domenica 8 gennaio 2012

Pier Paolo Pasolini. Il processo alla Democrazia Cristiana

IL PROCESSO ALLA DEMOCRAZIA CRISTIANA DEL CORSARO PASOLINI



«[…] I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità. 
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la “massa”, dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata. 
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l'unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente). 
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai “cultura” è stata più accentratrice che la “cultura” di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso. […] 
Un elenco, anche sommario, ma, per quanto é possibile, completo e ragionato, dei fenomeni, cioè delle colpe, non è mai stato fatto. Forse la cosa è considerata insostenibile. 
Perché, ai capi di imputazione che ho qui sopra elencato, c'è molto altro da aggiungere – sempre a proposito di ciò che gli italiani vogliono consapevolmente sapere. 
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il prodotto della “strategia della tensione” (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente).
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna. 
Ma gli italiani – e questo è il nodo della questione – vogliono sapere tutte queste cose insieme: e insieme agli altri potenziali reati col cui elenco ho esordito. Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme – e la logica che le connette e le lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti – la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l'Italia non potrà essere governata […]. 
Ma se (come mi pare evidente, con immedicabile mortificazione) l'opinione pubblica italiana […] non vuole sapere – o si accontenta di sospettare –, il gioco democratico non è formale: è falso
Inoltre se la consapevole volontà di sapere dei cittadini italiani non ha la forza di costringere il potere ad autocriticarsi e a smascherarsi – se non altro secondo il modello americano –, ciò significa che il nostro è un ben povero paese: anzi, diciamo pure, un paese miserabile
Ci sono inoltre delle cose (e a questo punto continuo, più che mai, nel puro spirito della Stoà) che i cittadini italiani vogliono sapere, pur senza aver formulato con la sufficiente chiarezza, io credo, la loro volontà di sapere: fatto che si verifica là dove il gioco democratico, appunto, è falso; dove tutti giocano con il potere; e dove la cecità dei politici è ormai ben assodata. 
Gli italiani vogliono dunque sapere ancora cos'è con precisione la “condizione umana” – politica e sociale – in cui sono stati e sono costretti a vivere quasi come da un cataclisma naturale: prima, alle illusioni nefaste e degradanti del benessere e poi dalle illusioni frustranti, no, non del ritorno della povertà, ma del rientro del benessere. 
Gli italiani vogliono ancora sapere che cos'è, che limiti ha, che futuro prevede, la “nuova cultura”- in senso antropologico – in cui essi vivono come in sogno: una cultura livellatrice, degradante, volgare (specie nell'ultima generazione)
Gli italiani vogliono ancora sapere che cos'è, e come si definisce veramente, il “nuovo tipo di potere” da cui tale cultura si è prodotta: visto che il potere clerico-fascista è tramontato, e ormai esso ad altro non costringe che a «lotte ritardate» (la condanna a morte degli antifranchisti, i rapporti tra la vecchia e la nuova generazione mafiosa nel Mezzogiorno ecc.). 
Gli italiani vogliono ancora sapere, soprattutto, che cos'è e come si definisce il “nuovo modo di produzione” (da cui sono nati quel “nuovo potere” e, quindi, quella “nuova cultura”): se per caso tale “nuovo modo di produzione” – introducendo una nuova qualità di merce e perciò una nuova qualità di umanità – non produca, per la prima volta nella storia, “rapporti sociali immodificabili”: ossia sottratti e negati, una volta per sempre, a ogni possibile forma di “alterità”
Senza sapere che cosa siano questo “nuovo modo di produzione”, questo “nuovo potere” e questa “nuova cultura”, non si può governare: non si possono prendere decisioni politiche (se non quelle che servono a tirare avanti fino al giorno dopo, come fa Moro)I potenti democristiani che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni, non hanno saputo neanche porsi il problema di tale “nuovo modo di produzione”, di tale “nuovo potere” e di tale “nuova cultura”, se non nei meandri del loro Palazzo di pazzi: e continuando a credere di servire il potere istituito clerico-fascista. Ciò li ha portati ai tragici scompensi che hanno ridotto il nostro paese in quello stato, che più volte ho paragonato alle macerie del 1945
È questo il vero reato politico di cui i potenti democristiani si sono resi colpevoli: e per cui meriterebbero di essere trascinati in un'aula di tribunale e processati
Non dico, con questo, che anche altri uomini politici non si siano posti i problemi che non si son posti i sacrestani al potere, o che, come loro, non abbiano saputo risolverli. Anche i comunisti hanno per esempio confuso il tenore di vita dell'operaio con la sua vita, e lo sviluppo col progresso. Ma i comunisti hanno compiuto – se hanno compiuto – degli errori teorici. Essi non erano al governo, non detenevano il potere. Essi non derubavano gli italiani. Sono coloro che si sono assunti delle responsabilità che devono pagare, cari colleghi della “Stampa”, che, sono certo, siete perfettamente d'accordo con me... 
Un'ultima osservazione che mi sembra, del resto, capitale. L'inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone...), l'inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti... Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io». [74]. 

