitava risentimenti e sospetti in Urss: Brežnev temeva che le richieste di libertà di Praga si sarebbero espanse agli altri Paesi del blocco orientale, intaccando l’egemonia sovietica. A Dubček non bastò condannare pubblicamente le Duemila parole, né ottenere le rassicurazioni del presidente sovietico nell’incontro del 3 agosto a Bratislava, con la tensione tra i due Paesi ormai già alle stelle.
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto i carri armati dell’Urss e di quattro alleati del blocco (Bulgaria, Germania Est, Ungheria e Polonia) invasero la Cecoslovacchia. Sotto gli occhi preoccupati del mondo intero, andava in scena la brutale repressione della Primavera di Praga, che in una notte volgeva improvvisamente al termine. Nei primi giorni dell’invasione morirono 72 cecoslovacchi (il totale delle vittime sarebbe arrivato a più di 200 tra invasori e manifestanti), mentre Dubček invitava la popolazione a non opporre resistenza.
Le testimonianze dell’aggressione che si diffondono sulla stampa di tutto il mondo descrivono una situazione atipica, del tutto inedita nella storia: i cecoslovacchi, sentendosi traditi da coloro che consideravano gli “amici” sovietici, reagiscono con decisione ma in modo non violento, cercando sistematicamente il confronto con gli invasori. «L’indignazione è macchina di saldezza per questo popolo [...] interprete di un dramma eroico che desta lo stupore del mondo e maestro nella tecnica della pazienza e della non violenza», scrive il corrispondente dell’Espresso Angelo Maria Ripellino il 1° settembre ’68, appena tornato in Italia dopo una rocambolesca fuga da Praga.
Dello stesso tenore la testimonianza di Umberto Eco, trovatosi direttamente coinvolto negli eventi della capitale cecoslovacca: «La gente parla in russo coi soldati, gli chiede perché sono lì. I soldati rispondono che a Praga c’è il colpo di Stato fascista, la gente ride, qualcuno sale su e li prende per il bavero e gli mostra la città, altri tirano fuori la tessera del partito. I russi sorridono imbambolati, qualcuno discute, [...] rispondono alle domande, intavolano la discussione. [...] Così incomincio a rendermi conto che questa è una cosa diversa, non ha precedenti storici [...], perché la gente ha volti tristi, [...] la tensione è spasmodica, ma la città brulica di folla come a una festa patronale, e ogni carro armato è un comizio».
«Tutta la gente con cui ho parlato – scrive ancora Eco, riportando il pensiero di un cecoslovacco – dava per scontato il socialismo, e all’interno del socialismo rivendicava rapporti diversi, e denunciava una politica autoritaria, ed ora è finita, ma è grave per tutto il mondo socialista, perché la nostra tragedia metterà in crisi anche gli altri. [...] 550mila soldati di cinque Paesi diversi sono stati praticamente inviati a Praga per subire un corso rapido di indottrinamento politico da un milione di soldati Svejk. Non so cosa porteranno a casa, ma è certo che questa armata ha avuto oggi la sua borsa di studio per un corso accelerato di democrazia».
Con l’andare dei mesi e il perdurare dello stallo, la popolazione cecoslovacca diventa sempre più insofferente nei confronti dell’invasore sovietico (che non se ne andrà fino al 1991). La protesta non violenta raggiunge l’apice il 16 gennaio 1969, quando il giovane studente Jan Palach si dà fuoco in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione ricordando il rogo di Jan Hus, teologo boemo arso vivo nel 1415 dopo essere stato dichiarato eretico dalla Chiesa cattolica durante il Concilio di Costanza.
Il gesto di Jan Palach, che muore il 19 gennaio, non resta isolato: un altro studente lo emula infatti appena quattro giorni dopo. Il presidente Svoboda riceve la notizia in diretta tv: «Apprendo in questo momento la tremenda notizia che un altro ragazzo ha tentato di uccidersi allo stesso modo [di Jan Palach], bruciandosi vivo a Plzeň. Si chiamava Josef Hlavatý». E gli occhi di Svoboda – racconta Angelo Maria Ripellino – si erano visti luccicare di lacrime.
