martedì 14 giugno 2011

Pedagogica: Chi è il pedagogista? Marco Mura risponde

Chi è il pedagogista?
Marco Mura risponde

Il Pedagogista Marco Mura opera in regime di libera professione a Cagliari e Provincia. Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze dell'Educazione (110/110 e lode) con una tesi sulla Media Education, incentrata sul rapporto tra TV, internet e minori. Dopo la laurea è diventato Facilitatore di gruppi di Auto-Mutuo aiuto (Erickson) e successivamente, presso l'ISFAR, si è specializzato in Pedagogia Clinica (100/100 e lode) con una tesi sugli aspetti educativi della Legge 162/98.

Progetta interventi pedagogico clinici per singoli, coppie, famiglie e gruppi; fornisce consulenze pedagogiche ed educative a genitori; delinea e conduce percorsi individualizzati per minori e adulti con disabilità (fisica, psichica e sensoriale – Legge 162/98 e L.R. 20/97 Regione Sardegna), interventi in favore di minori con Disagio socio-relazionale, Iperattività, Disturbi Specifici dell'Apprendimento e altre forme di disagio. Pedagogista ed Educatore Professionale con esperienza nei centri di aggregazione giovanile (anche nell'ambito della devianza minorile con adolescenti a rischio e in messa alla prova), in centri diurni e residenziali per sofferenti psichici e adulti con deficit cognitivo; Facilitatore di Gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto e Gruppi di Discussione finalizzati al superamento di ostacoli legati ai propri disagi o come strategia educativa per potenziare le competenze genitoriali. Ideatore e relatore di seminari di riflessione ed approfondimento sui temi dell'educazione. Oltre ad operare autonomamente in favore di singoli e famiglie, collabora, in regime di libera professione, con Centri di Salute Mentale (ASL), Comuni, centri privati, scuole, associazioni e cooperative sociali.





Dottor Mura, ci può presentare la figura del pedagogista?

L'etimologia del termine “pedagogia” richiama l'accompagnamento (guidare, condurre) del bambino nel suo percorso di crescita. Il pedagogista è l'esperto dei processi educativi e formativi incentrati sulla persona di ogni età, che prescinde dalla presenza o meno di uno stato di disagio (fisico, psichico, sensoriale o sociale). Questa disciplina è chiamata a rispondere ai vari quesiti che la vita pone davanti all'essere umano, aiutando la persona a trovare in sé le risorse per meglio reagire alle sfide quotidiane, mediante una guida nelle riflessioni necessarie al superamento degli ostacoli che frenano il raggiungimento del proprio benessere psicofisico. Il pedagogista si rivolge al singolo, alla coppia, alla costellazione familiare e al gruppo per favorire cambiamenti positivi.
La pedagogia, come sapere e pratica che dà forma, mediante il “portare fuori”, “l'arte del far emergere” (e-ducere – l'azione educativa), mette al centro delle sue ricerche ed interventi la persona come artefice dei propri cambiamenti. Il pedagogista riflette e teorizza sulle tematiche dell'educazione e quindi della formazione: una forma in linea con la natura umana, lontana da pervertimenti della crescita e da visioni medicalizzate che portano ad identificare il soggetto come un paziente. L'obiettivo è quello di formare l'essere umano (mediante una form-azione, un'azione che dà forma), senza imporre cambiamenti, in modo da consentire una vita indipendente attraverso la maturazione e l'esercizio delle proprie capacità, ponendosi come obiettivo il raggiungimento del benessere psicofisico. Questo professionista propone sostegno alla genitorialità, percorsi per minori con disturbi specifici dell'apprendimento, disagio socio-relazionale, progetti che mirano ad uno sviluppo armonico, interventi su minori e adulti in stato di disabilità (fisica, psichica, sensoriale), percorsi che incidono positivamente sullo stile di vita dell'essere umano.


Su quali fondamenti si basa la pedagogia?