[74] Pier Paolo Pasolini, Perché il Processo, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit., già in “Corriere della Sera”, 28 settembre 1975; poi in Lettere luterane, Garzanti 1976 (prima pubblicazione postuma).



"Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto."
(Pier Paolo Pasolini, da Il vuoto del potere ovvero L'articolo delle lucciole dal "Corriere della sera" del 1° febbraio 1975)

Poeta, regista, scrittore, Pier Paolo Pasolini mostra sulle colonne del “Corriere della Sera” la veste di acceso polemista, impegnato sui grandi temi civili e politici. Da uno dei suoi articoli più clamorosi (Processo alla Democrazia Cristiana, pubblicato nel “Corriere della Sera” del 24 agosto 1975) riportiamo alcuni fra i brani più incisivi: è un’immaginaria Norimberga che giudica i reati di arroganza e corruzione:

"Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti, come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità. questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. [...] 

Ma che senso ha pretendere o sperare qualcosa da parte dei democristiani? O addirittura chiedere loro qualcosa? Non si può non solo governare, ma nemmeno amministrare senza dei principi. E il partito democristiano non ha mai avuto dei principi. Li ha identificati, e brutalmente, con quelli morali e religiosi della Chiesa in grazia della quale deteneva il potere. Una massa ignorante (e lo dico col più grande amore per questa massa) e una oligarchia di volgari demagoghi dalla fame insaziabile, non possono costituire un partito con un’anima. Ciò l’abbiamo sempre saputo, e l’abbiamo anche sempre detto: ma non l’abbiamo saputo e detto fino in fondo: per una ragione molto semplice: perché la Chiesa cattolica era una realtà, e la maggioranza degli italiani erano cattolici. [...] Durante i primi venti anni del regime democristiano, si è governato un popolo storicamente incapace di dissentire: esattamente come durante il ventennio fascista, come durante l’Ottocento pontificio o borbonico, e addirittura come durante i secoli feudali." 

[per leggere i due articoli in formato più ampio: http://www.asiablog.it/2007/07/29/pasolini-processo-alla-democrazia-cristiana/, http://www.pasolini.net/saggistica_scritticorsari_lucciole.htm]





"ERETICO & CORSARO"


Trasformatevi in intellettuali
Di Sergio di Cori Modigliani

Ieri notte ho fatto un sogno. Molto potente, perché aveva una particolarità rara: era iper-realistico. Il mio inconscio mi ha riproposto –esattamente in fotocopia della mia autentica realtà vissuta- il giorno in cui, qualche decennio fa, io, allora, uno studente liceale sessantottino, venne nella mia scuola, come ospite esterno a parlarci del mondo e della società, Pier Paolo Pasolini. Nel sogno, la situazione era identica, solo che avveniva oggi, nel 2012. Quando mi sono svegliato, gran parte del sogno è evaporato ma l’emozione di quel giorno mi è ritornata addosso intatta, forse addirittura ingigantita dallo spessore della distanza di un’altra epoca della vita. A questo servono i sogni.

