Francesco Lorenzoni
30 aprile 2015
METAFISICA PREPLATONICA 6
PARMENIDE 1
Nasce ad Elea (a sud di Paestum, nell’attuale Campania) intorno al 510 a.C.
Ha dato ottime leggi alla sua città ed è stato uomo onorato dai suoi concittadini.
È considerato il fondatore della cosiddetta “Scuola elatica”, di cui Zenone e Melisso sono stati i più noti allievi. È morto verso la metà del quinto secolo avanti Cristo.
Si deve a Parmenide l’inizio di una nuova fase della filosofia, non più interessata allo studio della natura, del cosmo e della sua origine, ma interessata invece al problema di quale sia la vera conoscenza e la vera realtà. Così, al posto della cosmologia e della filosofia della natura, nasce l’ontologia, ovvero la metafisica dell’essere.
La sua dottrina è esposta in un poema di cui ci restano 154 versi.
Due sono i poli attorno a cui si aggira la speculazione di Parmenide: il conoscere e l’esistere.
Nel primo ci sono tre possibilità: verità, errore, opinione.
Altrettante sono le possibilità del secondo: l’essere, il nulla (non essere) e il divenire.
La singolarità della soluzione parmenidea è l’identificazione del pensiero con l’essere, mentre nella generale mentalità greca antica il pensiero è invece rispecchiamento dell’essere.
La conoscenza.
Prima di occuparsi del principio primo delle cose Parmenide affronta il problema gnoseologico, che costituisce sempre la porta d’ingresso della metafisica, essendo preliminare la necessità di verificare se l’umana conoscenza è in grado di compiere il salto metafisico.
Protagonista del poema di Parmenide è una dea, che simboleggia la verità, la quale, nel prologo, rivela che ci sono due vie lungo le quali l’uomo procede nella conoscenza: la prima via è quella della verità, certa e sicura; la seconda è quella dell’opinione, fallace e mutevole, è la via dell’apparenza.
Due sono, dunque, le forme del conoscere: quella della ragione, che si regola esclusivamente secondo le esigenze della logica, e quella dei sensi, che tiene conto anche di ciò che è esperito. La prima via conduce alla certezza, a cui si accompagna la verità, la seconda conduce all’opinione, a cui si accompagna l’errore.
Ma sono due vie alternative e inconciliabili o sono invece due percorsi che si possono intrecciare ed anche integrarsi?
In passato gli studiosi, capeggiati da Aristotele, consideravano antitetiche le due vie.
Ma già nell’antichità vi sono stati interpreti, come Plutarco e Simplicio, che ne sostenevano la conciliabilità. La tesi della complementarietà è stata ripresa recentemente da Eberhard Jungel e da Virgilio Melchiorre. Questa tesi pare conforme alle battute conclusive del prologo, là dove la dea dice di non rinnegare totalmente quanto procede dalla via dei sensi e dell’opinione, bensì di saper apprendere “come l’apparenza debba configurarsi perché possa apparire verosimile”.
Si potrebbe dire, sostengono i due autori citati, che la via dell’opinione corrisponde alla via della scienza, la quale non può andare oltre il mondo della materia, il mondo dei fenomeni; mentre la via della pura ragione è la via della metafisica, la quale non si preoccupa di descrivere e di calcolare il mondo dei fenomeni, ma cerca di scoprire la loro ultima ragione e fondamento.
La critica parmenidea della via dell’opinione non andrebbe presa quindi come un rifiuto bensì come una delimitazione di ambito e di valore. È la critica rivolta da un metafisico alla scienza qualora assumi pretese totalizzanti. Ma, invero, vale anche il contrario.
L’essere.
Parmenide giunge a concepire la potenza, la perfezione, il fascino dell’essere tenendosi fermo nella via della ragione: la ragione comprende che solo l’essere è e che al di fuori dell’essere nulla è: “l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può essere”.
