Tutto ciò che sappiamo del mondo, anche tramite la scienza, lo sappiamo a partire da un esperienza intutitiva, preriflessiva, di cui la scienza è solo una espressione seconda. (ancora il senso)
Bisogna ritornare ad un mondo anteriore alla conoscenza, di cui la conoscenza parla sempre e nei confronti del quale ogni definizione e determinazione scientifica è astratta e di cui quindi non abbiamo una comprensione intuitiva.
Maurice Merleau-Ponty. Fenomenologia della percezione
"Tutto ciò che sappiamo del mondo, anche tramite la scienza, lo sappiamo a partire da una veduta nostra, o da un’esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’ espressione seconda. La scienza non avrà mai il medesimo senso d’essere del mondo percepito, semplicemente perché essa ne è una determinazione o una spiegazione. Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, signitiva (immaginativa) e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume”.
Maurice Merleau-Ponty. Fenomenologia della percezione
Maurice Merleau-Ponty. Il mio corpo è al centro e il perno del mondo.
“Il rifiuto della mutilazione nel caso dell’arto fantasma o il rifiuto della deficienza nella anosognosia non sono decisioni deliberate, non avvengono al livello della coscienza tetica che prende posizione in modo esplicito dopo aver considerato diverse possibilità. La volontà di avere un corpo sano o il rifiuto del corpo malato non sono formulati per se stessi, l’esperienza del braccio malato come assente non appartengono all’ordine dell’«io penso che…».
Questo fenomeno, che tanto le spiegazioni fisiologiche quanto quelle psicologiche rendono irriconoscibile, diviene invece comprensibile nella prospettiva dell’essere al mondo. Quello che in noi rifiuta la mutilazione e la deficienza è un Io impegnato in un certo mondo fisico e interumano, che continua a protendersi verso il mondo nonostante le deficienze o le amputazioni, e che, in questa misura, non le riconosce ‹de jure›. Il rifiuto della deficienza è solo il rovescio della nostra inerenza a un mondo, la negazione implicita di quanto si oppone al movimento naturale che ci getta nei nostri compiti, nelle nostre preoccupazioni, nella nostra situazione, nei nostri orizzonti familiari. Avere un braccio fantasma significa rimanere aperti a tutte le azioni di cui solamente il braccio è capace, conservare il campo pratico che avevamo prima della mutilazione.
Il corpo è il veicolo dell’essere al mondo, e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente. Nell’evidenza di questo mondo completo in cui figurano ancora oggetti maneggevoli, nella forza del movimento che va verso di esso e in cui figurano ancora il progetto di scrivere o di suonare il piano, il malato trova la certezza della sua integrità. Ma nel momento stesso in cui gli dissimula la sua menomazione, il mondo non può fare a meno di rivelargliela: infatti, se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, se è vero che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo: io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo. Nel momento stesso in cui il mio mondo consueto fa sorgere in me sensazioni abituali, non posso più, se sono amputato, unirmi effettivamente a esso: proprio perché si presentano come maneggevoli, gli oggetti maneggevoli interrogano una mano che non ho piú. Cosí, nell’insieme del mio corpo si delimitano regioni di silenzio. Il malato conosce quindi la sua menomazione proprio perché la ignora, e la ignora proprio perché la conosce. Tale paradosso caratterizza tutto l’essere al mondo: portandomi verso un mondo, io dissolvo le mie intenzioni percettive e le mie intenzioni pratiche in oggetti che infine mi appaiono come anteriori ed esteriori rispetto a esse, e che però esistono per me solo in quanto suscitano in me pensieri o volontà.”
MAURICE MERLEAU-PONTY (1908 – 1961), “Fenomenologia della percezione” (1945), trad. e appendice bibliografica a cura di Andrea Bonomi, il Saggiatore, Milano 1972 (II ed., I ed. 1965), Parte prima ‘Il corpo’, ‘L’esperienza e il pensiero oggettivo. Il problema del corpo’, I ‘Il corpo come oggetto e la fisiologia meccanicistica’, pp. 129 – 131.
“ Le refus de la mutilation dans le cas du membre fantôme ou le refus de la déficience dans l’anosognosie ne sont pas des décisions délibérées, ne se passent pas au niveau de la conscience thétique qui prend position explicitement après avoir considéré différents possibles. La volonté d’avoir un corps sain ou le refus du corps malade ne sont pas formulés pour eux-mêmes, l'expérience du bras amputé comme présent ou du bras malade comme absent ne sont pas de l'ordre du «je pense que...»