Mi sono posto, quindi, nel corso della mattinata, il seguente quesito:
Oggi, nella realtà europea del maggio 2012, se Pasolini novantenne fosse ancora vivo, che cosa sarebbe, chi sarebbe, che cosa farebbe, dove starebbe, come ci parlerebbe?”.
Ho pensato a diversi tipi di soluzione, dal suo rifiuto di parlare e scrivere e pubblicare vivendo come un anacoreta da qualche parte, fino a una deriva ultra-presenzialista come simbolo iconico di una realtà culturale tutta italiana. Ho allucinato la sua presenza intellettuale cercando di situarlo nel mondo di oggi, rugoso e decrepito, ma con la voce e la mente ancora vive e pulsanti. Le ho pensate tutte. L’ho visto ospite da Ballarò, in una zuffa con Giuliano Ferrara, in un documentario tra i campi rom del Friuli alle prese con Calderoli, me lo sono immaginato in tutte le salse. Lì per lì, alcune, le trovavo entusiasmanti, ma dopo qualche minuto venivano cancellate e nessuna mi convinceva.
Alla fine, ho trovato la risposta. E purtroppo è stata l’unica considerata attendibile.
“Il mio sogno è, per l’appunto, un sogno. L’Italia, oggi, è com’è, sfiancata da una gigantesca ondata di ignoranza crassa collettiva e di inconsapevole delirio, proprio perché Pier Paolo Pasolini è scomparso 38 anni fa, lasciando un vuoto per alcuni aspetti incolmabile. Se lui fosse stato vivo, non sarebbe andata così”.
E’ stato l’ultimo vero Maestro di pensiero italiano, un autentico libertario.
Le persone giovani non lo conoscono se non per averlo letto o visto qualche suo film o magari aver ascoltato le sue parole in qualche raro documentario tratto dall’archivio storico della Rai. Chi ha avuto il privilegio, magari per caso, di aver avuto a che fare con lui, sa che la caratteristica principale della sua comunicazione, sia verbale che mimica e fisica, era improntata alla violenza. Parlava di armonia, di concordia e di amore assoluto umano, ma quando nel dibattito gli venivano poste delle contestazioni che lui definiva “il conato piccolo-borghese della coscienza sporca dell’immonda italianità” senza mai alzare il tono della voce e senza perdere il suo aplomb, iniziava a rispondere, di solito, così: “Lei, forse, non è consapevole di essere un criminale in carne e ossa, e adesso le spiego perché”. Più di una volta è accaduto che Pasolini scendesse dal podio in platea, rincorresse il suo contraltare e lo aggredisse fisicamente prendendolo a pugni davanti a tutti. “Non sopporto la falsa incoscienza e l’ignoranza spudorata, amo l’ingenuità delle persone semplici che non sanno nulla sapendo perfettamente di non sapere; nella loro tragica consapevolezza di vinti c’è la chiave della riscossa nazionale. Quella è la Via”.
Ma poiché la maggior parte del suo vero pubblico (tra cui il famelico sottoscritto) erano invece giovani borghesi alla ricerca dell’identità e soprattutto a caccia di un centro di gravità permanente intorno al quale costruire un Senso Civile dell’esistenza, lui, naturalmente usava un’argomentazione diversa, ben elaborata ed equilibrata.

