La pessima salute dello splendido re Sole.
Settantadue anni, tre mesi e diciotto giorni: tale la durata del regno di Luigi Diodato XIV di Borbone, meglio noto come il re Sole. Il suo fu – per quei tempi – un record straordinario di longevità nella gestione del potere, portato avanti con una enorme forza di volontà sostenuta dalla convinzione totale della grandezza propria e della nazione che governava. Il programma di assolutismo del sovrano consistette nel dedicare ogni attimo della giornata a consolidare la sua egemonia e presentare sé stesso come il padre di tutti i suoi sudditi e monarca di potenza sovrumana paragonabile a Zeus e ad Apollo, divinità il cui splendore amava richiamare indossando abiti dorati e tempestati di gemme. Chi lo circondava ne amava la vitalità instancabile, l’enorme capacità di lavoro, i modi cortesi e controllati, mentre ne decantava con molta piaggeria il viso regolare, i lunghi capelli biondi, la bellezza fuori dall’ordinario. Il re volle inoltre rispecchiare la centralità della sua figura facendo costruire a Versailles un’enorme palazzo per il quale dilapidò una fortuna, circondandosi di un esercito di cortigiani – se ne contarono anche cinquemila – e di un numero doppio di addetti ai servizi.
Le funzioni di questa piccola città erano scandite da un’etichetta rigorosissima e complessa – voluta dal re stesso – che era finalizzata a trasformare qualsiasi suo atto in un cerimoniale quasi sacro in cui lui si mostrava come su un perenne palcoscenico ai familiari, alle amanti in carica e a tutta la nobiltà adorante e plaudente. Basterebbe pensare ad esempio, al solenne risveglio mattutino del re quando nella camera da letto del sovrano – ai cui piedi dormiva sempre un valletto – entravano a turno e in parata per dare il buongiorno figli legittimi e illegittimi, nipoti, principi e principesse di sangue, medici, titolari del guardaroba reale, intendenti di vario genere, ministri, consiglieri e ufficiali, tutti rigidamente suddivisi per carica e genere d’importanza. Nella realtà Luigi era molto diverso dall’immagine pubblica che ostentava: basso di statura e pelato, cercava di mascherare i difetti rialzandosi di una ventina di centimetri grazie ai tacchi alti e a una parrucca monumentale. Ma più che nell’aspetto fisico il suo punto dolente stava nella salute estremamente precaria: ce lo dimostra un opuscolo redatto puntigliosamente per cinquantotto anni dai medici di corte e intitolato “Le Journal de la santé du roi Louis XIV”, in cui risulta che l’illustre paziente soffrì fin da bambino di ogni genere di patologie, superate non tanto grazie agli improbabili trattamenti che riceveva, quanto alla sua incredibile costituzione, e forse anche alla tenace volontà di vivere, che gli permisero di resistere sia alle malattie sia – è il caso di dirlo – alle cure a cui veniva sottoposto. La robustezza della salute di Luigi fu messa alla prova già all’età di nove anni, quando fu colpito dal vaiolo; a trentacinque, durante l’assedio di Calais, una febbre tifoide gli causò la totale perdita dei capelli e per poco non lo mandò all’altro mondo; a 47 anni fu sottoposto a una dolorosissima operazione chirurgica a causa di una fistola anale originata da un ascesso; a 48 fu colto dalla malaria, e nella vecchiaia dagli inevitabili acciacchi dell’età: reumatismi, gotta, coliche renali.