Il controllo dei sovietici sulla Cecoslovacchia si fa via via più oppressivo. Pur avendo approvato in settembre il proprio Piano d’azione in un congresso clandestino del Partito comunista, Dubček è costretto a reintrodurre la censura e fare numerosi passi indietro rispetto al suo programma di liberalizzazioni. Al termine di un crepuscolo durato otto mesi, la Primavera di Praga lascia definitivamente spazio a un nuovo inverno il 17 aprile del 1969: dopo che il 28 e 29 marzo la popolazione cecoslovacca era insorta per la prima volta in modo violento, festeggiando la vittoria della propria squadra di hockey su quella dell’Urss ai Mondiali di Stoccolma (l’evento verrà ricordato come la “notte dell’hockey” ), Dubček è costretto a dimettersi, sostituito dal filo-sovietico Gustáv Husák che avvierà la stagione della “normalizzazione” della Cecoslovacchia.
A suggellare la fine dei sogni praghesi è l’ennesimo rogo di uno studente: il giovane Jan Zajic si dà fuoco il 25 febbraio in piazza San Venceslao lasciando queste parole, vero e proprio testamento ideale della Primavera di Praga: «So quale ferita io vi porto con questo gesto, ma non adiratevi con me. Non lo faccio perché mi nausei la vita, ma proprio perché la stimo troppo. Con la mia azione forse vi assicuro un migliore destino. Conosco il prezzo della vita e so che è il più grande che ci sia. Ma io voglio molto, e perciò devo pagare molto. Dopo la mia azione non cedete alla grettezza. Non dovete mai conciliarvi con l’ingiustizia, qualunque essa sia. La mia morte vi lega a questo impegno».
Ma l’inverno non può durare per sempre. L’apertura portata nella politica sovietica da Mikhail Gorbachev e il successivo crollo dell’Urss hanno permesso a Dubček di tornare sulla scena politica alla fine degli anni ’80, guidando la Cecoslovacchia al rovesciamento del regime comunista con la Rivoluzione di Velluto (1989) e alla successiva transizione verso la democrazia. Un messaggio di speranza valido anche per la Primavera Araba: se i fiori più fulgidi delle rivoluzioni possono essere strappati, i germogli che portano prima o poi producono frutti. E a quel punto la Primavera può arrivare davvero.
Di Luca Rasponi
http://www.discorsivo.it/magazine/2013/03/26/il-68-in-cecoslovacchia-linverno-sovietico-e-la-primavera-di-praga/
In ricordo di Jan Palach
Alexander Dubcek
Il ’68 in Cecoslovacchia: l’inverno sovietico e la Primavera di Praga.
Per quanto sia lungo l’Inverno, alla fine arriva la Primavera.
Il 5 gennaio del 1968, dopo il lungo e spietato inverno sovietico, la primavera del blocco orientale era arrivata a Praga. Di fronte a una stagione di cambiamenti imprevista e incontrollabile, l’Urss non seppe fare di meglio che inviare l’Armata Rossa a marciare sulla Cecoslovacchia, per calpestare senza pietà quei germogli di novità. Era la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968: si concludeva così la breve stagione della Primavera di Praga. Ma più in profondità, alla radice delle cose, si apriva una crepa nel monolitico inverno sovietico: i semi di Praga non erano stati gettati invano.
La Storia è nota. Alla fine del 1967, il consenso intorno al segretario del Partito comunista cecoslovacco, il filo-sovietico Antonín Novotný, è ai minimi storici. Le sue politiche di matrice stalinista, con epurazioni dei dissidenti e gravissime limitazioni alle libertà di espressione e stampa sul modello dell’Urss, gli hanno alienato a tal punto il consenso del Paese che quando il presidente sovietico Leonid Brežnev gli fa visita in dicembre non trova altra soluzione che sostituirlo con un uomo più liberale e innovatore.
Il 5 gennaio 1968 diviene quindi segretario del Partito Alexander Dubček, affiancato nei mesi successivi dal nuovo presidente della Repubblica Ludvík Svoboda (in carica dal 22 marzo) e dal Primo Ministro Oldřich Černík (a partire dall’8 aprile). Questi tre uomini politici – su impulso costante di Dubček – avviano una stagione di riforme della vita pubblica cecoslovacca sintetizzate nel Piano d’azione dell’aprile ’68, un documento che il Partito avrebbe poi ratificato nel settembre dello stesso anno. Numerose le liberalizzazioni previste dal Piano, a partire dall’incremento delle libertà di stampa, espressione e associazione, alla possibilità di una maggior concorrenza economica, fino all’apertura politica a partiti diversi da quello comunista.
Il Piano di Dubček prevedeva anche la limitazione del potere della polizia segreta, nonché la federalizzazione del Paese in due Stati (ceco e slovacco). Quanto alla politica estera, al mantenimento delle relazioni di cooperazione con l’Urss e il blocco orientale si sarebbero dovuti affiancare anche buoni rapporti con le nazioni occidentali. La transizione verso quello che veniva definito “Socialismo dal volto umano” avrebbe richiesto nelle intenzioni di Dubček circa dieci anni.