Siate intellettuali” era il suo motto.
Il che, è probabile, può stupire e colpire chi lo conosce soltanto nel suo aspetto mediatico gestito dalla falsificazione bècera dell’industria della pubblicità dei vip postumi.
Il Potere è il buco nero della conoscenza negata al popolo, ma loro sanno. Eccome se sanno, ecco perché sono criminali. E soltanto attraverso lo studio, l’applicazione, e la ricerca di una Conoscenza autentica e profonda del Sapere Sensato che si può sperare e auspicare di acquisire quegli strumenti logico-filosofici e di competenza tecnica specifica grazie ai quali poterli inchiodare al Grande Tribunale della Storia”.
Quando noi giovanissimi, ideologicamente estremisti, uscivamo dai suoi dibattiti che si protraevano per ore e tornavamo a casa, condividevamo tra di noi il giudizio su di lui. Le posizioni erano le più disparate; chi lo esaltava, chi lo disprezzava, chi lo amava, chi lo odiava. Ma l’effetto, alla fine, era comune a tutti. Si tornava a casa e non si aveva né voglia né coraggio di guardare la televisione. Ci si metteva a studiare. Quello che c’era. Quello che capitava. Faceva venire fame di cultura.
L’ultima intervista pubblica che gli fecero fu quando uscì il suo film, noto come il De Sade di Pasolini “Salò e le 120 giornate di Sodoma”. Da quel momento in poi, venne identificato come troppo pericoloso e scomparve da tutti i media mainstream. Diventò underground, ma non per questo meno presente e attivo. Anzi. Ancora più potente ed efficace.
Così raccontava il suo film a un allibito quanto esterrefatto giovanotto che iniziava allora la sua carriera come critico cinematografico, un certo Bruno Vespa.
Il reale senso del sesso nel mio film è quello che dicevo, cioè una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto. Tutto il sesso di De Sade, cioè il sadomasochismo di De Sade, ha dunque una funzione ben specifica ben chiara. Cioè quella di rappresentare ciò che il potere fa del corpo umano, la riduzione del corpo umano a una cosa, la mercificazione del corpo. Cioè praticamente l’annullamento della personalità degli altri, dell’altro. E quindi un film non soltanto sul potere, ma su quello che io chiamo “l’anarchia del potere”, perché nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune. Ma oltre che un film sull’anarchia del potere, questo vuole essere un film sulla inesistenza della storia. Cioè la storia così come vista dalla cultura eurocentrica, il razionalismo e l’empirismo occidentale da una parte, il marxismo dall’altra, nel film vuole essere dimostrato come inesistente… beh! Non direi per i nostri giorni, lo prendo come metafora del rapporto del potere con chi è subordinato al potere, e quindi vale in realtà per tutti. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che io detesto soprattutto il potere di oggi. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti”.
Non vi è alcun dubbio che, nel caso fosse stato vivo oggi, Pasolini avrebbe accolto con entusiasmo e affetto un suo coetaneo francese, che qualche settimana fa è venuto in Italia a presentare il suo ultimo libro.
Il vegliardo ha 92 anni, ma il suo cervello e la sua mente funzionano ancora in maniera egregia. Passato alla tivvù da Fabio Fazio per dieci minuti ha avuto la sua minima quota di notorietà che in Italia viene garantita chi diventa televisibile, e la cosa è finita lì. Di lui, da noi, non ne hanno parlato.
Lo faccio qui, oggi, e lo lego a Pasolini per spiegare la differenza tra l’Italia e la Francia, nazione economicamente nei guai e fragile quanto noi, con problemi sociali addirittura ben peggiori dei nostri, la quale, però, non a caso, si è rimboccata le maniche e si è gettata verso un cambiamento evolutivo. Hanno una scuola filosofica dietro ancora viva. Noi no.
Il novantenne in questione è considerato il più importante filosofo vivente del pianeta. L’Italia è l’unico paese al mondo che non gli presta considerazione.
Non credo sia casuale.
Studioso di epistemologia, di logica-matematica e filosofia teoretica, 40 anni fa ha ideato una teoria sulla quale ha fondato una scuola di pensiero: la teoria della complessità.
Si chiama Edgard Morin. E’ considerato anche il più importante studioso europeo di mass media e sistemi logici di interpretazione della comunicazione.

