La cosa che più mi colpisce come psicanalista è vedere che il sintomo più diffuso tra i giovani, aldilà della depressione, l’anoressia, il panico, le droghe, sia il fatto che sono senza desiderio, che sono vite senza desiderio.
Massimo Recalcati, psicoanalista
Uno dei problemi della scuola di oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall'attività didattica
Massimo Recalcati
Soffermiamoci su almeno due grandi nuove angosce dei genitori di oggi. La prima è relativa all'esigenza di sentirsi amati dai loro figli. Questa esigenza è inedita e ribalta la dialettica del riconoscimento: non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata. Per risultare amabili è necessario dire sempre «Sì!», eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudo-democratico del dialogo. In questo modo si produce una collusività patogena tra questo «Sì!» perpetuo e il «Perché no?» perverso che ispira il discorso sociale dominante.
Massimo Recalcati, psicoanalista
Massimo Recalcati. La perdita del centro psichico così l'Io è diventato liquido.
Il nostro tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman, l'esasperazione del carattere liquido dell'identità: cambiamento di sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda:
«Chi crediamo di essere?».
L'identità vacilla, barcolla, diventa un concetto sempre più mobile, borderline.
Mentre l'età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima, spirito, cogito, ragione. Io) che avesse, come scrisse Descartes, la stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno, quale è il nostro, l'identità si pare dissolversi in un camaleontismo permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso, sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da una liquefazione dell'identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il deficit dell'Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria dell'Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il primo colpo mostrando che la terra non è il centro dell'universo; Darwin il secondo affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più scabroso e decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche dell'Io, fu quello di Freud che ha evidenziato come l'Io non sia «padrone nemmeno in casa propria». L'identità dell'Io non è un centro statico dal quale si irradia la personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino servitore di tre padroni: tirato dall'Es, dal Super-Io e dalla realtà esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Su queste orme Lacan concepirà l'Io non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido. Per questa ragione egli riteneva che la «follia più grande» dell'uomo è quella di «credersi davvero un Io».
Se però l'Io non è più il centro permanente della nostra vita psichica tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide. L'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è probabilmente l'elogio Filosoficamente più alto di questa nuova prospettiva: l'identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell'età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita. Anziché vivere con angoscia la perdita di centro essa viene salutata come una grande possibilità di apertura e di liberazione. Nondimeno, come il rovescio di una stessa medaglia, questa evaporazione dell'Io innesca — come esito di un movimento reattivo che Bauman non ha colto sufficientemente — l'esigenza di trovare una identità solida. Il vento del fondamentalismo spira chiaramente in questa direzione: il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature. Noi siamo quello che pensiamo di essere, punto. L'Io torna ad essere padrone più che mai non solo in casa propria, ma anche in quella degli altri. Si riabilita così una concezione paranoica dell'identità fondata sull'esistenza, altrettanto solida, dei suoi "nemici" più irriducibili. Si tratta di una riabilitazione che può risultare altamente attrattiva anche per un Occidente che ha perduto il suo centro identitarie Nietzsche ci aveva ammoniti: verrà un tempo dopo la morte di Dio — dopo la perdita irreversibile del "centro" — dove gli uomini adoreranno la sua ombra in lugubri caverne afflitti dalla nostalgia di un mondo che non esiste più. Anziché vivere le turbolenze del mare aperto essi cercheranno porti sicuri per le loro barche.
http://psy.telpress.it/html/viewTextByEmail.php
Massimo Recalcati, psicoanalista
Uno dei problemi della scuola di oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall'attività didattica
Massimo Recalcati
Soffermiamoci su almeno due grandi nuove angosce dei genitori di oggi. La prima è relativa all'esigenza di sentirsi amati dai loro figli. Questa esigenza è inedita e ribalta la dialettica del riconoscimento: non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata. Per risultare amabili è necessario dire sempre «Sì!», eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudo-democratico del dialogo. In questo modo si produce una collusività patogena tra questo «Sì!» perpetuo e il «Perché no?» perverso che ispira il discorso sociale dominante.
Massimo Recalcati, psicoanalista
Massimo Recalcati. La perdita del centro psichico così l'Io è diventato liquido.
Il nostro tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman, l'esasperazione del carattere liquido dell'identità: cambiamento di sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda:
«Chi crediamo di essere?».