L’intento non era quello di superare il modello socialista, bensì di rinnovarlo dall’interno in senso più liberale, con l’obiettivo di costruire il primo esperimento al mondo di democrazia socialista. Questo perché, diceva Dubček, «Socialismo non può significare solo liberazione dei lavoratori dalla dominazione delle relazioni con la classe sfruttatrice, ma deve garantire una realizzazione della personalità più completa di quella assicurata da qualunque democrazia borghese».
Nella sua opera riformatrice, il governo guidato da Dubček procedeva con cautela e moderazione, con l’obiettivo di non suscitare reazioni da parte dell’Urss, che guardava con crescente preoccupazione alla Cecoslovacchia. Tuttavia, la popolazione e il ceto intellettuale (riunito intorno alla rivista Literární listy), esasperati dai lunghi anni di Novotný, chiedevano al governo maggiore coraggio. Le istanze di rinnovamento più radicale furono racchiuse nel manifesto delle Duemila parole, che il giornalista Ludvík Vaculík rese pubblico il 27 giugno ’68.
Il fermento politico e culturale cecoslovacco suscitava risentimenti e sospetti in Urss: Brežnev temeva che le richieste di libertà di Praga si sarebbero espanse agli altri Paesi del blocco orientale, intaccando l’egemonia sovietica. A Dubček non bastò condannare pubblicamente le Duemila parole, né ottenere le rassicurazioni del presidente sovietico nell’incontro del 3 agosto a Bratislava, con la tensione tra i due Paesi ormai già alle stelle.
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto i carri armati dell’Urss e di quattro alleati del blocco (Bulgaria, Germania Est, Ungheria e Polonia) invasero la Cecoslovacchia. Sotto gli occhi preoccupati del mondo intero, andava in scena la brutale repressione della Primavera di Praga, che in una notte volgeva improvvisamente al termine. Nei primi giorni dell’invasione morirono 72 cecoslovacchi (il totale delle vittime sarebbe arrivato a più di 200 tra invasori e manifestanti), mentre Dubček invitava la popolazione a non opporre resistenza.
Le testimonianze dell’aggressione che si diffondono sulla stampa di tutto il mondo descrivono una situazione atipica, del tutto inedita nella storia: i cecoslovacchi, sentendosi traditi da coloro che consideravano gli “amici” sovietici, reagiscono con decisione ma in modo non violento, cercando sistematicamente il confronto con gli invasori. «L’indignazione è macchina di saldezza per questo popolo [...] interprete di un dramma eroico che desta lo stupore del mondo e maestro nella tecnica della pazienza e della non violenza», scrive il corrispondente dell’Espresso Angelo Maria Ripellino il 1° settembre ’68, appena tornato in Italia dopo una rocambolesca fuga da Praga.
Dello stesso tenore la testimonianza di Umberto Eco, trovatosi direttamente coinvolto negli eventi della capitale cecoslovacca: «La gente parla in russo coi soldati, gli chiede perché sono lì. I soldati rispondono che a Praga c’è il colpo di Stato fascista, la gente ride, qualcuno sale su e li prende per il bavero e gli mostra la città, altri tirano fuori la tessera del partito. I russi sorridono imbambolati, qualcuno discute, [...] rispondono alle domande, intavolano la discussione. [...] Così incomincio a rendermi conto che questa è una cosa diversa, non ha precedenti storici [...], perché la gente ha volti tristi, [...] la tensione è spasmodica, ma la città brulica di folla come a una festa patronale, e ogni carro armato è un comizio».
«Tutta la gente con cui ho parlato – scrive ancora Eco, riportando il pensiero di un cecoslovacco – dava per scontato il socialismo, e all’interno del socialismo rivendicava rapporti diversi, e denunciava una politica autoritaria, ed ora è finita, ma è grave per tutto il mondo socialista, perché la nostra tragedia metterà in crisi anche gli altri. [...] 550mila soldati di cinque Paesi diversi sono stati praticamente inviati a Praga per subire un corso rapido di indottrinamento politico da un milione di soldati Svejk. Non so cosa porteranno a casa, ma è certo che questa armata ha avuto oggi la sua borsa di studio per un corso accelerato di democrazia».