Ce phénomène, que défigurent également les explications physiologiques et psychologiques, se comprend au contraire dans la perspective de l’être au monde. Ce qui en nous refuse la mutilation et la déficience, c’est un Je engagé dans un certain monde physique et interhumain, qui continue de se tendre vers son monde en dépit des déficiences ou des amputations, et qui, dans cette mesure, ne les reconnaît pas ‹de jure›. Le refus de la déficience n’est que l’envers de notre inhérence à un monde, la négation implicite de ce qui s’oppose au mouvement naturel qui nous jette à nos tâches, à nos soucis, à notre situation, à nos horizons familiers. Avoir un bras fantôme, c’est rester ouvert à toutes les actions dont le bras seul est capable, c’est garder le champ pratique que l’on avait avant la mutilation. Le corps est le véhicule de l’être au monde, et avoir un corps c’est pour un vivant se joindre à un milieu défini, se confondre avec certains projets et s’y engager continuellement. Dans l’évidence de ce monde complet où figurent encore des objets maniables, dans la force du mouvement qui va vers lui et où figurent encore le projet d’écrire ou de jouer du piano, le malade trouve la certitude de son intégrité. Mais au moment même où il lui masque sa déficience, le monde ne peut manquer de la lui révéler: car s’il est vrai que j’ai conscience de mon corps à travers le monde, qu’il est, au centre du monde, le terme inaperçu vers lequel tous les objets tournent leur face, il est vrai pour la même raison que mon corps est le pivot du monde: je sais que les objets ont plusieurs faces parce que je pourrais en faire le tour, et en ce sens j'ai conscience du monde par le moyen de mon corps. Au moment même où mon monde coutumier fait lever en moi des intentions habituelles, je ne puis plus, si je suis amputé, me joindre effectivement à lui, les objets maniables, justement en tant qu'ils se présentent comme maniables, interrogent une main que je n’ai plus. Ainsi se délimitent, dans l’ensemble de mon corps, des regions de silence. Le malade sait donc sa déchéance justement en tant qu’il l’ignore et l’ignore justement en tant qu’il la sait. Ce paradoxe est celui de tout l’être au monde: èn me portant vers un monde, j’écrase mes intentions perceptives et mes intentions pratiques en des objets qui m’apparaissent finalement comme antérieurs et extérieurs à elles, et qui cependant n’existent pour moi qu’en tant qu’ils suscitent en moi des pensées ou des volontés.”
MAURICE MERLEAU-PONTY, “Phénoménologie de la perception”, Gallimard, Paris 2011 (I ed. 1945), Première partie ‘Les Corps’, ‹L’expérience et le pensée objective. Le problème du corps›, I ‘Les corps comme objet et la physiologie mécaniste’, pp. 96 – 97.
Bisogna ritornare ad un mondo anteriore alla conoscenza, di cui la conoscenza parla sempre e nei confronti del quale ogni definizione e determinazione scientifica è astratta e di cui quindi non abbiamo una comprensione intuitiva.
Maurice Merleau-Ponty. Fenomenologia della percezione
"Tutto ciò che sappiamo del mondo, anche tramite la scienza, lo sappiamo a partire da una veduta nostra, o da un’esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’ espressione seconda. La scienza non avrà mai il medesimo senso d’essere del mondo percepito, semplicemente perché essa ne è una determinazione o una spiegazione. Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, signitiva (immaginativa) e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume”.
Maurice Merleau-Ponty. Fenomenologia della percezione
Maurice Merleau-Ponty, La fondazione dell’individualità degli eventi.
“Gli «eventi» sono ritagliati da un osservatore finito nella totalità spazio-temporale del mondo oggettivo. Ma se considero questo mondo stesso, c’è un solo essere indivisibile e immutabile.
Il mutamento presuppone un certo posto in cui io mi pongo e da cui vedo sfilare delle cose; non ci sono eventi senza qualcuno a cui essi accadano, senza qualcuno che, con la sua prospettiva finita, fondi la loro individualità. Il tempo presuppone una veduta sul tempo.
Esso non è quindi come un fiume, non è una sostanza fluente.