L'identità vacilla, barcolla, diventa un concetto sempre più mobile, borderline.
Mentre l'età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima, spirito, cogito, ragione. Io) che avesse, come scrisse Descartes, la stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno, quale è il nostro, l'identità si pare dissolversi in un camaleontismo permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso, sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da una liquefazione dell'identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il deficit dell'Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria dell'Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il primo colpo mostrando che la terra non è il centro dell'universo; Darwin il secondo affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più scabroso e decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche dell'Io, fu quello di Freud che ha evidenziato come l'Io non sia «padrone nemmeno in casa propria». L'identità dell'Io non è un centro statico dal quale si irradia la personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino servitore di tre padroni: tirato dall'Es, dal Super-Io e dalla realtà esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Su queste orme Lacan concepirà l'Io non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido. Per questa ragione egli riteneva che la «follia più grande» dell'uomo è quella di «credersi davvero un Io».
Se però l'Io non è più il centro permanente della nostra vita psichica tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide. L'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è probabilmente l'elogio Filosoficamente più alto di questa nuova prospettiva: l'identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell'età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita. Anziché vivere con angoscia la perdita di centro essa viene salutata come una grande possibilità di apertura e di liberazione. Nondimeno, come il rovescio di una stessa medaglia, questa evaporazione dell'Io innesca — come esito di un movimento reattivo che Bauman non ha colto sufficientemente — l'esigenza di trovare una identità solida. Il vento del fondamentalismo spira chiaramente in questa direzione: il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature. Noi siamo quello che pensiamo di essere, punto. L'Io torna ad essere padrone più che mai non solo in casa propria, ma anche in quella degli altri. Si riabilita così una concezione paranoica dell'identità fondata sull'esistenza, altrettanto solida, dei suoi "nemici" più irriducibili. Si tratta di una riabilitazione che può risultare altamente attrattiva anche per un Occidente che ha perduto il suo centro identitarie Nietzsche ci aveva ammoniti: verrà un tempo dopo la morte di Dio — dopo la perdita irreversibile del "centro" — dove gli uomini adoreranno la sua ombra in lugubri caverne afflitti dalla nostalgia di un mondo che non esiste più. Anziché vivere le turbolenze del mare aperto essi cercheranno porti sicuri per le loro barche.
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La famiglia secondo Massimo Recalcati
Massimo Recalcati (2011), tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia, sostiene che il legame familiare sia casa, alleanza e radice. Il legame familiare risponde cioè al bisogno di appartenenza che è caratteristica insita nell’essere umano. Ma questo bisogno è sempre accompagnato, secondo Recalcati, dall’esigenza dell’erranza, e cioè dalla spinta al non ancora visto, saputo e sperimentato.
Appartenenza ed erranza caratterizzano due poli della soggettività umana che corrispondono da un lato, alla tendenza all’identificazione e all’appartenere ad una comunità, e dall’altro lato, alla tendenza al viaggio, a fare nuove esperienze e a separarsi. Secondo questo punto di vista, il legame familiare dovrebbe essere quel legame che rende possibile l’allontanamento, in quanto dovrebbe accettare il rivelarsi della differenza del singolo senza pretendere l’omogeneità. Quindi questo legame non è solo ciò che rende possibile l’esperienza dell’appartenenza ma sa anche sopportare la separazione e la perdita date da una forza, quella della differenziazione, che allontana l’individuo dal nucleo familiare, rivelandosi perciò erranza.
Quindi appartenenza ed erranza sono le due anime che ravvivano e rinforzano il legame familiare. Questi termini corrispondono, in termini bioniani, alla dialettica tra “socialismo” , inteso come appartenenza alla cultura del proprio gruppo, e “narcisismo”, inteso come differenziazione dal gruppo di appartenenza.