Ciò che sta a cuore a Parmenide è soprattutto la ragione, il logos, e i suoi diritti insindacabili.
Diritto primo della ragione è conoscere la verità, la quale compete esclusivamente all’essere poiché esso solo può sottrarsi all’oscurità del nulla e al precipitare nel nulla del divenire. Essere e ragione si richiamano a vicenda. Per intrinseca necessità (“dike”) la ragione non può pensare che l’essere non sia.
Si innesta qui il rapporto tra essere e conoscere, che si mostra in Parmenide come rapporto di identità: “Lo stesso è pensare ed essere”. Come Eduard Zeller ha parafrasato: “nulla è fuori dell’essere, ed ogni pensiero è pensiero dell’essere”; oppure, secondo Pilo Albertelli, : “se si pensa, si pensa a ciò che è, all’essere”. Parmenide non distingue quindi tra realtà e pensiero né distingue il pensiero come facoltà da un lato e come pensato dall’altro. Sostiene che realtà, pensiero e parola sono i tre aspetti fondamentali dell’essere e tutti obbediscono ad una medesima legge, che è contemporaneamente legge logica e legge della realtà: l’essere coincide con la logica e con il linguaggio che descrive la realtà; l’ordine del mondo coincide con l’ordine del pensiero che lo pensa e del linguaggio che lo esprime. Un’interpretazione idealistica al riguardo è peraltro fuori luogo, poiché Parmenide assegna all’essere attributi di chiara e assoluta obbiettività: “senza l’essere nel quale è espresso, non troverai il pensare”.
Ma allora che cosa Parmenide intende davvero per “essere”?
L’indagine viene rivolta non più al comune principio delle cose della natura ma all’individuazione di un prioritario principio di verità, sia della realtà fisica che del pensiero e della ragione, nell’intento di superare la barriera fenomenologica riflettendo, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, sulla natura apparente del divenire delle cose.
Il principio non è più identificato in un determinato elemento naturale ma nell’essere in quanto tale, ontologicamente concepito come superiore entità trascendente la mutevolezza dell’esperienza sensibile. Nell’essere è posta la realtà autentica, che ha portata più ampia, più vera e stabile rispetto alla realtà sensibile. La conoscenza sensibile si ferma alla superficie delle cose, mentre la conoscenza secondo logica e ragione è basata su principi, regole e concetti che rimangono sempre fissi e immutabili, per cui l’essere, il loro essere, resta tale costantemente e non può diventare anche non essere.
In tal senso due sono i meriti di Parmenide.
Il primo sta nell’aver riposto il principio primo in una realtà, l’essere, che trascende ogni altra realtà sia di ordine fisico (acqua, aria, fuoco, ecc.) che matematico (numeri, figure, ecc.).
Si tratta comunque di una trascendenza orizzontale e non verticale: è la trascendenza del tutto rispetto alle parti. Anche a Parmenide, come nei preplatonici in genere, mancavano le categorie proprie del trascendente e dell’immanente: per gli antichi greci il divino non era una dimensione esterna al mondo ma quella migliore.
Il secondo merito sta nell’aver concepito l’universo non più come una somma di enti ma come essere univoco, il quale di tutti gli enti è il principio comune e universale (ogni ente, prima di essere qualcosa di determinato, deve innanzitutto essere, esistere).
Nel linguaggio degli ionici il reale si esprimeva ancora con un plurale: “tà onta” (le cose che esistono). Per loro l’essere assumeva, qualunque ne fosse l’origine e il principio, la forma visibile di una pluralità di cose.
Al contrario in Parmenide, per la prima volta, l’essere si esprime con un singolare: “to eòn”.
Non si tratta più di questi o quegli enti ma dell’essere in generale, totale e unico.
È un cambio di vocabolario che traduce l’avvento di una nuova nozione dell’essere: non più le cose diverse che l’esperienza sensibile coglie, ma l’oggetto intelligibile del logos, colto dalla ragione e non dai sensi, che si esprime attraverso il linguaggio conformemente all’esigenza della non contraddizione.