Si può affermare che l'educazione nasce insieme al genere umano. La pedagogia, intesa come l'insieme di saperi, teorie e pratiche dell'educazione invece ha radici nella filosofia, di cui è figlia e dalla quale si è staccata grazie ad un processo di maturazione e di individuazione, proprio come accade tra genitori e figli quando questi raggiungono l'adultità (con anticipi nella fase adolescenziale su determinati aspetti di tipo relazionale). L'essere umano ha sempre teso verso la trasmissione di saperi, regole e abitudini. Certo, l'educazione non può essere riassunta in simili pratiche, ma questo agire ci offre il punto di partenza che ha portato i pensatori ad elaborare teorie e metodi che garantissero la crescita dei più giovani. Pensiamo alla tradizione della filosofia, a partire dall'interrogazione sull'Archè, l'origine delle cose, per arrivare a tutte le indagini sull'identità e sul percorso dell'essere umano. Il Medioevo segnò poi il passaggio verso i primi testi specifici, sino a giungere alla Pedagogia Moderna, con pensatori come J. J. Rousseau, J. Dewey, Maria Montessori e tanti altri ancora. Una disciplina viva, sempre in fermento che si rivolge a tutte le persone. La pedagogia opera con e in favore dell'essere umano, rispettando la sua alterità in quanto risponde al principio di uguaglianza nella diversità. Siamo tutti uguali (per diritto), ma ognuno di noi è differente dagli altri, perchè soggetto unico ed irripetibile. E' questo il caposaldo della pedagogia, al quale si lega un metodo che esclude ogni tipo di ammaestramento e promuove invece percorsi che garantiscono la libera espressione del nostro sé.


Che importanza riveste l’educazione permanente nella vita di ciascun individuo?

In passato l'educazione è stata vista come teorizzazione e pratica destinata ai fanciulli. In seguito la pedagogia si è interessata e ha promosso l'educazione degli adulti, come se il processo di crescita avesse una meta anagrafica o un punto d'arrivo determinato dalla società. L'educazione è quel processo di crescita e rinnovamento che consente all'individuo di andare verso cambiamenti positivi. La ricerca scientifica si è per caso fermata ai primi del '900? Per quale ragione l'uomo dovrebbe interrompere anzitempo la propria crescita? Quando le persone rimangono perplesse davanti a percorsi educativi rivolti ad adulti dico sempre che l'educazione inizia al momento della nascita e termina con la morte. Stiamo parlando di un processo che può essere arrestato solo da questi eventi destinali o da forti e volontarie resistenze davanti al cambiamento positivo. Con l'avanzare degli anni acquisiamo nuovi ruoli, siamo chiamati a rispondere a diverse prove, entriamo in altri contesti. Essendo soggetti a mutamenti, dobbiamo andare anche noi verso nuove strade affinché si possano creare presupposti atti a produrre ulteriori scoperte del proprio sé. Per raggiungere mete maturazionali dobbiamo far capo all'educazione permanente. Prendersi cura di sé, della propria unità psicofisica, non solo garantisce il potenziamento della propria persona, ma offre ulteriori opportunità di crescita per i propri familiari (pensiamo al ruolo di genitore, di nonno o di fratello maggiore) e persino dell'intera società. Un popolo orientato alla riflessione, alla conoscenza di sé e del cammino che intende intraprendere per offrire un mondo migliore al presente e al futuro, sarà un popolo migliore con perpetua tendenza verso il miglioramento. Oggi si parla di educazione permanente proprio perché si è compreso l'alto valore della scoperta e della riscoperta di sé, grazie all'individuazione delle proprie risorse e alla funzione positiva della creatività – come capacità generatrice e rigeneratrice - che consente di arricchire ogni istante della nostra esistenza.


Che valore assume la comunicazione all’interno dell’educazione?