La malattia di ogni legame, anche quello familiare, è data quindi dalla frattura di questo binomio. Nella malattia si avrà perciò, o il conformismo, come conseguenza della dominanza del socialismo sul narcisismo, o la derelizione, come effetto della dominanza del narcisismo sul socialismo[1]. Recalcati, inoltre, afferma che il problema che contraddistingue il nostro tempo riguarda, in particolare, la questione del come riuscire a preservare la funzione educativa caratteristica del legame familiare. Riguardo questa delicata questione l’autore si chiede <<Come vi può essere educazione […] se l’imperativo che orienta il discorso sociale s’intona perversamente come un “Perché no?” che rende insensata ogni esperienza del limite?>>[2], e aggiunge ancora <<Il nuovo disagio della giovinezza non è più segnato dall’Edipo, non si produce dal conflitto tra le generazioni, dalla tragedia dell’usurpazione, dal carattere trasgressivo del desiderio che infrange la Legge>>[3] ma piuttosto questo disagio <<prodotto dal capitalista, è un disagio legato a un effetto di intasamento e di intossicazione generato dall’eccesso di godimento e dal declino della funzione simbolica della castrazione>>[4].
Recalcati sostiene a questo proposito, che resta indispensabile che qualcuno si assuma il peso dell’atto di introdurre la castrazione simbolica. Secondo l’autore, il doppio compito della funzione paterna è quello, da un lato, di introdurre, quando è opportuno, un “No!” che non lasci dubbi e al tempo stesso di saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione, ovvero fornire una testimonianza di come si possa esistere senza suicidarsi o impazzire basandosi sulla capacità di rendere questa esistenza degna di essere vissuta. L’autore identifica due grandi angosce che appartengono ai genitori del nostro tempo: la prima è relativa all’esigenza, dei genitori, di sentirsi amati dai propri figli, e per risultare amabili è necessario dire sempre di “Si”, eliminando il disagio del conflitto, ma anche delegando le proprie responsabilità educative. La seconda angoscia è quella legata al principio di prestazione , ovvero l’insuccesso e il fallimento dei propri figli sono sempre meno tollerati. La famiglia attuale si mobilita per rimuovere prontamente l’ostacolo non permettendo però al figlio di avere il giusto tempo per farne esperienza. Ne consegue che i giovani non risulteranno capaci a tollerare il fallimento, perché a non sopportarlo sono innanzitutto i loro genitori[5].
[1] Massimo Recalcati , Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011
[2] Ivi, p. 104
[3] Ibidem
[4] Ivi, p. 105
[5] Ivi, p. 111
di Carlotta Sabbatini
http://www.igorvitale.org/2015/01/12/la-psicologia-della-famiglia-secondo-massimo-recalcati/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=la-psicologia-della-famiglia-secondo-massimo-recalcati
Un bellissimo saggio di Massimo Recalcati
"Il complesso di Telemaco" in cui Telemaco é un antiEdipo liberato dai ceppi del mito, in quanto a differenza di Edipo supera la relazione simmetrica e distruttiva con il padre, e quindi il tema destinale della hibrys, della tracotanza nel voler sfidare le leggi stabilite dagli dei e la conseguente nemesi, il castigo divino con l'autoaccecamento, la perdita del trono e l'esilio. ....Infatti
«Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra … egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora una giustizia giusta per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’autoaccecamento – come marchio indelebile della colpa – quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca, per il grande eroe che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’insidia di coltivare un’ attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio di confondersi con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un’assenza. Nessun Dio-padre ci potrà salvare: la nostalgia per un padre-eroe è sempre in agguato! … Dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, nuovi sindaci dal sorriso gentile, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire, il senso dell’ orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà".