È l’astrazione di un essere puramente intelligibile, che esclude la pluralità, la divisione, il cambiamento e che si costituisce in opposizione al reale sensibile e al suo perenne divenire.
È quella tensione all’unità, all’Uno e all’Identico, che si esprime quando alla domanda “come emerge l’ordine dal caos?” si sostituisce la domanda “che c’è di immutabile nella realtà?”.
Dell’essere Parmenide esalta le singolari virtù: l’essere è ingenerato, imperituro, eterno, perfetto, compiuto, immobile, indivisibile; penetra tutto: “è tutto pieno di essere”.
Anche secondo vari studiosi, nella filosofia parmenidea dell’essere la riflessione matematica ha avuto una parte decisiva. Per il suo metodo dimostrativo e per il carattere ideale dei suoi oggetti acquista valore di modello. Applicando il numero all’estensione essa ha incontrato il problema del rapporto dell’uno e del molteplice, dell’identico e del diverso, analizzato con logico rigore.
La non contraddizione è, secondo Parmenide, l’assoluta e univoca ragione immanente nell’essere e nel logos: l’essere è, il non essere non è. Espresso in questa forma categorica il nuovo principio compie un balzo logico, ma nello stesso tempo si trova separato dalla realtà fisica del divenire.
Parmenide è indubbiamente il primo e vero cominciamento della filosofia occidentale.
Ancor prima di Platone, Parmenide pone in modo perentorio il problema del rapporto di ogni ente con la totalità degli enti, e finisce per dare una risposta che sacrifica la molteplicità ( sia essa intesa come coesistenza o come successione) alla pura luce dell'essere. L' essere di parmenide non è tuttavia trascendente, ma omeomorfo al pensiero. " La stessa cosa è il pensare e l'essere". Il modo esclusivo con cui Parmenide regola i conti col non essere è quanto di più perentorio ci si possa immaginare.In questo modo la negazione del non essere diventa la stessa formulazione del principio di non contraddizione intesa in senso ontologico. La via della verità è dunque per Parmenide la stessa via dell' identità. Tuttavia Parmenide non ha mai negato l'apparire sensibile, ciò che propriamente ha negato è che la verità sia testimoniata dal sensibile.
Francesco Lorenzoni
2 maggio 2015
METAFISICA PREPLATONICA 7
PARMENIDE 2
Il divenire.
Respinto dall’essere e dal vero, il divenire viene ridotto da Parmenide ad apparenza priva di consistenza ontologica. Ma siamo certi di siffatta assoluta negazione del divenire, come gran parte degli interpreti afferma, oppure è più corretto ritenere che ciò che Parmenide rifiuta è piuttosto l’assolutizzazione del divenire quale teorizzata da Eraclito?
Indubbiamente, scrive W. Jaeger, “l’idea fondamentale di Parmenide è che l’eternamente uno della filosofia ionica della natura, che cercava di afferrare nel divenire e nel perire l’origine incessantemente mossa di tutte le cose, non soddisfa il rigoroso concetto dell’essere”.
Ma questo non implica necessariamente l’eliminazione di un qualsiasi divenire.
Se è vero che Parmenide non condanna la scienza fisica ma la sua assolutizzazione, si può concludere che ciò possa valere anche per il divenire. In particolare sono le assolutizzazioni di certi contrari che Parmenide contrasta. Gli uomini hanno preteso non solo di dar nome a forme contrapposte del mondo dei fenomeni, ma anche di dar conto del reale ponendosi ora solo da un lato ora solo dall’altro, come se si trattasse di realtà sussistenti separatamente, mentre “l’essere non è divisibile perché è tutto uguale; non c’è un punto in cui meno prevalga, ma è tutto pieno di essere”. L’errore degli uomini, per Parmenide, sta semmai nell’intendere le differenze fenomenologiche come differenze ontologiche.
