giovedì 11 luglio 2019

Martin Heidegger.

Heidegger diceva che uno dei modi d’essere attraverso cui l’uomo esplica la sua natura e persegue l’obbiettivo di rispondere ai suoi interrogativi ontologici è prendersi cura.
Delle cose, di se stessi, ma soprattutto degli altri.
Una parafrasi esistenzialista della potenza dell’amore.
https://c-brescia.tumblr.com/post/185498814255/heidegger-diceva-che-uno-dei-modi-dessere




Per quanto frantumata possa apparire la vita quotidiana, nondimeno essa mantiene ancor sempre l’ente, anche se nell’ombra, in un’unità del “tutto”. Anche quando e proprio quando, non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi, ci soprassale questo “tutto” , per esempio nella noia autentica. Essa è ancora lontana quando ad annoiarci è solo questo libro o quello spettacolo, quell’occupazione o quest’ozio, ma affiora quando “uno s’annoia”. La noia profonda che va e viene nella profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela l’ente nella sua totalità.
Martin Heidegger, Che cos'è la metafisica, 1929


«Ci troviamo, per esempio, in una insulsa stazione di una sperduta ferrovia secondaria. Il primo treno arriverà tra quattro ore. La zona è priva di attrattive. E’ vero, abbiamo un libro nello zaino – dunque leggere? No. Oppure riflettere su una questione, su un problema? Non va. Leggiamo gli orari oppure studiamo l’elenco delle varie distanze di questa stazione da altri luoghi che non ci sono noti altrimenti. Guardiamo l’orologio – è appena passato un quarto d’ora. Allora usciamo fuori, sulla strada maestra. Camminiamo su e giù, tanto per fare qualcosa. Ma non serve a niente. Contiamo gli alberi lungo la strada, guardiamo nuovamente l’orologio: appena cinque minuti da quando l’abbiamo consultato. Stufi di andare su e giù, ci sediamo su una pietra, tracciamo ogni sorta di figure sulla sabbia, e ci sorprendiamo nuovamente a guardare l’orologio; è passata una mezz’ora; e così di seguito. Una situazione quotidiana, con le ben note, banali ma del tutto spontanee, forme di scaccia tempo».
Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, 1929.



«Siamo invitati da qualche parte per la sera. Non siamo obbligati ad andarvi. Ma siamo stati tesi e impegnati tutto il giorno,  e per la sera abbiamo del tempo libero. Così ci andiamo. C’è la solita cena con la solita conversazione a tavola, tutto è non soltanto molto buono, ma anche di buon gusto. Poi, come si dice, si sta insieme in allegria, si ascolta magari della musica, si chiacchiera, l’atmosfera è simpatica e divertente. E’ già ora di andare via. Le signore, non solo al momento dei saluti, ma anche a piano terra e per strada, quando ci si ritrova per proprio conto, assicurano che tutto è stato veramente molto piacevole, oppure che è stato incredibilmente incantevole. In effetti è così. Non si trova proprio nulla che in questa serata possa essere stato noioso, né la conversazione né la gente né i locali. Si ritorna dunque a casa pienamente soddisfatti. Si dà ancora una rapida occhiata al proprio lavoro, interrotto la sera, si fa un calcolo approssimativo e una rapida previsione per il giorno successivo,– ed ecco qui: questa sera mi sono proprio annoiato di questo invito. Ma come? Con tutta la buona volontà non riusciamo a trovare nulla che ci abbia annoiato. Eppure io mi sono annoiato. Ma di che cosa? Io mi sono annoiato; per caso, in qualche modo, ho annoiato me stesso? Sono stato io la causa della mia noia? Ci ricordiamo però in modo inequivocabile che non solo non c’era nulla di noioso, ma che io non mi sono neppure per un attimo occupato di me stesso, in una qualche estemporanea riflessione fra me e me, che abbia potuto far da presupposto alla noia. Al contrario ero completamente presente nella conversazione e in tutto il resto. Ma non diciamo neanche: mi sono annoiato di me, bensì della serata a cui sono stato invitato. O forse tutto questo dire a posteriori che mi sono veramente annoiato, è soltanto un inganno, che deriva da  una tardiva irritazione dovuta al fatto che ho sacrificato e perduto questa serata? No, è chiarissimo: ci siamo annoiati, anche se tutto è stato così piacevole. O forse è proprio di questa piacevolezza della serata che ci siamo annoiati?»
Martin Heidegger,  Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, 1929.