Massimo Recalcati. Il complesso di Telemaco, genitori e figli dopo il tramonto del padre
"Siamo stati tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse. E si potrebbe aggiungere, come fa Mario Perrotta nella sua intensa rivisitazione teatrale dell’Odissea, che "qualcosa torna sempre dal mare". Eppure, diversamente da Telemaco, noi non siamo stati figli di Ulisse. La nostra eredità non è l’eredità di un Regno. Noi non siamo stati principi in attesa del ritorno del padrere. Se Telemaco, come vedremo in questo libro, ci indica la via del modo giusto di ereditare, la condizione dei giovani - Telemaco di oggi è quella dei diseredati: assenza di futuro, distruzione dell’esperienza, caduta del desiderio, schiavitù del godimento mortale, disoccupazione, precarietà. I nostri figli popolano la scura "notte dei Proci"? Quale padre li potrà salvare se il nostro tempo è quello del suo tramonto irreversibile? I nostri figli non ereditano un Regno, ma un corpo morto, una terra sfiancata, una economia impazzita, un indebitamento illimitato, la mancanza di lavoro e di orizzonte vitale. I nostri figli sono esausti. Perché allora, come provo a sostenere in questo libro, Telemaco può essere il paradigma della loro posizione nel mondo? Perché Telemaco e non Edipo e la sua rabbiosa lotta mortale con il padre? Perché Telemaco è la forma più alta e giusta dell’Anti-Edipo: egli non è né vittima del padre, né si schiera ottusamente contro il padre. Telemaco è il giusto erede, è il figlio giusto. "Non è solo un giovane che cerca suo padre, ma è il giovane che ha bisogno di un padre. Telemaco è l’icona del figlio." È questo un tema centrale del libro e di ciò che si nomina come "complesso di Telemaco": Edipo non riesce a essere figlio e la stessa sorte accade a Narciso. Queste due figure della mitologia classica sono state elette da Freud e dalla psicoanalisi a personaggi-paradigmi del teatro dell’inconscio. Ma nessuno dei due accede alla dimensione generativa dell’erede che l’essere figli comporta. Edipo resta prigioniero del suo odio rivestito di amore per il padre - il padre come Ideale e il padre come rivale costituiscono i due poli dell’oscillazione tipica di quello che Freud ha nominato come "complesso di Edipo" -, mentre Narciso non riesce a separarsi dalla propria immagine idealizzata la cui fascinazione lo conduce verso l’abisso del suicidio. La rivalità (Edipo) e l’isolamento autistico (Narciso) non rendono possibile il movimento singolare dell’ereditare senza il quale viene meno ogni filiazione simbolica e, di conseguenza, la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra."
Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco.Genitori e figli dopo il tramonto del padre
Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco.Genitori e figli dopo il tramonto del padre
Le mani della madre. Massimo Recalcati.
Secondo Massimo Recalcati; Chi è la buona madre?
Rispondere alla domanda delle domande,
ovvero che cosa fa di una madre una buona madre.
E dà la stessa risposta di Lacan:
se la madre è, secondo Freud, il primo soccorritore, l’essere che consente il soddisfacimento dei bisogni primari, per essere una buona madre deve continuare anche a essere donna, ad amare il mondo e a non fare del proprio figlio l’unico centro di interesse.
Le madri che si sacrificano per la vita del figlio tendono anche a inglobarne l’esistenza, come in una eterna gravidanza:
sono quelle che Lacan chiama madri coccodrillo, la cui frequenza, dice Recalcati, è più alta nelle società in cui i padri incarnano la Legge (ruolo che hanno oggi abdicato) e in cui le madri incarnano la cura. Se il desiderio di maternità si trasforma in desiderio del figlio, soffocandone la legittima necessità di autonomia, si realizza la figura della madre che fagocita, con le fauci aperte, la vita della propria progenitura. Le madri coccodrillo sono la psicopatologia della maternità del passato patriarcale, ma le madri narcise sono la psicopatologia della maternità moderna, afferma Recalcati. Se le prime inglobano i figli, le seconde li rigettano perché troppo occupate a perseguire il successo nel lavoro o le relazioni personali. È questa la parte del libro che ha suscitato maggiore dibattito, in particolare nel mondo femminista: le donne-madri sono sempre, in un modo o nell’altro, in precario equilibrio tra l’essere troppo poco e l’essere troppo, tra donare quello che hanno (il seno, il nutrimento) e ciò che non hanno (essenzialmente il tempo). Eppure in questo dono è la loro essenza, dice Recalcati, riportando la lettrice che è anche madre all’eterna ricerca della perfezione, del troppo che non stroppia. L’eredità dei padri è la Legge (il cui scopo principale è di mitigare il desiderio che, senza limiti, diventa fonte di guai), ma l’eredità delle madri è la cura del particolare, perché ogni figlio è unico. Il tutto però deve avvenire con una moderazione che raramente si riscontra nella vita reale.
Annamaria Fuschetto
Quel terribile male che si chiama controllo.....
dietro al quale se ne nasconde un altro che si chiama amore egoistico.....
Bisognerebbe con i bambini parlare poco e farlo solo quando sono loro a chiederlo.....
Guardarli da lontano, esserci anche quando non si è presenti.......
Angelo Ventola
Perché parlare poco con loro? Un conto è se lo si fa per controllarli, un altro se per avere con loro un dialogo, un ascolto attivo teso a valorizzare ciò che sentono ed i loro bisogni
Annamaria Fuschetto
Perché li riempiamo di parole....