Queste malattie principali erano collegate con una serie di disturbi minori che ci sono stati trasmessi in modo dettagliato: morbillo, blenorragia (che l’archiatra chiamava pudicamente “strano male” per salvare le apparenze) indigestione, tenia, dissenteria e costipazione, cisti al seno, malattie della pelle, mal di testa, febbre, vertigini, per i quali il re subì stoicamente ogni genere di pozioni, cataplasmi, purghe, salassi e molti clisteri. Il clistere era considerato il rimedio principe del Seicento, dal momento che, secondo la credenza popolare, per un buono stato di salute occorrevano numerosi lavaggi interni; sembra che il re ne ricevesse più di duemila, usando anche accogliere visitatori e funzionari di corte mentre i medici glieli praticavano e facendoli diventare di moda in tutta la corte. Lo scarsissimo stato di avanzamento della medicina del tempo – ancora nelle mani di ciarlatani o dottori a dir poco impreparati – non soccorreva certo il benessere del re Sole, mentre i suoi molti problemi erano causati anche dalla vita sregolata e sopra le righe che conduceva: per fare un esempio un aneddoto racconta che Luigi – forse per esporsi alla vista dalla gente e dimostrare di non temere raffreddori e bronchiti – viaggiava in carrozza col finestrino aperto con qualunque tempo o stagione. I suoi gravi disturbi digestivi erano causati dal formidabile appetito: all’ora di pranzo divorava quattro piatti di minestra, fagiano o pernice, prosciutto, castrato in umido, verdura, legumi, pasticcini, frutta e uova sode. La cena era altrettanto ricca e – come se non bastasse – in camera da letto aveva a disposizione altra carne fredda e dolci, nel caso si fosse svegliato con un languorino allo stomaco. L’eccesso di proteine animali – che gli avrebbe causato la gotta – aveva una motivazione culturale: si pensava infatti che la selvaggina fosse l’unico piatto veramente degno di un palato nobiliare, laddove pane, legumi, e più raramente il maiale, erano alla base della dieta popolare.
Ulteriori complicazioni venivano dalla totale mancanza di igiene: è noto che a Versailles si viveva in uno stato di sporcizia assoluta e il “Journal” farebbe intendere che il re, dal 1647 alla sua morte, avesse fatto solo un paio di bagni, uno da bambino e l’altro da adulto, e solo perché soffriva di bromidrosi acuta, malattia dovuta ad un’eccessiva sudorazione accompagnata da un odore particolarmente acre, dovuto alla fermentazione dei batteri. L’incapacità dei medici faceva il resto: quando i regali denti, corrosi dalle carie, furono estirpati senza anestesia, l’operazione fu talmente energica che venne via anche un pezzo di palato; la terribile ferita fu curata con ben quattordici cauterizzazioni e ci sarebbero voluti mesi perché il paziente potesse ricominciare a mangiare con lo stesso ritmo di prima.
Le malattie di Luigi non erano una faccenda privata, ma una questione di stato. Non solo tutta la corte ne era al corrente, ma la nazione intera, resa edotta da opuscoli, giornali e poesie fatti circolare tra la gente: la gestione delle informazioni faceva parte – diremmo oggi – di una strategia di comunicazione che mirava a mobilitare la pietà popolare e a gridare al miracolo quando finalmente il re, evidentemente protetto dal Cielo, metteva in scena il suo corpo risanato. Preghiere, sacrifici e cerimonie di ringraziamento pubbliche completavano il culto attribuito alla monarchia e al sovrano.
Nell’agosto del 1715 sua maestà cominciò a lamentarsi di un dolore alla gamba, scambiato all’inizio per sciatica e curato con vino e tisane, ma poi rivelatosi come una cancrena che lo portò alla morte pochi mesi dopo. Lasciava il suo regno in una disastrosa situazione economica e finanziaria, portatrice di una terribile crisi sociale, che circa settant’anni dopo avrebbe innescato la rivolta della nazione contro la monarchia. La sera del funerale– avvenuto quasi alla chetichella -tutto il popolo parigino, dimenticati gli anni dell’adulazione, festeggiò la fine della tirannia dissacrando le immagini di Luigi XIV e chiudendone il regno con un finale grottesco tra canti, lazzi e balli.
Come voleva la tradizione dell’epoca il corpo fu smembrato e gli organi separati. Ciò che ne restò fu sepolto nella basilica parigina di Saint Denis, il sacrario dei re di Francia, ma le tombe furono profanate durante la Rivoluzione e la salma dell’augusto sovrano fu gettata in una fossa comune e in seguito divisa e dispersa.
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