Se questa metafora ha potuto conservarsi da Eraclito sino ai giorni nostri, è perché noi mettiamo surrettiziamente nel fiume un testimone della sua corsa. Lo facciamo già quando diciamo che il fiume ‹si› sussegue, poiché ciò equivale a concepire, là ove c’è solo una cosa tutta fuori di sé, una individualità o una interiorità del fiume che dispiega all’esterno le sue manifestazioni. Orbene, non appena introduco l’osservatore, a seconda che egli segua il corso del fiume o che, dalla sua riva, ne constati il passaggio, i rapporti del tempo si capovolgono.”
MAURICE MERLEAU-PONTY (1908 – 1961), “Fenomenologia della percezione” (1945), traduzione e appendice bibliografica a cura di Andrea Bonomi, il Saggiatore, Milano 1972 (II. ed., I ed. 1965), Parte terza ‘L’essere per sé e l’essere al mondo’, II. ‘La temporalità’, p. 527.
“Gli «eventi» sono ritagliati da un osservatore finito nella totalità spazio-temporale del mondo oggettivo. Ma se considero questo mondo stesso, c’è un solo essere indivisibile e immutabile.
Il mutamento presuppone un certo posto in cui io mi pongo e da cui vedo sfilare delle cose; non ci sono eventi senza qualcuno a cui essi accadano, senza qualcuno che, con la sua prospettiva finita, fondi la loro individualità. Il tempo presuppone una veduta sul tempo.
Esso non è quindi come un fiume, non è una sostanza fluente.
Se questa metafora ha potuto conservarsi da Eraclito sino ai giorni nostri, è perché noi mettiamo surrettiziamente nel fiume un testimone della sua corsa. Lo facciamo già quando diciamo che il fiume ‹si› sussegue, poiché ciò equivale a concepire, là ove c’è solo una cosa tutta fuori di sé, una individualità o una interiorità del fiume che dispiega all’esterno le sue manifestazioni. Orbene, non appena introduco l’osservatore, a seconda che egli segua il corso del fiume o che, dalla sua riva, ne constati il passaggio, i rapporti del tempo si capovolgono.”
MAURICE MERLEAU-PONTY (1908 – 1961), “Fenomenologia della percezione” (1945), traduzione e appendice bibliografica a cura di Andrea Bonomi, il Saggiatore, Milano 1972 (II. ed., I ed. 1965), Parte terza ‘L’essere per sé e l’essere al mondo’, II. ‘La temporalità’, p. 527.
Maurice Merleau-Ponty. Il mio corpo è al centro e il perno del mondo.
“Il rifiuto della mutilazione nel caso dell’arto fantasma o il rifiuto della deficienza nella anosognosia non sono decisioni deliberate, non avvengono al livello della coscienza tetica che prende posizione in modo esplicito dopo aver considerato diverse possibilità. La volontà di avere un corpo sano o il rifiuto del corpo malato non sono formulati per se stessi, l’esperienza del braccio malato come assente non appartengono all’ordine dell’«io penso che…».
Questo fenomeno, che tanto le spiegazioni fisiologiche quanto quelle psicologiche rendono irriconoscibile, diviene invece comprensibile nella prospettiva dell’essere al mondo. Quello che in noi rifiuta la mutilazione e la deficienza è un Io impegnato in un certo mondo fisico e interumano, che continua a protendersi verso il mondo nonostante le deficienze o le amputazioni, e che, in questa misura, non le riconosce ‹de jure›. Il rifiuto della deficienza è solo il rovescio della nostra inerenza a un mondo, la negazione implicita di quanto si oppone al movimento naturale che ci getta nei nostri compiti, nelle nostre preoccupazioni, nella nostra situazione, nei nostri orizzonti familiari. Avere un braccio fantasma significa rimanere aperti a tutte le azioni di cui solamente il braccio è capace, conservare il campo pratico che avevamo prima della mutilazione.