E noi adulti tendiamo a sommergerli con la nostra onnipotenza......
Amo quando mia figlia viene da me e mi chiede di parlarle di spiegarle ciò che non comprende......
Bisognerebbe non invaderli troppo.....
Annamaria Fuschetto
Comunque c'è un testo di Montessori a proposito:
"Il segreto dell' infanzia", molto interessante ed illuminante.....
Marina Boggian
Essere madre ed educatrice, una ricerca di equilibrio continuo, per me centro della vita, per questo, quando mia figlia mi ha ringraziato pubblicamente nella sua tesi di Laurea che qui incollo, ho capito cosa ero stata davvero per lei. ....................................................................."
Ma soprattutto Grazie a Lei a cui devo tutto, alla mia Mamma,
a Lei che è consigliera, parrucchiera, maestra, lavandaia, avvocato, cuoca, compagna di shopping, agente di viaggio, banchiere, sarta, ecologista, medico, stilista, autista, infermiera, psicologa, tecnico computer, arredatrice, scrittrice…..grazie per essere la mia fedelissima compagna in qualunque avventura io intraprenda, come si può intuire senza di te sarei spacciata!
Grazie per riportarmi sempre a galla quando io affondo, grazie per far diventare anche tuo ogni mio problema, grazie per farmi respirare ossigeno puro anche quando tu stai annaspando, grazie per vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, grazie per vedermi sempre bellissima, grazie per riuscire a compensare ogni mia mancanza, grazie per essere sempre dalla mia parte e grazie per esserci Sempre, perché come dici tu: “Chi ha mamma non piange”.
Grazie per avermi cresciuta libera, libera di fare sempre le mie scelte, grazie di avermi fatto sbagliare e grazie ancora di più per esserci stata dopo a consolarmi. Ma soprattutto Grazie per avermi insegnato a dire ‘Io ci tengo’ a questo bellissimo mondo, ‘A me importa’ di tutte le persone che mi circondano, ‘A me interessa’ anche quando nessun altro lo direbbe."
Ivano Paolo Todde
Che meravigliosa ode alla Mamma, Marina! :) :)
grazie per la condivisione, una vita che ha un meraviglioso coronamento, vedere crescere una creatura, nel fisico, intelletto e consapevolezza :) I miei complimenti per la tesi di tua figlia! :)
Marina Boggian
mia figlia non ha dedicato tutto a me.....ha scritto tre pagine di ringraziamenti per tutte le persone per lei importanti, sì, devo dire che la "consapevolezza" e la "riconoscenza" sono state le due caratteristiche che mi hanno piacevolmente coinvolto emotivamente
Lucia Porcelli
anche mio figlio mi ha dedicato la sua tesi di laurea scrivendo "a Lucia la mia luce" eppure sono convinta che la buona madre possa avere un esito negativo e la cattiva madre un esito meraviglioso ...c'è un misterioso fattore che è incontrollabile e imprevedibile e che interviene a produrre una strana alchimia che chiamiamo successo o fallimento ma che il poeta (Kipling) ci ricorda sono solo due impostori a cui non dobbiamo mai permettere ne di esaltarci ne di avvilirci.
Gabriella Vidi
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. P.P.Pasolini
Ariella Williams
e' possibile aver avuto una madre coccodrillo narcisista con velleita' di controllo totale?
Eppure a modo suo voleva bene
Paolo Porcina
Troppo amore o poco amore sempre amore è. La domanda è: che danni provocherà?
Ariella Williams
infatti, ne ha causati tanti, ma senza quei danni il viaggio di risalita verso il sole non sarebbe stato cosi' avvincente nonostante i costi
Marina Boggian
Cara aprirla, ti capisco. Ho avuto una situazione simile che però fortunatamente con la vecchiaia di mia mamma di é trasformata positivamente ricollocando ruoli, aspettative e facendo pace con me stessa. Nonostante questa base sono stata un altro tipo di madre per mia figlia e non ho ripetuto la storia. Vedrai, succederà anche a te visto che ci stai lavorando, buona fortuna.