Limiti.
Significative sono le acquisizioni della filosofia parmenidea.
Innanzitutto si enunciano per la prima volta, quanto meno indirettamente, i principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso, stabilendo così le basi della logica classica.
In secondo luogo, Parmenide per primo pensa consapevolmente che il pensiero è l’essere e, a sua volta, l’essere è pensiero. Solo ammettendo la validità di questa identificazione è possibile, secondo Parmenide, conseguire la certezza che nel puro pensiero non si realizza soltanto una riflessione esterna sul pensato, né ci si limita ad operazioni logiche intorno a contenuti dati, ma ci si trova già con il pensiero nell’essere: il pensare, nel senso pieno del “logos”, è la vera realtà in cui si fa da sé presente la totalità dell’essere.
Peraltro, qui si evidenziano anche i limiti della speculazione metafisica parmenidea: le leggi della logica diventano le leggi della realtà. Così la metafisica di Parmenide non è più una metafisica dell’esperienza ma una metafisica inesorabilmente deduttiva, in cui l’essere viene piegato alle esigenze del logos.
L’obbiettività dell’essere è davvero tale solo nel puro essere, nell’essere assoluto, eterno, perfetto, immutabile, mentre essa non è più garantita quando l’essere è contingente e caduco. In Parmenide le caratteristiche dell’essere sono considerate solo in funzione di una riflessione logica, ma senza pensare che tali caratteristiche appartengono piuttosto al logos che all’essere.
Un secondo limite attiene all’uso del verbo essere esclusivamente nel senso sostantivato di “esistere”. Parmenide ignora, cosa tipica a quell’epoca, il significato e la funzione anche copulativa del verbo essere, che serve ad attribuire un predicato al soggetto, configurandosi allora, in tal senso, numerosi modi di essere (è bello; è brutto; è giusto; è sbagliato; ecc.).
Conservando invece l’abitudine di sostantivare il verbo essere, esso diventa “l’essere” come reificazione di un concetto, scambiando il concetto astratto con l'oggetto concreto e dimenticando, come dice Fuerbach, che “gli oggetti sono dati ma i concetti sono posti”.
La copula si applica ad un sostantivo e non ha senso applicarla ad un verbo, in questo caso al verbo essere. Dire che un ente possiede certi attributi ha senso, ma è mera tautologia dire che l’essere è. In effetti, interrogandosi sul non essere, ovvero ponendo la domanda “che cos’è il nulla?”, Parmenide si imbatte nel “paradosso del non essere”: da un lato il non essere è niente per sua stessa definizione; dall’altro lato esso è però anche qualcosa, è appunto il non essere, è negazione logica della negazione. Affascinato dall’assoluto e dall’immutabile, sfugge a Parmenide l’alterità dell’essere la quale, accanto all’univoca totalità del reale, di per sé veritieramente contrapposta al nulla (o l’una o l’altro, il terzo escluso), consente la pluralità e il divenire degli esseri relativi, tra loro diversi (Platone), e la diveniente molteplicità predicativa dei modi di essere (Aristotele).
Le teorie di Parmenide, per il loro carattere innovativo e poiché assolutamente contrarie all’evidenza del senso comune, provocarono enorme stupore e suscitarono vivaci polemiche.
I discepoli di Parmenide, soprattutto Zenone e Melisso, si proposero allora, per rafforzare la tesi del loro maestro, di dimostrare con esempi concreti, ricorrendo a paradossi, che davvero la molteplicità e il divenire degli enti non sono reali ma solo apparenti, mentre il reale è solo l’essere unico e immutabile, come da Parmenide sostenuto.
Senonché i paradossi addotti sono validi nel quadro delle grandezze infinite matematiche e non già nella natura fisica ove, come dirà Aristotele, “esiste solo il finito e solo distanze finite”.