Il corpo è il veicolo dell’essere al mondo, e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente. Nell’evidenza di questo mondo completo in cui figurano ancora oggetti maneggevoli, nella forza del movimento che va verso di esso e in cui figurano ancora il progetto di scrivere o di suonare il piano, il malato trova la certezza della sua integrità. Ma nel momento stesso in cui gli dissimula la sua menomazione, il mondo non può fare a meno di rivelargliela: infatti, se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, se è vero che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo: io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo. Nel momento stesso in cui il mio mondo consueto fa sorgere in me sensazioni abituali, non posso più, se sono amputato, unirmi effettivamente a esso: proprio perché si presentano come maneggevoli, gli oggetti maneggevoli interrogano una mano che non ho piú. Cosí, nell’insieme del mio corpo si delimitano regioni di silenzio. Il malato conosce quindi la sua menomazione proprio perché la ignora, e la ignora proprio perché la conosce. Tale paradosso caratterizza tutto l’essere al mondo: portandomi verso un mondo, io dissolvo le mie intenzioni percettive e le mie intenzioni pratiche in oggetti che infine mi appaiono come anteriori ed esteriori rispetto a esse, e che però esistono per me solo in quanto suscitano in me pensieri o volontà.”
MAURICE MERLEAU-PONTY (1908 – 1961), “Fenomenologia della percezione” (1945), trad. e appendice bibliografica a cura di Andrea Bonomi, il Saggiatore, Milano 1972 (II ed., I ed. 1965), Parte prima ‘Il corpo’, ‘L’esperienza e il pensiero oggettivo. Il problema del corpo’, I ‘Il corpo come oggetto e la fisiologia meccanicistica’, pp. 129 – 131.
“ Le refus de la mutilation dans le cas du membre fantôme ou le refus de la déficience dans l’anosognosie ne sont pas des décisions délibérées, ne se passent pas au niveau de la conscience thétique qui prend position explicitement après avoir considéré différents possibles. La volonté d’avoir un corps sain ou le refus du corps malade ne sont pas formulés pour eux-mêmes, l'expérience du bras amputé comme présent ou du bras malade comme absent ne sont pas de l'ordre du «je pense que...»
Ce phénomène, que défigurent également les explications physiologiques et psychologiques, se comprend au contraire dans la perspective de l’être au monde. Ce qui en nous refuse la mutilation et la déficience, c’est un Je engagé dans un certain monde physique et interhumain, qui continue de se tendre vers son monde en dépit des déficiences ou des amputations, et qui, dans cette mesure, ne les reconnaît pas ‹de jure›. Le refus de la déficience n’est que l’envers de notre inhérence à un monde, la négation implicite de ce qui s’oppose au mouvement naturel qui nous jette à nos tâches, à nos soucis, à notre situation, à nos horizons familiers. Avoir un bras fantôme, c’est rester ouvert à toutes les actions dont le bras seul est capable, c’est garder le champ pratique que l’on avait avant la mutilation. Le corps est le véhicule de l’être au monde, et avoir un corps c’est pour un vivant se joindre à un milieu défini, se confondre avec certains projets et s’y engager continuellement. Dans l’évidence de ce monde complet où figurent encore des objets maniables, dans la force du mouvement qui va vers lui et où figurent encore le projet d’écrire ou de jouer du piano, le malade trouve la certitude de son intégrité. Mais au moment même où il lui masque sa déficience, le monde ne peut manquer de la lui révéler: car s’il est vrai que j’ai conscience de mon corps à travers le monde, qu’il est, au centre du monde, le terme inaperçu vers lequel tous les objets tournent leur face, il est vrai pour la même raison que mon corps est le pivot du monde: je sais que les objets ont plusieurs faces parce que je pourrais en faire le tour, et en ce sens j'ai conscience du monde par le moyen de mon corps. Au moment même où mon monde coutumier fait lever en moi des intentions habituelles, je ne puis plus, si je suis amputé, me joindre effectivement à lui, les objets maniables, justement en tant qu'ils se présentent comme maniables, interrogent une main que je n’ai plus. Ainsi se délimitent, dans l’ensemble de mon corps, des regions de silence. Le malade sait donc sa déchéance justement en tant qu’il l’ignore et l’ignore justement en tant qu’il la sait. Ce paradoxe est celui de tout l’être au monde: èn me portant vers un monde, j’écrase mes intentions perceptives et mes intentions pratiques en des objets qui m’apparaissent finalement comme antérieurs et extérieurs à elles, et qui cependant n’existent pour moi qu’en tant qu’ils suscitent en moi des pensées ou des volontés.”
MAURICE MERLEAU-PONTY, “Phénoménologie de la perception”, Gallimard, Paris 2011 (I ed. 1945), Première partie ‘Les Corps’, ‹L’expérience et le pensée objective. Le problème du corps›, I ‘Les corps comme objet et la physiologie mécaniste’, pp. 96 – 97.