Rosanna Pizzo
Purtroppo, credo che la fauna delle madri coccodrillo sia molto fiorente, nonostante esse siano in buona fede, ma lontane dal comprendere i danni che fanno. Un'asserzione questa che comunque , va vista sempre nel contesto della dialettica familiare e del ruolo , per esempio che ricopre il padre-marito, altrimenti si finisce per fare osservazioni lineari che non rendono ragione degli accadimenti che vanno sempre letti in chiave complessa. Natalia Ginzburg in un suo saggio"Le piccole virtù" osservava che "i figli hanno bisogno di spazio e silenzio", come darle torto?
Rosanna Pizzo
Credo che ancora gli insegnamenti della Pedagogia nera sopravvivano nell'immaginario collettivo e siano presenti in certi contesti educativi, sia familiari che scolastici...purtroppo!
Maria Pia Casamassa
Winnicot scriveva: "bisognerebbe spiegare alle madri che amare è una faccenda complicata e non un semplice istinto... che qualsiasi ‘errore’ possa aver commesso non è altro che un pezzo, un frammento, una parte di un percorso in costruzione." È difficile essere madri in modo consapevole perché l'esperienza si acquisisce all'interno della relazione col figlio. Inoltre il modello di riferimento è la propria madre e la relazione con essa. Nostra madre sarà stata sufficientemente buona, diceva ancora, se a lei affideremmo in nostra assenza, la cura dei nostri figli.
PANORAMICA SUI SAGGI: PERDONARE L’IMPOSSIBILE
Vorrei partire da una domanda, affrontata in maniera esemplare da Recalcati, che commenta Lacan, che a sua volta rilegge Freud il quale, come sappiamo,considera i classici Greci come suoi maestri, senza dimenticare i citatissimi Shakespeare e Goethe, ma dovremmo menzionare anche i più illustri psicoanalisti, i Profeti, i religiosi più illuminati,la lista sarebbe lunga.La mia domanda suona così: cosa ricaviamo dalla lettura di tutti questi Saggi? A quale conclusione approda il loro discorso sull’uomo?
In sintesi, la conclusione a me sembra questa: che il PERDONO rompe il narcisismo (unico vero male), che il perdono impedisce la vendetta (conseguenza dell’egoismo, frutto del narcisismo), che la vendetta genera dolore e il dolore presente nel mondo ci fa sperimentare l’angoscia. Ma, cos’è l’angoscia? E cosa ha a che fare con l’egoismo?
Perché Kierkegaard, Schopenhauer, Heidegger, Pavese, Sartre, Freud, Jung, considerano l’angoscia come una situazione catastrofica, paragonabile alla vertigine che si prova guardando l’abisso? Cosa c’è di inquietante nell’abisso?
Facciamo rispondere Lacan: l’angoscia compare là dove viene meno una “cornice”, lasciando apparire qualcosa di inatteso, che però ha a che fare con il nostro stesso modo di guardare le cose. Freud aveva già sottolineato l’aspetto inquietante, perturbante che ha l’angoscia. Cosa fa di terribile il perturbante? Fa apparire una falla nel reticolo dei significanti all'interno dei quali il soggetto è rappresentato. E’ come essere privi di riferimenti, senza la possibilità di scorgere alcun senso in ciò che vediamo accadere. Risultato: ci ripieghiamo in noi stessi, ci barrichiamo in noi stessi come se entrassimo in una tana.
Allora, quell’angoscia che proviamo quando un evento irrompe nella nostra vita, scompaginando il nostro assetto di realtà, quell’angoscia che mette a soqquadro una concezione del mondo mettendo in scacco anche il linguaggio, quell’angoscia che ci lascia senza parole, soli col nostro urlo, ecco, quell’angoscia lì è benedetta perché ci costringe a uscire dalla tana.
Allora, diciamo che il narcisismo – questo egoistico sguardo ripiegato su noi stessi - sembra in un primo momento proteggerci dall’angoscia, ma la sua è una protezione impropria, poiché diviene prigione.
Non resta che capire l’angoscia, accoglierla e comprenderla. Nella situazione di angoscia inizialmente esiste solo l’urlo. E’ il momento in cui percepiamo un abbandono e di conseguenza la nostra vita diviene ricerca di quella presenza calda, amorevole, che risponde alla gettatezza della vita. Una presenza che sappia raccogliere l’urlo e trasformarlo in parola, insegnandoci a riscrivere la nostra vita.