Heidegger , Il linguaggio è la casa dell'essere. 
Per Heidegger il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo. Il filosofo compie un’analisi critica della téchne e della conoscenza di tipo epistemico, che si fonda sulla logica e perde l’essere.

[...] nel pensiero l'essere viene al linguaggio.
Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire è probabilmente il piú semplice e nello stesso tempo il piú alto, perché riguarda il riferimento dell'essere all'uomo. Ma ogni operare riposa nell'essere e mira all'ente. Il pensiero, invece, si lascia reclamare dall'essere per dire la verità dell'essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare. [...] Se vogliamo imparare a esperire nella sua purezza, e cioè nello stesso tempo a portare a compimento, la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dall'interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele. In tale interpretazione, infatti, il pensiero è inteso come una téchne, come il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre. Ma già qui il riflettere è visto in riferimento alla práxis e alla poíesis. Per questo il pensiero, se lo si prende per se stesso, non è “pratico”. La caratterizzazione del pensiero come theoría e la determinazione del conoscere come atteggiamento “teoretico” avvengono già all'interno dell'interpretazione “tecnica” del pensiero. Essa è un tentativo di reazione per salvare ancora un'autonomia del pensiero nei confronti dell'agire e del fare. Da allora la “filosofia” si trova nella costante necessità di giustificare la propria esistenza di fronte alle “scienze”. Essa pensa che ciò possa avvenire nel modo piú sicuro elevandosi a sua volta al rango di una scienza. Ma questo sforzo è l'abbandono dell'essenza del pensiero. La filosofia è perseguitata dal timore di perdere in considerazione e in valore se non è una scienza. Questo fatto è considerato una deficienza ed è assimilato alla non scientificità. Nell'interpretazione tecnica del pensiero, l'essere come elemento del pensiero, è abbandonato. La “logica” è la sanzione di questa interpretazione che prende l'avvio dalla sofistica e da Platone. Si giudica il pensiero con una misura a esso inadeguata. Questo modo di giudicare equivale al processo che tenta di valutare l'essenza e le facoltà del pesce in base alle sue capacità di vivere all'asciutto. Già da molto, anzi da troppo tempo, il pensiero si trova all'asciutto. Ora, si può chiamare “irrazionalismo” lo sforzo di portare di nuovo il pensiero nel suo elemento?
M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 267-269


“La mia convinzione è che solo a partire dallo stesso luogo del mondo, nel quale è sorto il moderno mondo tecnico, possa prepararsi anche un rovesciamento, e che esso non può avere luogo tramite l’assunzione del buddismo zen o di altre esperienze orientali del mondo. Per cambiare modo di pensare è necessario l’aiuto della tradizione europea e di una sua riappropriazione. Il pensiero viene modificato solo da quel pensiero che ha la stessa provenienza e la stessa destinazione.” 
Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Edizioni Guanda, 1987, p. 136, 149.



«Gioisca!» - questo è diventato il mio saluto per lei.
E soltanto se lei gioisce potrà diventare la donna capace di donare gioia, e intorno alla quale tutto è gioia, sicurezza, rilassamento, ammirazione e gratitudine verso la vita.
Martin Heidegger ad Hannah Arendt, 10 novembre 1925


Heidegger era interessato alla libertà. In ciò sta il suo tentativo di superare la metafisica
In "che cos'è metafisica" Heidegger fa un bellissimo paragone. Afferma che se la metafisica sono le radici di un albero, il suo tentativo è quello di partire dal suolo in cui affondano le radici, e quindi dall'esserci, da colui che si pone la domanda sul senso dell'essere.
Da qui cambia radicalmente la prospettiva del discorso filosofico, che non vede più l'essere e la sua verità come un qualcosa da porre su un tavolo operatorio e vivisezionare in modo freddo.
Ogni discorso parte dall'esserci, dall'esserci in quando cura, dall'esserci in quanto gettato storicamente e in relazione con gli enti, enti che, partendo dall'esserci, altro non possono essere visti che come strumenti, rispetto ai quali spicca ciò che, appunto, va oltre gli enti.
Secondo me la critica alla differenza ontologica di Heidegger non tiene in sufficiente considerazione tutto ciò: è come se si volesse criticare Heidegger guardando insieme a lui il tavolo operatorio, non avvedendosi che Heidegger, quando intendeva la differenza ontologica, partiva da chi sul tavolo operatorio non è, ovvero da chi guarda.
Maurizio Gambett

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