Maurice Merleau-Ponty. - Il mio corpo è cosa o è idea? –
“Noi non vediamo, non udiamo le idee, nemmeno con l’occhio dello spirito o con il terzo orecchio: e tuttavia, le idee sono là, dietro i suoni o fra di essi, dietro le luci o fra di esse, riconoscibili dal loro modo sempre particolare, sempre unico, di ritrarsi dietro di quelli, «perfettamente distinte le une dalle altre, ineguali, ineguali fra loro di valore e di significato».
Con la prima visione, con il primo contatto, con il primo piacere, c’è iniziazione, e cioè non posizione di un contenuto, ma apertura di una dimensione che non potrà più essere richiusa, instaurazione di un livello in rapporto al quale, ormai, ogni altra esperienza sarà riferita. L’idea è questo livello, questa dimensione, e quindi non un invisibile di fatto, come un oggetto nascosto dietro un altro, non un invisibile assoluto, che non avrebbe niente a che fare con il visibile, ma l’invisibile ‹di› questo mondo, quello che lo abita, lo sostiene e lo rende visibile, la sua possibilità interna e propria, l’Essere di questo essente. Nell’istante in cui si dice «luce», nell’istante in cui i musicisti giungono alla «piccola frase», non c’è nessuna lacuna in me; ciò che io vivo è tanto «consistente», tanto «esplicito» quanto potrebbe esserlo un pensiero positivo, – anzi, molto di più: un pensiero positivo è quello che è, ma, per l’appunto, non è altro che ciò, e in questa misura non può fissarci. Lo spirito è condotto già altrove dalla propria inafferrabilità. Proprio perché esse sono negatività o assenza circoscritta, noi non possediamo le idee musicali o sensibili, ma ne siamo posseduti. Non è l’esecutore che produce o riproduce la sonata: egli si sente, e gli altri si sentono, al servizio della sonata, è essa a cantare attraverso di lui, o a gridare così bruscamente che egli deve «balzare sull’archetto» per seguirla. E questi vortici aperti nel mondo sonoro ne formano infine uno solo in cui le idee si accordano l’una all’altra. «Mai linguaggio parlato non fu necessità così inflessibile, mai non conobbe comande così pertinenti, risposte così evidenti». L’essere invisibile e, per così dire, debole, è l’unico capace di questa fitta trama. C’è una idealità rigorosa in esperienze che sono esperienze della carne: i momenti della sonata, i frammenti del campo luminoso, aderiscono l’uno all’altro in virtù di una coesione senza concetto che è affine alla coesione delle parti del mio corpo o a quella del mio corpo e del mondo. Il mio corpo è cosa o è idea? Non è né l’una né l’altra, essendo il misurante delle cose. Dovremo quindi riconoscere una idealità che non è estranea alla carne, che le dà i suoi assi, la sua profondità, le sue dimensioni.”
MAURICE MERLEAU-PONTY (1908 – 1961), “Il visibile e l’invisibile” (1964), testo stabilito da Claude Lefort, nuova ed. italiana a cura di Mauro Carbone, trad. di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano 2009 (I ed. 1969), ‘Il visibile e la natura’ – ‘L’interrogazione filosofica’, ‘L’intreccio – Il chiasma’, pp. 166 – 167.
Nell'orrore della prima guerra mondiale, Paul Wittgenstein, pianista e fratello del filosofo, perse il braccio destro; a stento posso immaginare cosa possa aver provato, non solo la perdita del lavoro, di ore e anni di studio, di fatica recisi in un istante da una granata, ma la perdita di un mondo, di quel rapporto tattile con lo strumento che dà sicurezza e permette di esprimere gioia, dolore e rabbia. Ma un compositore di genio, amico dei Wittgenstien e su loro commissione, Maurice Ravel, compone il concerto per solo mano sinistra. Paul allora ritorna sano, non deve più accontentarsi di quattro note improvvisate, o di leggere solo un pentagramma; il mondo del pianoforte, dell'Arte si riapre per lui, e la sua mano sinistra concerta con l'orchestra. Davanti a questo capolavoro mi chiedo chi sia il pianista dal corpo integro, se quello con un due braccia, o quello con uno solo. Forse il compositore francese ha creato un nuovo mondo per un nuovo corpo...