Con l’andare dei mesi e il perdurare dello stallo, la popolazione cecoslovacca diventa sempre più insofferente nei confronti dell’invasore sovietico (che non se ne andrà fino al 1991). La protesta non violenta raggiunge l’apice il 16 gennaio 1969, quando il giovane studente Jan Palach si dà fuoco in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione ricordando il rogo di Jan Hus, teologo boemo arso vivo nel 1415 dopo essere stato dichiarato eretico dalla Chiesa cattolica durante il Concilio di Costanza.
Il gesto di Jan Palach, che muore il 19 gennaio, non resta isolato: un altro studente lo emula infatti appena quattro giorni dopo. Il presidente Svoboda riceve la notizia in diretta tv: «Apprendo in questo momento la tremenda notizia che un altro ragazzo ha tentato di uccidersi allo stesso modo [di Jan Palach], bruciandosi vivo a Plzeň. Si chiamava Josef Hlavatý». E gli occhi di Svoboda – racconta Angelo Maria Ripellino – si erano visti luccicare di lacrime.
Il controllo dei sovietici sulla Cecoslovacchia si fa via via più oppressivo. Pur avendo approvato in settembre il proprio Piano d’azione in un congresso clandestino del Partito comunista, Dubček è costretto a reintrodurre la censura e fare numerosi passi indietro rispetto al suo programma di liberalizzazioni. Al termine di un crepuscolo durato otto mesi, la Primavera di Praga lascia definitivamente spazio a un nuovo inverno il 17 aprile del 1969: dopo che il 28 e 29 marzo la popolazione cecoslovacca era insorta per la prima volta in modo violento, festeggiando la vittoria della propria squadra di hockey su quella dell’Urss ai Mondiali di Stoccolma (l’evento verrà ricordato come la “notte dell’hockey” ), Dubček è costretto a dimettersi, sostituito dal filo-sovietico Gustáv Husák che avvierà la stagione della “normalizzazione” della Cecoslovacchia.
A suggellare la fine dei sogni praghesi è l’ennesimo rogo di uno studente: il giovane Jan Zajic si dà fuoco il 25 febbraio in piazza San Venceslao lasciando queste parole, vero e proprio testamento ideale della Primavera di Praga: «So quale ferita io vi porto con questo gesto, ma non adiratevi con me. Non lo faccio perché mi nausei la vita, ma proprio perché la stimo troppo. Con la mia azione forse vi assicuro un migliore destino. Conosco il prezzo della vita e so che è il più grande che ci sia. Ma io voglio molto, e perciò devo pagare molto. Dopo la mia azione non cedete alla grettezza. Non dovete mai conciliarvi con l’ingiustizia, qualunque essa sia. La mia morte vi lega a questo impegno».
Ma l’inverno non può durare per sempre. L’apertura portata nella politica sovietica da Mikhail Gorbachev e il successivo crollo dell’Urss hanno permesso a Dubček di tornare sulla scena politica alla fine degli anni ’80, guidando la Cecoslovacchia al rovesciamento del regime comunista con la Rivoluzione di Velluto (1989) e alla successiva transizione verso la democrazia. Un messaggio di speranza valido anche per la Primavera Araba: se i fiori più fulgidi delle rivoluzioni possono essere strappati, i germogli che portano prima o poi producono frutti. E a quel punto la Primavera può arrivare davvero.
Di Luca Rasponi
http://www.discorsivo.it/magazine/2013/03/26/il-68-in-cecoslovacchia-linverno-sovietico-e-la-primavera-di-praga/
In ricordo di Jan Palach
Praga, 16 gennaio 1969
«Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà»
Jan Palach (Všetaty 11 agosto 1948 – Praga 19 gennaio 1969)
La Commedia Umana
Il sacrificio di Jan Palach
Al centro di Praga, in Piazza San Venceslao, lo studente cecoslovacco, Jan Palach, si da fuoco come gesto estremo di protesta contro l’occupazione del suo paese da parte delle truppe sovietiche che hanno stroncato la Primavera di Praga, la rivoluzione democratica reclamata dal popolo cecoslovacco. Palach, 21 anni non ancora compiuti, muore due giorni dopo per le ustioni riportate. L’opinione pubblica è sgomenta, mentre il governo tenta una campagna diffamatoria verso lo studente per sminuirne il suicidio. Dopo di lui altri sette studenti si suicideranno nel silenzio degli organi di informazione.
