Il dottor Rossum e i robot di "Blade Runner"
di Carlo Pulsoni
Tra le scene più toccanti del film Blade runner (1982) figura senz’altro quella in cui Roy Batty incontra il suo creatore Tyrell. Il replicante in grado di provare, come gli umani, emozioni e sentimenti, teme la morte, motivo per cui chiede al suo artefice di allungargli la vita. Roy Batty: «Non è una cosa facile incontrare il proprio artefice!» Tyrell: «E che può fare per te?». Roy Batty: «Può l'artefice ritornare su ciò che ha fatto?». Tyrell: «Perché? Ti piacerebbe essere modificato? (…) Quale sarebbe il tuo problema?». Roy Batty: «La morte». Tyrell: «La morte... Be', questo temo che sia un pò fuori della mia giurisdizione, tu... ». Roy Batty: «Io voglio più vita, padre!».
Meno noto forse che molte delle vicende descritte nel film cult americano, si ritrovino in filigrana nel “Dramma collettivo in un prologo comico e tre atti” dello scrittore cecoslovacco Karel Čapek, R. U. R. Rossum’s Universal Robots, appena uscito in italiano grazie ad Alessandro Catalano. Il testo originale fu pubblicato nell’autunno del 1920 e messo in scena a Praga nel gennaio del 1921. Già nel titolo, il dramma contiene un neologismo che attecchirà in tutte le lingue del mondo: il termine robot è tratto dalla parola ceca robota che significa “corvée, lavoro faticoso, servitù”, con passaggio di genere dal femminile al maschile, pur se va precisato che nel testo i roboti non sono automi meccanici, ma esseri "costruiti" producendo artificialmente le diverse parti del corpo e assemblandole insieme.
Il dramma narra le vicende successive alla costruzione di questi esseri artificiali da parte del dottor Rossum. Con questa invenzione egli si proponeva di liberare l’umanità dal lavoro e dalla fatica. Gli effetti sono però devastanti: gli uomini, privi di ogni occupazione, si danno al vizio e all’indolenza, rinunciando perfino a procreare. I robot, sparsi in tutto il pianeta, cominciano a ribellarsi all’uomo e a sterminarlo. Quando la moglie di Domin, direttore generale della fabbrica R. U. R., distrugge i manoscritti che contengono le istruzioni per la fabbricazione degli androidi, è ormai tardi: i robot dominano la Terra, e i più evoluti di essi hanno scoperto e sperimentano con gioia il modo in cui si riproducono gli esseri umani.
Il dramma ebbe sin da subito una fortuna straordinaria e fu portato sulle scene di molti teatri nel mondo: Berlino, Vienna, Londra, Parigi, Bruxelles, Tokyo. In Italia il testo arriva solo qualche anno dopo: la prima traduzione dal francese - e non dall’originale ceco – è del 1929, mentre la prima rappresentazione certa è del 1933 al Teatro dell’Accademia dei Fidenti di Firenze.
In realtà nel giro di poco tempo le vicende di questo testo s’intersecheranno con quelle della drammatica storia del Novecento: dopo la morte di Čapek nel dicembre 1938, la sua opera fu dapprima osteggiata dal governo filonazista del Protettorato di Boemia e Moravia, e poi, dopo la presa del potere da parte del Partito Comunista nel 1948, anche dalla nuova estetica del realismo socialista. Solo a partire dalla “Rivoluzione di velluto” del 1989, Čapek è tornato ad avere un ruolo fondamentale nell’universo letterario, cosa che ha fortunatamente evitato che la gloria dello scrittore cecoslovacco si consumasse come la luce del già menzionato Roy Batty: «La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti, Roy».
Karel Čapek, R. U. R. Rossum’s Universal Robots, a cura di Alessandro Catalano, Venezia, Letteratura universale Marsilio, 2015, pp. 176, 15 €.
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