Alla base dell'agire educativo troviamo la comunicazione, intesa non solo come quell'atto di rendere noto un messaggio, ma anche di metter insieme e condividere informazioni e comportamenti, attraverso atteggiamenti empatici (o simpatetici), volti a comprendere gli stati d'animo altrui. Il primo obiettivo di un pedagogista e di un educatore professionale consiste nell'entrare in relazione con l'altro. Questa tappa si pone conditio sine qua non dell'agire educativo, dato che senza un contatto (con-tatto) con l'altro è impensabile individuare un terreno comune per poter fare riferimento al potenziale intrinseco della persona. Una comunicazione rispettosa, non invadente e non caratterizzata dalla direttività. Ricordiamoci che l'essere umano può comunicare attraverso diversi canali e differenti modalità. Il “cosa” e il “come”, o meglio il “significato” e il “significante”, rivestono un ruolo decisivo nelle relazioni, a maggior ragione in quelle educative. Possiamo esprimere le nostre intenzioni e i nostri sentimenti con le parole (oralmente o mediante scrittura), gesti, movimenti nello spazio, espressioni mimico-facciali e silenzi. Una svariata gamma di modalità volontarie e non che consentono alle persone in causa di leggere l'altro e così comprendere su quale terreno condiviso ci si trova. E' dallo stesso punto di partenza e con lo stesso mezzo di locomozione che si può iniziare a percorrere il percorso educativo.


Il pedagogista e l’educatore professionale promuovono cambiamenti positivi tramite percorsi che valorizzano il potenziale dell’essere umano. Che legame si viene a creare fra il pedagogista-educatore e l’educando?

Professionalità e sentimenti entrano fortemente in gioco in tutte le professioni d'aiuto. A giocare un ruolo di rilievo sono i luoghi formali ed informali in cui viene portato avanti l'intervento. Il pedagogista opera sempre in luoghi formali con uno studio professionale e una sala in cui lavorare su un gruppo di persone. L'educatore professionale oltre ad operare in spazi appositamente allestisti conduce la sua azione anche in luoghi informali come la casa o la città, intesa come territorio composto da spazi aperti, negozi e uffici. Chi opera esclusivamente in luoghi formali mantiene una posizione più esterna rispetto al mondo della persona, pur entrandone a far parte attraverso al fiducia che l'altro ripone nel professionista, grazie all'empatia o come altri suggeriscono la simpatia. Condurre interventi a domicilio legati magari alle autonomie di base (acquisire autosufficienza nel prendersi cura del proprio corpo facendo capo alle proprie risorse, pertanto non un lavoro assistenziale ma educativo), nel varcare la soglia dell'abitazione altrui entra anche metaforicamente nel casa – nello spazio di vita – dell'educando (quasi in una dimensione familiare). Talvolta familiari ed educando perdono il contatto con il professionista ed incentrano la relazione comunicativa ed affettiva verso la persona e non verso l'operatore. Nel bene e nel male la sfera affettiva entra in gioco nella relazione educativa. Le professioni d'aiuto toccano le corde dell'animo. Il pedagogista e l'educatore professionale vivono una doppia natura: quella della persona e quella del professionista. E' necessario trovare un giusto equilibrio in modo da favorire la crescita dell'educando e il rispetto di se stessi. Alla base della relazione troviamo la fiducia. Una volta entrati in relazione con l'altro si stabilisce un punto di partenza che, all'interno del percorso, viene rafforzato ed ampliato dalla fiducia, dal darsi senza parsimonia. Compito del pedagogista e dell'educatore professionale sarà rispettare spazi e tempi dell'altro affinché il rapporto sia sempre produttivo e non frutto di forzature che minano la libera espressione e il rispetto dell'educando. Possiamo affermare che professionista, singolo, coppia, famiglia e gruppo, all'interno di un progetto educativo operino in simbiosi, nell'ottica del do ut des (io dono affinché tu dia). Mi è capito di far ricorso alla metafora della bicicletta tandem, in cui è necessario che siano due le persone a pedalare per poter raggiungere le mete stabilite facendo ricorso alle risorse del duo ciclistico, mettendo così l'accento sulla cooperazione. Gli esempi sono svariati e cambiano a seconda del tipo di percorso e modalità pianificate per condurre l'intervento.