Patrizia Tomba
28 gennaio 2018
SU PARMENIDE
Secondo Parmenide se di una qualsiasi cosa si dice o si pensa che "è", di ciò che è diverso ed opposto ad essa si dovrà dire o pensare che "non è": e com'è possibile riconoscere realtà alcuna a ciò che non è, se non si vogliono violare le leggi immutabili del discorso e del pensiero?
La grandezza della filosofia di Parmenide, che costituì un fecondo punto di partenza per il pensiero successivo e anche un difficile problema la cui soluzione era tuttavia indispensabile per poter progredire, sta proprio qui: nell'aver posto in primo piano il problema della verità del linguaggio e del pensiero, il problema della "via", cioè del metodo, che linguaggio e pensiero dovevano percorrere per giungere alla realtà. Il metodo vero costruisce conoscitivamente la realtà, l'essere, perchè elimina gradualmente dal pensiero tutti i contrassegni di irrealtà, di non-essere, che vi si erano infiltrati: la molteplicità nello spazio, intesa come differenziazione di parti, la molteplicità nel tempo, intesa come differenziazione di momenti, il vuoto inteso come assenza di realtà, la generazione e la distruzione intese come limiti dell'essere. Partito dal riconoscimento logico e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso, Parmenide giunge al culmine della "via" a dichiarare l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza del non-essere, e la parimenti assoluta esistenza dell'essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero.
All'essere non potrà venir riferito alcun attributo, che possa in qualche modo diminuirne la positività, assimilandolo al non-essere.
Ci si dovrà limitare a dire che esso è uno, invariabile, immobile, eterno..............,.
Come possiamo conciliare la concezione parmenidea dell'essere col fatto incontrovertibile che l'esperienza ci presenta continuamente degli esseri molteplici, variabili, temporanei?
Di fronte a questo stato di cose, risponde Parmenide, non vi è altro da fare che respingere la nostra spontanea fiducia nell'esperienza, riconoscendo che essa costituisce per l'uomo una via di conoscenza fallace e illusoria.....................
Parmenide non rinuncia tuttavia a costruire una propria spiegazione di questo mondo, di cui aveva dichiarato l'assoluta inconsistenza di fronte all'assoluto essere........................
Se ne può concludere che per lui solo la ragione è un mezzo di conoscenza veramente efficace; solo essa, rompendo la crosta delle apparenze, può farci cogliere l'unità profonda del reale. L'opposizione tra razionalismo ed empirismo, che tanti sviluppi avrà nella storia della filosofia, trova proprio qui la sua prima radice.
L'essere di Parmenide è stato interpretato da taluni in senso idealistico, da tal altri in senso materialistico. Entrambe queste interpretazioni travisano però il pensiero dell'eleata, non tenendo conto che esso antecede in realtà, ogni consapevole distinzione tra idealismo e materialismo. L'affermazione di Parmenide che più si presta ad una interpretazione materialistica è quella che ci presenta l'essere come sferico (cioè come una sfera piena); evidentemente Parmenide pensò alla sfera, perchè la superficie sferica non è limitata da alcun perimetro nè interrotta da alcuno spigolo. Non si può tuttavia negare che la sfericità vada accolta con la massima cautela; se infatti la interpretassimo alla lettera, cadremmo in contraddizione con tutto l'insegnamento di Parmenide, perchè saremmo costretti ad ammettere l'esistenza di un non-essere (o vuoto), che è al di là dell'essere sferico e lo limita. Essa va intesa invece come identità e assolutezza dell'essere lungo tutte le direzioni; ...la sfera di Parmenide è più simile allo spazio curvo einsteiniano che al solido euclideo che siamo portati a ragfigurarci. L' interpretazione idealistica è d'altra parte esclusa perchè se il pensiero scopre l'essere, certamente non lo crea; anzi è pouttosto l'esistenza dell'essere a rappresentare la possibilità e la condizione del pensiero, che in esso culmina e con esso deve identificarsi.
(Da L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol I)
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