Il suo libro si chiama “La Via”, sottotitolo: per l’avvenire dell’umanità.
Editore Raffaello Cortina, uscito due mesi fa.
Era un grande amico personale di Pasolini e suo profondo estimatore.
Francois Hollande ha dato indicazioni immediate di prenderlo come primo consulente del nuovo governo in materia di “interpretazione del sistema di comunicazione sociale in Europa” nel ministero dell’educazione nazionale.
Edgard Morin ha fretta, e non soltanto perché è molto vecchio. Secondo la sua stimabile e venerabile opinione, non abbiamo molto tempo ancora a disposizione. Se vogliamo evitare il baratro (quello vero gestito e organizzato da chi sostiene di averci voluto invece salvare).
Do’ subito una indicazione pratica e pragmatica ai lettori interessati.
In Italia il suo pensiero è coltivato e diffuso da poch,i ma hanno messo su una scuola.
Il presidente onorario è naturalmente Edgard Morin e il direttore di questa scuola è il filosofo Mauro Ceruti. Il punto di riferimento è l’università degli studi di Bergamo e chiunque sia interessato può rivolgersi per iscritto (posta atomica) indirizzando la lettera a
Università degli studi di Bergamo
Piazzale Sant’Agostino , 2

24129 – Bergamo – Italia
All’att.del direttore Prof. Mauro Ceruti

Viviamo in un’epoca di complessità strutturale. Siamo circondati da semplificazioni, superficialità e supponenza. Basti pensare che la novità esplosiva (lo è in termini quantitativi reali) rappresentata dal movimento cinque stelle vede come punto di riferimento una persona che meno complessa di così si muore, con argomentazioni mediatiche di eccellente fattura tecnica, e la totale assoluta mancanza di elaborazione e argomentazione su come dove quando e quanto affrontare la complessità oggi.
Perché la sfida è questa.
E va studiato.
Dice Edgard Morin (così capite come parla e che tipo è): “Su un minuscolo pianeta perduto, fatto di un aggregato di detriti di una stella scomparsa, destinato apparentemente a convulsioni, tempeste, eruzioni, terremoti, la vita è apparsa come una inaudita vittoria delle virtù di relianza. Siamo al vertice della lotta patetica della relianza contro la separazione, la dispersione, la morte. In ciò abbiamo sviluppato la fraternità e l’amore. Più prendiamo coscienza che siamo persi nell’universo e che siamo impegnati in un’avventura ignota, più abbiamo bisogno di essere legati ai nostri fratelli e sorelle in umanità. Ogni atto etico, ogni azione civile, ripetiamolo, è di fatto una atto di relianza, relianza con l’altro, relianza con i suoi, relianza con la comunità, relianza con l’umanità e, in ultima istanza, inserimento nella relianza cosmica.
Da sottolineare il fatto che “relianza” sta per resistenza, da lui usato per evitare di attribuirgli una immediata valenza politico-ideologica, soprattutto per il fatto che nel 1943 è stato un famosissimo partigiano combattente, comandante generale dell’insurrezione di Parigi. Ma ha preso le distanze nel 1951 quando ha accusato Stalin di genocidio sostenendo che l’Europa aveva bisogno di una grande scuola di pensiero liberale democratico e da quel momento l’intera sinistra europea –complice e liberticida- lo isolò. Tant’è vero che lui abbandonò i grandi centri accademici e scelse di andare a insegnare in modesti centri universitari della provincia in Camargue e in Provenza; l’unico filosofo contemporaneo stimato da Jean Paul Sartre che un giorno, nel 1956, andandolo a visitare a Aix en Provence gli confidò “Ti invidio la tua libertà. Io purtroppo sono vittima della vanità immonda del mio ego. Sono costretto ad esibirmi perchè voglio vincere il premio nobel”.
Così lo presenta oggi il neo-governo francese: Morin invita insegnanti e studenti a riflettere sull’attuale stato dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca: la posta in gioco sono i nuovi problemi posti alla convivenza umana da una interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le conoscenze, le malattie di tutte le società umane. Per rendere queste sfide affrontabili, una riforma dell’insegnamento è indispensabile. Ma per realizzarla è necessaria una riforma dell’organizzazione dei saperi. È in questa prospettiva che Morin pone alla base della riforma della scuola che egli auspica quel tipo di pensiero la cui elaborazione lo ha reso famoso in tutto il mondo.
Beati loro. Noi ci dobbiamo cuccare i nostri ragionieri contabili.
Spiega nel suo libro dedicato a tutti gli europei:
Il vascello spaziale Terra continua a tutta velocità la sua corsa in un processo a tre facce: mondializzazione, occidentalizzazione, sviluppo. Tutto è interdipendente, ma tutto è allo stesso tempo separato. L’unificazione tecnoeconomica del globo si accompagna a conflitti etnici, religiosi, politici, a convulsioni economiche, alla degradazione della biosfera, alla crisi delle civiltà tradizionali ma anche alla crisi della modernità. Dove ci porta la via seguita? Verso un progresso ininterrotto? Non possiamo più crederlo. Alla diminuzione della povertà attraverso un aumento del benessere materiale corrisponde anche un enorme aumento di miseria. Andiamo verso una serie di catastrofi a catena? È quel che sembra probabile se non riusciamo a cambiare strada. Subito.
Edgar Morin pone qui la sfida di una “via” di salvezza che potrebbe delinearsi dal congiungersi di una miriade di vie riformatrici: riforma del pensiero, dell’educazione, della famiglia, del lavoro, dell’alimentazione, del modo di consumare.. .
Nella prefazione al suo libro, il prof. Ceruti scrive “Morin propone di sostituire alla via di sviluppo che produce sottosviluppo la via di una politica di civiltà, che abbia come missione quella di solidarizzare il pianeta, nella prospettiva di un nuovo umanesimo. Una metamorfosi ancora più stupefacente di quella che ha segnato il passaggio dalle società arcaiche di cacciatori-raccoglitori alle società complesse della civiltà”.
Sostiene il filosofo che ha inventato la teoria della complessità: 