Che differenza sussiste fra un intervento pedagogico rivolto a un bambino e uno indirizzato invece a una persona adulta?

Ogni intervento educativo deve essere personalizzato (a misura delle esigenze e delle potenzialità del singolo, della coppia o del gruppo). Non esistono protocolli, progetti standard o rigide prassi. Ogni individuo presenta punti di forza e necessità diverse. La differenza tra minori e adulti non si risolve solo negli aspetti connessi allo sviluppo somatico, cognitivo, affettivo e psicomotorio, ma comprende anche il ruolo a cui l'essere umano è chiamato, in base alla propria età o per compiti socialmente acquisiti. Un minore - per antonomasia, ma non è sempre così - ruota intorno ai genitori e alla scuola, luogo formativo in cui poter crescere e in cui possono essere evidenziate particolari esigenze educative oltre che didattiche, diciamo formative a tutto tondo. Un adulto dovrebbe aver sviluppato un'autonomia complessiva, ma questo è un dato che non si può dare per certo. La cura dello spazio di vita, vale a dire della propria stanza da letto o della casa, rientra tra quelle mete che sia un ragazzo, sia un adulto devono conquistare. A determinare le differenze sono quindi i contesti (famiglia, scuola, lavoro, centri residenziali o d'aggregazione, luoghi non formali) e gli stati di necessità personali i quali devono sempre fare riferimento all'età anagrafica e ai punti di forza della persona. Ogni progetto educativo deve muoversi sulla scia dell'indipendenza dall'aiuto. Sia per l'adulto che per il bambino l'obiettivo finale è sempre il medesimo: raggiungere il benessere psicofisico. La diversità consiste, oltre che nelle particolarità individuali delle persone, anche nel rapporto che si instaura con l'altro. Una ponderata dose di utopia è sempre utile, qualora non crei frustrazione e falsi passi verso il benessere della persona, sia essa un bambino o un adulto.


L’etichettare l’altro oggigiorno è divenuta una pratica comune in diversi ambiti, dalla scuola, al lavoro, nello sport e in svariati contesti. Quale strada pensa si possa intraprendere affinché questo modus operandi non permetta ancora che all’altro venga negato il suo ruolo di persona?

L'etichettamento sociale è purtroppo una pericolosa prassi della nostra società. Nel passato e nel presente troviamo esempi su quella che io definisco “privazione dell'identità” ai danni di chi viene visto con occhi diversi. Un classico esempio lo possiamo ritrovare nelle aule scolastiche dove è possibile che un alunno di scarso profitto venga etichettato come asino. L'allievo marchiato con questo epiteto sarà portato, a causa di ciò che viene definito “conferma comportamentale”, a mettere in atto comportamenti che rispecchiano l'etichetta appostagli. Per il soggetto etichettato è difficile dimostrare il contrario di quanto viene detto, in particolar modo da un adulto e ancor di più da una persona che riveste un ruolo specifico come quello dell'insegnante. La stigmatizzazione dell'uomo priva la vittima e il suo carnefice della possibilità di conoscere l'altro in maniera autentica e pertanto non riconoscendolo come individuo complesso, fatto di pregi e difetti. Per contrastare questo fenomeno è necessario condurre progetti di sensibilizzazione. Recentemente ho dato concretezza ad un progetto di sensibilizzazione per contrastare l'etichettamento sociale che con troppa frequenza colpisce chi è stato colpito da una patologia psichiatrica. Si tratta del Torneo NO Stigma, Diamo un calcio all'etichettamento, competizione sportiva a cui hanno preso parte adulti con disagio psichico, familiari e operatori del settore socio-sanitario, divisi in squadre di calcio a sette, in cui hanno giocato persone senza nessuna etichetta, per dimostrare che siamo persone e non soggetti legati ad una categoria o peggio ancora marchiati da uno stigma. Con questo progetto i partecipanti – non io – hanno dimostrato d'essere persone capaci e che i pregiudizi mentono sull'identità di chi viene stigmatizzato. Nessuno è stato in grado di identificare chi fosse un operatore e chi no. Come ideatore ed organizzatore del progetto ho chiesto in maniera esplicita che nessuno dichiarasse la composizione della squadra. Pertanto è stato un progetto non per o con disabili, ma per e con le persone.
Una valida strada da percorrere, a mio avviso, risiede nell'integrazione su larga scala. Attraverso gli inserimenti lavorativi è possibile dimostrare che chi vive un disagio non è un'incapace o un soggetto pericoloso. Condividere spazi, tempi ed attività con chi vive un disagio può rompere i pregiudizi. Ecco perché a scuola è bene che siano state eliminate le classi differenziali e che le aziende abbiano l'obbligo (in base al numero di dipendenti – vedi Legge n. 68/99) di offrire un determinato numero di posti di lavoro a chi è stato colpito – ma non affondato – dalla vita. C'è tanto da imparare dalle persone, in particolar modo da chi non china il capo davanti alle difficoltà. Solo sposando un'ottica rispettosa dell'altro è possibile vincere i pregiudizi ed eliminare l'etichettamento sociale dal nostro agire.