https://www.youtube.com/watch?v=tSxcXdXqLvA
Nell'orrore della prima guerra mondiale, Paul Wittgenstein, pianista e fratello del filosofo, perse il braccio destro; a stento posso immaginare cosa possa aver provato, non solo la perdita del lavoro, di ore e anni di studio, di fatica recisi in un istante da una granata, ma la perdita di un mondo, di quel rapporto tattile con lo strumento che dà sicurezza e permette di esprimere gioia, dolore e rabbia. Ma un compositore di genio, amico dei Wittgenstien e su loro commissione, Maurice Ravel, compone il concerto per solo mano sinistra. Paul allora ritorna sano, non deve più accontentarsi di quattro note improvvisate, o di leggere solo un pentagramma; il mondo del pianoforte, dell'Arte si riapre per lui, e la sua mano sinistra concerta con l'orchestra. Davanti a questo capolavoro mi chiedo chi sia il pianista dal corpo integro, se quello con un due braccia, o quello con uno solo. Forse il compositore francese ha creato un nuovo mondo per un nuovo corpo...
https://www.youtube.com/watch?v=tSxcXdXqLvA
Povero corpo sempre vilipeso ma qualcuno si è accorto che non c'è altri che te a misurare il mondo. Eppure anche ammesso questo pretendono che sia una "idealità" a guidarti. Non lo vogliamo proprio ammettere d'essere carne ossa e nervi, teniamo molto a quintessenze in cui si trovi espresso il nostro valore: spirito, cassa di risparmio della nostra umanità.
La fenomenologia è tanto potente sul piano epistemologico che è divenuta appiglio anche per le discipline neuroscientifiche (psicologia, neropsicologia, scienze cognitive, neurobiologia...)... ove si restituisce al corpo dignità NON solo come ente tra enti del mondo... ma sede della nostra soggettività più complessa...
Maurice Merleau-Ponty.
Reversibilità e unità: il linguaggio (Valéry)
“La nostra esistenza di vedenti, ossia […] di esseri che rivoltano il mondo su se stesso e che passano dall’altra parte, e che si vedono vicendevolmente, che vedono l’uno con gli occhi dell’altro, e soprattutto la nostra esistenza di esseri sonori per gli altri e per se stessi, contengono tutto ciò che è richiesto perché dall’uno all’altro ci sia parola, parola sul mondo. E, in un certo senso, comprendere una frase non è altro che accoglierla pienamente nel suo essere sonoro, o, come s dice opportunamente , ‘intenderla’; il senso non è su di essa come il burro sulla tartina, come un secondo strato di <realtà psichica> estesa sul suono: esso è la totalità di ciò che è detto, l’integrale di tutte le differenziazioni della catena verbale, è dato con le parole in coloro che hanno orecchie per udire. E reciprocamente, tutto il paesaggio è invaso dalle parole, non è più, ai nostri occhi, se non una variante della parola, e parlare del suo <stile> significa per noi una metafora. […] E in certo senso, come dice Valéry, il linguaggio è tutto, perché esso non è la voce di nessuno, perché è la voce stessa delle cose, delle onde e dei boschi. Si deve altresì comprendere che, dall’una all’altra di queste vedute, non c’è rovesciamento dialettico, non abbiamo il compito di riunirle in una sintesi: esse sono due aspetti della reversibilità che è vera unità.”
MAURICE MERLEAU-PONTY (1908 – 1961), “ll visibile e l’invisibile”, testo stabilito da Claude Lefort, nuova ed. a cura di Mauro Carbone, trad. it. di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano 2009, ‘Il visibile e la natura – L’interrogazione filosofica’, ‘L’intreccio – Il chiasma’, p. 170.
“ Nous ne voyons pas, n’entendons pas les idées, et pas même avec l’oeil de l’esprit ou avec la troisième oreille: et pourtant, elles sont là, derrière les sons ou entre eux, derrière les lumières ou entre elles, reconnaissables à leur manière toujours spéciale, toujours unique, de se retrancher derrière eux, «parfaitement distinctes les unes des autres, inégales entre elles de valeur et de signification».