Ciò che si profila come probabile – vale dire la crisi ecologica, economica, politica e sociale del mondo in cui viviamo – mi spinge a essere pessimista. L’improbabile è però sempre possibile. Quindi resto ottimista e continuo a credere che si debba e si possa trovare una strada per evitare di finire nel baratro. Bisogna seguire una via per realizzare quella “metamorfosi” che, sfuggendo a ogni facile manicheismo e ad ogni alternativa binaria, penetri nel ragionamento della complessità, la sola che ci consentirebbe di sfuggire al disastro planetario annunciato.
Di fronte a un realtà stravolta da un’economia senza regole che distrugge il Pianeta e la società, non basta più indignarsi. Occorre provare a tracciare un percorso al contempo utopico e realistico per invertire la tendenza. Non solo il cambiamento è possibile, ma è di fatto già iniziato grazie a numerose piccole iniziative locali. Iniziative che è necessario federare per creare una massa critica irreversibile. All’origine dei grandi cambiamenti ci sono sempre delle singole azioni. Quello che occorre è la coscienza della crisi e la volontà politica del cambiamento. Se c’è tale volontà, allora si trovano i mezzi necessari per evitare la catastrofe, che è davvero molto ma molto vicina. La mondializzazione porta in sé l’occidentalizzazione e il mito dello sviluppo fondato sull’idea di una crescita infinita. È un mito che ci porta dritti contro un muro. Non possiamo continuare a riempire il Pianeta di automobili, di centrali e di megalopoli. Questo modello di sviluppo – figlio di un liberalismo economico senza regole, tutto teso a produrre e a consumare sempre di più – comporta conseguenze disastrose per la biosfera e le risorse naturali. Oggi, si parla molto di sviluppo sostenibile, che però mi sembra solo una mezza misura. In realtà, occorre affrontare e spaccare il nocciolo duro, tecno-economico, del concetto tradizionale di sviluppo, per salvarne solo alcuni elementi da mettere al servizio di un altro modello di sviluppo umano. È un problema urgente che riguarda tutti.
L’aspetto positivo della mondializzazione è che ormai c’è una comunità di destino di tutti gli esseri umani, ovunque essi si trovino. Siamo tutti di fronte agli stessi problemi fondamentali e alle stesse minacce mortali, sul piano ecologico, climatico, sociale, nucleare, ecc. Una patria è una comunità di destini, quindi la Terra è la patria comune che dobbiamo cercare di salvare in una situazione dove sembra non esserci più futuro e quindi prevalgono l’incertezza, la paura e le logiche regressive. In passato si pensava che la storia fosse guidata dalla legge del progresso. Le crisi del XX secolo hanno spazzato via questa illusione
”.
Intervistato di recente a Parigi, un giornalista francese, interpretando l’esigenza collettiva di avere risposte chiare e concrete gli ha chiesto, a nome di tutti: “Che fare, dunque?”
Ecco la sua risposta:
Al sistema terrestre minacciato da tutte le parti resta solo la via della metamorfosi. In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla. L’idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel Medioevo.
Per salvarsi occorre avere un approccio dialettico, nel tentativo di tenere insieme idee che sulla carta si oppongono. Non credo alla rivoluzione che fa tabula rasa del passato, producendo spesso realtà peggiori di quelle che ha voluto trasformare. Al contrario, abbiamo bisogno di tutte le riforme culturali della storia dell’umanità per trasformare e trasformarci. Per questo è necessario conservare tutti gli aspetti positivi della mondializzazione, che per me contiene il meglio e il peggio. Insomma, occorre al contempo mondializzare e de-mondializzare a seconda degli ambiti, favorire la crescita ma talvolta la decrescita, tenere conto dello sviluppo ma anche dell’inviluppo, della trasformazione come della conservazione. Questa strategia complessa ci consente di conservare la speranza, che naturalmente non è una certezza. Anzi, visto il contesto, la speranza è perfino improbabile. La storia però ci insegna che a volte l’improbabile è riuscito a prendere il sopravvento”.