Si tratta,come sempre ripeto, di dare voce all’inconscio, per tradurre in parole il suo particolare grido di dolore, nel quale vorremmo generare/creare un personale orizzonte di senso. Ecco perché la distruttività della vendetta non ha senso, il ripiegamento narcisistico non ha senso, ma l’angoscia sì, se compresa e resa generativa.L’approdo dell’angoscia è il poter perdonare. Perdonare l’impossibile, dicono i Saggi.
Recalcati: “Quel rifiuto dei nostri limiti che ci trasforma in schiavi”
La natura tradizionale del farmaco è quella di essere un rimedio. Dove la vita manifesta un disfunzionamento (nel corpo come nel pensiero) la promessa del farmaco è quella di ripristinare il livello normale di efficienza guastato dall’irruzione della malattia. Nel nostro tempo, all’estensione inflattiva di questa promessa che tende sempre più a medicalizzare la vita (i rimedi si sono moltiplicati grazie ai progressi della medicina, ma anche agli interessi dell’industria farmaceutica), dobbiamo aggiungere qualcosa di inedito: una versione del farmaco non più come rimedio ma come potenziamento della vita.
Se la versione tradizionale, ippocratica, del farmaco-rimedio rimane nel solco classico della filosofia della medicina poiché il farmaco dovrebbe curare la causa della malattia che il paziente percepisce nella sofferenza sintomatica, questa nuova versione del farmaco come potenziamento scavalca decisamente quella filosofia. Non si tratta più di curare la malattia che ci affligge, ma di offrire alla vita l’illusione di una sua espansione e di un suo rafforzamento artificiale. La cura lascia qui il posto ad un doping indotto che esalta le funzioni del corpo e del pensiero: dal Viagra all’uso degli psicostimolanti, dal testosterone all’abuso di antidolorifici, l’industria del farmaco offre sul mercato provvedimenti chimici che hanno come obbiettivo l’enfatizzazione delle risorse dell’organismo più che la cura tradizionale delle sue malattie. Al fondo di questo cambiamento di paradigma troviamo un mito ideologico del nostro tempo: l’esaltazione di quello che già Marcuse alla fine degli anni Cinquanta in Eros e Civiltà battezzava come principio di prestazione.
Di cosa si tratta? Di una forma inedita di sfruttamento. Non solo quello dell’uomo sull’uomo analizzato da Marx, ma quello che impone ad ogni uomo di vincere su se stesso, di imporsi su se stesso come macchina efficiente, capace di prestazioni senza difetto. Un falso ideale di grande salute sembra così inondare la nostra vita. Rifiuto del senso del limite, esorcismo dell’irreversibilità del tempo, cancellazione di ogni forma di mancanza, autoaffermazione di se stessi.
Questo ideale performativo accompagna il valore ideologico attribuito dal nostro tempo alla crescita economica, all’espansione illimitata dei mercati, alla rincorsa folle del profitto. Nel suo ultimo film titolato The Wolf of Wall Street, Martin Scorsese offre un ritratto preciso e sconcertante di questo mito mostrando la sua tendenza a collassare su se stesso. L’ideale cinico del potenziamento del proprio Ego viene perseguito in una modalità predatoria e perennemente insoddisfatta.
Il consumo compulsivo di sostanze chimiche di ogni genere sembra coltivare una efficienza della macchina-uomo ridotta ad una macchina di godimento acefala. Come presi in una corsa impazzita verso una meta che non esiste, i personaggi di questo film offrono la rappresentazione di una volontà di potenza ormai priva di ogni senso di responsabilità che non può non evocare il Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
La versione ascetica del capitalismo weberiano che costruisce il suo successo sulla rinuncia al godimento immediato, sull’ideale del lavoro come “freno dell’appetito”, lascia il posto ad un capitalismo che odia ogni forma di rinuncia e che consuma se stesso manifestandosi come una pura volontà di godimento.
È in questa spirale mortifera dobbiamo inserire le nuove illusioni dei farmaci finalizzati a potenziare il principio di prestazione. Si tratta di una nuova forma di schiavitù: la vita viene sottoposta ad un doping permanente che s’intreccia con l’esibizione di una avidità pulsionale totalmente sregolata. Risultato: la caduta di ogni dimensione solidale dell’esistenza, il cinismo narcisistico, la vacuità, la sconfitta dell’amore, la distruzione della vita.
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 20 febbraio 2014
GALLERIA 20 FEBBRAIO 2014
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