Avec la première vision, le premier contact, le premier plaisir, il y a initiation, c’est-à-dire, non pas position d’un contenu, mais ouverture d’une dimension qui ne pourra plus être refermée, établissement d’un niveau par rapport auquel désormais toute autre experience sera repérée. L’idée est ce niveau, cette dimension, non pas donc un invisible de fait, comme un objet caché derrière un autre, et non pas un invisible absolu, qui n’aurait rien à faire avec le visible, mais l’invisible de ce monde, celui qui l’habite, le soutient et le rend visible, sa possibilité intérieure et propre, l’Être de cet étant. À l'instant où l’on dit «lumière», à l’instant où les musiciens arrivent à la «petite phrase», il n’y a nulle lacune en moi; ce que je vis est aussi «consistant», aussi «explicite», que pourrait l’être une pensée positive - beaucoup plus même: une pensée positive est ce qu’elle est, mais, précisément, n’est que cela, et dans cette mesure elle ne peut nous fixer. Déjà la volubilité de l’esprit le mène ailleurs. Les idées musicales ou sensibles, précisément parce qu’elles sont négativité ou absence circonscrite, nous ne les possédons pas, elles nous possèdent. Ce n’est plus l’exécutant qui produit ou reproduit la sonate: il se sent, et les autres le sentent, au service de la sonate, c’est elle qui chante à travers lui, ou qui crie si brusquement qu’il doit «seprécipiter sur son archet» pour la suivre. Et ces tourbillons ouverts dans le monde sonore n’en font enfin qu’un seul où les idées s’ajustent l’une à l’autre. «Jamais le langage parlé ne fut si inflexiblement nécessité, ne connut à ce point la pertinence des questions, l’évidence des réponses» L’être invisible et, pour ainsi dire, faible est seul capable de cette texture serrée. Il y a une idéalité rigoureuse dans des expériences qui sont expériences de la chair: les moments de la sonate, les fragments du champ lumineux, adhèrent l’un à l’autre par une cohésion sans concept, qui est du même type que la cohésion des parties de mon corps, ou celle de mon corps et du monde. Mon corps est-il chose, est-il idée? Il n’est ni l’un ni l’autre, étant le mesurant des choses. Nous aurons donc à reconnaître une idéalité qui n’est pas étrangère à la chair, qui lui donne ses axes, sa profondeur, ses dimensions.”
MAURICE MERLEAU-PONTY, “Le visible et l’invisible”, suivi de «Notes de travail», texte établi par Claude Lefort, accompagné d’un ʻAvertissementʼ et d’une ‘Postface’, Gallimard, Paris 2001 (I éd. 1964), ‘Le visible et la nature’ – ‘L’interrogation philosophique’, ‘Lentrelacs – le chiasme’, pp. 195 – 197.
“ Notre existence de voyants, c'est-à-dire, […] d'êtres qui retournent le
monde sur lui-même et qui passent de l'autre côté, et qui s'entre-voient, qui voient par les yeux l'un de l'autre, et surtout notre existence d'êtres sonores pour les autres et pour eux-mêmes, contiennent tout ce qui est requis pour qu'il y ait de l'un à l'autre parole, parole sur le monde. Et, en un sens, comprendre une phrase ce n'est rien d'autre que l'accueillir pleinement dans son être sonore, ou, comme on dit si bien, ‘l'entendre’; le sens n'est pas sur elle comme le beurre sur la tartine, comme une deuxième couche de <réalité psychique> étendue sur le son: il est la totalité de ce qui est dit, l'intégrale de toutes les différenciations de la chaîne verbale, il est donné avec les mots chez ceux qui ont des oreilles pour entendre. Et réciproquement, tout le paysage est envahi par les mots comme par une invasion, n'est plus à nos yeux qu'une variante de la parole, et parler de son <style> c'est à nos yeux faire une métaphore. […] Et en un sens, comme dit Valéry, le langage est tout, puis qu'il n'est la voix de personne, qu'il est la voix meme des choses, des ondes et des bois. Et ce qu'il faut comprendre, c'est que, de l'une à l'autre de ces vues, il n'y a pas renversement dialectique, nous n'avons pas à les rassembler dans une synthèse: elles sont deux aspects de la réversibilité qui est vérité ultime.”
MAURICE MERLEAU-PONTY, “Le visible et l’invisible”, texte établi par Claude Lefort, accompagné d’un avertissement et d’une postface, Gallimard, Paris 1964, ‘Le visible et la nature – L’Interrogation philosophique’, ‘L’entrelacs – le chiasme’, pp. 200 – 201.
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