È stato uno degli ultimi martiri europei insieme alle figure di Bobby Sands e i suoi compagni di cella, eppure tanti giovani non sanno chi era. Era un ragazzino di vent’anni, martire per la libertà del suo popolo, per liberare la Cecoslovacchia dall’oppressione comunista. Il suo nome era Jan Palach. Ma cos’era successo in quei convulsi giorni del tra il 1968 e il 1969? E chi era Jan Palach?
Nel 1968 erano anni frenetici in tutto il mondo: la contestazione giovanile aveva attraversato diversi stati, dagli USA era arrivata in Europa, portando un’aria di rinnovamento e di dissenso. Ma quest’aria si era fermata sulla cortina di ferro, non riuscendo ad oltrepassarla, come se questa cortina fosse riuscita a non essere solo una barriera fisica, ma anche una barriera spirituale, attraverso la quale, da ovest a est, neanche le idee di libertà riuscivano a passare. Eppure in qualche modo, a Praga, erano germogliate. Tutto questo grazie ad Alexander Dubcek, che salì al potere il 5 gennaio 1968.
Era nata la cosiddetta Primavera di Praga. Dubcek non era come i tanti satrapi che si succedettero nelle dittature comuniste ad est. Si fece interprete di una linea di socialismo democratico, un “socialismo dal volto umano”. Durante il suo governo, durato solo pochi mesi, concesse maggiori diritti civili ai cittadini, allentò la censura sulla stampa e sui vari movimenti politici. Inoltre si fece promotore per la divisione della Cecoslovacchia in due nazioni indipendenti.
Mosca non gradì tutto questo, e decise di invadere in agosto la Cecoslovacchia con 600.000 soldati e con 7.000 carri armati. Dubcek fu destituito e Mosca impose un nuovo direttivo del Partito Comunista. Nell’Occidente nessuno si mosse. Nessuno volle rischiare una Terza Guerra Mondiale per la Cecoslovacchia; nessuno intervenne per questo popolo fiero, che alacre aveva combattuto contro il nazismo e ora si trovava sotto una altrettanto sanguinaria dittatura.
Un gruppo di giovani cecoslovacchi non si voleva arrendere a questa situazione: tutti studenti dell’Università di Praga, per protestare contro l’invasione sovietica seguirono l’esempio di alcuni monaci del Vietnam del Sud. Alcuni anni prima, infatti, alcuni monaci buddisti si diedero fuoco a Saigon per protestare contro l’oppressione dei buddisti nel Vietnam del Sud. Il caso che fece il giro del mondo fu quello del monaco sessantaseienne Thích Quảng Đức il 10 giugno 1963. Jan Palach aveva solo vent’anni: il 16 gennaio 1969 si reco in piazza San Venceslao e si fermò davanti alla scalinata del Museo Nazionale, la parte più alta di questa lunghissima piazza. Si cosparse di benzina e si diede fuoco. Rimase 3 giorni in agonia, nei quali spiegò ai medici la ragione del suo gesto. Il 19 gennaio Jan Palach moriva per la libertà del suo popolo.
Jan decise di non distruggere i suoi appunti; in un brano di essi si trova scritto: “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana”.
Al suo funerale parteciparono quasi 600.000 persone, sfidando i sovietici. Altri sette ragazzi nei mesi successivi si fecero martiri nello stesso terribile modo, ma le loro storie non arrivarono in Occidente fino alla caduta del Muro. Tra loro morì anche Jan Zajic, un ragazzo di 19 anni che studiava da ferroviere, il 25 febbraio 1969. A 44 anni dalla morte di Jan Palach le sue idee di libertà hanno tuttavia vinto.
Il suo suicidio, il suo martirio non sono stati vani: nei paesi oppressi in molti hanno raccolto la sua testimonianza, le sue idee, e da lì hanno trovato il coraggio per combattere, fino al definitivo crollo di uno tra i sistemi più brutali della storia, che ha oppresso i popoli dell’Est Europa per oltre 40 anni, separandoli dai loro fratelli con la ormai famigerata cortina di ferro.
Oggi Jan Palach, insieme a Jan Zajic e agli altri martiri, è ricordato in un monumento in piazza San Venceslao voluto da Vaclav Havel (il primo presidente di una Cecoslovacchia finalmente democratica). Il monumento ricorda anche gli altri caduti per la libertà. Inoltre ha voluto dedicare alla sua figura la piazza che prima si chiamava piazza dell’Armata Rossa, nel centro di Praga, dove Jan si diede fuoco.