La cultura di massa della sinistra italiana l’ha volutamente tenuto nascosto fin dagli anni’50, archiviandolo brutalmente come un neo-platonico (Edgard Morin l’ha sempre considerato un grande complimento) e ancora oggi, non è accolto bene (la maggioranza neppure lo conosce) per la sua idiosincrasia contro la burocrazia centrale dei partiti e il suo furibondo anti-comunismo pari soltanto alla sua attività anti-nazista.
Edgard Morin era la grande passione intellettuale di Pier Paolo Pasolini, e quando Morin veniva negli anni’60 in vacanze a Roma, era ospite a casa sua. In Italia neppure traducevano i suoi libri. Ancora oggi la Teoria della Complessità, in questo paese non viene accolta.
Incitarvi a leggere le opere e il lavoro del più grande filosofo europeo vivente, è il risultato del mio sogno di ieri notte. Diciamo che me l’ha consigliato Pier Paolo Pasolini dall’aldilà.
Perché una cosa è certa: se non ci trasformiamo presto, iniziando da un percorso di capovolgimento interiore, non arriveremo mai alla costruzione di una nuova realtà equo-sostenibile e più evoluta.

Non sarà certo la simpatia contagiosa di Beppe Grillo a indicarci la Via.
Serve ben altro.
Soprattutto serve, da parte di noi italiani, sempre lesti a seguire i banditori d’aste, cominciare a leggere e studiare i filosofi che vantano una succosa produzione.
Se poi, invece, si preferisce affidarsi alle novità di Dagospia, non ci si potrà domani lamentare se, dalla Francia, dopo il sorrisetto disgustoso di Sarkozy, arriverà magari prima sotto forma di mònito, ma poi sempre più chiaramente in modo diretto, l’invito a qual cosetta di più di una semplice scossa.
Abbiamo bisogno di iniziare il percorso della Riscossa.
E si inizia dalla Cultura.
Non andando a gambizzare un dirigente industriale.
Ogniqualvolta qualcuno va a mettere delle bombe, il registratore di cassa di Goldman Sachs, a Wall Street, fa ting e segna un buon incasso potenziale.
Che cosa c’entra?
Questa, per l’appunto, è la Complessità.
C’entra.
Eccome, se c’entra.

Fonte: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2012/05/un-francese-il-piu-grande-filosofo.html.

Fonte:
http://www.informarexresistere.fr/2012/05/13/trasformatevi-in-intellettuali-2/




Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell'esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.
Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 24 agosto 1975



Pier Paolo Pasolini - "Cos'è questo golpe? Io so"


Io so.Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
Corriere della Sera, 14 novembre 1974

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