Marco, cosa lo ha portato a scegliere di essere un pedagogista-educatore? Cosa la gratifica maggiormente della sua professione?

Il mio percorso professionale è iniziato sulla spinta di svariati fattori. Questo è il pensiero che ho maturato nel corso del tempo. Il punto di partenza va ricercato nell'educazione ricevuta, incentrata nel rispetto e nell'aiuto del prossimo, considerato come forma più alta dell'altruismo. Se oggi posso parlare in termini professionali dell'ambito sociale e socio-sanitario lo devo anche alle opportunità di crescita che la vita – in maniera diretta e non - mi ha offerto. Ho avuto la possibilità di condividere l'infanzia e l'adolescenza con ragazzi con disabilità, in situazioni formali (a scuola) e non formali (tra cui i classici campi da calcio “gestiti” da noi ragazzi senza una polisportiva alle spalle). Sempre nell'infanzia ho avuto modo di vedere che anche chi è meno fortunato, chi vive in un quartiere disagiato è portatore di valori. Spesso questi ragazzi vengono tenuti a distanza, lasciati in balia delle proprie difficoltà, atteggiamento che non ho mai digerito. Un altro passo verso la professione è legato al mondo della scuola. Nel ricordare la mia maestra vedo il lei una vera “Montessori” che ha pensato – come in pochi fanno – al mondo a misura di bambino, alle sue esigenze e ad un metodo che ci abbracciasse in maniera olistica. Credo che la vita mi abbia portato a maturare una certa sensibilità verso gli altri. Ho sempre ritenuto che ognuno abbia diritto ad avere occasioni di crescita. La decisione finale, quella che mi ha condotto all'università, è giunta attraverso un libro, più precisamente ad un manuale di pedagogia che riuscì ad affascinarmi per i contenuti e le potenzialità insite in questa disciplina.
Questo è stato il motore che mi ha portato ad accompagnare le persone nei percorsi di crescita e che ancora oggi mi conduce verso una formazione professionale e personale costante.
Le soddisfazioni professionali nascono quando il mio intervento e il contributo dell'altro iniziano ad allontanare la persona dalla situazione iniziale: dal disagio o dal punto di partenza per un ulteriore crescita. La più grande gratificazione coincide con la conclusione del progetto educativo in cui la persona non ha più necessità del mio intervento per raggiungere il proprio benessere. Aiutare gli altri ad aiutarsi, raggiungendo l'indipendenza, rientra anche nella mia filosofia di vita, quindi possiamo dire che la gratificazione sia doppia, professionale e personale.


Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica
e-mail: dott.marcomura@gmail.com

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