La sera del 16 gennaio 1969 un giovane studente di filosofia praghese, Jan Palach (in realtà era nato a Všetaty l’11 agosto 1948) si recò in Piazza San Venceslao. Teneva nascosta nel cappotto una bottiglia piena di benzina. Proprio all’inizio della grande piazza, davanti al Museo, con calma si tolse il cappotto, si versò addosso la benzina e si diede fuoco, senza un grido. Quando gli chiesero chi gli avesse fatto una cosa del genere, Jan rispose semplicemente: “Sono stato io”. Non disse altro. Accorsero immediatamente gli agenti della Bezpecnost’ e il ragazzo fu trasportato in ospedale, dove morì poco dopo. Il giorno dopo un trafiletto di poche righe avvertiva dell’ “insano gesto di uno squilibrato”, ma fu subito a tutti chiaro quale significato avesse il gesto disperato di Ján Pálach. I suoi funerali furono seguiti da migliaia di persone (circa 600.000 arrivati da tutto il paese) in silenzio, proprio come si racconta nella canzone di Francesco Guccini. Malgrado le (ovvie) strumentalizzazioni, il sacrificio di Jan Palach fu e resta esclusivamente un gesto di libertà, un grido contro tutte le tirannie, di qualsiasi colore esse siano. Il punto dove Jan Palach si diede fuoco è stato sempre coperto di fiori. Prima del 1989, delle “solerti” mani provvedevano a rimuoverli ogni giorno; adesso vi sorge una piccola lapide con la foto del ragazzo. Nessuno toglie più i fiori, ma ce ne sono molti meno di prima.
Jan Palach, faceva parte di un’organizzazione antisovietica che lui stesso aveva fondato poco dopo l’invasione dell’agosto del 1968. Quando si diede fuoco fece ben attenzione a mettere in salvo una borsa contenente i documenti dell’organizzazione; tra di essi, il proprio, breve testamento politico:
“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zparvy (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”.
Il gesto di Jan Palach non rimase isolato: almeno altri sette studenti, tra cui il suo amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio.
Di Francesco Masala
http://danielebarbieri.wordpress.com/2014/01/15/scor-data-16-gennaio-1969/
Di antichi fasti la piazza vestita
grigia guardava la nuova sua vita,
come ogni giorno la notte arrivava,
frasi consuete sui muri di Praga,
ma poi la piazza fermò la sua vita
e breve ebbe un grido la folla smarrita
quando la fiamma violenta ed atroce
spezzò gridando ogni suono di voce...
Son come falchi quei carri appostati,
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all'orizzonte del cielo di Praga...
Dimmi chi sono quegli uomini lenti
coi pugni stretti e con l'odio fra i denti,
dimmi chi sono quegli uomini stanchi
di chinar la testa e di tirare avanti,
dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava,
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga,
dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava,
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga,
una speranza nel cielo di Praga,
una speranza nel cielo di Praga...
Di antichi fasti la piazza vestita
grigia guardava la nuova sua vita,
come ogni giorno la notte arrivava,
frasi consuete sui muri di Praga,
ma poi la piazza fermò la sua vita
e breve ebbe un grido la folla smarrita
quando la fiamma violenta ed atroce
spezzò gridando ogni suono di voce...
Son come falchi quei carri appostati,
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all'orizzonte del cielo di Praga...
Dimmi chi sono quegli uomini lenti
coi pugni stretti e con l'odio fra i denti,
dimmi chi sono quegli uomini stanchi
di chinar la testa e di tirare avanti,
dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava,
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga,
dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava,
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga,
una speranza nel cielo di Praga,
una speranza nel cielo di Praga...
http://youtu.be/wjUoLlmyk6k
Caricato il 27 lug 2008
Ho scelto la versione Live del brano di Guccini che in assoluto amo di più...
Jan Palach, antisovietico, [...] Jan era uno studente di filosofia, il suo credo la libertà che va oltre la destra, oltre la sinistra... Jan non si è dato fuoco, Jan è stato messo sul rogo, a 20 anni, come Jan Hus 500 anni prima dalla mania di onnipotenza degli uomini di potere...la storia si ripete, gli uomini non hanno memoria, l'arrivismo la cancella...
Ho scelto la versione Live del brano di Guccini che in assoluto amo di più...
Jan Palach, antisovietico, [...] Jan era uno studente di filosofia, il suo credo la libertà che va oltre la destra, oltre la sinistra... Jan non si è dato fuoco, Jan è stato messo sul rogo, a 20 anni, come Jan Hus 500 anni prima dalla mania di onnipotenza degli uomini di potere...la storia si ripete, gli uomini non hanno memoria, l'arrivismo la cancella...
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